Archivio
Processo Triaca: sancita una verità sulla Tortura di Stato
Il Tribunale Penale di Perugia ha revocato la sentenza che vedeva Enrico Triaca, tipografo delle Br torturato per giorni da alcuni fedeli servitori di Stato, condannato per calunnia per aver denunciato i suoi aguzzini.
È la seconda volta nella storia repubblicana che la verità giudiziaria delle torture di Stato viene dimostrata in un’aula di tribunale, come era già successo nel caso di Cesare Di Lenardo, torturato nel 1982 durante il sequestro Dozier eancora detenuto dopo 30anni senza aver mai avuto accesso a misure alternative.
Questo il dispositivo della sentenza di oggi, 15 ottobre 2013, che in molti aspettavamo. La trasmissione degli atti alla Procura di Roma relativa alla posizione di Nicola Ciocia, per anni conosciuto solo con il nomignolo De Tormentis, non avrà alcun seguito poiché i possibili reati a lui contestabili sono prescritti: questo non priva la sentenza di un’importanza storica.
Revoca la sentenza di condanna limitatamente al reato di calunnia e assolve Triaca Enrico dal reato di calunnia perché il fatto non sussiste. Ordina la trasmissione degli atti alla Procura di Roma per quanto di competenza per la posizione di Nicola Ciocia. Ordina l’affissione della sentenza per estratto presso la Casa comunale di Roma. Ordina la pubblicazione della sentenza per estratto sul quotidiano Repubblica.
Per dettagli sulla revisione del processo Triaca: LEGGI
– Per informazioni sulla figura di De Tormentis leggi:
*Chi è De Tormentis?
* Il segreto di Pulcinella sull’identità del torturatore
– Per informazioni sulle tecniche di tortura usate contro i militanti della lotta armata, leggi:
* Ecco come mi torturò De Tormentis
* Il pene della Repubblica
* Le torture su Sandro Padula
– La tortura sulle donne, quel pizzico in più di sadismo a sfondo sessuale:
* Le torture su Paola Maturi e Emanuela Frascella
* Cercando Dozier in vagina
* Chi è Oscar Fioriolli
Fuori i torturati dalle galere: ORA!
Se c’è un motivo per cui da anni scrivo, leggo, ricerco materiale sulla tortura,
è perchè sento la necessità viscerale di buttarli fuori.
In Italia la tortura s’è mossa con mano pesante sui corpi dei militanti della lotta armata, dalla fine degli anni ’70 al 1982, maledetto anno cileno:
elettrodi attaccati al pene, manganelli nelle vagine, capezzoli tirati con pinze, la scientifica e ripetuta tortura dell’acqua e sale,
denominata dagli statunitensi waterboarding, finte esecuzioni e tanto altro…
questo è stato il nosto paese, che ha costruito un apparato specializzato, che correva qua e là per lo stivale ad improntare sale di tortura, tavolacci da boia, preordinati e decisi dai più alti apparati di Stato.
Nomi ormai noti, nomi che hanno fatto la loro splendida e medagliata carriera, fino a giungere, come Oscar Fioriolli a dirigere la Scuola di Formazione per la Tutela dell’Ordine Pubblico: quasi una barzelletta della storia (proprio colui che si occupò di “quel manganello”)
Dicevo,
se c’è un motivo che in tutti questi anni ha alimentato il mio bisogno di inchiestare i loro elettrodi e la catena di quei nomi,
è che ci son dei compagni, dei corpi di uomini e donne,
che vivono ancora reclusi (alcuni senza aver nemmeno mai fruito di un permesso).
Parliamo di una carcerazione iniziata così, con i trattamenti più atroci che l’essere umano possa immaginare, e MAI TERMINATA.
Da più, molto più di trent’anni ormai.
Ho letto molti testi, incontrato medici,
imparato quanto lavoro si deve fare sulle menti e i corpi di chi ha subito la tortura per riuscirsi a riappropriare di sè stessi,
di un minimo di tranquillità nel toccare il proprio corpo,
o nell’abbandonarsi al sonno.
Tonnellate di studi, di pagine, di centri internazionali di riabilitazione per torturati, per uomini e donne che hanno il diritto di riprender la propria esistenza nelle mani, dai più minimi gesti.
NOI IN ITALIA SIAMO ALTRO A QUANTO PARE.
Noi i nostri torturati li teniamo in cella.
Noi i nostri torturati non li curiamo.
Noi non li facciamo accedere a nessun percorso riabilitativo, liberatorio, collettivo.
No.
Li teniamo chiusi, a scontare l’eternità del carcere e di corpi abusati.
Per quello penso sia NECESSARIO parlare di tortura,
conoscere i racconti di chi ha subito il waterboarding dalla voce stessa, rotta, da chi l’ha subito,
per quello dobbiamo seguire puntando tutti i fari a disposizione il tentativo che alcuni avvocati stanno facendo per “riaprire il processo Triaca” che altro non significa che eliminare la condanna (da lui totalmente scontata) per calunnia, datagli quando accusò lo Stato delle torture.
Annullare una condanna, e fare in modo che quei nomi siano scritti nero su bianco.
Nero su bianco, torturatore per torturatore.
Dal blog CONTROMAELSTROM
A Copenhagen, a pochi minuti dal centro città, è in funzione il Rehabilitation Centre far Torture Victims, dove si cerca di ricomporre l’unità corpo-mente in chi ha avuto l’esperienza della tortura. Un centinaio di fisio e psicoterapeuti cerca di restituire innanzitutto un corpo ai propri pazienti:
«Quasi sempre le vittime, per sopportare il dolore, hanno dovuto negare l’esistenza del proprio corpo».
Alcuni pazienti, alla richiesta di rilassare i muscoli, reagiscono sopprimendo completamente ogni capacità di avvertire sensazioni fisiche. Si tratta dello stesso espediente che avevano già adottato in carcere per resistere agli aguzzini, espediente che nel Centro di riabilitazione finisce per ostacolare ogni terapia:
«È stato molto difficile restituire a quegli uomini il senso di possedere un corpo. Di volerlo toccare. Di volerne sentire le reazioni».
Non deve suonare strambo se un capitolo sugli effetti del carcere viene concluso con alcuni cenni sulla tortura. Quest’ultima non ha come semplice oggetto il corpo, ma usa il corpo come tramite materiale che conduce alla distruzione della psiche. Non ha come obiettivo quello di costringere il detenuto alla confessione, ma quello di annichilirlo, negarne sensibilità e qualità umane.
La tortura rappresenta una forma di antiterapia: mira a spezzare l’unità della persona. Ma come mai non suscita poi tanta indignazione? Forse perché viene avvertita come una pratica ortodossa in un mondo dove manipolazione, correzionalità di massa e terapia per normali costituiscono prassi quotidiana. Non viviamo nell’era che ha sostituito il maquillage con la protesi, nell’era della chirurgia estetica, della manipolazione dell’aspetto, dell’intelligenza, dei geni? Distruzione e manipolazione stanno a tortura e carcere come in una equazione a variabili incrociate.
Il carcere, nella migliore delle ipotesi è chirurgia morale che, nelle parole di Nietzsche, non può migliorare l’uomo, può ammansirlo; ci sarebbe da temere se rendesse vendicativi, malvagi, «ma fortunatamente il più delle volte rende stupidi».
Lévi-Strauss, nel classificare i diversi principi ispiratori della sanzione, considera da un lato le società che ingeriscono il corpo del deviante, dall’altro quelle che lo espellono, lo vomitano. Nel nostro contesto non vi è né antropofagia né il suo contrario, antropoemia, ma ortopedia, correzione del corpo e della mente attraverso la loro separazione. Gli operatori dell’istituto di Copenhagen ne sono consapevoli: compiono un lavoro di restauro, cercando di riunire con la dolcezza le due entità separate dall’afflizione.
Da Il carcere immateriale di Ermanno Gallo e Vincenzo Ruggiero, Edizioni Sonda, 1989, pagg. 103-137.
LINK:
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis
Oscar Fioriolli, stupratore e torturatore di Stato ai domiciliari: ma per corruzione
Aprendo il Corriere della Sera online, di nascosto, dalla mia postazione a lavoro leggo: APPALTI PER LA POLIZIA, 8 ARRESTI…
nel leggere le pochissime righe che ci raccontanto quest’operazione anti corruzione si legge ancora:
IL PREFETTO FIOROLLI – Tra i destinatari delle ordinanze di custodia cautelare c’è anche l’ex direttore delle specialità della polizia, il prefetto Oscar Fiorolli, direttore Centrale Risorse Umane del dipartimento Pubblica Sicurezza. Nei confronti del quale sono stati disposti gli arresti domiciliari
Basta una rapida ricerca su Google per capire che forse c’è un errore di battitura, visto che di Oscar Fiorolli in polizia non se ne trovano, mentre si trova facilmente il PREFETTO OSCAR FIORIOLLI. (quello con una “i” in più)
TORTURATORE DI STATO, colui che interrogò Elisabetta Arcangeli con un manganello nella vagina e tirandole i capezzoli con una pinza, nella stanza accanto a quella in cui torturavano il suo compagno,
che sentite quelle urla ha parlato, dicendo dove si trovava Dozier.
Proprio un brav’uomo di Stato: uno stupratore in divisa, torturatore patentato.
Ora ai domiciliari per corruzione…
ma ricordatevi che grazie all’Avvocato Francesco Romeo è stata chiesta la revisione del processo Triaca, che se verrà accoltà riaprirà a livello giudiziario una delle pagine più buie della storia d’Italia.
Quando vi dicevo “ricordatevi il nome di Fioriolli” eh!
CHI E’ OSCAR FIORIOLLI: LEGGI la BIOGRAFIA DI UN TORTURATORE
Richiesta revisione del processo : LEGGI
LEGGI: Cercando Dozier dentro una vagina
Il 2012 e la tortura di Stato: un anno importante
Se proprio bisogna fare un bilancio possiamo dire che il 2012 è stato un anno importante, almeno sotto un punto di vista, pesante come un macigno di basalto: la tortura.
In questi dodici mesi abbiamo iniziato a scardinare l’apparato costruito dal ministero dell’Interno per sventrare la sovversione armata, l’eteronimo De Tormentis ha preso il volto di Nicola Ciocia e con lui, la sua banda di colleghi, scelti ed addestrati per girare l’Italia per torturare.
Non solo le torture del 1982, il cosiddetto anno cileno, venute alla luce, ma un vero e proprio apparato parallelo composto da molti uomini dell’Ucigos quali, oltre al già nominato Nicola Ciocia, Gaspare De Francisci, Umberto Improta e Oscar Fioriolli.
Parliamo di una tortura che ha radici e anche modalità diverse dalle sevizie e dai pestaggi brutali che in questi anni hanno portato alla morte diverse persone, per mano di uomini di Stato.
Insomma, non una cosa dalle caratteristiche occasionali (anche se purtroppo diffuse), ma una pratica sistematica, scientifica e pianificata dai piani alti dello Stato, su mandato del governo e con copertura politica: effettuata da squadrette che agivano coperte dall’anonimato, con l’uso di tecniche specifiche quali il waterboarding (la simulazione d’affogamento con acqua e sale), le scariche elettriche, le sevizie di natura sessuale, o ancora fucilazioni simulate, bruciature, tagliuzzamenti a persone trattenute per settimane “illegalmente” e messe sotto tortura in caserme o appartamenti appositamente usati come sala di tortura.
Squadrette
Non è anacronistico oggi parlare di tutto ciò: non lo è perché dei nomi già fatti in queste poche righe non tutti sono vecchi torturatori in pensione, anzi.
Oscar Fioriolli questore ad Agrigento, Modena, Palermo, Genova (subito dopo il G8) e poi a Napoli è attualmente incaricato di dirigere la Scuola di Formazione per la Tutela dell’Ordine Pubblico, costituita nel 2008 «con l’obiettivo – come recita il comunicato del ministero degli Interni – di formare personale specializzato capace di intervenire con professionalità in caso di eventi che possono degenerare dal punto di vista dell’ordine pubblico, come manifestazioni, cortei ed eventi pubblici, per garantire ancor meglio la sicurezza di tutta la collettività»
Ora sappiamo che proprio Oscar Fioriolli ha interrogato Elisabetta Arcangeli, tirandole i capezzoli con una pinza mentre le infilava un manganello nella vagina, come testimonia Salvatore Genova, suo collega.
Il 2012 ci ha regalato un po’ di questi nomi, e non è poco.
Il 2012 ha quindi portato gli avvocati Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo a presentare la richiesta di revisione del processo che vide Enrico Triaca, torturato proprio dallo stesso Nicola Ciocia, condannato per calunnia nel momento in cui denunciò il trattamento subito. Un’istanza, depositata davanti alla corte d’appello di Perugia, il cui obiettivo è quello di far luce sull’intero apparato di polizia parallelo che aveva il mandato di torturare gli appartenenti delle organizzazioni armate rivoluzionarie.
Questo 2013 ci trova in attesa di una risposta dalla corte d’appello perugina a riguardo, per poter mandare avanti questa lunga battaglia anche in un’aula di tribunale.
Mi raccomando intanto non vi dimenticate il nome di Oscar Fioriolli….
LINK SULLA TORTURA:
1) Jean Paul Sarte, sulla tortura
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Una lettera all’albo degli avvocati di Napoli
13) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
14) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
15) La sentenza esistente
16) Le torture su Sandro Padula, 1982
17) La prima parte del testo di Enrico Triaca
18) Seconda parte del testo di Triaca
19) L’interrogazione parlamentare presentata da Rita Bernardini
20) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
21) Due firme importanti: Adriano Sofri e Pier Vittorio Buffa
22) Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto
23) L’interrogazione parlamentare cade nel vuoto
24) L’intervista mia e di Paolo Persichetti a Pier Vittorio Buffa
25) Cercavano Dozier nella vagina di una brigatista
26) Intervista al medico Massimo Germani
27) Oscar Fioriolli: biografia di un torturatore28) Processo Triaca: si tenta la riapertura del processo
Basta: Triaca,torturato da “De Tormentis”, richiede la revisione del processo. Ora non possono più far finta di niente
Dal blog Insorgenze
Dopo le ammissioni di Nicola Ciocia, il funzionario di polizia che lo torturò, e la testimonianza dell’allora commissario Salvatore Genova, Enrico Triaca chiede la revisione del processo che portò alla sua condanna per calunnia. L’istanza depositata dagli avvocati Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo davanti alla corte d’appello di Perugia non mira soltanto all’annullamento del processo farsa che finì con una condanna per calunnia ad un anno e quattro mesi di carcere, che si aggiunse a quella per appartenenza alle Brigate rosse ed in un primo momento anche per il sequestro Moro. L’obiettivo è quello di fare luce sull’esistenza di un apparato di polizia parallelo che con il mandato del governo venne messo in piedi per condurre le indagini sulle organizzazioni rivoluzionarie armate ricorrendo alla tortura
di Marco Grasso e Matteo Indice
Il Secolo XIX 12 dicembre 2012
Per piegare il terrorismo lo Stato italiano fece ricorso alla tortura. Un’accusa che allora, quando a lanciarla era Enrico Triaca, tipografo delle Br coinvolto nel sequestro Moro, finì con una condanna per calunnia. Era il 1978. Oggi, a trentaquattro anni di distanza, l’ex brigatista chiede la revisione del processo: «Era tutto vero». Un atto che potrebbe riaprire una delle pagine più oscure degli anni di Piombo: l’attività di alcuni corpi speciali, che agivano sotto copertura, conosciuti come “I cinque dell’Ave Maria” e “I vendicatori della notte”.
A confermare l’esistenza di un nucleo “parallelo” all’interno della polizia, nel corso degli anni, sono stati alcuni ex funzionari. Ne parlò Salvatore Genova, superinvestigatore che nel gennaio del 1982 liberò il generale americano James Lee Dozier, prigioniero delle Brigate Rosse. Poi anche Nicola Ciocia, anche lui ex poliziotto, che in quelle missioni speciali si celava dietro allo pseudonimo “Professor De Tormentis”. Ciocia, convinto che il fine giustificasse in mezzi («era per il bene dell’Italia»), raccontò la sua verità in un’intervista al Secolo XIX. Tra le rivelazioni anche quella di aver praticato ciò che allora veniva chiamato il «trattamento dell’acqua e sale». Una forma di interrogatorio divenuta famosa in tutto il mondo dopo la guerra in Iraq come waterboarding, tortura che simula l’annegamento del detenuto.
Quelli che fino a ieri erano frammenti sconnessi, adesso sono i pezzi di un mosaico coerente. A rimetterli insieme è una corposa indagine difensiva condotta da Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo, avvocati di Triaca, e presentata alla Corte d’Appello di Perugia. In gioco non c’è solo l’annullamento di un processo, finito con una condanna a un anno e quattro mesi di carcere, arrivata dopo quella per banda armata.
L’obiettivo dichiarato del ricorso è quello di far luce su una delle pagine più oscure del dopoguerra italiano: «È molto facile indignarsi e criticare la tortura quando viene praticata in altri paesi – spiegano – È molto facile zittire con una condanna per calunnia, chi ha denunciato di essere torturato. È difficile, anzi, impossibile, affrontare la propria cattiva coscienza anche se appartiene al passato».
A descrivere il waterboarding è lo stesso Triaca, al blog Insorgenze, punto di riferimento della sinistra più estrema: «Fui prelevato dalla questura, bendato e caricato su un furgone. Mi introdussero in una stanza, mi spogliarono e mi legarono alle quattro estremità di un tavolo, con la testa fuori. Qui, accesa la radio al massimo, iniziò il “trattamento”. L’istinto è quello di agitarti nel tentativo di prendere aria, ma riesco solo a ingoiare acqua. “De Tormentis” dava gli ordini. Dopo un po’ che tieni la testa a penzoloni i muscoli cominciano a farti male e a ogni movimento ti sembra che il primo tratto della spina dorsale ti venga strappato dalla carne».
L’esistenza di una «struttura organizzata» emerse già in un’inchiesta della Procura di Padova degli anni Ottanta, che indagò sulle sevizie commesse ad alcuni membri delle Br, senza riuscire a individuarne gli autori. A colmare quel vuoto, nel 2007, è il capo della squadra, Nicola Ciocia: «I metodi forti sono stati usati, in emergenza e sempre dopo aver avuto la certezza oggettiva di trovarsi davanti il reo, le cui rivelazioni sarebbero state decisive per salvare delle vite. Ammesso, e assolutamente non concesso, che ci si debba arrivare, la tortura – se così si può definire – è l’unico modo in alcuni casi».
La vicenda è stata anche oggetto di un’interpellanza parlamentare, presentata dalla deputata radicale Rita Bernardini. A rispondere a nome del governo, notano però i difensori di Triaca, si è presentato Carlo De Stefano, sottosegretario agli Interni, all’epoca dei fatti «uno dei poliziotti che parteciparono al suo arresto».
Per più informazioni a riguardo (su De Tormentis ed Enrico Triaca), da questo blog:
– Il pene della Repubblica
– Ma chi è il professor “De Tormentis”?
– Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
– De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
– Una lettera all’albo degli avvocati di Napoli
– Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
– La sentenza esistente
–Seconda parte del testo di Triaca
– L’interrogazione parlamentare presentata da Rita Bernardini
– ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
– Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto
– L’interrogazione parlamentare cade nel vuoto
Chi è Oscar Fioriolli? Biografia di un torturatore
Dal blog di Paolo, INSORGENZE, insieme al quale si combatte per far sì che tutto ciò diventi memoria collettiva,
parte integrante della nostra conoscenza sullo Stato, e i suoi metodi.
Buona lettura
Oscar Fioriolli, non dimenticate mai questo nome. Nella nota diffusa dopo la conferma definitiva delle condanne pronunciata dalla Cassazione contro i vertici investigativi del ministero dell’Interno, il capo della Polizia Antonio Manganelli dichiarava con parole che si volevano rassicuranti per i cittadini :
«Ora, di fronte al giudicato penale, è chiaramente il momento delle scuse. Ai cittadini che hanno subito danni ed anche a quelli che, avendo fiducia nell’Istituzione-Polizia, l’hanno vista in difficoltà per qualche comportamento errato ed esigono sempre maggiore professionalità ed efficienza. Per migliorare il proprio operato, a tutela della collettività, nell’ambito di un percorso di revisione critica e di aperto confronto con altre istituzioni, da tempo avviato, la Polizia di Stato ha tra l’altro istituito la Scuola di Formazione per la Tutela dell’Ordine Pubblico al fine di meglio preparare il personale alla gestione di questi difficili compiti. Il tutto per assicurare a questo Paese democrazia, serenità e trasparenza dell’operato delle forze dell’ordine, garantendo il principio del quieto vivere dei cittadini».
A dirigere questa scuola, nata con decreto del capo della Polizia il 24 ottobre 2008 e operativa dal 1° dicembre successivo «con l’obiettivo – come recita il comunicato del ministero degli Interni – di formare personale specializzato capace di intervenire con professionalità in caso di eventi che possono degenerare dal punto di vista dell’ordine pubblico, come manifestazioni, cortei ed eventi pubblici, per garantire ancor meglio la sicurezza di tutta la collettività», è stato chiamato il prefetto Oscar Fioriolli.
Chi è questo grande esperto a cui il capo della Polizia ha attribuito il compito di formare dirigenti, funzionari e agenti di Ps affinché ricorrano a condotte più “professionali” durante manifestazioni, cortei ed eventi pubblici per evitare quanto accaduto a Genova nel 2001?
Fioriolli è stato questore ad Agrigento, Modena, Palermo, Genova (subito dopo il G8) e poi a Napoli. Risulta anche indagato in una inchiesta sugli appalti Finmeccanica condotta dai pm della procura di Napoli e in una indagine portata avanti dalla procura genovese su una strana vicenda di consulenze per auto blindate richieste da un dittatore della Guinea Conakry e rapporti con un faccendiere siriano che gli avrebbe elargito una somma di 50 mila euro. Questi scarni cenni biografici tuttavia ci dicono ancora molto poco del ruolo avuto da un funzionario che è stato nel cuore del dispositivo antiterrorismo del ministero degli Interni in anni cruciali (dalla metà degli anni 70 in poi).
Per conoscere qualcosa di più del suo passato dobbiamo ricorrere alla testimonianza di un suo collega: l’ex commissario della Digos e poi questore Salvatore Genova, che lo descrive (cf. l’Espresso del 6 aprile 2012;vedi anche la testimonianza video) mentre all’ultimo piano della questura di Verona conduce l’interrogatorio di Elisabetta Arcangeli, una sospetta fiancheggiatrice delle Brigate rosse arrestata il 27 gennaio 1982.
«Separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna. I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figlie. È uno dei momenti più vergognosi di quei giorni, uno dei momenti in cui dovrei arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale».
Era in corso il sequestro del generale americano James Lee Dozier, vicecomandante della Fatse (Comando delle Forze armate terrestri alleate per il sud Europa) con sede a Verona, da parte delle Brigate rosse-partito comunista combattente. Sempre secondo la testimonianza fornita da Salvatore Genova, nel corso di una riunione convocata dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci presso la questura di Verona, presenti Improta, il poliziotto cui De Francisci aveva affidato il coordinamento del gruppo di super investigatori, Oscar Fiorolli, Luciano De Gregori e Salvatore Genova, si decise il ricorso alle torture. A svolgere il lavoro sporco venne chiamato insieme alla sua squadretta di esperti “acquaiuoli” (profesionisti del waterboarding, la tortura dell’acqua e sale) Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, funzionario proveniente dalla Digos di Napoli, già responsabile per la Campania dei nuclei antiterrorismo di Santillo, in forza all’Ucigos.
De Francisci fece capire che l’ordine veniva dall’alto, ben sopra il capo della polizia Coronas. Il semaforo verde giungeva dal vertice politico, dal ministro degli Interni Virginio Rognoni. Via libera alle «maniere forti» che in cambio forniva anche chiare garanzie di copertura. Fu lì che lo Stato decise di cercare Dozier nella vagina di una sospetta brigastista.
Roma – Il giardino dei torturatori tra via dell’Amba Aradam e via della Ferratella in Laterano
Giovanni Coronas, Gaspare De Francisci e Umberto Improta sono morti nel frattempo. Un giardino in ricordo di Improta, capo della squadra di investigatori che praticarono le torture sistematiche impiegate da varie squadre di poliziotti in un arco di tempo che riveste almeno 11 mesi, è sorto non lontano da piazza san Giovanni, a Roma, tra via dell’Amba Aradam e via della Ferratella in Laterano.
Salvatore Genova è in pensione ed è l’unico che ha deciso di raccontare la verità. Nicola Ciocia, il mago del waterboarding, vive nascosto in una casa del Vomero a Napoli. Non ha più il coraggio di uscire di casa, braccato dai fantasmi del suo passato di aguzzino. L’ex guardasigilli Virginio Rognoni mantiene profilo basso, mostra di ricordare con difficoltà sperando di non essere coinvolto nella riapertura del caso; Oscar Fioriolli è invece ancora al suo posto di dirigente della scuola di polizia. Una scelta davvero rasicurante: l’uomo giusto al posto giusto!
Sentito al telefono da Piervittorio Buffa, il giornalista che è riuscito a sfilare organigrammi e nomi degli autori delle torture dalla bocca di Salvatore Genova, che fino ad allora aveva solo denuciato i fatti senza mai indicare i corresponsabili (una prima volta nel 2007 davanti a Matteo Indice del Secolo XIX, poi nel libro di Nicola Rao, Colpo al cuore, Sperling & Kupfer 2011, infine in una puntata di Chi l’ha visto?), Oscar Fioriolli ha rifiutato qualsiasi incontro per chiarire il ruolo avuto in quelle vicende e negato le circostanze riferite da Genova.
Gratteri, Luperi, Calderozzi, Mortola, Ferri, ed altri funzionari sono stati dimessi dai loro incarichi per le loro responsabilità accertatenel tentativo di depistare e coprire il massacro perpetrato all’interno della scuola Diaz.
Oscar Fioriolli, chiamato in causa con una testimonianza dettagliata per il ruolo avuto nelle torture e in una violenza sessuale, praticate durante gli interrogatori contro persone accusate di appartenere alla Brigate rosse, è sempre al suo posto.
Link
* * *
Qui sotto potete leggere l’articolo di Piervittorio Buffa, recentemente pubblicato sul Venerdì di Repubblica del 20 luglio 2012, che rievoca i passaggi più importanti su questa vicenda.
Quando in Italia si seviziavano i brigatisti. Nel 1982, per liberare il generale Usa James Lee Dozier, la polizia decise di passare alle maniere forti con i primi arrestati. Ma chi diede l’ordine? «venne dall’alto»
di Pier Vittorio Buffa
Il Venerdì di Repubblica, 20 luglio 2012
Roma. «La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe». Salvatore Genova racconta così quello che accadde nella questura di Verona, nella notte tra il 27 e il 28 gennaio 1982. La ragazza è Elisabetta Arcangeli. Il suo compagno è Ruggero Volinia. Salvatore Genova è uno dei poliziotti che guidarono le indagini sul caso James Lee Dozier, il generale americano rapito dalle Brigate rosse il 17 dicembre 1981. Genova sarà arrestato insieme ad alcuni suoi uomini con l’accusa di aver usato violenza su dei terroristi catturati, ma quella notte, in questura, è solo un testimone: conduce l’interrogatorio il suo collega Oscar Fiorolli.
I poliziotti capiscono che Volinia sta per cedere. «Fu uno dei momenti più vergognosi di quei giorni» dice Genova, «avrei dovuto arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece, caricammo Volinia su una macchina e lo portammo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale e, dopo pochi minuti, parla, ci dice dov’è il generale Dozier».
A coordinare il tutto e a eseguire il trattamento De Tormentis con acqua e sale, una tortura già usata dai francesi e la squadretta nella guerra di Algeria, è una squadretta speciale guidata da un alto funzionario di polizia, Nicola Ciocia e composta da quattro poliziotti chiamati i Quattro dell’Ave Maria. La tecnica è all’apparenza semplice, ma bisogna essere molto esperti per praticarla in modo sicuro ed efficace. D prigioniero è legato a un tavolo, con un tubo gli vengono fatte ingurgitare grandi quantità di acqua e sale che provocano, oltre alla nausea, un forte senso di soffocamento.
Ciocia è in via Caetani a Roma quando, il 9 maggio 1978, viene trovato il corpo di Aldo Moro nella Renault rossa Lo si distingue di spalle, nelle foto, dietro Francesco Cossiga. La sua squadra entra in azione pochi giorni dopo, già con i primi arresti del dopo Moro. All’«acqua e sale» è infatti sottoposto, lo racconta lui stesso nei dettagli, Enrico Triaca, il tipografo delle Br. Ma Ciocia, che Umberto Improta, capo degli investigatori durante il sequestro Dozier, soprannominò dottor De Tormentis, non agì certo di sua iniziativa. Lo si capì già allora, nel 1982, che c’era un piano preciso, venuto dall’alto. Se ne è avuta la conferma ora, a distanza di trent’anni. Ciocia, pur non ammettendo le torture con l’acqua e il sale, ha detto di essere lui il dottor De Tormentis. Salvatore Genova, a sua volta, è stato molto preciso. Ha raccontato della riunione che si tenne in questura a Verona all’indomani del sequestro di Dozier: un via libera all’uso delle maniere forti con terroristi e fiancheggiatori, il timbro ai metodi di Ciocia-De Tormentis.
La riunione fu convocata dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci. Nella stanza c’erano anche Improta, il poliziotto cui De Francisci aveva affidato il coordinamento del lavoro, Oscar Fiorolli, Luciano De Gregori e Salvatore Genova. Ascoltarono De Francisci dire, così ricorda Genova, che l’indagine su quel sequestro era «delicata e importante» e che bisognava fare «bella figura». E dare il via libera all’uso delle maniere forti per risolvere il caso. «Ci guardò uno a uno e con la mano destra» rievoca Genova «indicò verso l’alto. Ordini che vengono dall’alto, spiegò: quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte, sarete coperti, faremo quadrato. Improta fece sì con la testa e disse che si poteva stare tranquilli, che per noi garantiva lui. Il messaggio era chiaro e, dopo la riunione, cercammo di metterlo ulteriormente a fuoco. Fino a dove arriverà la copertura? Fino a dove possiamo spingerci? Dobbiamo evitare ferite gravi e morti? Fu questo che ci dicemmo tra di noi funzionari. E di far male agli arrestati senza lasciare il segno».
Ciocia, con i quattro dell’Ave Maria, arrivò il giorno dopo quella riunione e poi tornò in Veneto negli ultimi giorni del sequestro, quando le indagini portarono ai primi arresti dei fiancheggiatori. E quindi alla necessità di farli parlare. Tutti gli uomini di Improta assistettero alla prima «acqua e sale» di Verona, quella praticata a Nazareno Mantovani, che svenne durante il trattamento.
L’adrenalina scatenata dal successo dell’operazione Dozier (il generale liberato, i brigatisti catturati senza sparare un colpo) e i risultati ottenuti con le tecniche di Ciocia scatenarono lo spirito di emulazione. Nella caserma della Celere di Padova, dove furono portati i terroristi, non si andò tanto per il sottile. Genova e i suoi, infatti, furono arrestati con l’accusa di aver organizzato, tra l’altro, la finta fucilazione del br Cesare Di Lenardo.
In quelle settimane, il ministro dell’Interno Virginio Rognoni disse: «Possiamo respingere, con assoluta fermezza e grande tranquillità di coscienza, l’accusa adombrata in alcune interrogazioni e sicuramente presente in certa campagna di stampa, di avere trasferito la lotta contro il terrorismo su un terreno diverso da quello dell’ordinamento giuridico mediante una pratica sistematica e violenta del rapporto fra Stato e cittadino al momento dell’arresto…».
I giornali ai quali faceva riferimento il ministro erano soprattutto L’Espresso e la Repubblica.
Tortura: un’intervista al dottor Massimo Germani
La Tortura in Italia non esiste. Non esiste nel codice penale, al contrario di reati come “devastazione e saccheggio” che per una vetrina ti regalano più di dieci anni di possibile condanna.
La tortura no, non esiste.
Figuriamoci se esiste quella di Stato allora, quella che sevizia i corpi dei prigionieri, corpi privati della propria libertà e completamente in mano dello Stato: una mano che spesso ha tenuto elettrodi, tubi per aumentare la pressione dell’acqua, manganelli da infilare in vagine e così via.
In questa lunga intervista Paolo Persichetti, che con forza manda avanti la sua battaglia contro la tortura e per una memoria storica totale ed effettiva, parla con Massimo Germani, medico e terapeuta del centro di cure per i disturbi da stress post-traumatico dell’ospedale san Giovanni di Roma, coordinatore nazionale del Nirast, una rete nata nel 2007 e che raccoglie 10 centri ospedalieri universitari diffusi nel territorio e specializzati per i richiedenti asilo che hanno ricevuto torture e traumi estremi.
Una persona, Germani, che per lavoro e formazione ha una quotidianità intrisa di torture subite e che ha reagito con stupore ed orrore nell’apprendere quel che è ripetutamente accaduto nelle sudicie stanze delle nostre caserme, questure, carceri.
Vi consiglio di leggerla, malgrado il male che faccia
Massimo Germani: «La tortura non serve solo ad estorcere informazioni, mira a distruggere l’identità e ridurre al silenzio»
di Paolo Persichetti
Gli Altri, 27 aprile 2012
In Italia c’è stata e continua ad esserci la tortura. Non è una novità anche se recentemente sono emerse circostanze nuove che portano a rileggere in modo più compiuto quanto è accaduto. Per esempio nel 1982, quando il governo allora guidato da Giovanni Spadolini decise di ricorrervi per contrastare la lotta armata. Libri, inchieste giornalistiche e televisive, blog, le rivelazioni per la prima volta senza reticenze di Salvatore Genova (un funzionario di polizia in forza alla squadra speciale dell’Ucigos, creata nel dicembre 1981 dal ministro della Giustizia Virginio Rognoni per condurre le indagini sul sequestro Dozier) apparse sull’Espresso del 6 aprile, hanno aperto squarci importanti. Oggi conosciamo i nomi dei torturatori, di chi ha dato gli ordini e di chi li ha coperti. Un film, Diaz, ci reintroduce nell’atmosfera del massacro nella palestra della scuola di Genova e delle sevizie nella caserma di Bolzaneto durante il G8 del 2001. Tuttavia siamo portati sempre a soffermarci sugli aspetti politici e giuridici che il ricorso alla tortura implica all’interno della società. Una riflessione che non deve cessare ma anzi va ancora di più approfondita. Questa volta però vogliamo proporvi uno sguardo diverso, quello di un medico-terapeuta che cura i torturati. Questo anche perché esiste un risvolto ancora sconosciuto: nelle carceri Italiane ci sono da più decenni persone che hanno subito torture, non hanno visto riconosciuto questo trattamento violento subito, non sono state curate.
E’ venuto il momento di cominciare a parlarne e soprattutto esigere la loro scarcerazione.
Che cosa accade nella psiche di una persona torturata?
Negli ultimi dieci anni si è capito che la tortura, come ogni tipo di violenza interpersonale, soprattutto se ripetuta e prolungata nel tempo, provoca degli effetti assolutamente specifici che vanno molto al di là della classica sindrome da stress post-traumatico.
Che tipo di effetti?
Si assiste ad una frantumazione dell’identità che da luogo a patologie della personalità di tipo dissociativo. La nostra identità è fatta di tante cose messe insieme che vanno a costruire quello che si vede all’esterno e quello che sentiamo dentro. Una composizione complessa di fattori con molte facce: culturale, politica, religiosa, sociale… che ad un certo punto si frammentano e si dissociano dando vita ad una serie di fenomeni clinici, spesso purtroppo non riconosciuti, che se non sono trattati in modo specifico possono divenire cronici aggravandosi nel tempo, anche lontano dall’episodio di tortura e di violenza.
Come si scatena questo sfaldamento della personalità?
La tortura produce conseguenze che investono la profondità della psiche. Rispetto ai traumi dovuti ad incidenti, catastrofi naturali, qui si tratta dell’incontro con qualcosa di negativo che viene portato da un altro uomo e che dal punto di vista analitico è chiamato il “male incarnato”. E’ il ritorno ad un’angoscia primitiva che ognuno di noi ha nella fase infantile ma che impariamo ad allontanare con un rapporto genitoriale sufficientemente buono. Quest’angoscia può ricomparire se ci si ritrova completamente inermi nelle mani di qualcuno che vuole distruggerci. L’idea di un io stabile e unitario ci sembra un fatto acquisito. In realtà non è così. Si tratta di un equilibrio fragile. Ce ne accorgiamo solo in determinati momenti della nostra vita, quando subiamo dei lutti, dei contraccolpi, ma in genere si tratta di brevi esperienze. Questa percezione stabile e unitaria dell’io può andare completamente in frantumi proprio nei momenti in cui incontriamo un essere umano che ci tiene in pugno e vuole annientarci.
Parli di “fenomeni non riconosciuti”. Soffermiamoci un momento su questo punto. In un contesto dove la tortura è stata praticata ma non riconosciuta, il perdurare di questa menzogna che effetti ha? Siamo abituati a riflettere sugli effetti politici e storici ma sulla singola persona quali conseguenze si ripercuotono?
Uno dei problemi nelle persone che hanno subito torture è proprio il dopo. Si è visto nelle ricerche compiute sui sopravvissuti ai campi di concentramento che quanto accade dopo, soprattutto nell’immediato, quando sembra che è finita, si è scampati, fuggiti, è molto importante. Se viene meno il riconoscimento da parte dei riferimenti che c’erano prima si incrementata in modo esponenziale la violenza subita. In questo caso la tortura raggiunge il suo scopo primario, anche se implicito: non solo estorcere informazioni ma distruggere l’identità e indurre al silenzio civile, politico e sociale. L’effetto finale della tortura è far sì che le persone non siano più tali e si trasformino in fantasmi che sopravvivono nel mondo. In modo che attraverso questo silenzio e questa sofferenza siano testimoni del potere, siano monito a tutti di cosa può succedere a chi prende posizioni diverse da quelle possibili o richieste dal potere stesso.
Dunque il riconoscimento ha una doppia valenza, storico-politica ma anche clinico-sociale?
Certo, se c’è un riconoscimento da parte della collettività, che può essere più o meno allargata, come poter tornare in un gruppo sociale di riferimento, in qualche modo sentire una condivisione e un sostegno da parte del gruppo in cui si è reinseriti, l’effetto è positivo. Aiuta a ritrovare le proprie radici, la possibilità di ritornare a quelle che precedentemente erano le proprie identità. Questo ovviamente è un qualcosa che non prelude automaticamente alla possibilità di un recupero.
Fino ad ora mi hai descritto la condizione dell’inerme, quella che per definizione è definita “vittima assoluta”. Tuttavia nei militanti che hanno subito torture si tende a rifiutare questa identità. Esiste una differenza?
Questo è un punto molto importante. La ricerca clinica ha dimostrato che la consapevolezza del rischio a cui si va incontro facendo certe cose, sapere che si può essere presi, messi in carcere, subire delle violenze, nella maggioranza dei casi è un fattore di protezione importante. Aiuta rispetto a quello che può essere il risultato finale di una esperienza di tortura o di violenza. Questo è possibile perché si ha la consapevolezza che quello che sta accadendo, la sofferenza subita, è legato ad un significato. Questo significante può svolgere una funzione di protezione, come tutte le credenze condivise che riescono a sopravvivere alla esperienza della tortura: siano esse religiose, sociali o politiche. Naturalmente questo non significa che chi ha una fede politica o religiosa sia esente dalle conseguenze della tortura. Ho in mente tante persone che nonostante questo sono uscite distrutte e hanno dovuto fare percorsi lunghi prima di ritrovare un senso di sè, una certa soddisfazione e fiducia negli altri.
In Italia, i militati della lotta armata torturati, e che nel frattempo non sono diventati “collaboratori di giustizia”, sono rimasti in carcere per molti decenni. Ancora oggi ci sono almeno due casi che hanno oltrepassato i 30 anni. Come è definibile questa situazione?
Anche questa è un’altra cosa importante dal punto di vista umano e clinico. Le persone che hanno subito trattamenti inumani e degradanti, o di vera e propria tortura, soprattutto se sono in regime carcerario avrebbero dovuto subire accertamenti sulle loro condizioni di salute psico-fisiche in strutture specializzate nel riconoscimento e nella cura di questo tipo di patologie. Le patologie dissociative sono fenomeni ed hanno sintomi che spesso sfuggono anche a psicologi o medici, o anche a psichiatri che non hanno una grossa esperienza di questo tipo. Possono quindi essere facilmente sottovalutati o presi per altri tipi di problematiche e non riconosciuti. Inoltre non siamo di fronte a patologie che volgono spontaneamente verso una guarigione nel tempo. Lasciate a se stesse nella maggior parte dei casi evolvono verso un peggioramento e una cronicizzazione.
Farlo sarebbe stato un riconoscimento implicito delle torture. In realtà la macchina giudiziaria e quella carceraria hanno lavorato per seppellire ogni prova. Subito dopo le torture c’è stato l’articolo 90, la sospensione della riforma carcerario e l’ulteriore inasprimento delle condizioni detentive.
Spiegaci un’altra cosa: hai riscontrato un uso e degli effetti specifici della tortura sul corpo delle donne?
Se pensiamo alle sevizie sessuali, non c’è differenza. Ci siamo resi conto che durante le torture anche la maggior parte degli uomini ha subito forme di abuso sessuale. Se già le donne, soprattutto all’inizio, non raccontano le sevizie perché se ne vergognano, per gli uomini è ancora più difficile. Pensiamo a chi, attraversando il Sahara, è passato per le carceri libiche o in quelle afgane. Esistono invece differenze importanti per quanto riguarda gli effetti. Sono in corso delle ricerche (tra qualche anno ne sapremo di più). Oggi si sa che nelle donne è più alta l’incidenza dei fenomeni dissociativi e l’incidenza delle sindromi depressive gravi, che si presentano come fenomeno secondario. Se oltre l’80% di chi ha subito tortura va incontro a sindromi depressive, insieme a quadri clinici che presentano iperattivazione continua, sensazione di pericolo imminente, stati ansiogeni, tensione interna molto forte che spesso porta ad avere scoppi di rabbia, nelle donne si arriva al 90% con forme ancora più gravi.
Il tuo lavoro ti ha messo davanti a tanti racconti di torture che arrivano da Paesi lontani. Che effetto ti hanno fatto le testimonianze delle torture italiane?
Sul piano emotivo mi hanno toccato di più. Faccio fatica a dirlo perché in questi anni molte cose che ho sentito mi hanno colpito in un modo incredibile, tuttavia devo sottolineare questa piccola ma significativa differenza. Quando ho letto della caserma di Castro Pretorio, ad esempio, un luogo che conosco, ci passo davanti, sentire questa cosa… Ecco, penso che questo vada colto, vada valorizzato per far capire che queste cose possono succedere veramente vicino a noi. E’ importante cercare di comunicarle nel modo giusto, che non è quello di far scandalo ma di avere una sensibilità più diffusa su qualcosa che altrimenti può essere sentita come lontana. Poi ovviamente sopravviene la riflessione e allora voglio dire che ogni tanto c’è un dibattito sul ricorso all’uso della tortura da impiegare magari solo in casi eccezionali, “se c’è il terrorista con la bomba che vuol far saltare in aria una scuola”. Questi discorsi che hanno la pretesa di essere realisti sono invece molto pericolosi. Guai a cedere alla tentazione di cominciare a contrattare. Ci deve essere un tabù della tortura. Non deve esistere, non va fatta. Questo ci impone di lottare contro di essa concretamente, al di là delle parole. In Italia è arrivato il momento, perché non è mai troppo tardi, di approvare una legge contro il reato di tortura.
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Una lettera all’albo degli avvocati di Napoli
13) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
14) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
15) La sentenza esistente
16) Le torture su Sandro Padula, 1982
17) La prima parte del testo di Enrico Triaca
18) Seconda parte del testo di Triaca
19) L’interrogazione parlamentare presentata da Rita Bernardini
20) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
21) Due firme importanti: Adriano Sofri e Pier Vittorio Buffa
22) Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto
23) L’interrogazione parlamentare cade nel vuoto
24) L’intervista mia e di Paolo Persichetti a Pier Vittorio Buffa
25) Cercavano Dozier nella vagina di una brigatista
Cercavano Dozier nella vagina di una brigatista
AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI
“Dopo qualche giorno l’interrogatorio decisivo che porterà alla liberazione di Dozier, quello dei br Ruggero Volinia e della sua compagna, Elisabetta Arcangeli.
Io sono fuori per degli arresti e quando rientro in questura vado all’ultimo piano.
Qui, separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia a la Arcangeli.
Li sta interrogando Fioriolli, ma sarei potuto essere io al suo posto, probabilmente mi sarei comportato allo stesso modo.
Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino.
La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe.
Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna.
I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figlie.
E’ uno dei momenti più vergognosi di quei giorni, uno dei momenti in cui dovrei arrestare i miei colleghi e me stesso.”
Salvatore Genova, all’epoca dei fatti Commissario di Polizia, aggregato alla squadra speciale ideata dal Ministero dell’Interno
[in edicola oggi sull’Espresso una lunga intervista a Genova, ricca di nomi e dettagli sui torturatori di Stato, a firma di PierVittorio Buffa]
ALCUNI LINK SULLA TORTURA
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Una lettera all’albo degli avvocati di Napoli
13) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
14) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
15) La sentenza esistente
16) Le torture su Sandro Padula, 1982
17) La prima parte del testo di Enrico Triaca
18) Seconda parte del testo di Triaca
19) L’interrogazione parlamentare presentata da Rita Bernardini
20) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
21) Due firme importanti: Adriano Sofri e Pier Vittorio Buffa
22) Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto
23) L’interrogazione parlamentare cade nel vuoto
24) Intervista al medico Massimo Germani
Ancora sulla TORTURA: Dozier a Roma, a trent’anni da quella che definiscono “l’operazione perfetta”.
Prendo così come sono queste righe dal blog di Paolo, che come la sottoscritta, non smette di focalizzare la sua attenzione e il suo lavoro sulla tortura scientifica e sistematica compiuta dallo stato italiano negli anni che ci raccontano come uno scontro tra uno stato “democratico” e un’organizzazione armata dove ha poi vinto democrazia, stato di diritto e stronzate varie.
A trent’anni e passa dai fatti, oltre ad avere persone ancora detenute (oltretutto anche persone che hanno subito torture) esiste ancora, nell’oblio generale che viviamo, la sola versione ufficiale della democratica lotta dello stato italiano: forse sarebbe ora di dirci la verità.
Oltre che di liberare TUTT@
buona lettura.
Il generale James Lee Dozier, l’ex ufficiale statunitense comandante del settore meridionale della Nato, rapito trent’anni fa dalle Brigate Rosse e liberato il 28 gennaio del 1982 dopo un’inchiesta segnata dal ricorso sistematico alle torture, sta incontrando in questo momento i giornalisti nell’Hotel Milton di Roma, in via Emanuele Filiberto 155. L’appuntamento era fissato per le 17.
«Sarà un’incontro di festa e allo stesso tempo l’occasione per rievocare e conoscere nel dettaglio l’operazione che portò alla sua liberazione», ha detto ieri all’Adnkronos Edoardo Perna, comandante del nucleo dei Nocs che penetrò nell’appartamento di via Pindemonte a Padova liberando il generale della Nato.
«Arrivammo all’appartamento a bordo di un camion, simulando un trasloco. Fu un’operazione perfetta, in pochi secondi riuscimmo a liberare Dozier», ricorda Perna, presente anche lui all’incontro con la stampa.
Ma questo fu solo un dei piccoli fotogrammi dell’operazione che prese inizio, come racconta in questa intervista del 24 giugno 2007 Salvatore Genova, all’epoca dei fatti commissario della Digos aggregato all’Ucigos, con la tortura scientifica di due «fiancheggiatori delle Br», ed in particolare su una donna, Elisabetta Arcangeli, messa in pratica in una chiesa sconsacrata di Verona.
Aggiungiamo solo una piccola postilla al racconto dell’operazione di savataggio del generale fatta da Matteo Indice, grazie alle dichiarazioni di Salvatore Genova e dell’anonimo funzionario, che poi – recentemente – si è scoperto essere Nicola Ciocia, alias De Tormentis, allora in forza all’Ucigos col grado di primo dirigente: sembra che su quei 100 milioni che un’altro importante funzionario dell’Ucigos si recò a ritirare a Roma venne fatta la cresta. Agli arrestati che sotto tortura divvennero collaboratori di giustizia fu consegnata la metà della somma presa dal fondo segreto del ministero dell’Interno. Anche la ragion di Stato ha il suo prezzo!
Matteo Indice
Il Secolo XIX, 24 giugno 2007, pagina 2
La soffiata decisiva per la liberazione del generale americano James Lee Dozier, vicecapo della Nato in Italia rapito dalle Br a Verona il 17 dicembre 1981 e liberato a Padova il 28 gennaio 1982 arrivò grazie alla tortura, scientifica,di due fiancheggiatori, messa in pratica in una chiesa sconsacrata a Verona, «un passaggio che impressionò persino la Cia». E dopo la liberazione, almeno 100 milioni delle vecchie lire furono distribuiti “informalmente” fra alcuni “pentiti”, le cui rivelazioni diedero impulso decisivo alla soluzione dell’inchiesta: gli stessi pentiti, ovviamente, non rivelarono mai nulla di preciso sulle sevizie.
È questa la ricostruzione, dettagliata e inedita, raccolta dal Secolo XIX direttamente da due dei funzionari di polizia che parteciparono alle fasi più delicate di quell’operazione.
Di uno, Salvatore Genova (all’epoca commissario della Digos genovese “aggregato” all’Ucigos) abbiamo rivelato nei giorni scorsi l’identità. L’altro l’abbiamo raggiunto a Napoli, ed è il superpoliziotto che guidava saltuariamente “I cinque dell’Ave Maria”, una squadra specializzata in interrogatori violenti. Ne rispettiamo, al momento, la richiesta dell’anonimato. Ma le loro dichiarazioni colmano la lacuna che il sostituto procuratore di Padova Vittorio Borraccetti e il giudice Roberto Aliprandi, presidente della Corte d’Assise che giudicò alcuni agenti incriminati per il pestaggio dei br sequestratori (ma non dei fiancheggiatori, ndr) descrissero nella requisitoria e nella sentenza di primo grado. Rimarcarono che non soltanto i poliziotti imputati compirono le torture, «e comunque non di propria iniziativa ma su ordine di persone più alte in grado». Nell’atto giudiziario venivano citati esplicitamente, quali «autori di un comportamento omissivo», l’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci e Umberto Improta, ai tempi funzionario della stessa divisione e in seguito prefetto di Napoli. «Con loro – rivela oggi l’investigatore anonimo [Nicola Ciocia Ndr], con il quale abbiamo avuto il lungo colloquio riportato a pagina 3 – avevo rapporti costanti, erano informati passo passo di tutte le procedure adottate per risolvere l’emergenza». Da Salvatore Genova arrivano invece le chiarificazioni sulle tappe che segnarono la soluzione del giallo. «Furono messe sotto controllo centinaia di utenze telefoniche, con l’obiettivo di scandagliare l’area dell’eversione. Ascoltavamo di tutto, in particolare le conversazioni di giovani militanti nell’Autonomia operaia. Il centro investigativo era la questura di Verona, dove di tanto in tanto venivano accompagnati i sospetti. Talvolta passavano per le mani di altri uomini in divisa, che usavano ogni sistema pur di farli parlare ». È in questo modo che vengono individuati RuggeroVolinia (il cui nome risulta negli atti dei vari processi) e la sua fidanzata. «Vennero accompagnati in questura – prosegue Genova – e nessuno si aspettava che da quell’uomo potessero arrivare indicazioni tanto importanti».
Non potevano immaginare, sulle prime, di trovarsi davanti “Federico” (questo il suo nome di battaglia), ovvero colui che materialmente, a bordo d’un furgone, trasferì Dozier dalla sua casa di Lungadige Catena a Verona al covo di via Ippolito Pindemonte, a Padova. Aggiunge, Genova: «Un gruppo specializzato si occupò dell’interrogatorio. Separarono Volinia dalla compagna e su di lei ci furono violenze. Io non partecipai all’azione, ma in seguito tacqui davanti ai giudici per proteggere altri funzionari, che mi garantirono avanzamenti di carriera in cambio del silenzio».
È solo la prima parte. «Sentendo le urla disumane della fidanzata, Ruggero Volinia a un certo punto supplicò di fermarsi. E iniziò a fare qualche nome; nulla di eclatante, ma palesava evidentemente una consapevolezza superiore a tanti altri». È lì che entrano in scena, direttamente, “I cinque dell’Ave Maria”. La conferma arriva da Napoli, a distanza di 25 anni, dalla voce del superiore che li guidava. «Io ribadisce il superpoliziotto [Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis] che non è mai stato coinvolto in alcun procedimento mi trovavo a cena in un ristorante con il capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci, che mi disse dell’interrogatorio in corso. Fu deciso allora di trasferire Volinia in una chiesa sconsacrata, un luogo più isolato, e qui ottenemmo indicazioni sensazionali. Anch’io raggiunsi il santuario, insieme ai miei, e lì si usarono “metodi forti”, gli stessi che portarono due fra gli ufficiali della Cia che ci affiancavano ogni giorno, a mettersi le mani nei capelli: “Non credevamo, dissero, che gli italiani arrivassero a un livello di pressione tale”».
L’autista è provato da una giornata infernale e alla fine cede, racconta tutto. «Se vi dicessi dov’è nascosto Dozier?». È la notte fra il 26 e il 27 gennaio, nella chiesa nessuno osa fiatare, a quel punto. E il prosieguo delle operazioni è cronaca nota: il blitz ad opera dei Nocs nella casa di via Pindemonte, dove Dozier era recluso sotto una tenda, e l’arresto dei brigatisti Antonio Savasta, Emilia Libera, Cesare Di Lenardo (colui che fece scattare la prima e circoscritta indagine sulle torture), Giovanni Ciucci e Daniela Frascella. Nei giorni successivi accadono altre cose, che nessuna indagine ha mai svelato con chiarezza. Le chiarifica ancora Salvatore Genova: «Un altro dei funzionari che parteciparono alle fasi finali degli accertamenti, e che assistette alle torture, andò a Roma a prelevare i soldi destinati ad alcuni pentiti, stornati da un fondo segreto destinato a quel tipo di risarcimento». Le stesse cose potrebbe ripetere a breve, davanti ai magistrati veneti che allora si occuparono del caso.
Link da Insorgenze
Torture contro i militanti della lotta armata
Link da Baruda
Della tortura
Anche il Manifesto, quasi per ultimo, si accorge della tortura. Un articolo di Mauro Palma
Ci volevano le righe di Sofri per mobilitare un po’ di penne..una cosa che mette tristezza, vista la fatica fatta su questo argomento,
ma ben venga tutto sulla Tortura..anche dopo trent’anni, tutto contribuisce a togliere dall’oblio un pezzo di storia d’Italia la cui rimozione è palese e collettiva.
Oggi finalmente se ne accorge il Manifesto,che ha fatto in modo di non farlo fino a questo momento …
lo dico così,per pignoleria! L’articolo è firmato da Mauro Palma, ex presidende del comitato europeo contro la tortura, e ve lo posto qui sotto…
Mauro Palma*
il manifesto, 18 Febbraio 2012Quando nell’aprile 2005 le Nazioni unite decisero di istituire uno speciale Rapporteur con il compito di proteggere i diritti umani nella lotta contro il terrorismo internazionale, gli stati europei salutarono positivamente un elemento ulteriore di analisi che si affiancava agli strumenti di controllo già da tempo in vigore, in particolare attraverso l’azione del Comitato per la prevenzione della tortura. Si riaffermò così il principio che nessuna situazione d’eccezione può far derogare dal divieto assoluto di ricorrere alla tortura: inaccettabile sul piano della comune percezione di civiltà giuridica, inammissibile nella simmetria che stabiliscono tra azione dello stato di diritto e pratiche delle organizzazioni criminali, foriera di gravi distorsioni dell’azione di giustizia, tale è la forza verso l’adesione a qualsiasi ipotesi dell’accusa che la sofferenza determina.
Il divieto assoluto era già del resto in convenzioni e patti internazionali su cui i paesi democratici hanno ricostruito la propria legalità ordinamentale dopo le tragedie della prima metà del secolo scorso. L’Italia, spesso inadempiente sul piano degli impegni conseguenti, quali per esempio la previsione dello specifico reato di tortura, ha sempre dichiarato la sua ferma adesione ai principi in essi contenuti. Eppure, solo negli ultimi quindici giorni sono emersi ben tre casi – diversi nel tempo e nella specificità dei corpi di forze dell’ordine che hanno operato – che fanno capire tale distanza.Asti, 2012
Ad Asti, il tribunale ha emesso il 30 gennaio una sentenza in cui, qualificando i maltrattamenti inferti da agenti della polizia penitenziaria nei confronti di due detenuti come «abuso di autorità contro arrestati e detenuti» ha dichiarato prescritto il reato. L’esito non stupisce perché non è il primo in tale direzione; colpisce però la chiarezza con cui il giudice scrive nella sentenza che «i fatti in esame potrebbero agevolmente essere qualificati come tortura» (risparmio ai lettori la descrizione puntuale dei maltrattamenti subiti dai detenuti), ma che il reato non è previsto nel codice e, quindi, il tribunale non può che far ricorso ad altre inadeguate tipologie di reato. Nessun dubbio, quindi, sugli atti commessi e provati in processo, peraltro confermati da intercettazioni di chiacchierate telefoniche tra gli imputati. Ad Asti la tortura è avvenuta, ma non è perseguibile adeguatamenteCalabria, 1976
Dall’altro capo della penisola, in Calabria, la Corte d’Appello tre giorni fa ha assolto, in un processo di revisione, Giuseppe Gulotta dopo ventidue anni di carcere, trascorsi sulla base di un processo centrato sulla testimonianza di un presunto correo, che aveva portato all’incriminazione anche di altri due giovani. Il fatto era del lontano gennaio 1976, Gulotta aveva allora 18 anni, e il processo ha avuto la revisione solo perché un ex brigadiere dei carabinieri, all’epoca in servizio al reparto antiterrorismo di Napoli, ha raccontato quattro anni fa che la testimonianza era stata estorta con tortura. E con torture erano state estorte anche le confessioni dello stesso Gulotta: il sistema doveva essere stato ben convincente (lo stesso ex brigadiere li definisce «metodi persuasivi eccessivi») ed era maturato all’interno dell’Arma nel tentativo d’incastrare esponenti della sinistra – si diceva allora extraparlamentare – nella morte di due carabinieri. La vicenda ha avuto anche un altro esito inquietante: perché il presunto correo, che aveva poi cercato di scagionare gli accusati, venne trovato impiccato in cella in una situazione che definire opaca vuol dire eufemizzare; gli altri due accusati nel frattempo erano riusciti a riparare in Brasile.Il caso «De Tormentis», 1978
Mercoledì scorso, la ricerca di scavare in casi non risolti che viene condotta da Chi l’ha visto? ha portato nella calma atmosfera serale delle famiglie la drammatica e torbida vicenda di gruppi speciali che operavano gli interrogatori verso la fine degli anni Settanta di appartenenti o simpatizzanti della lotta armata. Enrico Triaca ha raccontato la sua storia e le torture subite nel maggio 1978, dopo il suo arresto in una tipografia romana come fiancheggiatore delle Br: le torture vennero inflitte non da un agitato poliziotto a cui la situazione sfuggì di controllo ma da un gruppetto all’uopo predisposto, coordinato da questo signore delle tenebre che veniva nominato con il nickname «De tormentis», osceno come il suo operare.
Triaca, sparito per una ventina di giorni dopo il suo arresto, aveva denunciato immediatamente le torture subite, ma il giorno successivo alla denuncia aveva ricevuto il mandato di cattura per calunnia – l’allora capo dell’ufficio istruzione Achille Gallucci era un tipo veloce – e la conseguente condanna. Sarebbe una bella occasione la riapertura del processo per calunnia, ora che si sa chi si cela dietro quel nickname. Si sa che questi si definisce un nobile servo dello stato, che non nega ma inserisce il tutto in una sorta di necessitata situazione. Egli, sia pure con qualche successivo passo indietro, conferma. Così come già qualche anno fa un altro superpoliziotto, Salvatore Genova, in un’intervista al Secolo XIX, aveva confermato che torture erano state inflitte alle persone arrestate nell’ambito dell’indagine sul sequestro Dozier, operato in Veneto dalle Br qualche anno dopo. Allora Genova era stato indicato come oggetto di calunnia, qualcuno (il Partito Socialdemocratico, strano esito dei nomi) gli aveva dato l’immediato salvacondotto della candidatura in Parlamento, e anche se in quel caso un’inchiesta aveva, contrariamente al solito, accertato fatti e responsabilità, nessuno aveva pagato; anche perché il reato che non c’è oggi non c’era ovviamente neppure allora. Ma, il tutto era stato sempre riportato al caso isolato, alla sbavatura in un contesto in cui si affermava e si ripeteva che la lotta armata era stata affrontata e sconfitta senza mai debordare dal binario del rigoroso rispetto della legalità.
Questo riandare indietro di qualche anno, dal caso Dozier al caso Moro, e ritrovare stesse pratiche, stessi nomi, un gruppetto all’uopo utilizzato – «prestato» alla bisogna da Napoli al nord – ben noto a chi aveva allora alte responsabilità, dà un’altra luce al tutto.La tortura è una pratica «sistemica»
Del resto i tre fatti riportati, proprio perché hanno diverse determinazioni di territorio, di tempi in cui sono avvenute, di corpi che hanno operato, forniscono uno scenario inquietante nel rapporto che il nostro paese ha con la tortura: chi ha pratica di ricerca scientifica o sociale sa che l’ampiezza di più parametri fa passare la valutazione di quanto osservato da «episodico» a «sistemico» e cambia quindi la modalità con cui valutare il fenomeno. Interroga per esempio, in questo caso, sulle culture formative di chi opera in nome dello stato, sulle coperture che vengono offerte, sull’assenza infine, da parte delle forze politiche e culturali del paese, di una riflessione più ampia su come questi fatti siano indicatori della qualità della democrazia.
L’atteggiamento della loro negazione o della loro riduzione a fatti marginali è di fatto complice del loro perpetuarsi e dell’affermarsi implicito di un principio autoritario come costruttore dell’aggregato sociale a totale detrimento dello stato di diritto.
Per questo va rifiutata l’impostazione che da sempre alcuni politici e alcuni procuratori hanno avuto nell’affermare senza velo di dubbio che l’Italia, anche in anni drammatici, non ha operato alcuna rottura della legalità: per questo già trent’anni fa alcuni di noi – penso all’esperienza della rivista Antigone che uscì come supplemento a questo giornale – avviarono una serrata critica alla logica e alla cultura, oltre che alle pratiche, di quella che allora era definita «legislazione d’emergenza».
Spataro, Battisti e la magistratura
Anche recentemente – esattamente un anno fa, il 19 febbraio, in occasione del dibattito attorno alla estradibilità di Battisti – il procuratore Spataro si fece carico di riaffermare su queste pagine che «l’Italia non ha conosciuto derive antidemocratiche nella lotta al terrorismo» e che «è falso che l’Italia e il suo sistema giudiziario non siano stati in grado di garantire i diritti delle persone accusate di terrorismo negli anni di piombo». Oggi, credo, che tali asserzioni, figlie della negazione della politicità del fenomeno di allora, debbano essere riviste.
Perché non è possibile che ciò che avveniva e avviene nel segreto non sia noto a chi poi interroga un fermato o lo visita in cella. Non era possibile allora e non è possibile nei casi di maltrattamento di oggi.
Il tribunale di Asti, per esempio, è severo con il direttore di quel carcere, le cui dichiarazioni sono definite a tratti «inverosimili». E il magistrato che raccolse le testimonianze accusatrici di Gulotta come indagò sulle modalità con cui esse erano state ottenute? Così come i magistrati che videro Triaca e ascoltarono le sue affermazioni, non appena ricomparso dai giorni opachi, quale azione svolsero per comprenderne la fondatezza?
La responsabilità, almeno in senso lato, non è solo di chi opera, ma anche di chi non vede e ancor più di chi non vuole vedere. Perché la negazione dell’esistenza di un problema non aiuta certamente a rimuovere ciò che lo ha determinato e apre inoltre la possibilità di mettere sotto una luce sinistra ogni altra operazione, anche quelle di chi – fortunatamente la larga maggioranza – ha agito e agisce nella piena correttezza.
In un articolo di ieri su Repubblica, Adriano Sofri ricordava come molte di queste storie fossero note, almeno sfogliando i rapporti per esempio di Amnesty o anche le stesse denunce avvenute in Parlamento. È vero, ma credo che tra un «io so» detto secondo la pasoliniana memoria e una esibita dichiarazione da parte di chi in tal senso operò, ci sia una distinzione sostanziale: una distinzione tale da rendere inaccettabile il silenzio o il perdurare in una logica che nulla è accaduto e nulla accada.
Oggi il continuare a negare il problema non aiuta a chiudere il passato in modo politicamente ed eticamente accettabile e utile, né a capire quali antidoti assumere per il suo non perpetuarsi.* Fino allo scorso dicembre presidende del comitato europeo contro la tortura
PER UNA PANORAMICA SULLA TORTURA QUI UNA CARRELLATA DI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Enrico Triaca
17) Seconda parte del testo di Triaca
18) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
19) Due firme importanti sulla Tortura
Due firme importanti, sulla tortura degli anni ’70 / ’80
“Dopo il Corriere della sera anche sulle pagine di Repubblica, il quotidiano di tutte le emergenze e fermezze nazionali, del più feroce rigor mortis, sostenitore imperterrito di polizia e magistratura, grazie ad Adriano Sofri si parla delle torture impiegate per contrastare la lotta armata degli anni 70 e inizio 80, ma non solo. Il muro del silenzio comincia lentamente a mostrare le sue crepe”
dal blog Insorgenze (dove potete leggere interamente l’articolo di Sofri)
Pier Vittorio Buffa, il giornalista del gruppo Espresso intervistato da me e Paolo Persichetti sul tema delle torture, oggi, dopo Adriano Sofri, apre il suo blog per tornare, dopo trent’anni a scrivere di torture.
La sua storia è raccontata in questo blog, e vi consiglio di leggerla:
– L’arresto di Pier Vittorio Buffa
– Intervista a Pier Vittorio Buffa
Ecco il testo di Buffa, comparso oggi sulle pagine del suo blog :
Non avrei pensato di tornare a parlare di una storia vecchia di trent’anni se stamattina non vi avesse fatto esplicito riferimento, in un articolo per Repubblica, Adriano Sofri.
Nel 1982 Luca Villoresi, di Repubblica, e io, che lavoravo all’Espresso, venimmo arrestati a Venezia per aver denunciato le torture ai brigatisti che avevano rapito il generale americano James Lee Dozier. In rete c’è il mio articolo di allora e una breve sintesi della vicenda.
Andare in prigione, anche se giornalisti con alle spalle giornali come Repubblica e L’Espresso, non e’ gradevole. Lacera dentro, lascia il segno, cambia qualcosa in te, per sempre.
Quello che però, personalmente, mi ferì forse più delle foto con i ferri ai polsi e del rumore del cancello che si richiude alle spalle, fu l’essere implicitamente, e anche esplicitamente, accusato di aver fatto, con quell’articolo, il gioco dei terroristi. Il clima di quei giorni lo sintetizza bene Sofri riportando un passaggio dell’intervento di Leonardo Sciascia in parlamento.
Oggi, dopo trent’anni, i protagonisti di allora, funzionari di polizia, raccontano la verita’. Confermano che la tortura programmata e’ davvero esistita nel nostro paese. Che l’acqua e il sale non erano l’invenzione di giornalisti fiancheggiatori. Che i poliziotti che denunciarono i loro colleghi e che, per questo, vennero additati come traditori ed emarginati, dicevano solo la verita’.
A me resta l’amarezza di non essere riuscito, allora, a far arrivare i responsabili di fronte a un giudice.
Villoresi e io, semplici e giovani cronisti, arrivammo alla verità con un paio di telefonate alle persone giuste e qualche incontro semiclandestino. I magistrati e i capi di quei funzionari avrebbero potuto fare molto di più e meglio per scoprire cosa accadeva nei distretti di polizia e punire i responsabili. Ma non fecero nulla. Anzi, negarono con forza le evidenze.
Resta però anche un pizzico di soddisfazione che non deve restare solo mia, ed è per condividerla che ho scritto questo post. Oggi ci sono le prove che due cronisti, su questa brutta storia, raccontarono la verità. E che sia davvero acclarata con ben trent’anni di ritardo dimostra solo che della verità non bisogna avere paura. Va cercata, documentata, scritta.
E questo è il semplice ma difficile mestiere del cronista.
PER UNA PANORAMICA SULLA TORTURA QUI UNA CARRELLATA DI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Enrico Triaca
17) Seconda parte del testo di Triaca
18) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
19) Due firme importanti: Adriano Sofri e Pier Vittorio Buffa
20) Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto
Enrico Triaca scrive ancora al suo torturatore: l’avvocato Nicola Ciocia, conosciuto come professor De Tormentis, uomo di Stato
Da INSORGENZE, il blog di Paolo Persichetti.
Da un «combattente» come lei mi sarei aspettato un gesto “Etico” dell’ultim’ora: «Eccomi qua sono io», e invece niente, ha aspettato fino alla fine nascosto nella sua tana, ha aspettato che la stanassero come un coniglio tremolante ed ora ci racconta che nulla è vero. Dottor Jekyll e Mister Hyde, da latitante rivendica le sue «eroiche gesta» e ora che la sua identità è evidente piagnucola la sua innocenza, la sua correttezza, ci vuole impietosire con la sua cagionevole salute.
Non è dignitoso per funzionario dimostrare che solo in anonimato sa assumersi le proprie responsabilità, che sa solo vivere nell’ombra. Purtroppo nessuno le ha imposto nulla «Professore»; tutto questo casino lo ha combinato lei di sua spontanea volontà rilasciando interviste.
Stia tranquillo «Professore» non le succederà nulla, i reati sono tutti prescritti, il suo Stato continuerà a difenderla. Lo faccia un gesto dignitoso per una volta nella sua vita giunta agli sgoccioli, non ha nulla da perdere, non la sua carriera ormai conclusa, non il suo nome ormai noto.
Io da parte mia le assicuro che non la morderò, non la guarderò con rancore, «Professore», lei mi è del tutto indifferente. Qui non si tratta di trovare un colpevole, di capire chi è il macellaio e chi la vittima, ma di ripristinare una verità Storica, e questo, caro «Professore», dovrebbe essere il suo imperativo come funzionario di Stato che ha giurato sulla Costituzione. Non lasci questa terra da vigliacco. Sono altri i silenzi che fanno rumore, sono quelli di chi le ha dato gli ordini, sono quelli di chi in silenzio, aqquattati nell’ombra aspettano che passi la bufera parlando di Democrazia, Costituzioni e Stato di Diritto.
Il Terroristà sarò sempre io, comunque vada.
“Noi ci sedemmo dalla parte del torto perché gli altri posti erano tutti occupati”
Bertolt Brecht
(E i culi di pietra del potere sono pesanti da scalzare N.d R.)
13 febbraio 2012
Saluti, Enrico Triaca
ELENCO DEI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Enrico Triaca
17) Seconda parte del testo di Triaca
18) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
Cosa accomuna Marcello Basili, pentito della lotta armata e oggi docente universitario, a Nicola Ciocia (alias professor De Tormentis), ex funzionario dell’Ucigos torturatore di brigatisti?
DAL BLOG INSORGENZE di Paolo Persichetti
mercoledì 1 febbraio 2012
La voglia d’oblio. Il tentativo di restare anonimi, di nascondersi tra le rughe del passato sperando di poter cancellare la propria storia. A Marcello Basili, oggi professore associato di Economia politica presso l’Università di Siena, il passato pesa come un macigno.
Nel 1982 fu arrestato per appartenenza alle Brigate rosse, brigata di Torre spaccata. Non attese molto per pentirsi. Vestì subito i panni del collaboratore di giustizia e da bravo «ravveduto» si adoperò nell’arte dell’autocritica degli altri, scaricando sui suoi coimputati accuse e chiamate di correo. Mentre parlava molti dei suoi ex compagni venivano torturati, con le stesse modalità impiegate da quel Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, capo di una squadra (i cinque dell’Ave Maria) specializzata negli interrogatori con l’acqua e sale, la tecnica del waterboarding impiegata per estorcere dichiarazioni.
Il pentito che vuole farsi dimenticare
Scrive Giovanni Bianconi sul Corriere della sera di oggi, 1° febbraio, che Basili ha chiesto attraverso il suo avvocato che il suo passato di militante della lotta armata sia cancellato dagli archivi telematici, invocando la legge sulla privacy e il «diritto all’oblio» per «non vedere incrinata o distrutta la propria riconquistata considerazione sociale».
Questione seria quella del diritto all’oblio che avrebbe meritato tutt’altro dibattito ma che appare del tutto inappropriata in casi come quello di Marcello Basili o di Nicola Ciocia.
Sempre secondo quanto rivela il Corriere, Basili si è rivolto al Centro di documentazione della Fondazione Flamigni intimando di eliminare il suo nome dagli indici e comunicando di opporsi «al trattamento dei dati» connessi ai suoi trascorsi sovversivi. Precedenti che, sostiene sempre l’insegnante universitario, «appartengono ormai al passato, sono già stati resi noti all’epoca e hanno perso quel carattere di attualità che ne potrebbe giustificare l’ulteriore pubblicazione».
A dire il vero la Fondazione Flamigni andrebbe stigmatizzata per altre ragioni, essendo il più grande collettore delle teorie del complotto, la più grande banca dati della menzogna storica sulla lotta armata per il comunismo.
Ma torniamo a Basili: se i dati in questione fossero impiegati con uno scopo discriminatorio, il docente dell’università di Siena avrebbe tutte le ragioni per lamentarsene. Tuttavia non sembra, fino a prova contraria, che Basili ne abbia ricevuto fino ad oggi un qualche svantaggio. I reati per cui subì un processo e la condanna prevedevono, per chi non collabora con la giustizia, oltre ad una lunga reclusione in carceri speciali anche l’interdizione automatica dai pubblici uffici una volta terminata la pena.
Basili al contrario, grazie allo status di pentito che gli ha permesso di esportare ogni responsabilità sulle spalle altrui, mandando in galera altri, ha avuto da parte dello Stato un trattamento di tutto favore: una reclusione breve e l’interdizione venuta meno. Circostanze che gli hanno consentito di svolgere una brillante carriera universitaria, mentre i suoi compagni di brigata erano, e in alcuni casi sono tuttora, in carcere.
Certo Basili potrebbe ricordare le tante amnesie e rimozioni che hanno avvolto e avvolgono le biografie dei molti padri della patria, la lunga fila di redenti con militanze giovanili infrequentabili che riempiono i ranghi della prima e della seconda Repubblica, compreso il nostro attuale capo dello Stato. Ma l’essersi buttato pentito, purtroppo per lui, non gli dà comunque il diritto di vantare un posto di prima classe sul carro dei vincitori.
La storia non si imbavaglia e tantomeno si rimuove: si elabora
La richiesta avanzata da Basili, anche se ha qualcosa di abietto, non deve tuttavia sorprendere più di tanto perché resta coerente con quella cultura del ravvedimento contenuta nella legislazione premiale introdotta dallo Stato per fronteggiare i movimenti sociali sovversivi. Nel corso degli anni 80 e 90 pentiti e dissociati ricevettero il mandato di amministrare la memoria degli anni 70, scritta e divulgata attraverso un fiume di delazioni, ricostruzioni ammaestrate e testimoninaze ammansite.
La magistratura, che ha gestito in Italia lo stato di emergenza, si è servita di questo personale fatto di ex militanti ravveduti e collaboranti, trasmettendo loro un irrefrenabile sentimento d’impunità che oggi porta quelli come Basili, o i funzionari di polizia addetti al lavoro sporco come Ciocia, privi del coraggio delle loro idee e delle loro azioni, a pretendere che la storia resti muta, senza traccia del loro passaggio.
Questa richiesta di trasformare un passato pubblico in un fatto privato è la conseguenza anche di quel processo di privatizzazione della giustizia che ha portato nell’ultimo decennio magistratura e sistema politico a delegare, sovraccaricare sulle spalle delle parti civili, la gestione della sanzione penale nei confronti dei prigionieri politici.
Il torturatore di Stato che continua a nascondersi
Esiste un parallelo tra l’atteggiamento di Marcello Basili è il comportamento di Nicola Ciocia, già funzionario dell’Ucigos e capo del gruppo di torturatori che per tutto il 1982 (ma anche prima per sua stessa ammissione, vedi il caso di Enrico Triaca nel maggio 1978 e ancora prima quello di Alberto Buonoconto nel 1975), ha imperversato tra caserme, questure e chiese sconsacrate d’Italia praticando l’acqua e sale contro persone arrestate con imputazioni di banda armata.
Questo signore, ora pensionato settantasettenne, nonostante sia stato chiamato in causa da un suo collega (Salvatore Genova), nonostante diversi articoli e un libro recente che ne hanno raccontato l’attività di seviziatore agli ordini dello Stato, indicandolo sotto l’eteronimo di professor De Tormentis, copertura sotto la quale lui stesso ha riconosciuto a mezzabocca le sevizie commesse, pur non rischiando più nulla sul piano penale non vuole venire allo scoperto.
Recentemente, dopo un esposto inviato all’ordine, il suo nome è scomparso anche dall’albo degli avvocati napoletani (attività a cui si era dedicato dopo aver lasciato il ministero dell’Interno con la qualifica di questore), dove compariva regolarmente fino a poche settimane fa.
Di “Nicola Ciocia-De Tormentis” ci siamo diffusamente occupati in questo blog (per gli approfondimenti rinviamo ai diversi link) e continueremo a farlo ancora. C’è infatti molto da raccontare: dall’organigramma delle tortrure, alla filiera di comando, al decisivo ruolo di copertura svolto dalla magistratura fino ad un illuminate dibattito sull’opportunità del ricorso alla tortura e sulla particolare forma di stato di eccezione che si è avuto in Italia sul finire degli anni 70. Discussione che si è tenuta alcuni anni fa sui maggiori quotidiani italiani.
La vicenda Basili-Ciocia (alias De Tormentis) dimostra come l’Italia abbia dato forma ad un singolare paradosso: alla memoria storica svuotata dei fatti sociali è stata sostituita la memoria giudiziaria; all’oblio penale si è sovrapposto l’oblio dei fatti sociali. Così un decennio di speranze e di lotte è divenuto l’icona del male contemporaneo, un simbolo negativo che cristallizza odii e risentimenti, sofferenze e malintesi.
A riguardo anche un articolo di Davide Steccanella, avvocato del foro di Milano : LEGGI
LINK SULLA TORTURA di questo blog:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Triaca
17) Seconda parte Triaca
La seconda parte del racconto di Enrico Triaca, tappezziere tipografo torturato
Prosegue (dal blog Insorgenze) la testimonianza di Enrico Triaca dopo il racconto delle torture subite nel maggio 1978 da parte di una squadra speciale della polizia diretta da un funzionario dell’Ucigos conosciuto con l’eteronimo “De Tormentis”. «Lo avevamo fatto anche prima… con Triaca», aveva ammesso lo stesso “De Tormentis” nella testimonianza concessa a Nicola Rao, apparsa in, Colpo al cuore: dai pentiti ai “metodi speciali”, come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, Sperling&Kupfer 2011.
«Sono ancora vivo bastardi»
Steve McQueen nel film Papillon
Le manovre per fare di me un pentito
Continuai a restare in isolamento a Rebibbia per altri due, forse tre mesi, dopodiché sono stato messo in socialità con i miei coimputati ma tempo qualche settimana fui nuovamente trasferito a Volterra, sempre in socialità.
Il 27 dicembre del 1979 su La Nazione di Firenze esce un articolo con tanto di foto che, facendo riferimento a «indiscrezioni non smentite provenienti dal palazzo di giustizia», mi attribuisce confessioni fatte ad Achille Gallucci, con tutta una serie di fatti e circostanze che avevano portato la polizia ad arrestare molti militanti delle Brigate Rosse. Il tutto, secondo il giornale, sarebbe avvenuto nel carcere di Fossombrone nel quale, in realtà, non ero mai stato.
Dopo questo articolo venni impacchettato e trasferito. Appena fuori da Volterra il blindato si fermò. Salì un carabiniere in borghese che fece scendere i due militi di scorta e mi tolse gli schiavettoni. Cominciò una tiritera per convincermi a collaborare con i metodi classici dell’intimidazione: «abbiamo saputo che a Volterra volevano ucciderti», mi disse. Gli risposi che non avevo nessuna intenzione di collaborare e che se mi riportavano a Volterra mi facevano un favore. Replicò che mi avrebbero portato in un carcere tranquillo dove non c’erano altri prigionieri politici, così potevo pensare con calma alla proposta che m aveva fatto. Il segnale sarebbe stato la revoca del mandato ai miei avvocati. Lui avrebbe capito e sarebbe venuto subito. Me lo dovetti cibare per tutto il viaggio. Come provavo a tirare fuori le sigarette, lui pronto mi infilava in bocca una delle sue malboro e l’accendeva…….. non ho mai avuto un compagno di viaggio così premuroso. Finalmente arrivammo a Sulmona, dove prima di entrare nel carcere mi salutò facendo risalire sul furgone i due carabinieri della scorta. Finii nuovamente in isolamento. Dopo due, forse tre mesi e varie proteste mie e degli avvocati, fui trasferito in una sezione dove era possibile la socialità, non prima di subire i soliti avvertimenti: «guarda che qui ti ammazzano. Non è uno Speciale, qui la sorveglianza è scarsa, qui non girano coltelli ma spade», e via dicendo. Tempo un mese, mi trasferirono nel carcere speciale di Trani. Pensai che finalmente si erano decisi a mollarmi, ma mi spagliavo di grosso. Dopo due-tre settimane mi trasferirono di nuovo.
Termini Imerese
A Termini Imerese mi ritrovai di nuovo in isolamento. C’erano pochissimi detenuti, il carcere era in ristrutturazione dopo che era stato semidistrutto da una rivolta. Ai miei avvocati dissero che dovevo stare isolato perché ero pericoloso. Secondo loro a Volterra stavo preparando la fuga. In seguito dissero che era per il mio bene perché volevano uccidermi. Capii che qui sarebbe stata lunga, infatti rimasi fino al processo: 2 anni. Volevano farmi arrivare in aula distrutto fisicamente e psicologicamente. Smisi di fumare e cominciai a fare yoga. Dovevo resistere, non dovevo farmi distruggere. Cominciai a pensare che comunque andasse avevo sempre un’ultima arma per sottrarmi all’abuso, alla sopraffazione: il suicidio, ma solo come ultima ratio.
I primi tempi compravo il giornale e lo leggevo tutto, compresi gli annunci mortuari, i numeri di pagina. Poi lentamente non ci riuscivo più, leggevo la prima riga e quando passavo alla seconda non ricordavo più cosa c’era scritto nella prima. Così mi limitavo a leggere i titoli finché alla fine non lo comprai più. Ho cominciato a dormire di giorno e vegliare la notte; l’unico svago era litigare e provocare i secondini. Una volta diedi dello stronzo a un secondino (che si era comportato male) e per dispetto mi lasciavano la luce accesa anche la notte. Tutte le notti mi arrampicavo sugli stipetti e allungando la scopa appiccicavo un pezzo di carta che spalmavo con il dentifricio sulla plafoniera. Il soffitto era alto 5 metri. Le guardie tutte le mattine passavano con la scala e lo toglievano, ed io la notte successiva lo rimettevo…… una goduria.
Dopo un annetto mi chiamò a colloquio un assistente sociale: decisi di andarci per sgranchirmi le gambe e fare un po’ di ginnastica con la lingua. Cominciammo a parlare del più e del meno, poi mi chiese se volevo stare ancora in isolamento. Gli spiegai che non volevo assolutamente starci. Le avevano detto che l’isolamento era una mia scelta, allora le chiesi come mai mi avesse chiamato a colloquio, visto che normalmente non succedeva mai. All’inizio mi diede delle risposte vaghe, poi si sfogò dicendomi che non poteva in così poco tempo capire le persone. Mi confessò quindi che l’avevano mandata per testare la mia diponibilità a parlare con i giudici; gli dissi di riferire che se volevano togliermi dall’isolamento andava bene, altrimenti in quel posto potevo anche morirci e non avevo intenzione di parlare con nessuno di loro, poi tornai in cella.
Per passare il tempo feci una stella a cinque punte sul muro e delle scritte, il giorno dopo ci fu una sfilata di secondini tutti ad ammirare i miei graffiti: guardavano e confabulavano nonostante io abbia una pessima calligrafia. Mi cambiarono di cella e si trattennero dal libretto i soldi per la riverniciatura delle pareti. Nella nuova cella feci la stessa cosa. Questa volta mi chiamò il maresciallo che mi rimprovero dicendo che non si facevano quelle cose perché «le stanze erano tutte pulite e così dovevano restare per gli altri». «Quali stanze?» – risposi, facendogli notare che stavamo in un carcere e non in albergo e che quelle si chiamavano celle. Il maresciallo iniziò a sfogarsi dicendomi che aveva sempre fatto servizio in carceri minorili, che era stato spedito a Termini Imerese per punizione e che non sapeva nulla di queste cose. Pensai che fare da psicologo a un maresciallo frustrato era troppo; inforcai la porta e tentai di andarmene ma davanti c’era un appuntato che cerco di bloccarmi. Mi voltai a guardare il maresciallo che gli disse di riportarmi in cella. Intanto il tempo passava, finalmente fui trasferito di nuovo a Rebibbia per il processo, ma sempre rigorosamente in isolamento.
L’aula bunker
Il primo giorno di udienza mi ritrovo nella gabbia dei pentiti, ma ben distante dagli altri e tenuto per la catena dai carabinieri.
Quando entrò la corte cominciai a protestare chiedendo di essere messo con i compagni. Il giudice acconsentì e un carabiniere mi disse: «quelli ti tagliano la testa». Gli risposi di preoccuparsi della sua di testa.
Restava il nodo dell’isolamento, così continuai a protestare con la corte. Dopo un po’ di tempo i giudici accolsero la mia richiesta, visto che oramai il tentativo era fallito. Dal terzo piano del G12, dove ero rinchiuso, scesi al secondo dove c’erano quelli del 7 aprile e alcuni autonomi. Qui la scena fu divertente: quando arrivai davanti al cancello della sezione scoprii che questi detenuti erano tutti liberi nel corridoio, con le celle aperte (condizione di privilegio), ma quando entrai si rintanarono tutti. Fui portato nella cella di Giuliano Naria. Ci salutammo e mi sedetti sul letto, lui mi disse di disfare la zampogna. Gli risposi che era meglio aspettare, infatti dopo 5 minuti arrivò Emilio Vesce a chiamarlo. Dopo un quarto d’ora si presentarono i secondini a dirmi che si erano sbagliati e che dovevo tornare sù. Al terzo piano, dopo un’altro po’ d’isolamento mi misero in cella con altri due compagnucci freschi d’arresto.
Sospeso il processo per il periodo estivo, mi rispedirono a Termini Imerese (sempre rigorosamente in isolamento). Chiamai il direttore e gliene chiesi il motivo e quello mi rispose di stare tranquillo perché aveva già scritto al ministero che in quel carcere non ero gradito. L’isolamento continuò fino alla ripresa del processo, dove protestai di nuovo con la corte. Finalmente mi declassificarono portandomi al secondo piano del G12, dove non c’erano più i signorini del 7 aprile che già facevano gli omogeneizzati nell’apposita area [il riferimento è alla creazione di apposite sezioni carcerarie declassificate, denominate “aree omogenee per la dissociazione dal/del terrorismo” Ndr]. Venni poi a sapere che erano stati loro a pretendere il mio allontanamento dalla sezione perché c’era il rischio che li ammazzassi – sostenevano – in quanto «irriducibile».
Ancora vivo nonostante tutto
Qui finiscono le torture e inizia il tempo della elaborazione degli avvenimenti, lungo il quale finalmente ripercorro gesti e azioni, fino a rendermi conto di aver oltrepassato la linea della pazzia, di aver fatto cose che razionalmente non si farebbero mai per chiedermi come fossi arrivato ad uscirne. Non ho una risposta, l’unica cosa che posso pensare è la forte convizione di ciò che ero e mi consideravo: un militante comunista prigioniero di uno Stato bugiardo e vigliacco che ha ancora paura di affrontare i propri fantasmi, che tenta di giustificarsi parlando di «mele marce».
La consapevolezza che i miei compagni mi credevano e non hanno avuto dubbi.
Ma io so delle torture degli anni 70 e 80,
io so della mattanza di Bolzaneto,
io so dei morti ammazzati nelle caserme e durante l’arresto.
Io so di poliziotti che passeggiano sulla testa di ragazzini alle manifestazioni.
Di tutto ciò, ci sono le prove.
Allora ti volti indietro e ti accorgi che non si tratta di “mele marce” ma che è l’intero frutteto ad essere marcio.
Per questo ancora oggi mi dichiaro prigioniero politico, non più di un potere giudiziario, carcerario, ma di una verità nascosta, insabbiata, di uno Stato che senza merito si fregia del titolo di democratico, di uno Stato reticente, connivente.
2/fine
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Triaca
Enrico Triaca: ecco come mi ha torturato De Tormentis
Un testo che Enrico Triaca, il “tipografo” delle Brigate Rosse torturato, ha inviato al blog di Paolo Persichetti, Insorgenze.
Che non può non esser allegato al lavoro che Polvere da Sparo sta facendo sulla tortura.
Avevo chiesto ad Enrico Triaca, se ne avesse avuto voglia, di raccontare in una intervista le torture subite dopo l’arresto, nel maggio 1978. Enrico mi ha fatto pervenire questa testimonianza scritta di suo pugno dove racconta i due volti della tortura: quella immediata, il supplizio sul corpo, e quella più lunga, sottile, interminabile, realizzata attraverso l’isolamento carcerario in condizioni di detenzioni bestiali. Entrambe finalizzate ad estorcere informazioni, spingere alla delazione, distruggere l’identità politica e personale.
Il racconto è molto lungo per questo sono costretto a suddividerlo in due parti. Non voglio togliere altro spazio a parole che lasciano il segno, aggiungo solo una cosa: “De Tormentis” ha rivelato nel libro di Nicola Rao di essere stato il torturatore di Triaca. Enrico riferisce che questo funzionario di polizia che discuteva da pari a pari con il capo della Digos romana Spinella, dunque aveva un grado elevato, gli si presenta come «compaesano». Enrico Triaca è nato a San Severo, in provincia di Foggia. Il suo torturatore era dunque pugliese come lui. Si tratta di un ulteriore dettaglio che conferma l’identità di “De Tormentis”, nato a Bitonto, provincia di Bari, il 21 gennaio 1934.
“Sono stato arrestato il 17 maggio 1978. Prelevato da casa fui portato in tipografia, in via Pio Foà a Monteverde, per la perquisizione dei locali. Qui appena gli agenti hanno rinvenuto il materiale dell’organizzazione si è precipitata un’orda di poliziotti. A quel punto sono stato portato in questura, a San Vitale, dove venni perquisito come risulta da un verbale firmato da Domenico Spinella (capo della DIGOS). Nel pomeriggio sono stato spostato nella caserma di via Castro Pretorio, dove è cominciato l’interrogatorio. Verso sera è arrivato il “professor De Tormentis” che mi ha indirizzato qualche battuta dicendomi, tra l’altro, che eravamo paesani, dopodiché si appartò con Spinella. I due confabularono qualcosa. Appena finito dissero agli agenti che bastava così e ordinarono di riportarmi in questura. Uscimmo nel cortile dove c’era un furgone. Si aprì lo sportello laterale e si affacciarono due poliziotti con casco antiproiettile e giubbotto suscitando lo stupore degli agenti che mi tenevano, ma “De Tormentis” ordinò di consegnarmi a loro e Spinella confermò l’ordine.
Il trattamento
Fui caricato, mi misero le manette dietro la schiena, mi bendarono steso a terra e il furgone partì. Nessuno parlava, si sentiva solo un leggero bisbiglio e un rumore di armi, caricatori che venivano inseriti, carrelli che mettevano il colpo in canna. Cercavo di capire cosa stava succedendo: “Vogliono farti sparire, eliminarti? Ma sei stato prelevato a casa, portato in tipografia, quindi la cosa e pubblica”. Allora razionalizzavo che la cosa non era possibile. Allora mi chiedevo: “Vogliono pestarti? Ma questo potevano farlo a Castro Pretorio, di certo non sto andando in Questura”. Dopo una mezzora circa, ma calcolare il tempo in certi frangenti è difficile, penso comunque di non essere uscito da Roma, il furgone si fermò. Mi fecero scendere, salimmo delle scale e mi introdussero in una stanza. Lì venni spogliato, mi caricarono su un tavolo e mi legarono alle quattro estremità con le spalle e la testa fuori dal tavolo, accesero la radio con il volume al massimo e cominciò “il trattamento”. Un maiale si sedette sulla pancia, un altro mi sollevò la testa tenendomi il naso otturato, e un altro mi inserì il tubo dell’acqua in bocca.
L’istinto è quello di agitarti nel tentativo di prendere aria ma riesco solo ad ingoiare acqua. Nessuno parla tranne“De Tormentis” che da ordini, decide quando smettere e quando ricominciare, fa le domande. Poi ti viene somministrato qualcosa che si dice dovrebbe essere del sale, ma tu non senti più il sapore, dopo un po’ che tieni la testa penzoloni i muscoli cominciano a farti male e ad ogni movimento ti sembra che il primo tratto della spina dorsale ti venga strappato dalla carne, dai muscoli, dai nervi. Quando l’ossigeno comincia a mancare il corpo si ribella e si manifesta con violenti spasmi, violente contrazioni nel tentativo di prendere ossigeno: uno, due , tre spasmi e “de Tormentis” ordina di smettere. Un paio di respirazioni e si ricomincia: uno, due, tre contrazioni, «Stop»; uno, due, tre, «Stop». Dopo un lasso di tempo indefinito cominci a non reagire più; cerchi di estraniarti ma la testa che viene continuamente mossa e le fitte che ciò ti procura ti costringono a restare lì. All’ennesimo stop entra in campo un’altra voce che dice di smettere, che può bastare. Ne nasce una mezza discussione con “De Tormentis” che invece insiste per continuare, ma l’altra voce ha paura e s’impone e così vengo slegato, messo a sedere sul tavolo. Con l’alcol mi massaggiano braccia e spalle, mi rivestono tra le battute divertite di due maiali. Per accertarsi che la bendatura regga mi fanno uscire sul pianerottolo dove al centro è sistemata una sedia che mi fanno urtare per verificare che non vedo, quindi riscendo una rampa di scale e poi ne imbocchiamo un’altra sulla sinistra, più piccola e meno illuminata che da direttamente nel garage. Qui vengo caricato nel furgone, si sente il rumore di una porta automatica e si parte. Tornati in questura, nel cortile vengo sbendato e consegnato a due guardie che mi portano in cella di sicurezza.“Hanno visto in tanti”
“De Tormentis” ha sparso una quantità di indizi su di sè da essere ormai facilmente identificabile; la voce “fuori campo” presente nella stanza della tortura non è difficile da capire a chi appartenga. Non poteva essere certo un semplice poliziotto ad ordinare a “De Tormentis” di smettere. Nel cortile di Castro Pretorio oltre a Spinella e “De Tormentis” con la sua squadretta c’era una coorte di almeno 10 poliziotti. Erano e sono in molti a sapere.
Come scriveva Pasolini, io so. Io so i nomi dei torturatori, io so i nomi di chi tali abusi ha coperto, ma non ho le prove.Il carcere
Dopo tre giorni di permanenza nelle celle di sicurezza (altro abuso perché le leggi di allora non permettevano di trattenere un detenuto per un tempo così lungo in questura) venni tradotto nel carcere di Civitavecchia, dove sono stato per circa una settimana. 24 ore su 24 chiuso in cella senza possibilità di andare “all’aria”, con un secondino fisso davanti alla cella. Poi trasferito a Sulmona, anche lì 24 su 24 in una cella sotterranea, con una finestrella a sei metri di altezza, una turca, senza lavandino, con un tubo che fuoriusciva sopra la turca da cui sgorgava in continuazione acqua dal quale potevo lavarmi o bere, il letto incementato al centro della cella, e una puzza di muffa che toglieva il respiro……… mi venne in mente Silvio Pellico.
Dopo una settimana circa, sono stato nuovamente trasferito, questa volta a Volterra. Qui ci fu il salto di qualità: la cella era una “normale” cella di isolamento, con letto, bagno, lavandino e due porte una di fronte all’altra. Una di queste portava al cortile dell’aria: una cella un po’ più piccola senza tetto, ma almeno si vedeva la luce del sole, il cielo. Qui riuscii ad avere dopo tanto una sigaretta dal lavorante della sezione, una Stop lunga senza filtro. Me la fumai con un gusto indescrivibile, poi mi sdraiai sul letto perché mi girava tutto. Dopo un’altra settimana circa sono stato nuovamente trasferito, a Rebibbia questa volta, sempre in isolamento. Ricevetti la prima visita degli avvocati, che mi spiegarono come fino a quel momento nessuno era riuscito a sapere dove stavo, che fine avessi fatto (Desaparecidos).
A Rebibbia il passeggio era ampio con tutto intorno vetrate che davano su corridoi interni. Dopo qualche giorno trovai i vetri tappezzati di carta plastificata ed ogni tanto apparivano fessure dalle quali, seppi in seguito, mi spiavano i parenti delle vittime per i confronti.La condanna per calunnia
Ci fu poi l’interrogatorio con il magistrato Achille Gallucci al quale denunciai le torture raccontando come si svolsero i fatti. Lui mi rispose che mi sarei beccato una denuncia per calunnia e così fu. Il giorno dopo, o forse quello ancora, ricevetti il mandato di cattura per calunnia, dopo lunghe e approfondite indagini Sic!.
Venne istruito il processo per direttissima, ed in quella occasione ci inserirono il porto abusivo di armi. Gli avvocati fecero presente che non potevo essere processato per porto d’armi in quel frangente perché i tempi per la direttissima erano scaduti, ma il giudice se ne fregò e andò avanti.
Venne chiamato Domenico Spinella, capo della DIGOS. Il giudice gli chiese il motivo del trasferimento dalla questura a Castro Pretorio, ma lui negò che fossi stato portato in questura ma direttamente a Castro Pretorio. Gli avvocati presentano alla corte un verbale firmato da Domenico Spinella nel quale affermava che alle 12,30 venivo perquisito negli uffici della questura, ma il giudice se ne fregò, non chiese chiarimenti e continuò. Chiese a Spinella i nomi degli agenti di turno alle celle di sicurezza, lui rispose che non poteva ricordarli ma che il giorno dopo avrebbe portato il registro delle presenze. Il giorno dopo venne un agente e disse che il registro delle presenze era sparito, ma il giudice se ne fregò e si convinse, “al di la di ogni ragionevole dubbio”, della mia colpevolezza, così fui condannato.
Tutti i giornali evitarono qualsiasi commento limitandosi a riferire della mia condanna, si distinse L’UNITA’ che ebbe l’ardire di scrivere sul numero dell’8 novembre 1978: «L’avvocato Alfonso Cascone ha invece avanzato apertamente il sospetto che le accuse di Triaca alla polizia fossero false e che il suo assistito avesse mentito poiché – pensando di essere considerato dalle BR un delatore – temeva rappresaglie. Il reato di calunnia, ha detto quindi il legale, sarebbe stato compiuto in “stato di necessità”. Nonostante i dubbi suscitati dal comportamento della polizia durante il processo, dunque, uno scorcio di verità è arrivata inaspettatamente proprio da uno dei difensori del tipografo delle BR».
L’avvocato Alfonso Cascone presentò una denuncia contro il giornale che venne immediatamente archiviata.
CONTINUA…
I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
1982, la magistratura arresta i giornalisti che fanno parlare i testimoni delle torture
INTERVISTA A PIER VITTORIO BUFFA
PierVittorio Buffa e Luca Villoresi, giornalisti dell’Espresso e di Repubblica, finiscono in carcere tra il febbraio e il marzo 1982 per aver ficcato il naso nella vicenda delle torture. Hanno indagato troppo, raccolto testimonianze inopportune, trovato scomodi riscontri. E’ questo un’altro aspetto dimenticato di questa storia: l’attacco alla libertà di stampa, il bavaglio messo sulla bocca di chiunque provava a denunciare quello che stava accadendo. Bisognerebbe tornare a leggere quello che scriveva Luciano Violante in quei giorni, sfogliare le pagine dell’Unità per conoscere le posizioni portate avanti dal fronte più oltranzista dell’emergenzialismo.
La scelta di ricorrere alle torture era stata avallata a livello centrale dal Cis, il comitato interministeriale per la sicurezza del governo: dal primo ministro Spadolini, al ministro dell’Interno Rognoni, al capo della polizia Coronas, a quello Dell’Ugigos De Francisci. Decisione messa in pratica dagli altri dirigenti centrali del ministero dell’Interno, come Improta, De Gregorio, Fioriolli, e poi “De Tormentis”, per arrivare agli operativi come Salvatore Genova. Una vera storia di questa vicenda dovrà prima o poi fissare l’esatto e completo organigramma delle torture.
In questa intervista PierVittorio Buffa ripercorre quei giorni di 30 anni fa. La sua inchiesta seguiva una pista che l’aveva portato a scoprire cosa accadeva nel distretto di polizia di Mestre. Ma nelle stesse ore si torturava anche a Padova, dove in una chiesa sconsacrata De Tormentis insieme alla sua squadra, i cinque dell’Ave Maria, metteva in pratica il suo trattamento.
Leggi speciali, corti di giustizia “specializzate”, giudici popolari avvicinati da partiti politici in accordo con i magistrati, come nel caso del processo di Torino al nucleo storico delle Br, torture, carceri speciali, sono i risvolti di quella particolare forma di stato di eccezione che ha affrontato la guerra, perché guerra è stata anche se opportunamente negata, eufemizzata, ad una compagine sociale che attarverso la lotta armata mirava ad innescare un processo rivoluzionario in Italia
di Valentina Perniciaro e Paolo Persichetti
Il 28 febbraio 1982, sulle pagine dell’Espresso esce un tuo articolo intitolato «Il rullo confessore», nel quale riporti le testimonianze di agenti della Polizia di Stato del distretto di Mestre sui casi di tortura avvenuti ai danni di persone arrestate durante le operazioni anti-terrorismo del mese precedente, nell’ambito delle indagini sul sequestro del generale Usa Dozier. Come sei arrivato ad ottenere queste testimonianze e cosa successe subito dopo?
Fu il direttore, Livio Zanetti, ad affidarmi il servizio e così iniziai a cercare Franco Fedeli, il direttore di Nuova polizia, [giornale che all’epoca sosteneva la necessità di un rinnovamento democratico delle forze di polizia anche attraverso la sindacalizzazione del corpo, Ndr] che mi mise in contatto con un poliziotto del distretto di Mestre, Gianni Trifirò. Difficile dimenticare il nostro incontro: abbiamo preso un appuntamento clandestino, come succede nei film, alle sette e trenta del mattino. Fu lui a raccontarmi quello che aveva visto, tutto quello che poi scrissi nell’articolo. Cercando conferme nei giorni successivi parto per Venezia e arrivo a Riccardo Ambrosini, capitano di polizia alla caserma Santa Chiara di Mestre: lui mi conferma tutto e decido di scrivere.
E’ stata una scelta difficile?
Per me fu un momento molto complicato sul piano professionale e personale. Non mi era assolutamente facile denunciare polizia e carabinieri, anche perché sono figlio di un ufficiale dei carabinieri. L’alto problema che affrontai era quello di essere identificato come un fiancheggiatore. Passai una notte sveglio, poi decisi che non mi interessava: la polizia nel mio paese non deve fare queste cose e decisi che dovevo farlo.
Dovevo farlo perché era stato superato un limite: nella normale attività di polizia ci può essere una colluttazione, un cazzotto in più o un calcio nelle palle, diciamo che può malamente far parte delle regole del gioco. Ma in quell’occasione, e mi vengono ancora i brividi a raccontarlo, dalle testimonianze che avevo raccolto era accaduta una cosa fatta a freddo. La cosa mi diede una sensazione bruttissima e capii che non potevo tacere.
Infatti fu una scelta coraggiosa alla luce di quel che accadde subito dopo l’uscita dell’articolo…
L’articolo esce il 28 febbraio. Il 9 marzo mi chiama a deporre il sostituto procuratore di Venezia Cesare Albanello. Mi interroga e io gli confermo tutto quello che avevo scritto. Quando mi chiede chi mi aveva dato quelle informazioni ovviamente mi rifiuto di rispondere appellandomi al vincolo del segreto professionale e lui mi arresta.
Il giorno dopo Riccardo Ambrosini, Gianni Trifirò e il maresciallo Augusto Fabbri (segretario veneto del Siulp) vanno da Albanello e gli dicono di esser stati loro a parlare. L’11 marzo vengo tradotto in pretura, con tanto di schiavettoni ai polsi, assolto e immediatamente scarcerato. Dopo circa 15 giorni fu arrestato anche Luca Villoresi. Da lì poi partì un dibattito pubblico sul segreto professionale e ci fu il processo da parte di Violante…
Un giovane giornalista che finisce in schiavettoni dentro un carcere. Avevi mai pensato di poter correre un rischio del genere?
No, non mi sarei mai aspettato di finire in carcere e la cosa mi riempì di quelle paure intrise di luoghi comuni.
Come hai vissuto quei giorni da recluso?
Fui messo in una cella da solo e temevo il contatto con gli altri detenuti. Quando da dentro la cella sentii la notizia: “Arrestato il giornalista Buffa, rischia da 6 mesi a 3 anni”, malgrado sapessi dentro di me che non sarebbe durata più di qualche giorno e malgrado sapessi che forse sarebbe stata anche una cosa positiva per la mia immagine professionale, mi si ghiacciarono letteralmente le vene. Ebbi una sorta di attacco di panico. Il giorno dopo uscii all’aria e l’accoglienza dei detenuti mi rilassò e stupì allo stesso tempo: ero un giornalista che aveva raccontato torture compiute dalla polizia e non aveva parlato, quasi un eroe.
Quella esperienza cosa ti ha lasciato?
Quello che trovai lì dentro mi portò ad occuparmi del carcere per molti anni. Ho ho fatto La Grande promessa, il giornale degli ergastolani di Porto azzurro. Ero amico di Cavallero, Rovoletto, Bozzano e c’era anche
Virgilio Floris, quello che era evaso a nuoto da Pianosa con Messina e poi arrestato a Bolzano un anno e mezzo dopo. D’altronde se ci si occupa del carcere è quasi sempre perché in qualche modo ci si è passati: il resto del mondo lo considera estraneo alla propria realtà.
Cosa accadde a Gianni Trifirò e Riccardo Ambrosini dopo la loro testimonianza?
Quelli erano i mesi della nascita del sindacato di Polizia e possiamo dire che nacque col piede sbagliato. Il sindacato non li appoggiò minimamente, anzi si pronunciò contro di loro. C’era chi ammetteva: “si è vero le torture sono sbagliate ma queste cose preferisco dirle tra qualche anno, nel futuro…”. Furono abbandonati e isolati. Ad Ambrosini bruciarono la porta di casa all’interno della caserma Santa Chiara mentre a Trifirò fecero una trappola dentro un nightclub con due ballerine. E questo perché erano poliziotti che non volevano vedere la polizia che ammazzava o che torturava: credevano nella loro divisa e non potevano accettare quei fatti.
La storia di Trifirò poi è particolare e voglio ricordarla: nel 1986 divenne sovrintendente e si fece assegnare proprio a Mestre. Durante un inseguimento con un ragazzo immigrato accadde un incidente: lo seguiva a piedi pistola alla mano e gli partì un colpo mentre correva. Quando si accorse che la pallottola aveva colpito il ragazzo, per di più uccidendolo, si sparò un colpo in testa. Fu agghiacciante.
Enrico Deaglio, in un articolo comparso su Lotta Continua dell’8 febbraio 1982, scriveva di voci sempre più insistenti sull’uso di nuovi metodi di tortura e l’introduzione di sostanze chimiche (il Penthotal, si diceva, per “far parlare”). Aggiungeva inoltre che in una serie di riunioni governative del Cis (Comitato interministeriale per la sicurezza), avvenute tra l’11 e il 13 gennaio precedente, era stata decisa l’introduzione di nuove misure d’emergenza contro il terrorismo. Tra queste, il ricorso alle torture. In base alle testimonianze che hai sentito, credi che in quelle giornate si sia deciso di costituire una struttura predisposta alla tortura?
Questo non lo so e non posso dirlo. Certo la sensazione che non fosse un caso episodico, isolato fu netta. E che alcuni capi avessero deciso l’uso di metodi non ortodossi mi sembra sia diventata una certezza storica. Che poi questo sia stato pianificato sino al punto di costituire un’apposita struttura, nel 1982 non emerse.
LEGGI : L’ARRESTO DI BUFFA E ” IL RULLO COMPRESSORE”
GLI ALTRI LINK SULLA TORTURA IN ITALIA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Commenti recenti