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Tortura: un’intervista al dottor Massimo Germani

10 Maggio 2012 4 commenti

La Tortura in Italia non esiste. Non esiste nel codice penale, al contrario di reati come “devastazione e saccheggio” che per una vetrina ti regalano più di dieci anni di possibile condanna.
La tortura no, non esiste.
Figuriamoci se esiste quella di Stato allora, quella che sevizia i corpi dei prigionieri, corpi privati della propria libertà e completamente in mano dello Stato: una mano che spesso ha tenuto elettrodi, tubi per aumentare la pressione dell’acqua, manganelli da infilare in vagine e così via.
In questa lunga intervista Paolo Persichetti, che con forza manda avanti la sua battaglia contro la tortura e per una memoria storica totale ed effettiva, parla con Massimo Germani, medico e terapeuta del centro di cure per i disturbi da stress post-traumatico dell’ospedale san Giovanni di Roma, coordinatore nazionale del Nirast, una rete nata nel 2007 e che raccoglie 10 centri ospedalieri universitari diffusi nel territorio e specializzati per i richiedenti asilo che hanno ricevuto torture e traumi estremi.

Una persona, Germani, che per lavoro e formazione ha una quotidianità intrisa di torture subite e che ha reagito con stupore ed orrore nell’apprendere quel che è ripetutamente accaduto nelle sudicie stanze delle nostre caserme, questure, carceri.
Vi consiglio di leggerla, malgrado il  male che faccia

Massimo Germani: «La tortura non serve solo ad estorcere informazioni, mira a distruggere l’identità e ridurre al silenzio»

di Paolo Persichetti
Gli Altri,
27 aprile 2012

In Italia c’è stata e continua ad esserci la tortura. Non è una novità anche se recentemente sono emerse circostanze nuove che portano a rileggere in modo più compiuto quanto è accaduto. Per esempio nel 1982, quando il governo allora guidato da Giovanni Spadolini decise di ricorrervi per contrastare la lotta armata. Libri, inchieste giornalistiche e televisive, blog, le rivelazioni per la prima volta senza reticenze di Salvatore Genova (un funzionario di polizia in forza alla squadra speciale dell’Ucigos, creata nel dicembre 1981 dal ministro della Giustizia Virginio Rognoni per condurre le indagini sul sequestro Dozier) apparse sull’Espresso del 6 aprile, hanno aperto squarci importanti. Oggi conosciamo i nomi dei torturatori, di chi ha dato gli ordini e di chi li ha coperti. Un film, Diaz, ci reintroduce nell’atmosfera del massacro nella palestra della scuola di Genova e delle sevizie nella caserma di Bolzaneto durante il G8 del 2001. Tuttavia siamo portati sempre a soffermarci sugli aspetti politici e giuridici che il ricorso alla tortura implica all’interno della società. Una riflessione che non deve cessare ma anzi va ancora di più approfondita. Questa volta però vogliamo proporvi uno sguardo diverso, quello di un medico-terapeuta che cura i torturati. Questo anche perché esiste un risvolto ancora sconosciuto: nelle carceri Italiane ci sono da più decenni persone che hanno subito torture, non hanno visto riconosciuto questo trattamento violento subito, non sono state curate.
E’ venuto il momento di cominciare a parlarne e soprattutto esigere la loro scarcerazione.

Che cosa accade nella psiche di una persona torturata?
Negli ultimi dieci anni si è capito che la tortura, come ogni tipo di violenza interpersonale, soprattutto se ripetuta e prolungata nel tempo, provoca degli effetti assolutamente specifici che vanno molto al di là della classica sindrome da stress post-traumatico.

Che tipo di effetti?
Si assiste ad una frantumazione dell’identità che da luogo a patologie della personalità di tipo dissociativo. La nostra identità è fatta di tante cose messe insieme che vanno a costruire quello che si vede all’esterno e quello che sentiamo dentro. Una composizione complessa di fattori con molte facce: culturale, politica, religiosa, sociale… che ad un certo punto si frammentano e si dissociano dando vita ad una serie di fenomeni clinici, spesso purtroppo non riconosciuti, che se non sono trattati in modo specifico possono divenire cronici aggravandosi nel tempo, anche lontano dall’episodio di tortura e di violenza.

Come si scatena questo sfaldamento della personalità?
La tortura produce conseguenze che investono la profondità della psiche. Rispetto ai traumi dovuti ad incidenti, catastrofi naturali, qui si tratta dell’incontro con qualcosa di negativo che viene portato da un altro uomo e che dal punto di vista analitico è chiamato il “male incarnato”. E’ il ritorno ad un’angoscia primitiva che ognuno di noi ha nella fase infantile ma che impariamo ad allontanare con un rapporto genitoriale sufficientemente buono. Quest’angoscia può ricomparire se ci si ritrova completamente inermi nelle mani di qualcuno che vuole distruggerci. L’idea di un io stabile e unitario ci sembra un fatto acquisito. In realtà non è così. Si tratta di un equilibrio fragile. Ce ne accorgiamo solo in determinati momenti della nostra vita, quando subiamo dei lutti, dei contraccolpi, ma in genere si tratta di brevi esperienze. Questa percezione stabile e unitaria dell’io può andare completamente in frantumi proprio nei momenti in cui incontriamo un essere umano che ci tiene in pugno e vuole annientarci.

Parli di “fenomeni non riconosciuti”. Soffermiamoci un momento su questo punto. In un contesto dove la tortura è stata praticata ma non riconosciuta, il perdurare di questa menzogna che effetti ha? Siamo abituati a riflettere sugli effetti politici e storici ma sulla singola persona quali conseguenze si ripercuotono?
Uno dei problemi nelle persone che hanno subito torture è proprio il dopo. Si è visto nelle ricerche compiute sui sopravvissuti ai campi di concentramento che quanto accade dopo, soprattutto nell’immediato, quando sembra che è finita, si è scampati, fuggiti, è molto importante. Se viene meno il riconoscimento da parte dei riferimenti che c’erano prima si incrementata in modo esponenziale la violenza subita. In questo caso la tortura raggiunge il suo scopo primario, anche se implicito: non solo estorcere informazioni ma distruggere l’identità e indurre al silenzio civile, politico e sociale. L’effetto finale della tortura è far sì che le persone non siano più tali e si trasformino in fantasmi che sopravvivono nel mondo. In modo che attraverso questo silenzio e questa sofferenza siano testimoni del potere, siano monito a tutti di cosa può succedere a chi prende posizioni diverse da quelle possibili o richieste dal potere stesso.

Dunque il riconoscimento ha una doppia valenza, storico-politica ma anche clinico-sociale?
Certo, se c’è un riconoscimento da parte della collettività, che può essere più o meno allargata, come poter tornare in un gruppo sociale di riferimento, in qualche modo sentire una condivisione e un sostegno da parte del gruppo in cui si è reinseriti, l’effetto è positivo. Aiuta a ritrovare le proprie radici, la possibilità di ritornare a quelle che precedentemente erano le proprie identità. Questo ovviamente è un qualcosa che non prelude automaticamente alla possibilità di un recupero.

Fino ad ora mi hai descritto la condizione dell’inerme, quella che per definizione è definita “vittima assoluta”. Tuttavia nei militanti che hanno subito torture si tende a rifiutare questa identità. Esiste una differenza?
Questo è un punto molto importante. La ricerca clinica ha dimostrato che la consapevolezza del rischio a cui si va incontro facendo certe cose, sapere che si può essere presi, messi in carcere, subire delle violenze, nella maggioranza dei casi è un fattore di protezione importante. Aiuta rispetto a quello che può essere il risultato finale di una esperienza di tortura o di violenza. Questo è possibile perché si ha la consapevolezza che quello che sta accadendo, la sofferenza subita, è legato ad un significato. Questo significante può svolgere una funzione di protezione, come tutte le credenze condivise che riescono a sopravvivere alla esperienza della tortura: siano esse religiose, sociali o politiche. Naturalmente questo non significa che chi ha una fede politica o religiosa sia esente dalle conseguenze della tortura. Ho in mente tante persone che nonostante questo sono uscite distrutte e hanno dovuto fare percorsi lunghi prima di ritrovare un senso di sè, una certa soddisfazione e fiducia negli altri.

In Italia, i militati della lotta armata torturati, e che nel frattempo non sono diventati “collaboratori di giustizia”, sono rimasti in carcere per molti decenni. Ancora oggi ci sono almeno due casi che hanno oltrepassato i 30 anni. Come è definibile questa situazione?
Anche questa è un’altra cosa importante dal punto di vista umano e clinico. Le persone che hanno subito trattamenti inumani e degradanti, o di vera e propria tortura, soprattutto se sono in regime carcerario avrebbero dovuto subire accertamenti sulle loro condizioni di salute psico-fisiche in strutture specializzate nel riconoscimento e nella cura di questo tipo di patologie. Le patologie dissociative sono fenomeni ed hanno sintomi che spesso sfuggono anche a psicologi o medici, o anche a psichiatri che non hanno una grossa esperienza di questo tipo. Possono quindi essere facilmente sottovalutati o presi per altri tipi di problematiche e non riconosciuti. Inoltre non siamo di fronte a patologie che volgono spontaneamente verso una guarigione nel tempo. Lasciate a se stesse nella maggior parte dei casi evolvono verso un peggioramento e una cronicizzazione.

Farlo sarebbe stato un riconoscimento implicito delle torture. In realtà la macchina giudiziaria e quella carceraria hanno lavorato per seppellire ogni prova. Subito dopo le torture c’è stato l’articolo 90, la sospensione della riforma carcerario e l’ulteriore inasprimento delle condizioni detentive.
Spiegaci un’altra cosa: hai riscontrato un uso e degli effetti specifici della tortura sul corpo delle donne?

Se pensiamo alle sevizie sessuali, non c’è differenza. Ci siamo resi conto che durante le torture anche la maggior parte degli uomini ha subito forme di abuso sessuale. Se già le donne, soprattutto all’inizio, non raccontano le sevizie perché se ne vergognano, per gli uomini è ancora più difficile. Pensiamo a chi, attraversando il Sahara, è passato per le carceri libiche o in quelle afgane. Esistono invece differenze importanti per quanto riguarda gli effetti. Sono in corso delle ricerche (tra qualche anno ne sapremo di più). Oggi si sa che nelle donne è più alta l’incidenza dei fenomeni dissociativi e l’incidenza delle sindromi depressive gravi, che si presentano come fenomeno secondario. Se oltre l’80% di chi ha subito tortura va incontro a sindromi depressive, insieme a quadri clinici che presentano iperattivazione continua, sensazione di pericolo imminente, stati ansiogeni, tensione interna molto forte che spesso porta ad avere scoppi di rabbia, nelle donne si arriva al 90% con forme ancora più gravi.

Il tuo lavoro ti ha messo davanti a tanti racconti di torture che arrivano da Paesi lontani. Che effetto ti hanno fatto le testimonianze delle torture italiane?
Sul piano emotivo mi hanno toccato di più. Faccio fatica a dirlo perché in questi anni molte cose che ho sentito mi hanno colpito in un modo incredibile, tuttavia devo sottolineare questa piccola ma significativa differenza. Quando ho letto della caserma di Castro Pretorio, ad esempio, un luogo che conosco, ci passo davanti, sentire questa cosa… Ecco, penso che questo vada colto, vada valorizzato per far capire che queste cose possono succedere veramente vicino a noi. E’ importante cercare di comunicarle nel modo giusto, che non è quello di far scandalo ma di avere una sensibilità più diffusa su qualcosa che altrimenti può essere sentita come lontana. Poi ovviamente sopravviene la riflessione e allora voglio dire che ogni tanto c’è un dibattito sul ricorso all’uso della tortura da impiegare magari solo in casi eccezionali, “se c’è il terrorista con la bomba che vuol far saltare in aria una scuola”. Questi discorsi che hanno la pretesa di essere realisti sono invece molto pericolosi. Guai a cedere alla tentazione di cominciare a contrattare. Ci deve essere un tabù della tortura. Non deve esistere, non va fatta. Questo ci impone di lottare contro di essa concretamente, al di là delle parole. In Italia è arrivato il momento, perché non è mai troppo tardi, di approvare una legge contro il reato di tortura.

1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2)
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
 3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4)  
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5)
Arresto del giornalista Buffa
6)
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7)
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 )
Il pene della Repubblica
9)
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10)
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11)
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Una lettera all’albo degli avvocati di Napoli
13) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
14) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
15) La sentenza esistente
16) Le torture su Sandro Padula, 1982
17)
La prima parte del testo di Enrico Triaca
18) Seconda parte del testo di Triaca
19) L’interrogazione parlamentare presentata da Rita Bernardini
20)
” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
21)
Due firme importanti: Adriano Sofri e Pier Vittorio Buffa
22) Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto
23) L’interrogazione parlamentare cade nel vuoto
24) L’intervista mia e di Paolo Persichetti a Pier Vittorio Buffa
25) Cercavano Dozier nella vagina di una brigatista 

Il massacro di Hama, 30 anni fa.

2 febbraio 2012 2 commenti

Non ho un bel rapporto con l’anno della mia nascita.
Il 1982 nella terra dove sono nata è stato l’anno cileno delle torture, del waterboarding, degli elettrodi sui genitali di uomini e donne.
Il 1982 è stato l’anno del massacro sionista di Sabra e Chatila. L’anno dell’avanzata israeliana in Libano e della mattanza più fastidiosa insopportabile e selvaggia che sia stata compiuta in Medioriente, negli ultimi decenni: un massacro senza fine per 72 ore, che ha lasciato al suolo più di 2000 corpi, di tutte le età, di una sola provenienza, quella palestinese.

Ma il 1982 è l’anno di un massacro che quasi nessuno ricorda.
Che quest’anno vede molta più luce riflessa sopra, non per la cifra tonda, ma perché per quelle stesse strade i massacri si stanno accavallando, giorno dopo giorno, cecchinata su cecchinata. Sto parlando di Hama, una città che dovrebbe esser famosa solo per il suo sistema di canalizzazione dell’acqua, per le sue belle “norie” senza tempo.
E invece Hama oggi celebra una mattanza, celebra l’esser stata rasa al suolo, sventrata in ogni sua abitazione e vita.
Il 2 febbraio 1982 il presidente siriano, a capo del partito Baath, Hafez al-Assad ordina l’attacco e così la città viene circondata dai carri armati e poi bombardata dai jet militari: doveva muover guerra alla fratellanza musulmana, ad un gruppo armato che si stimava essere di circa 500 persone. Il numero preciso dei morti dopo 27 giorni di campagna militare, non si è mai saputo, ma si aggira intorno alle 40.000 persone: ogni famiglia della città ha almeno un morto, ucciso in quelle giornate, o torturato a morte successivamente nelle prigioni di stato. La città rasa al suolo non è mai tornata come prima.
Son passati 30 anni: i figli di chi è stato ucciso son quelli che ora cadono sotto i colpi dei cecchini, dei carri armati e degli aerei militari. Sono passati 30 anni, il nome del presidente è variato di poco, il suo viso ringiovanito, i suoi metodi forse peggiori di quelli paterni.

QUI: Un articolo di Al-jazeera sul massacro di Hama

SABRA E CHATILA: PER NON DIMENTICARE MAI!

15 settembre 2010 1 commento

Le strade dei campi palestinesi di Sabra e Chatila quando , due giorni dopo, i primi internazionali sono potuti entrare

Le strade dei campi palestinesi di Sabra e Chatila quando , due giorni dopo, i primi internazionali sono potuti entrare

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La terra dei campi è stata bagnata dal sangue di quasi 2000 cadaveri

La terra dei campi è stata bagnata dal sangue di quasi 2000 cadaveri

Con quei campi sempre nel cuore, con quei vicoletti che non hanno mai smesso di percorrere anche le vene del mio corpo…
mai dimenticheremo lo stupro di quei tre giorni, mai dimenticheremo i nomi dei responsabili, mai perdoneremo lo scempio sui vostri corpi innocenti.
Per una breve ricostruzione del massacro, questo link
Per un ricordo a Stefano Chiarini, quest’altro.

Torture: l’arresto del giornalista Buffa e i comunicati dei sindacati di polizia _ITALIA 1982_

8 febbraio 2009 22 commenti

[Leggi anche l’intervista a Pier Vittorio Buffa fatta da me e Paolo Persichetti: QUI ]

Pier Vittorio Buffa: “Il rullo confessore” in L’Espresso 28 febbraio 1982

“All’ora di pranzo scendevano in piccoli gruppi, si sistemavano ai tavoli del ristorante Ca’ Rossa, proprio davanti al distretto di polizia di Mestre, e prima di pagare il conto chiedevano al proprietario dei pacchi di sale, tanti. Poi pagavano, e con la singolare ‘spesa’ rientravano al distretto per salire all’ultimo piano, dove c’era l’archivio. In quei giorni, subito dopo la liberazione del generale Dozier, le stanze di quel piano erano off limits: vi potevano entrare solo pochi poliziotti, non più di tre o quattro per volta, insieme agli arrestati, ai terroristi. Lì dentro, dopo il trattamento, un brigatista è stato costretto a rimanere sdraiato cinque giorni senza avere più la forza di alzarsi, da lì uscivano poliziotti scambiandosi frasi del tipo “L’ho fatto pisciare addosso”. “Così abbiamo finalmente vendicato Albanese” [Il funzionario ucciso dalle B.R.].disegno_shut_up
Quest’ultimo piano era infatti diventato -secondo alcune accuse e deposizioni di cui parleremo- il passaggio obbligato per i circa venti terroristi arrestati nella zona.
Non hanno subìto tutti lo stesso trattamento, ma per alcuni di loro l’archivio del distretto di polizia di Mestre ha significato acqua e sale fatta bere in grande quantità, pugni e calci  per ore, per notti intere. Sono fatti, questi, dei quali si sta cominciando a discutere anche all’interno del sindacato di polizia. La voglia di picchiare aveva infatti totalmente contagiato gli agenti di quel distretto ( molti erano venuti per l’occasione anche da fuori, da Massa Carrara, da Roma) che quando il 2 febbraio è stato fermato un ragazzo sospettato di un furto in un appartamento (non quindi di terrorismo) lo hanno picchiato per un paio d’ore per poi lasciarlo andare via quando si sono accorti che era innocente. Secondo le denunce, la violenza della polizia contro le persone arrestate per terrorismo si sta poco a poco estendendo, come un contagio.
Molte sono ormai le testimonianze raccolte dai magistrati sui trattamenti riservati agli arrestati da polizia e carabinieri.  Molte e circostanziate. Il ministro dell’Interno Virginio Rognoni ha già smentito tutto in Parlamento.
Ma dalla lettura dei verbali emerge l’esistenza di un  sistema di pestaggio, con i suoi passaggi prestabiliti, i suoi locali appositamente allestiti, i suoi esperti. Cerchiamo di illustrarlo basandoci su sei denunce presentate in diverse città: Roma, Viterbo, Verona. Quelle di Ennio di Rocco, Luciano Farina, Lino Vai, Nazareno Mantovani e Gianfranco Fornoni, tutti accusati di terrorismo.
Il primo passo è l’isolamento totale in locali che il detenuto non può identificare e senza che nessuno ne sappia niente. Il 12 gennaio scorso una voce anonima ha telefonato allo studio di un avvocato romano: “La persona arrestata in via Barberini si chiama Massimiliano Corsi, è di Centocelle; avvertite la madre, date la notizia attraverso le radio private, lo stanno massacrando di botte.” Solo dopo due o tre giorni si seppe ufficialmente che Corsi era stato arrestato. Il totale isolamento, il cappuccio sempre calato sul viso, le mani strettamente legate dietro la schiena sono la prima violenza psicologica. Poi le

Virginio Rognoni, Ministro degli Interni

Virginio Rognoni, Ministro degli Interni

minacce di morte (“Ti possiamo uccidere, tanto siamo in una situazione di illegalità” avrebbero detto a Stefano Petrella) la pistola puntata alla tempia e il grilletto che scatta a vuoto come in una macabra roulette russa (Nazareno Mantovani).
Per arrivare alle violenze fisiche il passo è breve: tutti dichiarano di aver preso calci e pugni subito dopo l’arresto, ma poi si arriva alla descrizione di sevizie vere e proprie, di torture. Sigarette spente sulle braccia (Di Rocco). Acqua salatissima fatta ingerire a litri, sempre con lo stesso sistema: legati a pancia in su sopra un tavolo, con mezzo busto fuori e quindi con la testa che penzola all’indietro ( Di Rocco, Petrella e Mantovani). Calci ai testicoli (racconta Fornoni: ‘Con certe pinze a scatto hanno effettuato diverse compressioni sui testicoli, minacciando di evirarmi’). Tentativi di asfissia con vari sistemi. Misteriose punture: il sostituto procuratore della Repubblica Domenico Sica ha constatato la presenza di “un segno di arrossamento con escoriazione centrale” sul braccio destro di Di Rocco.
Dopo giorni e giorni di trattamento di questo tipo gli arrestati vengono condotti davanti al magistrato e alcuni verbali sono ricchi di dettagliate descrizioni, fatte dai giudici, dello stato fisico dei detenuti: Di Rocco aveva il polso destro sanguinante per via della manetta troppo stretta, cicatrici fresche in varie parti del corpo.
Lino Vai si è tolto una scarpa davanti al giudice mostrandogli le “spesse croste ematomiche” presenti sul dorso dei piedi. Due istruttorie per accertare la verità sono già iniziate; una a Viterbo, dopo la denuncia di Fornoni, e una a Roma, iniziata dopo le deposizioni di Petrella e di Di Rocco dal sostituto procuratore Niccolò Amato che ha disposto le perizie. In attesa che queste indagini si concludano, c’è chi ha già chiesto al ministro Rognoni di avviare un’indagine amministrativa e chi sostiene che lo stato democratico non può fare della violenza fisica e psicologica uno strumento di lotta. […]

NOTA INFORMATIVA: A seguito della pubblicazione dell’articolo sopra riportato, Pier Vittorio Buffa, il 9 marzo 1982, viene arrestato su ordinanza emessa dalla Procura della Repubblica di Venezia, con l’imputazione “del reato p. e p. dell’art. 372 C.P. perché deponendo innanzi al procuratore della Repubblica di Venezia, Cesare Albanello, taceva in parte ciò che sapeva intorno alla fonte da cui apprese le notizie riportate nell’articolo ‘Il rullo confessore’ apparso sul settimanale L’Espresso del 28 febbraio 1982 e del quale egli era autore” [N. 520/82 del Reg. Gen. del Procuratore della Repubblica di Venezia]

SIULP di Venezia, Comunicato, 10 marzo 1982

“Il Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia di Venezia esprime profondo stupore e rammarico per l’arresto del
siulp_logo_colori_copygiornalista de L’Espresso Pier Vittorio Buffa, rifiutatosi di rivelare la fonte di alcune notizie da lui riportate nell’articolo comparso sul numero del 28/02/82 del settimanale suddetto. In proposito si fa rilevare che le voci di maltrattamenti durante gli interrogatori di persone arrestate nell’ambito delle indagini sul terrorismo sono giunte al sindacato. Il sindacato dei lavoratori della polizia, pur condividendo il convincimento di quanti ritengono ingiustificabili tali pratiche,  esprime la propria preoccupazione per l’orientamento delle inchieste in corso che tendono alla individuazione di responsabilità di singoli appartenenti alle forze dell’ordine, non tenendo conto del clima che ha suscitato tali episodi, e di cui molti devono sentirsi direttamente o indirettamente responsabili.
Non v’è dubbio infatti che tali pratiche sono state tollerate o, addirittura, incoraggiate da direttive dall’alto e infine sostenute dal tacito consenso di una opinione pubblica condizionata dall’incalzare sanguinaria e folle di un terrorismo che ha avvelenato la vita politica e sociale del paese, impedendone il pacifico sviluppo. Il sindacato auspica che le indagini siano indirizzate a rompere il clima di timore venutosi a determinare fra gli appartenenti alle forze dell’ordine più direttamente impegnate nelle difficili indagini e che potrebbero risultare coinvolti in tali episodi. Si auspica inoltre che si punti a far sì che tali pratiche restino un caso isolato determinato da una particolare contingenza.
Allo scopo di dare un contributo per fare la necessaria chiarezza in tale direzione, il sindacato di Venezia, in sintonia con la segreteria nazionale, ha inviato un telegramma al magistrato dott. Albanello per un incontro urgente.

NOTA INFORMATIVA. L’11 marzo 1982, una delegazione del Sindacato di Polizia Siulp di Venezia, deponendo davanti al PM, libera il giornalista Pier Vittorio Buffa dal vincolo del segreto professionale, e pertanto egli, in sede di interrogatorio, indica nel capitano Riccardo Ambrosini e nell’agente Giovanni Trifirò le due persone che gli hanno dato le informazioni relative all’articolo. Riportiamo di seguito il dispositivo della sentenza  che lo assolve: “Visti gli art. 479 c.c.p. e 376 c.p., assolve l’imputato perchè il fatto non costituisce reato perché non punibile per avvenuta ritrattazione. Ne ordina l’immediata scarcerazione se non detenuto per altra causa.”

Dopo questo comunicato una riunione con il questore e tutti i dirigenti della questura di Venezia stila un comunicato in cui si chiede che i poliziotti che hanno scagionato il giornalista de L’Espresso siano trasferiti perchè ‘la loro presenza provocherebbe uno stato di tensione e amarezza in tutto il personale’.
Qui sotto alcune dichiarazioni del capitano Filiberto Rossi, uno dei quadri dirigenti del Sap (il Sindacato Autonomo di Polizia): logo-sapNon ci sono state torture ai terroristi arrestati. Se qualche episodio di violenza fosse avvenuto, sarebbe un fatto isolato. I responsabili, una volta accertata la loro colpa, dovrebbero essere puniti secondo la legge. Nella polizia non ci sono aguzzini o squadre speciali, ma solo persone normali e padri di famiglia. […]
La lotta al terrorismo da parte della polizia è sempre stata condotta nei limiti della legalità. Non bisogna dimenticare che su 1300 terroristi in carcere, soltanto alcuni hanno denunciato di aver subìto violenze. E queste denunce possono essere strumentali, posso essere state fatte per giustificarsi con i loro complici.
I poliziotti non ammettono che si possa ricorrere alle torture, ma non si possono certo trattare i terroristi con i guanti bianchi. Noi siamo convinti della necessità di esercitare pressioni psicologiche.”

Seguiranno aggiornamenti sulla tortura in Italia, con altre testimonianze.

Sono state precedentemente pubblicate le torture ai danni di Emanuela Frascella e Paola Maturi, di alcuni appartenenti ai Proletari Armati per il Comunismo stralci si una sentenza di rinvio a giudizio per 7 agenti di PS con la testimonianza di Ennio di Rocco 

I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis

Il peggiore dei massacri, Sabra e Chatila

16 settembre 2008 17 commenti

Liberazione di oggi, pagina 20

Liberazione di oggi, pagina 20

 DIARIO DI UN MASSACRO, di Valentina Perniciaro
LIBERAZIONE, 16 SETTEMBRE 2008, retrocopertina (rm1609-att01-202)

«Il problema che ci poniamo: come iniziare, stuprando o uccidendo? Se i palestinesi hanno un po’ di buonsenso, devono cercare di lasciare Beirut. Voi non avete idea della carneficina che toccherà ai palestinesi, civili o terroristi, che resteranno in città. Il loro tentativo di confondersi con la popolazione sarà inutile. La spada e il fucile dei combattenti cristiani li seguirà dappertutto e li sterminerà, una volta per tutte». Il settimanale Bamaneh , organo ufficiale dell’esercito israeliano, due settimane prima del massacro di Sabra e Chatila, riporta le parole di un ufficiale delle Falangi cristiano-maronite.
Ma proseguiamo con ordine.

Martedì 14 settembre ’82
Un’esplosione devasta la sede di Kataeb (partito delle Falangi cristiane) durante una riunione di quadri. Tra i 24 corpi anche quello di Bashir Gemayel, presidente della Repubblica libanese da appena tre settimane. E’ un colpo pesante per Israele: muore il nemico numero uno dei palestinesi in Libano, l’uomo che li aveva definiti «il popolo di troppo», ricordato come «il presidente sostenuto dalle baionette israeliane». La sua elezione era la prima grande vittoria di Sharon: le sue milizie erano state aiutate militarmente, addestrate in campi speciali, garantite di servizi di intelligence e organizzazione. Il generale Eytan, capo di stato maggiore israeliano, poco dopo l’attentato dichiarerà: «Era uno dei nostri».
Il giorno prima, il 13 settembre, gli ultimi 850 paracadutisti e fanti della forza di pace internazionale (per lo più francesi, italiani e americani) lasciano il paese. Non sono nemmeno le 18 quando parte l’operazione “Cervello di Ferro”: inizia un fitto ponte aereo israeliano, uomini e carri armati arrivano all’aereoporto internazionale di Beirut e il generale Eytan dichiara: «Stiamo per ripulire Beirut-Ovest, raccogliere tutte le armi, arrestare i terroristi, esattamente come abbiamo fatto a Sidone e a Tiro e dappertutto in Libano. Ritroveremo tutti i terroristi e i loro capi. Ciò che c’è da distruggere lo distruggeremo».

Mercoledì 15 settembre
Prima dell’alba si tiene una riunione decisiva al quartier generale delle milizie unificate della destra cristiana: per Israele sono presenti i generali Eytan e Druri, per le milizie falangiste il comandante in capo Efram e il responsabile dei servizi di informazione Hobeika. Si discute un piano d’entrata delle falangi nei campi profughi palestinesi di Beirut; un capo militare alla fine della riunione dichiarerà: «Da anni aspettiamo questo momento». Durante tutto il giorno le strade che vanno verso i campi vengono riempite con la vernice di enormi frecce che indicano la direttrice di penetrazione, Sabra e Chatila devono essere facilmente raggiungibili da chi non conosce la città. Dalle 5 in poi lo Tsahal (l’esercito israeliano ndr ) avanza su cinque direttrici, circondando completamente Beirut-Ovest: Sharon arriva sul posto a dirigere le operazioni alle 9 del mattino, sul tetto di un enorme edificio, al settimo piano, da dove può osservare benissimo i campi. Il primo ministro Menahim Begin dirà poche ore dopo che il loro «ingresso in città è solamente per mantenere l’ordine ed evitare dei possibili pogrom, dopo la situazione creatasi con l’assassinio di Gemayel».
Dalle 12 i campi di Sabra e Chatila sono circondati dai tank israeliani: la popolazione si chiude in casa. Tutti i combattenti sono partiti pochi giorni prima, nelle viuzze strette sono rimasti solamente bambini, donne e anziani.

Giovedì 16 settembre 
Bastano 30 ore per completare la missione: è la prima volta che Israele conquista una capitale araba. Per tutta la mattinata è un formicaio di bande armate, munite anche di asce e coltelli, che percorrono le strade a bordo di jeep dello Tsahal; alle 15 il generale Druri chiama Sharon: « I nostri amici avanzano nei campi. Abbiamo coordinato la loro entrata». La risposta è secca: «Felicitazioni».
Il tempo a Sabra e Chatila si fermerà alle 17 per ricominciare a scorrere 40 ore più tardi, alle 10 del sabato successivo. Gli israeliani seguono le operazioni dal tetto del loro quartier generale, forniscono in aiuto razzi illuminanti sparati con una frequenza di due al minuto: non calerà mai la notte sopra i campi. Le falangi cristiano-maronite non si limitano a sterminare la popolazione; il loro accanimento, soprattutto verso i bambini, ha pochi precedenti nella storia, la loro crudeltà supera ogni aspettativa. Sfondano le porte delle case e liquidano intere famiglie ancora nei letti o a tavola, tagliano le membra delle loro vittime prima di ucciderle, stuprano ripetutamente donne e bambine, evirano, assassinano a colpi d’ascia. Solitamente lasciano viva una bimba per famiglia che, dopo ripetuti stupri, ha il solo compito di raccontare e far scappare chi resiste. Una donna al nono mese di gravidanza verrà ritrovata con il ventre aperto, uccisa con il feto messogli tra le braccia. Le teste dei neonati vengono schiacciate sulle pareti. I miliziani saccheggiano tutto: si troveranno molte mani di donne tagliate ai polsi per impadronirsi dei gioielli.

Venerdì 17 settembre
Il venerdì nero. Il tenente Avi Grabowski dirà davanti alla commissione d’inchiesta «Ho visto falangisti uccidere civili…Uno di loro mi ha detto: dalle donne incinte nasceranno dei terroristi». Ma i soldati israeliani ricevono ancora l’ordine di non intervenire su ciò che sta accadendo, di non entrare nei campi; il loro compito rimane quello di sorvegliare gli accessi per rispedire dentro chi prova a fuggire e illuminare l’area, al calar della notte. Sono le milizie di Haddad quelle che incutono più terrore, quelle che legano i feriti alle jeep e li trascinano fino alla morte, quelle intente a torturare e a non lasciare nessuno in vita; i metodi si fanno più rapidi rispetto all’inizio del massacro, ora si spara a bruciapelo e spesso si incide una croce sul petto dei cadaveri. Più di 1500 persone spariranno salendo sui loro camion: non si è più saputo niente di loro. Entrano anche nell’ospedale di Akka e di Gaza, medici e infermieri palestinesi sono giustiziati, così come i feriti. Al confine del campo gli uomini delle milizie cristiane sono euforiche, non si vergognano di urlare in faccia ai giornalisti che iniziano ad arrivare: «Andiamo ad ammazzarli, ci inculeremo le loro madri e le loro sorelle». Sharon è l’unico invece che continua a dichiarare, mentre sovrasta il massacro, «l’entrata di Tsahal a Beirut porta pace e sicurezza ed impedisce un massacro della popolazioni palestinesi. Stiamo impedendo una catastrofe».

Sabato 18 settembre 
Il massacro continua; la puzza di cadaveri, sotto il caldo sole di Beirut, inizia a superare i confini dei campi palestinesi. E’ il momento dell’ultima trappola: le milizie dalle 6 del mattino girano sulle jeep urlando alla popolazione di arrendersi, di uscire di casa. Più di un migliaio saranno uccisi sulla strada Abu Hassan Salmeh, principale arteria di Chatila. Chi viene arrestato e portato nello stadio sarà ritrovato morto ancora ammanettato, spesso buttato in piscina. Gli ultimi abitanti vengono portati via sui camion.
Alle 10 cala il silenzio su Sabra e Chatila. Le milizie sono uscite; non si scorge anima viva nel fetore di quelle strade. Solo qualche ora dopo i sopravvissuti inizieranno ad uscire dai rifugi, e il dolore si trasformerà in grida, mentre osservano più di 2000 cadaveri mutilati, dilaniati, stuprati, lasciati marcire al sole. I riconoscimenti avverranno solo in parte, visto che molti erano stati già gettati in fosse comuni. C’è una donna che urla… ha intorno a se i cadaveri dei suoi 7 bambini, tiene tra le braccia il corpo dilaniato della più piccola, di soli 4 mesi. Si tira la terra in testa, urla, «E ora? Dove andrò? E ora?».
Sulle mura delle poche case rimaste in piedi si leggono gli slogan della Falange “Kataeb”: «Dio, Patria, Famiglia».
«Quali assassinii di donne? Si fa una storia per niente. Da anni uccido palestinesi e non ho ancora finito. Li odio. Non mi considero affatto un assassino. Ne verranno ancora assassinati migliaia, ed altri creperanno di fame», le parole di Hobeika saranno difficili da dimenticare. Neanche per il popolo israeliano è facile accettare l’idea di essere corresponsabili di una simile azione, l’indignazione popolare è profonda. Un corteo di 400mila persone invaderà Tel Aviv con slogan diretti contro il governo e Sharon.
Il 20 settembre, Amos Kennan sulla più importante testata israeliana, Yedioth Ahronot , scriverà: «In un sol colpo, signor Begin, lei ha perduto il milione di bambini ebrei che costituivano tutto il suo bene sulla terra. Il milione di bambini di Auschwitz non è più suo. Li ha venduti senza utile».
Oggi ci sarà ancora una commemorazione, sulla piazza della fossa comune, all’ingresso di Chatila. La popolazione dei campi andrà a salutare, a portare avanti il ricordo di quei giorni neri in cui si è cercato casa per casa il più innocente per trucidarlo, in cui si è perpetrato uno sterminio scientifico e atteso da molto tempo. Il giorno più bello per le falangi cristiano-maronite, l’ennesima nakba (tragedia) per i palestinesi che malgrado tutto continuano a lottare, a sperare in un ritorno, ad esistere.
Come diceva Mahmud Darwish, grande poeta palestinese da poco scomparso, «Il mio popolo ha sette vite. Ogni volta che muore rinasce più giovane e bello». Basta passeggiare per le vie dei campi profughi del medioriente per capire che grande verità è questa.
Nel 2002, il tribunale dell’Aja prova ad accusare Sharon di crimini contro l’umanità per le evidenti responsabilità durante il massacro. Il processo nasceva dalle accuse del comandante Hobeika, che aveva deciso di far luce sui fatti. Avrebbe dovuto farlo i primi di febbraio,testimoniando in aula. Ma non ha fatto in tempo: è saltato in aria il 24 gennaio 2002.
La verità su Sabra e Chatila, comunque, non ha bisogno di tribunali per essere sancita. E’ chiara, scritta, visibile ancora oggi ad occhio nudo.

Tutte le citazioni sono tratte dal libro “Sabra e Chatila Inchiesta su un massacro” di Amnon Kapeliouk (Editions du Seuil, 1982)

Foto di Valentina Perniciaro -Il mercato di Sabra-

Foto di Valentina Perniciaro -Il mercato di Sabra-

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