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Lotta armata: quell’ “oltrepassamento” mai avvenuto. Una lettura interessante, tristemente attuale
Ho trovato queste righe incredibili. Le avevo già lette ma rileggerle oggi mi ha riempito di tristezza.
Sono righe sacrosante ma vecchie di 27 anni: son righe di detenuti dell’area BR e son state scritte nel carcere di Rebibbia nel lontano 1987.
Avevo cinque anni.
Parlano di un oltrepassamento che non è mai avvenuto, parlano di un movimento di liberazione dei prigionieri, e quindi di tutti, che mai ha preso piede come sarebbe dovuto essere. Per capirlo basta pensare che la dissociazione (di cui qui si parla) ha creato le basi per avere ancora detenuti politici in carcere (anche tra quelli che firmarono queste righe) dopo più di tre decenni; per capirlo basterebbe guardarsi intorno, calcolatrice alla mano, e farsi due conti.
Li abbiamo lasciati soli tre decenni.
Senza che ci fosse un reale movimento di liberazione. Non l’abbiamo mai fatto, forse ci abbiamo provato, ma non l’abbiamo mai realmente fatto.
Abbiamo compagni, questi compagni, in carcere da trentanni eppure ci ritroviamo a leggere migliaia di pagine (alimentate anche da tanta compagneria) che parlano di complotti, di inflitrazioni internazionali, di Peppo e Peppa su un Honda che sappiamo benissimo quando e perché è passata lì.
Siamo in piena era del complottismo: a leggervi erano tutti busta paga CIA.. eppure sono in cella,
ancora in cella, ancora in cella, ancora in cella, ancora in cella. Anche i torturati: sono ancora lì. E gli esuli di chi si chiede il rientro in queste righe, anche loro, ancora braccati.
Se ancora possono riempirsi la bocca con il complottismo è perché Storia non si è mai potuta fare.
Finchè l’ipoteca penale sarà aperta, finchè saranno ancora in migliaia a rischiar la galera (quel che mi piace chiamare “indotto BR”, vastissimo e mai raccontato) sarà difficile poter raccontare veramente la storia di quei tempi.
Mai si parla delle reti Sip che saltavano perché “c’erano i compagni”, mai si parla della brigata ospedalieri che si occupava dei feriti: la vera storia delle BR è offuscata dall’ipoteca penale e dai deliri complottisti.
E la colpa è tutta nostra.
Avevo 5 anni, ora li ha mio figlio: queste righe bruciano. Bruciano dentro me, dovrebbero bruciare dentro tanti
Buona lettura…
Sulla lotta armata: QUI Sugli anni ’70: QUI
Sulle estradizioni riuscite e tentate: QUI
– Per informazioni sulle tecniche di tortura usate contro i militanti della lotta armata, leggi:
* Ecco come mi torturò De Tormentis
* Il pene della Repubblica
* Le torture su Sandro Padula
– La tortura sulle donne, quel pizzico in più di sadismo a sfondo sessuale:
* Le torture su Paola Maturi e Emanuela Frascella
* Cercando Dozier in vagina
* Chi è Oscar Fioriolli
P.B., R.C., M.I., M.M. (area BR)
“Lettera aperta per un oltrepassamento” Rebibbia, Roma, Primavera 1987“Compagni, negli ultimi tempi sono venuti a maturazione alcuni problemi ai quali occorre dare un seguito ed una risposta. Lasciarli inghiottire dal silenzio equivarrebbe a rafforzare la posizione di coloro che sono attivamente impegnati a mantenere uno status-quo poggiato sulla rimozione delle lotte degli anni ’70, dei soggetti sociali e politici che le hanno fatte vivere, dei nodi irrisolti che esse hanno portato al pettine.
C’è una tesi precisa: è di interesse generale, ma in modo specificio della sinistra di classe, promuovere uno sbocco politico e sociale di quel ciclo di lotte la cui consistenza sociale e politica non è qui da dimostrare.Ciclo che ha ormai esaurito il suo corso, ma che si potrà dire realmente concluso solo quando tutti i compagni che vi hanno dato impulso saranno usciti di prigione. Che vuol dire sbocco politico e sociale?
Oltrepassamento, anzitutto.
E diciamo oltrepassamento proprio per fissare una demarcazione netta con qualsiasi forma di rinnegamento o abiura.
Per rimarcare il discrimine che ci separa da tutti coloro che hanno promosso e praticato il terreno regressivo della dissociazione. Rispetto alla quale non ci si può limitare ad una critica di superficie, essendo necessario rilevare il principio oscurantista su cui esso si fonda.
Vale a dire il rinnegamento sacrificale della propria storia e dalla propria identità in funzione della legittimazione del preteso vincitore.
Senonché nessuno ha mai vinto del tutto e nessuno ha mai perso del tutto in una società come la nostra, in cui, pur essendosi prodotte, anche a seguito delle nostre lotte, radicali trasformazioni, le contraddizioni sociali non sono certo scomparse ed anzi, per una che si smorza molte altre covano sotto la cenere.
Quando non prendono fuoco.
In nome di quale presente, dunque, ci si dovrebbe dissociare dal passato? In nome di quale vincitore?
Oltrepassare vuol dire prendere atto dell’irripetibilità dell’esperienza compiuta. Vale a dire della particolarità del contesto internazionale in cui è maturata, dell’irreversibilità dei suoi presupposti di classe, della specificità delle sue dinamiche, delle modalità singolari in cui si è prodotta.
Vuol dire, insomma, riconoscere una discontinuità tra quella esperienza ed il nostro presente. Ostinarsi ad immaginare il presente come immutabile ripetizione del passato, del resto, non è che un sintomo di sclerosi metafisica assai preoccupante per chi non intende rinunciare a battersi per la trasformazione delle attuali forme di relazione sociale, per il comunismo.
C’è un pericolo, abbiamo detto; che un’esperienza così ricca e polivalente come quella da tutti noi compiuta finisca dispersa nel silenzio o perda ogni contatto con le sensibilità del presente. Affinchè ciò appunto non accada appare necessario affermare con assoluta chiarezza una condizione basilare: la liberazione da ogni ipoteca giudiziaria della nostra e dell’altrui parola.
Bisogna averlo chiaro: ostaggio dei tribunali, essa non può aprirsi ad alcun confronto. Si può davvero credere che la storia degli anni ’70 possa venir ridotta a qualche interrogatorio addomesticato nelle aule di giustizia? No di certo! E per molte ragioni.
Una delle quali è sotto gli occhi di tutti: il più ampio e profondo rivolgimento sociale della storia recente di questo paese eccede di fatto l’istituzione giuridica e non si lascia comprimere negli articoli del codice penale senza obbligarli a una grottesca ed ipertrofica “emergenza”.
Emergenza dalla quale -almeno negli ultimi tempi- perfino le più alte cariche dello Stato dicono di volersi sbarazzare. Voler tradurre in termini di reato le pratiche di lotta, anche armate, degli ultimi ventanni è solo l’estremo tentativo di sottrarsi, ancora una volta, alla sfida della complessità.
Piccola vigliaccheria di chi vorrebbe da noi pentimenti, dissociazioni, autocritiche, solo per dare corpo ai suoi fantasmi e non dover guardare in faccia ciò che è davvero successo, oltre che se stesso in ciò che è davvero successo.
Ma l’Italia degli anni ’70 non è stato un paese in cui tutti, eccezion fatta di noi, mangiavano babà. Men che meno è stata un cogliere fiori la profonda ristrutturazione che a partire dalla metà del decennio, ha sconvolto e radicalmente mutato i processi dell’accumulazione capitalistica. E’ accaduto invece che un sistema politico arcaico, rigido, isterilito da eredità fasciste mai abbandonate, non essendo in grado di far fronte alle spinte innovatrici e di potere di cui furono soggetti ad ondate successive gli studenti, gli operai, i carcerati, i movimenti giovanili in genere e quelli femministi, ha provato a sbarrar loro la strada con ogni mezzo. […] La nostra storia è tutta interna alla critica pratica di quello stato di cose che vastissimi e variegati strati di classe hanno sviluppato in mille forme. E poco serio ci pare il tentativo di utilizzare la storia della guerriglia di questi anni come un attaccapanni su cui tutti possono appendere il risultato dei loro fallimenti ed insuccesi. Troppo comodo a questo punto è anche separare i “buoni” dai “cattivi”, attribuendo a noi il ruolo dei secondi. Casomai con qualche giochetto di parole per intorbidire le acque. Chiamandoci “terroristi” ad esempio. E poi insistere a dividere buoni e cattivi anche al nostro interno: quelli che non hanno commesso reati di sangue da quelli che li hanno commessi.
Come se non si fosse detto mille volte che le responsabilità son state politiche e collettive. Comodo e truffaldoni. Si stratta allora di aver chiaro che, per tutti, noi rappresentiamo una sfida. La sfida ad interrogarsi prima ancora che a interrogare. E comunque a sbloccare la situazione creando le condizioni per una effettiva ripresa di parola. Condizioni politiche naturalmente. Il che vuol dire: giungere alla liberazione degli anni ’70 liberando i prigionieri senza richiedere abiure o giuramenti, e senza discriminare tra loro i “buoni” dai “cattivi”; riaprire agli esuli le frontiere; disinnescare le infinite trappole legislative che in molti modi minacciano decine di migliaia di compagni.
Si tratta anche, infine, di riprendere un discorso unitario con tutte quelle forze che sappiano rispettare le differenze e vogliano promuovere un movimento consapevole delle sue discriminanti -la dissociazione e le forze politiche a cui essa si associa- e dei suoi scopi.
Un movimento ad ampio spettro, entro il quale nessuno cerchi di imporre qualche forma di legittimazione della sua pratica passata o voglia mettere in vetrina il suo attuale operato. Un movimento che impari a far giocare la ricchezza delle sue differenze nella prospettiva della liberazione di tutti i prigionieri e della libertà di tutti.
Fuori i torturati dalle galere: ORA!
Se c’è un motivo per cui da anni scrivo, leggo, ricerco materiale sulla tortura,
è perchè sento la necessità viscerale di buttarli fuori.
In Italia la tortura s’è mossa con mano pesante sui corpi dei militanti della lotta armata, dalla fine degli anni ’70 al 1982, maledetto anno cileno:
elettrodi attaccati al pene, manganelli nelle vagine, capezzoli tirati con pinze, la scientifica e ripetuta tortura dell’acqua e sale,
denominata dagli statunitensi waterboarding, finte esecuzioni e tanto altro…
questo è stato il nosto paese, che ha costruito un apparato specializzato, che correva qua e là per lo stivale ad improntare sale di tortura, tavolacci da boia, preordinati e decisi dai più alti apparati di Stato.
Nomi ormai noti, nomi che hanno fatto la loro splendida e medagliata carriera, fino a giungere, come Oscar Fioriolli a dirigere la Scuola di Formazione per la Tutela dell’Ordine Pubblico: quasi una barzelletta della storia (proprio colui che si occupò di “quel manganello”)
Dicevo,
se c’è un motivo che in tutti questi anni ha alimentato il mio bisogno di inchiestare i loro elettrodi e la catena di quei nomi,
è che ci son dei compagni, dei corpi di uomini e donne,
che vivono ancora reclusi (alcuni senza aver nemmeno mai fruito di un permesso).
Parliamo di una carcerazione iniziata così, con i trattamenti più atroci che l’essere umano possa immaginare, e MAI TERMINATA.
Da più, molto più di trent’anni ormai.
Ho letto molti testi, incontrato medici,
imparato quanto lavoro si deve fare sulle menti e i corpi di chi ha subito la tortura per riuscirsi a riappropriare di sè stessi,
di un minimo di tranquillità nel toccare il proprio corpo,
o nell’abbandonarsi al sonno.
Tonnellate di studi, di pagine, di centri internazionali di riabilitazione per torturati, per uomini e donne che hanno il diritto di riprender la propria esistenza nelle mani, dai più minimi gesti.
NOI IN ITALIA SIAMO ALTRO A QUANTO PARE.
Noi i nostri torturati li teniamo in cella.
Noi i nostri torturati non li curiamo.
Noi non li facciamo accedere a nessun percorso riabilitativo, liberatorio, collettivo.
No.
Li teniamo chiusi, a scontare l’eternità del carcere e di corpi abusati.
Per quello penso sia NECESSARIO parlare di tortura,
conoscere i racconti di chi ha subito il waterboarding dalla voce stessa, rotta, da chi l’ha subito,
per quello dobbiamo seguire puntando tutti i fari a disposizione il tentativo che alcuni avvocati stanno facendo per “riaprire il processo Triaca” che altro non significa che eliminare la condanna (da lui totalmente scontata) per calunnia, datagli quando accusò lo Stato delle torture.
Annullare una condanna, e fare in modo che quei nomi siano scritti nero su bianco.
Nero su bianco, torturatore per torturatore.
Dal blog CONTROMAELSTROM
A Copenhagen, a pochi minuti dal centro città, è in funzione il Rehabilitation Centre far Torture Victims, dove si cerca di ricomporre l’unità corpo-mente in chi ha avuto l’esperienza della tortura. Un centinaio di fisio e psicoterapeuti cerca di restituire innanzitutto un corpo ai propri pazienti:
«Quasi sempre le vittime, per sopportare il dolore, hanno dovuto negare l’esistenza del proprio corpo».
Alcuni pazienti, alla richiesta di rilassare i muscoli, reagiscono sopprimendo completamente ogni capacità di avvertire sensazioni fisiche. Si tratta dello stesso espediente che avevano già adottato in carcere per resistere agli aguzzini, espediente che nel Centro di riabilitazione finisce per ostacolare ogni terapia:
«È stato molto difficile restituire a quegli uomini il senso di possedere un corpo. Di volerlo toccare. Di volerne sentire le reazioni».
Non deve suonare strambo se un capitolo sugli effetti del carcere viene concluso con alcuni cenni sulla tortura. Quest’ultima non ha come semplice oggetto il corpo, ma usa il corpo come tramite materiale che conduce alla distruzione della psiche. Non ha come obiettivo quello di costringere il detenuto alla confessione, ma quello di annichilirlo, negarne sensibilità e qualità umane.
La tortura rappresenta una forma di antiterapia: mira a spezzare l’unità della persona. Ma come mai non suscita poi tanta indignazione? Forse perché viene avvertita come una pratica ortodossa in un mondo dove manipolazione, correzionalità di massa e terapia per normali costituiscono prassi quotidiana. Non viviamo nell’era che ha sostituito il maquillage con la protesi, nell’era della chirurgia estetica, della manipolazione dell’aspetto, dell’intelligenza, dei geni? Distruzione e manipolazione stanno a tortura e carcere come in una equazione a variabili incrociate.
Il carcere, nella migliore delle ipotesi è chirurgia morale che, nelle parole di Nietzsche, non può migliorare l’uomo, può ammansirlo; ci sarebbe da temere se rendesse vendicativi, malvagi, «ma fortunatamente il più delle volte rende stupidi».
Lévi-Strauss, nel classificare i diversi principi ispiratori della sanzione, considera da un lato le società che ingeriscono il corpo del deviante, dall’altro quelle che lo espellono, lo vomitano. Nel nostro contesto non vi è né antropofagia né il suo contrario, antropoemia, ma ortopedia, correzione del corpo e della mente attraverso la loro separazione. Gli operatori dell’istituto di Copenhagen ne sono consapevoli: compiono un lavoro di restauro, cercando di riunire con la dolcezza le due entità separate dall’afflizione.
Da Il carcere immateriale di Ermanno Gallo e Vincenzo Ruggiero, Edizioni Sonda, 1989, pagg. 103-137.
LINK:
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis
Basta: Triaca,torturato da “De Tormentis”, richiede la revisione del processo. Ora non possono più far finta di niente
Dal blog Insorgenze
Dopo le ammissioni di Nicola Ciocia, il funzionario di polizia che lo torturò, e la testimonianza dell’allora commissario Salvatore Genova, Enrico Triaca chiede la revisione del processo che portò alla sua condanna per calunnia. L’istanza depositata dagli avvocati Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo davanti alla corte d’appello di Perugia non mira soltanto all’annullamento del processo farsa che finì con una condanna per calunnia ad un anno e quattro mesi di carcere, che si aggiunse a quella per appartenenza alle Brigate rosse ed in un primo momento anche per il sequestro Moro. L’obiettivo è quello di fare luce sull’esistenza di un apparato di polizia parallelo che con il mandato del governo venne messo in piedi per condurre le indagini sulle organizzazioni rivoluzionarie armate ricorrendo alla tortura
di Marco Grasso e Matteo Indice
Il Secolo XIX 12 dicembre 2012
Per piegare il terrorismo lo Stato italiano fece ricorso alla tortura. Un’accusa che allora, quando a lanciarla era Enrico Triaca, tipografo delle Br coinvolto nel sequestro Moro, finì con una condanna per calunnia. Era il 1978. Oggi, a trentaquattro anni di distanza, l’ex brigatista chiede la revisione del processo: «Era tutto vero». Un atto che potrebbe riaprire una delle pagine più oscure degli anni di Piombo: l’attività di alcuni corpi speciali, che agivano sotto copertura, conosciuti come “I cinque dell’Ave Maria” e “I vendicatori della notte”.
A confermare l’esistenza di un nucleo “parallelo” all’interno della polizia, nel corso degli anni, sono stati alcuni ex funzionari. Ne parlò Salvatore Genova, superinvestigatore che nel gennaio del 1982 liberò il generale americano James Lee Dozier, prigioniero delle Brigate Rosse. Poi anche Nicola Ciocia, anche lui ex poliziotto, che in quelle missioni speciali si celava dietro allo pseudonimo “Professor De Tormentis”. Ciocia, convinto che il fine giustificasse in mezzi («era per il bene dell’Italia»), raccontò la sua verità in un’intervista al Secolo XIX. Tra le rivelazioni anche quella di aver praticato ciò che allora veniva chiamato il «trattamento dell’acqua e sale». Una forma di interrogatorio divenuta famosa in tutto il mondo dopo la guerra in Iraq come waterboarding, tortura che simula l’annegamento del detenuto.
Quelli che fino a ieri erano frammenti sconnessi, adesso sono i pezzi di un mosaico coerente. A rimetterli insieme è una corposa indagine difensiva condotta da Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo, avvocati di Triaca, e presentata alla Corte d’Appello di Perugia. In gioco non c’è solo l’annullamento di un processo, finito con una condanna a un anno e quattro mesi di carcere, arrivata dopo quella per banda armata.
L’obiettivo dichiarato del ricorso è quello di far luce su una delle pagine più oscure del dopoguerra italiano: «È molto facile indignarsi e criticare la tortura quando viene praticata in altri paesi – spiegano – È molto facile zittire con una condanna per calunnia, chi ha denunciato di essere torturato. È difficile, anzi, impossibile, affrontare la propria cattiva coscienza anche se appartiene al passato».
A descrivere il waterboarding è lo stesso Triaca, al blog Insorgenze, punto di riferimento della sinistra più estrema: «Fui prelevato dalla questura, bendato e caricato su un furgone. Mi introdussero in una stanza, mi spogliarono e mi legarono alle quattro estremità di un tavolo, con la testa fuori. Qui, accesa la radio al massimo, iniziò il “trattamento”. L’istinto è quello di agitarti nel tentativo di prendere aria, ma riesco solo a ingoiare acqua. “De Tormentis” dava gli ordini. Dopo un po’ che tieni la testa a penzoloni i muscoli cominciano a farti male e a ogni movimento ti sembra che il primo tratto della spina dorsale ti venga strappato dalla carne».
L’esistenza di una «struttura organizzata» emerse già in un’inchiesta della Procura di Padova degli anni Ottanta, che indagò sulle sevizie commesse ad alcuni membri delle Br, senza riuscire a individuarne gli autori. A colmare quel vuoto, nel 2007, è il capo della squadra, Nicola Ciocia: «I metodi forti sono stati usati, in emergenza e sempre dopo aver avuto la certezza oggettiva di trovarsi davanti il reo, le cui rivelazioni sarebbero state decisive per salvare delle vite. Ammesso, e assolutamente non concesso, che ci si debba arrivare, la tortura – se così si può definire – è l’unico modo in alcuni casi».
La vicenda è stata anche oggetto di un’interpellanza parlamentare, presentata dalla deputata radicale Rita Bernardini. A rispondere a nome del governo, notano però i difensori di Triaca, si è presentato Carlo De Stefano, sottosegretario agli Interni, all’epoca dei fatti «uno dei poliziotti che parteciparono al suo arresto».
Per più informazioni a riguardo (su De Tormentis ed Enrico Triaca), da questo blog:
– Il pene della Repubblica
– Ma chi è il professor “De Tormentis”?
– Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
– De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
– Una lettera all’albo degli avvocati di Napoli
– Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
– La sentenza esistente
–Seconda parte del testo di Triaca
– L’interrogazione parlamentare presentata da Rita Bernardini
– ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
– Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto
– L’interrogazione parlamentare cade nel vuoto
De Tormentis e le torture: l’interrogazione parlamentare cade nel vuoto. Strano eh?
Si torna, e sarà dura smettere di farlo, a parlare di torture.
Di scientifiche sevizie di stato compiute sui corpi dei prigionieri politici italiani degli anni ’70 e ’80.
Dopo il libro di Nicola Rao questo blog, insieme al puntiglioso lavoro di Paolo Persichetti sul suo e sulle pagine dell’allora esistente quotidiano Liberazione, non abbiamo mai smesso di parlare del misterioso uomo che avrebbe scelto per se stesso lo pseudonimo di De Tormentis. Al punto che anche la Rai e la redazione di “Chi l’ha visto?” si sono accorti di tutto ciò …
Se si è iniziata questa battaglia non era certo per arrivare solo al nome di Nicola Ciocia,
ma per capire da chi e in che modo era partito l’ordine, la carta bianca sulla tortura, sul waterboarding, sugli elettrodi, sulle finte esecuzioni,
sui veri e propri rapimenti degli arrestati.
La parlamentare Rita Bernardini s’è subito mobilitata con i suoi strumenti, chiedendo risposte direttamente al ministero con una interrogazione parlamentare…eheheh, la risposta è appena arrivata e parla da sola sia per le parole usate, sia proprio per il personaggio che s’è adoperato nella risposta,
o “presa per il culo” che dir si voglia.
Vi lascio quindi alle parole di Paolo, nella sua puntigliosa descrizione delle ridicole novità di questa storia che si sono affacciate sui banchi del parlamento italiane: De Tormentis, il fantasma del Viminale
Torture, la risposta evasiva del ministero dell’Interno all’interrogazione presentata dalla deputata radicale Rita Bernardini
di Paolo Persichetti
Il governo, per voce del sottosegretario agli Interni prefetto Carlo De Stefano, ex direttore centrale della Polizia di prevenzione (l’ex Ucigos, quella del “professor De Tormentis” per intenderci) dal 2001 al 2009 e dove ha anche presieduto il Comitato di analisi strategica antiterrorismo, ha liquidato l’interrogazione parlamentare presentata lo scorso dicembre dalla deputata del partito radicale Rita Bernardini sostenendo che dei fatti in questione se ne è già discusso ampiamente durante l’ottava legislatura con «ampi e circostanziati dibattiti parlamentari nonché inchieste giudiziarie».
Inutile tornarci sospra, dunque. «Su tali fatti, pertanto, – ha affermato De Stefano – non è necessario che io indugi anche se una serie di inchieste giornalistiche e iniziative culturali ne stanno riproponendo l’attualità. Un’attualità che mantiene il collegamento con i fatti di allora, in relazione all’operato delle Forze dell’ordine, ora oggetto di uno specifico questito degli On. interroganti».
Peccato che dall’ottava legislatuta ad oggi siano emerse nuove circostanze grazie ad una inchiesta giornalistica condotta nel 2007 da Matteo Indice sul Secolo XIX, poi rilanciate dal libro di Nicola Rao, riprese in una inchiesta apparsa su Liberazione del 13 dicembre 2011 nella quale si tracciava dettagliatamente il profilo professionale e culturale del professor De Tormentis, lasciando chiaramente intendere chi fosse il personaggio che si nascondeva sotto quello pseudonimo e che al momento delle torture era un funzionario di grado elevato dell’Ucigos. Un dirigente delle Forse di polizia perfettamente conosciuto dai vertici politici dell’epoca, come riconobbe Francesco Cossiga (una foto lo ritrae alle spalle del ministro dell’Interno in via Caetani, davanti alla Renault 4 nella quale le Brigate rosse fecero ritrovare il corpo di Aldo Moro). Novità riproposte in una puntata della trasmissione di Rai tre, Chi l’ha visto, dell’8 febbraio scorso che spinsero il Corriere della sera e poi il Corriere del Mezzogiorno ad intervistare nuovamente il “professor De Tormentis” nella sua casa sulle colline del Vomero a Napoli, senza omettere questa volta il nome che ormai cicrolava da tempo sul web: Nicola Ciocia.Il prefetto De Stefano ha pensato di caversela a poco prezzo rivendendo merce scaduta
Il primo dei quesiti posti da Rita Bernardini ai rispettivi ministeri di competenza, Interno e Giustizia, chiedeva di «verificare l’identità e il ruolo svolto all’epoca dei fatti dal funzionario dell’Ucigos conosciuto come “professor De Tormentis”» ed ancora se non si ritenesse opportuno «promuovere, anche mediante la costituzione di una specifica commissione d’inchiesta», ogni utile approfondimento «sull’esistenza, i componenti e l’operato dei due gruppi addetti alla sevizie, ai quali fanno riferimento gli ex funzionari della polizia di Stato citati nelle interviste».
Il sottosegretario De Stefano non solo ha completamente evaso ogni risposta su queste nuove circostanze ma ha addirittura preso in giro la parlamentare radicale, e con essa quei milioni di citadini che si recano regolarmente alle urne confermando la propria fiducia nell’istituzione parlamentare, spacciando per un gesto di cortesia istituzionale la consegna agli atti della Comissione di una scheda riepilogativa, elaborata «in base alle risultanze istruttorie nella disponibilità del Dipartimento della pubblica sicurezza», nella quale si ripropone una sintesi succinta dell’arci-nota inchiesta avviata nel 1982 dal pm di Padova Vittorio Borraccetti e conclusa con il rinvio a giudizio firmato dal giudice istruttore Giovanni Palombarini dell’allora commissario Salvatore Rino Genova (guarda caso unico nome citato dal sottosegretario), di tre agenti dei Nocs e di un ufficiale del reparto Celere, tutti condannati a brevi pene per le torture inflitte a Cesare Di Lenardo.Nel 2004 l’ex commissario Salvatore Genova aveva scritto al capo della polizia chiedendo l’apertura di una commissione d’inchiesta sulle torture
E’ davvero singolare che negli armadi del Dipartimento della pubblica sicurezza il prefetto De Stefano non abbia trovato traccia delle denunce presentate dall’ex commissario della Digos, Salvatore Genova, divenuto nelfrattempo primo dirigente. In una intervista alSecolo XIX del 17 giugno 2007, Genova denunciava che «nonostante ripetute sollecitazioni a fare chiarezza, lettere protocollate e incontri riservatissimi, ci si è ben guardati dall’avviare i doverosi accertamenti». Sul tavolo della sua scrivania – annotava l’intervistatore – «ci sono i carteggi degli ultimi quindici anni con l’ex capo della polizia, Fernando Masone, e con l’attuale numero uno, Gianni De Gennaro. Informative “personali”, “strettamente riservate” nelle quali Salvatore Genova chiede l’istituzione di Commissioni, l’acquisizione di documenti e l’interrogazione di testimoni. Vuole che venga fatta luce su una delle pagine più oscure nella storia della lotta all’eversione».
Di tutto questo nella risposta del sottosegretario non c’è traccia! Singolare omissione, come singolare appare il fatto che l’unico nome citato sia solo quello di Salvatore Genova, che guarda caso è l’unico funzionario che in questi anni ha vuotato il sacco raccontando per filo e per segno quanto i restroscena delle torture, mentre si mantiene il massimo riserbo sugli altri e non si risponde sulla identità di “De Tormentis”. Circostanza che, anche a non voler pensar male, lascia trasparire inevitabilmente l’esistenza di un forte fastidio per le sue rivelazioni di Genova, quasi si trattasse di uno dispetto, per non dire una rappresaglia.
Tutto ciò ha un nome ben preciso: omertà!Se il lupo dice di non aver mai visto l’agnello
A questo punto non si può non ricordare come Carlo De Stefano non sia affatto una figura neutra o di secondo piano. Si tratta di un funzionario che ha realizzato per intero la sua carriera nell’antiterrorismo. Nel 1978, quando era alla digos, fu lui ad arrestare Enrico Triaca, torturato da Nicola Ciocia che lo racconta nel libro di Nicola Rao, e perquisire la tipografia delle Br di via Pio Foa’ a Roma. Si tratta dunque di un personaggio che inevitabilmente è stato a conoscenza di molti dei segreti conservati nelle stanze del Viminale, in quegli uffici che si sono occupati delle inchieste contro la lotta armata. Non foss’altro perché è stato fianco a fianco di tutti i funzionari coinvolti nelle torture.
Vederlo rispondere all’interrogazione depositata dalla deputata Rita Bernardini è stato come sentire il lupo dare spiegazioni sulla scomparsa dell’agnello….
Fino al 1984 le convenzioni internazionali non ponevano limiti alla ricorso alla tortura morale, in caso di ordine pubblico e di tutela del benessere generale di una società democratica
Nonostante l’atteggiamento evasivo e omertoso, nella risposta del sottosegretario De Stefano agli altri questiti posti nell’interrogazione parlamentare sono emersi alcuni dettagli interessanti. Alla domanda se il governo non intendesse «adottare con urgenza misure volte all’introduzione nell’ordinamento italiano del reato di tortura e di specifiche sanzioni al riguardo, in attuazione di quanto ratificato in sede Onu» e se non vi fosse l’intenzione di «assumere iniziative, anche normative, in favore di risarcimenti per le vittime di atti di tortura o violenza da parte di funzionari dello Stato, e per i loro familiari», l’esponente del governo ha ricordato i diversi disegni di legge pendenti in Parlamento e aventi per oggetto l’introduzione nel codice penale civile e militare del reato specifico di tortura. Nulla sulla creazione di una commissione d’inchiesta.
Rivelatore è stato invece l’excursus storico fornito dagli uffici del ministero della Giustizia che hanno ricordato come fino al 1984 a livello internazionale, sia la Convenzione di Roma per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sia la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948 non ponevano divieti all’uso della tortura «morale e in caso di ordine pubblico e di tutela del benessere generale di una società democratica». In sostanza queste convenzioni internazionali vietavano l’uso della tortura contro il nemico esterno, in caso di guerre tra Stati, ma tacevano sul ricorso a torture contro il nemico interno (i cosiddetti “terroristi”) a meno che non si trattasse di Paesi sotto regime dittatoriali. Una logica che se condotta fino alla sue estreme conseguenze sanciva il divieto per le dittature, ritenute una forma di governo illegittimo, di torturare mentre lasciava alle democrazie, ritenute forme di governo legittimo, la possibilità di farlo tranquillamente.
Se ne evince che nel 1982, quando Nicola Ciocia, alias De Tormentis, insieme alla sua squadra di “acquaiuoli”, supportato dagli altri dirigenti dell’Ucigos, Gaspare De Francisci, Umberto Improta & c., sotto l’ordine e la tutela del ministro dell’Interno Virginio Rognoni, torturava durante gli interrogatori le persone sospettate di appartenere a gruppi armati, lo faceva senza violare la normativa interna e internazionale.
E’ quindi questo il messaggio indicibile che tra le righe il sottosegertario De Stefano ha voluto inviare agli interroganti e a chi da mesi sta portando avanti una campagna su questi fatti.
Tuttavia, sul piano strettamente giuridico, dal 1984 prima l’assemblea generale delle Nazioni unite, poi dal 1987 anche il Consiglio d’Europa, adottavano una Convenzione per la prevensione specifica della tortura e dei trattamenti degradanti, in vigore in Italia dall’11 febbraio 1989. In tale ambito, «la tortura al pari del genocidio – ricorda sempre la nota del ministero della Giustiza citata dal De Stefano – è considerata un crimine contro l’umanità dal diritto internazionale», dunque imprescrittibile.
Anche se la nozione di imprescrittibilità non ci ha mai convinto per la sua facilità a prestarsi a regolamenti di conti che fanno del ricorso alla giustizia penale internazionale una forma di prolungamento della guerra e/o della lotta polica con altri mezzi, ci domandiamo come mai i solerti magistrati italiani teorici dell’interventismo più sfrenato, della supplenza e dell’interferenza senza limiti, siano così restii e disattenti.
Ma della complicità della magistratura che con la sua sistematica azione di copertura, che trovò un’unica eccezione nella citata inchiesta di Padova, svolse un decisivo ruolo di ausilio alle torture parleremo in un prossimo articolo.
Per una visione un po’ più completa ecco un po’ di link a riguardo:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Una lettera all’albo degli avvocati di Napoli
13) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
14) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
15) La sentenza esistente
16) Le torture su Sandro Padula, 1982
17) La prima parte del testo di Enrico Triaca
18) Seconda parte del testo di Triaca
19) L’interrogazione parlamentare presentata da Rita Bernardini
20) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
21) Due firme importanti: Adriano Sofri e Pier Vittorio Buffa
22) Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto
Anche il Manifesto, quasi per ultimo, si accorge della tortura. Un articolo di Mauro Palma
Ci volevano le righe di Sofri per mobilitare un po’ di penne..una cosa che mette tristezza, vista la fatica fatta su questo argomento,
ma ben venga tutto sulla Tortura..anche dopo trent’anni, tutto contribuisce a togliere dall’oblio un pezzo di storia d’Italia la cui rimozione è palese e collettiva.
Oggi finalmente se ne accorge il Manifesto,che ha fatto in modo di non farlo fino a questo momento …
lo dico così,per pignoleria! L’articolo è firmato da Mauro Palma, ex presidende del comitato europeo contro la tortura, e ve lo posto qui sotto…
Mauro Palma*
il manifesto, 18 Febbraio 2012Quando nell’aprile 2005 le Nazioni unite decisero di istituire uno speciale Rapporteur con il compito di proteggere i diritti umani nella lotta contro il terrorismo internazionale, gli stati europei salutarono positivamente un elemento ulteriore di analisi che si affiancava agli strumenti di controllo già da tempo in vigore, in particolare attraverso l’azione del Comitato per la prevenzione della tortura. Si riaffermò così il principio che nessuna situazione d’eccezione può far derogare dal divieto assoluto di ricorrere alla tortura: inaccettabile sul piano della comune percezione di civiltà giuridica, inammissibile nella simmetria che stabiliscono tra azione dello stato di diritto e pratiche delle organizzazioni criminali, foriera di gravi distorsioni dell’azione di giustizia, tale è la forza verso l’adesione a qualsiasi ipotesi dell’accusa che la sofferenza determina.
Il divieto assoluto era già del resto in convenzioni e patti internazionali su cui i paesi democratici hanno ricostruito la propria legalità ordinamentale dopo le tragedie della prima metà del secolo scorso. L’Italia, spesso inadempiente sul piano degli impegni conseguenti, quali per esempio la previsione dello specifico reato di tortura, ha sempre dichiarato la sua ferma adesione ai principi in essi contenuti. Eppure, solo negli ultimi quindici giorni sono emersi ben tre casi – diversi nel tempo e nella specificità dei corpi di forze dell’ordine che hanno operato – che fanno capire tale distanza.Asti, 2012
Ad Asti, il tribunale ha emesso il 30 gennaio una sentenza in cui, qualificando i maltrattamenti inferti da agenti della polizia penitenziaria nei confronti di due detenuti come «abuso di autorità contro arrestati e detenuti» ha dichiarato prescritto il reato. L’esito non stupisce perché non è il primo in tale direzione; colpisce però la chiarezza con cui il giudice scrive nella sentenza che «i fatti in esame potrebbero agevolmente essere qualificati come tortura» (risparmio ai lettori la descrizione puntuale dei maltrattamenti subiti dai detenuti), ma che il reato non è previsto nel codice e, quindi, il tribunale non può che far ricorso ad altre inadeguate tipologie di reato. Nessun dubbio, quindi, sugli atti commessi e provati in processo, peraltro confermati da intercettazioni di chiacchierate telefoniche tra gli imputati. Ad Asti la tortura è avvenuta, ma non è perseguibile adeguatamenteCalabria, 1976
Dall’altro capo della penisola, in Calabria, la Corte d’Appello tre giorni fa ha assolto, in un processo di revisione, Giuseppe Gulotta dopo ventidue anni di carcere, trascorsi sulla base di un processo centrato sulla testimonianza di un presunto correo, che aveva portato all’incriminazione anche di altri due giovani. Il fatto era del lontano gennaio 1976, Gulotta aveva allora 18 anni, e il processo ha avuto la revisione solo perché un ex brigadiere dei carabinieri, all’epoca in servizio al reparto antiterrorismo di Napoli, ha raccontato quattro anni fa che la testimonianza era stata estorta con tortura. E con torture erano state estorte anche le confessioni dello stesso Gulotta: il sistema doveva essere stato ben convincente (lo stesso ex brigadiere li definisce «metodi persuasivi eccessivi») ed era maturato all’interno dell’Arma nel tentativo d’incastrare esponenti della sinistra – si diceva allora extraparlamentare – nella morte di due carabinieri. La vicenda ha avuto anche un altro esito inquietante: perché il presunto correo, che aveva poi cercato di scagionare gli accusati, venne trovato impiccato in cella in una situazione che definire opaca vuol dire eufemizzare; gli altri due accusati nel frattempo erano riusciti a riparare in Brasile.Il caso «De Tormentis», 1978
Mercoledì scorso, la ricerca di scavare in casi non risolti che viene condotta da Chi l’ha visto? ha portato nella calma atmosfera serale delle famiglie la drammatica e torbida vicenda di gruppi speciali che operavano gli interrogatori verso la fine degli anni Settanta di appartenenti o simpatizzanti della lotta armata. Enrico Triaca ha raccontato la sua storia e le torture subite nel maggio 1978, dopo il suo arresto in una tipografia romana come fiancheggiatore delle Br: le torture vennero inflitte non da un agitato poliziotto a cui la situazione sfuggì di controllo ma da un gruppetto all’uopo predisposto, coordinato da questo signore delle tenebre che veniva nominato con il nickname «De tormentis», osceno come il suo operare.
Triaca, sparito per una ventina di giorni dopo il suo arresto, aveva denunciato immediatamente le torture subite, ma il giorno successivo alla denuncia aveva ricevuto il mandato di cattura per calunnia – l’allora capo dell’ufficio istruzione Achille Gallucci era un tipo veloce – e la conseguente condanna. Sarebbe una bella occasione la riapertura del processo per calunnia, ora che si sa chi si cela dietro quel nickname. Si sa che questi si definisce un nobile servo dello stato, che non nega ma inserisce il tutto in una sorta di necessitata situazione. Egli, sia pure con qualche successivo passo indietro, conferma. Così come già qualche anno fa un altro superpoliziotto, Salvatore Genova, in un’intervista al Secolo XIX, aveva confermato che torture erano state inflitte alle persone arrestate nell’ambito dell’indagine sul sequestro Dozier, operato in Veneto dalle Br qualche anno dopo. Allora Genova era stato indicato come oggetto di calunnia, qualcuno (il Partito Socialdemocratico, strano esito dei nomi) gli aveva dato l’immediato salvacondotto della candidatura in Parlamento, e anche se in quel caso un’inchiesta aveva, contrariamente al solito, accertato fatti e responsabilità, nessuno aveva pagato; anche perché il reato che non c’è oggi non c’era ovviamente neppure allora. Ma, il tutto era stato sempre riportato al caso isolato, alla sbavatura in un contesto in cui si affermava e si ripeteva che la lotta armata era stata affrontata e sconfitta senza mai debordare dal binario del rigoroso rispetto della legalità.
Questo riandare indietro di qualche anno, dal caso Dozier al caso Moro, e ritrovare stesse pratiche, stessi nomi, un gruppetto all’uopo utilizzato – «prestato» alla bisogna da Napoli al nord – ben noto a chi aveva allora alte responsabilità, dà un’altra luce al tutto.La tortura è una pratica «sistemica»
Del resto i tre fatti riportati, proprio perché hanno diverse determinazioni di territorio, di tempi in cui sono avvenute, di corpi che hanno operato, forniscono uno scenario inquietante nel rapporto che il nostro paese ha con la tortura: chi ha pratica di ricerca scientifica o sociale sa che l’ampiezza di più parametri fa passare la valutazione di quanto osservato da «episodico» a «sistemico» e cambia quindi la modalità con cui valutare il fenomeno. Interroga per esempio, in questo caso, sulle culture formative di chi opera in nome dello stato, sulle coperture che vengono offerte, sull’assenza infine, da parte delle forze politiche e culturali del paese, di una riflessione più ampia su come questi fatti siano indicatori della qualità della democrazia.
L’atteggiamento della loro negazione o della loro riduzione a fatti marginali è di fatto complice del loro perpetuarsi e dell’affermarsi implicito di un principio autoritario come costruttore dell’aggregato sociale a totale detrimento dello stato di diritto.
Per questo va rifiutata l’impostazione che da sempre alcuni politici e alcuni procuratori hanno avuto nell’affermare senza velo di dubbio che l’Italia, anche in anni drammatici, non ha operato alcuna rottura della legalità: per questo già trent’anni fa alcuni di noi – penso all’esperienza della rivista Antigone che uscì come supplemento a questo giornale – avviarono una serrata critica alla logica e alla cultura, oltre che alle pratiche, di quella che allora era definita «legislazione d’emergenza».
Spataro, Battisti e la magistratura
Anche recentemente – esattamente un anno fa, il 19 febbraio, in occasione del dibattito attorno alla estradibilità di Battisti – il procuratore Spataro si fece carico di riaffermare su queste pagine che «l’Italia non ha conosciuto derive antidemocratiche nella lotta al terrorismo» e che «è falso che l’Italia e il suo sistema giudiziario non siano stati in grado di garantire i diritti delle persone accusate di terrorismo negli anni di piombo». Oggi, credo, che tali asserzioni, figlie della negazione della politicità del fenomeno di allora, debbano essere riviste.
Perché non è possibile che ciò che avveniva e avviene nel segreto non sia noto a chi poi interroga un fermato o lo visita in cella. Non era possibile allora e non è possibile nei casi di maltrattamento di oggi.
Il tribunale di Asti, per esempio, è severo con il direttore di quel carcere, le cui dichiarazioni sono definite a tratti «inverosimili». E il magistrato che raccolse le testimonianze accusatrici di Gulotta come indagò sulle modalità con cui esse erano state ottenute? Così come i magistrati che videro Triaca e ascoltarono le sue affermazioni, non appena ricomparso dai giorni opachi, quale azione svolsero per comprenderne la fondatezza?
La responsabilità, almeno in senso lato, non è solo di chi opera, ma anche di chi non vede e ancor più di chi non vuole vedere. Perché la negazione dell’esistenza di un problema non aiuta certamente a rimuovere ciò che lo ha determinato e apre inoltre la possibilità di mettere sotto una luce sinistra ogni altra operazione, anche quelle di chi – fortunatamente la larga maggioranza – ha agito e agisce nella piena correttezza.
In un articolo di ieri su Repubblica, Adriano Sofri ricordava come molte di queste storie fossero note, almeno sfogliando i rapporti per esempio di Amnesty o anche le stesse denunce avvenute in Parlamento. È vero, ma credo che tra un «io so» detto secondo la pasoliniana memoria e una esibita dichiarazione da parte di chi in tal senso operò, ci sia una distinzione sostanziale: una distinzione tale da rendere inaccettabile il silenzio o il perdurare in una logica che nulla è accaduto e nulla accada.
Oggi il continuare a negare il problema non aiuta a chiudere il passato in modo politicamente ed eticamente accettabile e utile, né a capire quali antidoti assumere per il suo non perpetuarsi.* Fino allo scorso dicembre presidende del comitato europeo contro la tortura
PER UNA PANORAMICA SULLA TORTURA QUI UNA CARRELLATA DI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Enrico Triaca
17) Seconda parte del testo di Triaca
18) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
19) Due firme importanti sulla Tortura
Due firme importanti, sulla tortura degli anni ’70 / ’80
“Dopo il Corriere della sera anche sulle pagine di Repubblica, il quotidiano di tutte le emergenze e fermezze nazionali, del più feroce rigor mortis, sostenitore imperterrito di polizia e magistratura, grazie ad Adriano Sofri si parla delle torture impiegate per contrastare la lotta armata degli anni 70 e inizio 80, ma non solo. Il muro del silenzio comincia lentamente a mostrare le sue crepe”
dal blog Insorgenze (dove potete leggere interamente l’articolo di Sofri)
Pier Vittorio Buffa, il giornalista del gruppo Espresso intervistato da me e Paolo Persichetti sul tema delle torture, oggi, dopo Adriano Sofri, apre il suo blog per tornare, dopo trent’anni a scrivere di torture.
La sua storia è raccontata in questo blog, e vi consiglio di leggerla:
– L’arresto di Pier Vittorio Buffa
– Intervista a Pier Vittorio Buffa
Ecco il testo di Buffa, comparso oggi sulle pagine del suo blog :
Non avrei pensato di tornare a parlare di una storia vecchia di trent’anni se stamattina non vi avesse fatto esplicito riferimento, in un articolo per Repubblica, Adriano Sofri.
Nel 1982 Luca Villoresi, di Repubblica, e io, che lavoravo all’Espresso, venimmo arrestati a Venezia per aver denunciato le torture ai brigatisti che avevano rapito il generale americano James Lee Dozier. In rete c’è il mio articolo di allora e una breve sintesi della vicenda.
Andare in prigione, anche se giornalisti con alle spalle giornali come Repubblica e L’Espresso, non e’ gradevole. Lacera dentro, lascia il segno, cambia qualcosa in te, per sempre.
Quello che però, personalmente, mi ferì forse più delle foto con i ferri ai polsi e del rumore del cancello che si richiude alle spalle, fu l’essere implicitamente, e anche esplicitamente, accusato di aver fatto, con quell’articolo, il gioco dei terroristi. Il clima di quei giorni lo sintetizza bene Sofri riportando un passaggio dell’intervento di Leonardo Sciascia in parlamento.
Oggi, dopo trent’anni, i protagonisti di allora, funzionari di polizia, raccontano la verita’. Confermano che la tortura programmata e’ davvero esistita nel nostro paese. Che l’acqua e il sale non erano l’invenzione di giornalisti fiancheggiatori. Che i poliziotti che denunciarono i loro colleghi e che, per questo, vennero additati come traditori ed emarginati, dicevano solo la verita’.
A me resta l’amarezza di non essere riuscito, allora, a far arrivare i responsabili di fronte a un giudice.
Villoresi e io, semplici e giovani cronisti, arrivammo alla verità con un paio di telefonate alle persone giuste e qualche incontro semiclandestino. I magistrati e i capi di quei funzionari avrebbero potuto fare molto di più e meglio per scoprire cosa accadeva nei distretti di polizia e punire i responsabili. Ma non fecero nulla. Anzi, negarono con forza le evidenze.
Resta però anche un pizzico di soddisfazione che non deve restare solo mia, ed è per condividerla che ho scritto questo post. Oggi ci sono le prove che due cronisti, su questa brutta storia, raccontarono la verità. E che sia davvero acclarata con ben trent’anni di ritardo dimostra solo che della verità non bisogna avere paura. Va cercata, documentata, scritta.
E questo è il semplice ma difficile mestiere del cronista.
PER UNA PANORAMICA SULLA TORTURA QUI UNA CARRELLATA DI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Enrico Triaca
17) Seconda parte del testo di Triaca
18) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
19) Due firme importanti: Adriano Sofri e Pier Vittorio Buffa
20) Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto
Enrico Triaca scrive ancora al suo torturatore: l’avvocato Nicola Ciocia, conosciuto come professor De Tormentis, uomo di Stato
Da INSORGENZE, il blog di Paolo Persichetti.
Da un «combattente» come lei mi sarei aspettato un gesto “Etico” dell’ultim’ora: «Eccomi qua sono io», e invece niente, ha aspettato fino alla fine nascosto nella sua tana, ha aspettato che la stanassero come un coniglio tremolante ed ora ci racconta che nulla è vero. Dottor Jekyll e Mister Hyde, da latitante rivendica le sue «eroiche gesta» e ora che la sua identità è evidente piagnucola la sua innocenza, la sua correttezza, ci vuole impietosire con la sua cagionevole salute.
Non è dignitoso per funzionario dimostrare che solo in anonimato sa assumersi le proprie responsabilità, che sa solo vivere nell’ombra. Purtroppo nessuno le ha imposto nulla «Professore»; tutto questo casino lo ha combinato lei di sua spontanea volontà rilasciando interviste.
Stia tranquillo «Professore» non le succederà nulla, i reati sono tutti prescritti, il suo Stato continuerà a difenderla. Lo faccia un gesto dignitoso per una volta nella sua vita giunta agli sgoccioli, non ha nulla da perdere, non la sua carriera ormai conclusa, non il suo nome ormai noto.
Io da parte mia le assicuro che non la morderò, non la guarderò con rancore, «Professore», lei mi è del tutto indifferente. Qui non si tratta di trovare un colpevole, di capire chi è il macellaio e chi la vittima, ma di ripristinare una verità Storica, e questo, caro «Professore», dovrebbe essere il suo imperativo come funzionario di Stato che ha giurato sulla Costituzione. Non lasci questa terra da vigliacco. Sono altri i silenzi che fanno rumore, sono quelli di chi le ha dato gli ordini, sono quelli di chi in silenzio, aqquattati nell’ombra aspettano che passi la bufera parlando di Democrazia, Costituzioni e Stato di Diritto.
Il Terroristà sarò sempre io, comunque vada.
“Noi ci sedemmo dalla parte del torto perché gli altri posti erano tutti occupati”
Bertolt Brecht
(E i culi di pietra del potere sono pesanti da scalzare N.d R.)
13 febbraio 2012
Saluti, Enrico Triaca
ELENCO DEI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Enrico Triaca
17) Seconda parte del testo di Triaca
18) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
La Rai si accorge della tortura in Italia e di De Tormentis
AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI
Anche la Rai si accorge che la lotta alle Brigate Rosse non è stata certo quella di uno stato democratico, ma di uno stato di polizia.
Torturatore.
La trasmissione “Chi l’ha visto?” ieri sera ha avviato un’inchiesta sul professor De Tormentis e la sua squadretta speciale che su mandato del governo Spadolini, agì tra questure e caserme d’Italia per estorcere informazioni alle persone arrestate durante le operazioni contro le Brigate rosse ed altre organizzazioni armate, ricorrendo al waterboarding e ad altre tecniche di tortura e sevizie.
Vedremo come la trasmissione manderà avanti quest’inchiesta visto che nell’intervista a Salvatore Genova (allora Commissario della Digos, oggi questore) sono stati fatti molti nomi poi coperti dai Bip del montaggio.
Vi allego la parte di trasmissione in cui c’è l’intervista ad Enrico Triaca (tipografo delle BR, torturato da De Tormentis) e quella a Genova…
Sotto al video troverete i link, numerosissimi, a tutta quest’inchiesta (solo quelli di questo blog, ma ce ne sarebbero molti altri): come vedete i nomi esistono, e son facilissimi da trovare!
ELENCO DEI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Enrico Triaca
17) Seconda parte del testo di Triaca
La seconda parte del racconto di Enrico Triaca, tappezziere tipografo torturato
Prosegue (dal blog Insorgenze) la testimonianza di Enrico Triaca dopo il racconto delle torture subite nel maggio 1978 da parte di una squadra speciale della polizia diretta da un funzionario dell’Ucigos conosciuto con l’eteronimo “De Tormentis”. «Lo avevamo fatto anche prima… con Triaca», aveva ammesso lo stesso “De Tormentis” nella testimonianza concessa a Nicola Rao, apparsa in, Colpo al cuore: dai pentiti ai “metodi speciali”, come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, Sperling&Kupfer 2011.
«Sono ancora vivo bastardi»
Steve McQueen nel film Papillon
Le manovre per fare di me un pentito
Continuai a restare in isolamento a Rebibbia per altri due, forse tre mesi, dopodiché sono stato messo in socialità con i miei coimputati ma tempo qualche settimana fui nuovamente trasferito a Volterra, sempre in socialità.
Il 27 dicembre del 1979 su La Nazione di Firenze esce un articolo con tanto di foto che, facendo riferimento a «indiscrezioni non smentite provenienti dal palazzo di giustizia», mi attribuisce confessioni fatte ad Achille Gallucci, con tutta una serie di fatti e circostanze che avevano portato la polizia ad arrestare molti militanti delle Brigate Rosse. Il tutto, secondo il giornale, sarebbe avvenuto nel carcere di Fossombrone nel quale, in realtà, non ero mai stato.
Dopo questo articolo venni impacchettato e trasferito. Appena fuori da Volterra il blindato si fermò. Salì un carabiniere in borghese che fece scendere i due militi di scorta e mi tolse gli schiavettoni. Cominciò una tiritera per convincermi a collaborare con i metodi classici dell’intimidazione: «abbiamo saputo che a Volterra volevano ucciderti», mi disse. Gli risposi che non avevo nessuna intenzione di collaborare e che se mi riportavano a Volterra mi facevano un favore. Replicò che mi avrebbero portato in un carcere tranquillo dove non c’erano altri prigionieri politici, così potevo pensare con calma alla proposta che m aveva fatto. Il segnale sarebbe stato la revoca del mandato ai miei avvocati. Lui avrebbe capito e sarebbe venuto subito. Me lo dovetti cibare per tutto il viaggio. Come provavo a tirare fuori le sigarette, lui pronto mi infilava in bocca una delle sue malboro e l’accendeva…….. non ho mai avuto un compagno di viaggio così premuroso. Finalmente arrivammo a Sulmona, dove prima di entrare nel carcere mi salutò facendo risalire sul furgone i due carabinieri della scorta. Finii nuovamente in isolamento. Dopo due, forse tre mesi e varie proteste mie e degli avvocati, fui trasferito in una sezione dove era possibile la socialità, non prima di subire i soliti avvertimenti: «guarda che qui ti ammazzano. Non è uno Speciale, qui la sorveglianza è scarsa, qui non girano coltelli ma spade», e via dicendo. Tempo un mese, mi trasferirono nel carcere speciale di Trani. Pensai che finalmente si erano decisi a mollarmi, ma mi spagliavo di grosso. Dopo due-tre settimane mi trasferirono di nuovo.
Termini Imerese
A Termini Imerese mi ritrovai di nuovo in isolamento. C’erano pochissimi detenuti, il carcere era in ristrutturazione dopo che era stato semidistrutto da una rivolta. Ai miei avvocati dissero che dovevo stare isolato perché ero pericoloso. Secondo loro a Volterra stavo preparando la fuga. In seguito dissero che era per il mio bene perché volevano uccidermi. Capii che qui sarebbe stata lunga, infatti rimasi fino al processo: 2 anni. Volevano farmi arrivare in aula distrutto fisicamente e psicologicamente. Smisi di fumare e cominciai a fare yoga. Dovevo resistere, non dovevo farmi distruggere. Cominciai a pensare che comunque andasse avevo sempre un’ultima arma per sottrarmi all’abuso, alla sopraffazione: il suicidio, ma solo come ultima ratio.
I primi tempi compravo il giornale e lo leggevo tutto, compresi gli annunci mortuari, i numeri di pagina. Poi lentamente non ci riuscivo più, leggevo la prima riga e quando passavo alla seconda non ricordavo più cosa c’era scritto nella prima. Così mi limitavo a leggere i titoli finché alla fine non lo comprai più. Ho cominciato a dormire di giorno e vegliare la notte; l’unico svago era litigare e provocare i secondini. Una volta diedi dello stronzo a un secondino (che si era comportato male) e per dispetto mi lasciavano la luce accesa anche la notte. Tutte le notti mi arrampicavo sugli stipetti e allungando la scopa appiccicavo un pezzo di carta che spalmavo con il dentifricio sulla plafoniera. Il soffitto era alto 5 metri. Le guardie tutte le mattine passavano con la scala e lo toglievano, ed io la notte successiva lo rimettevo…… una goduria.
Dopo un annetto mi chiamò a colloquio un assistente sociale: decisi di andarci per sgranchirmi le gambe e fare un po’ di ginnastica con la lingua. Cominciammo a parlare del più e del meno, poi mi chiese se volevo stare ancora in isolamento. Gli spiegai che non volevo assolutamente starci. Le avevano detto che l’isolamento era una mia scelta, allora le chiesi come mai mi avesse chiamato a colloquio, visto che normalmente non succedeva mai. All’inizio mi diede delle risposte vaghe, poi si sfogò dicendomi che non poteva in così poco tempo capire le persone. Mi confessò quindi che l’avevano mandata per testare la mia diponibilità a parlare con i giudici; gli dissi di riferire che se volevano togliermi dall’isolamento andava bene, altrimenti in quel posto potevo anche morirci e non avevo intenzione di parlare con nessuno di loro, poi tornai in cella.
Per passare il tempo feci una stella a cinque punte sul muro e delle scritte, il giorno dopo ci fu una sfilata di secondini tutti ad ammirare i miei graffiti: guardavano e confabulavano nonostante io abbia una pessima calligrafia. Mi cambiarono di cella e si trattennero dal libretto i soldi per la riverniciatura delle pareti. Nella nuova cella feci la stessa cosa. Questa volta mi chiamò il maresciallo che mi rimprovero dicendo che non si facevano quelle cose perché «le stanze erano tutte pulite e così dovevano restare per gli altri». «Quali stanze?» – risposi, facendogli notare che stavamo in un carcere e non in albergo e che quelle si chiamavano celle. Il maresciallo iniziò a sfogarsi dicendomi che aveva sempre fatto servizio in carceri minorili, che era stato spedito a Termini Imerese per punizione e che non sapeva nulla di queste cose. Pensai che fare da psicologo a un maresciallo frustrato era troppo; inforcai la porta e tentai di andarmene ma davanti c’era un appuntato che cerco di bloccarmi. Mi voltai a guardare il maresciallo che gli disse di riportarmi in cella. Intanto il tempo passava, finalmente fui trasferito di nuovo a Rebibbia per il processo, ma sempre rigorosamente in isolamento.
L’aula bunker
Il primo giorno di udienza mi ritrovo nella gabbia dei pentiti, ma ben distante dagli altri e tenuto per la catena dai carabinieri.
Quando entrò la corte cominciai a protestare chiedendo di essere messo con i compagni. Il giudice acconsentì e un carabiniere mi disse: «quelli ti tagliano la testa». Gli risposi di preoccuparsi della sua di testa.
Restava il nodo dell’isolamento, così continuai a protestare con la corte. Dopo un po’ di tempo i giudici accolsero la mia richiesta, visto che oramai il tentativo era fallito. Dal terzo piano del G12, dove ero rinchiuso, scesi al secondo dove c’erano quelli del 7 aprile e alcuni autonomi. Qui la scena fu divertente: quando arrivai davanti al cancello della sezione scoprii che questi detenuti erano tutti liberi nel corridoio, con le celle aperte (condizione di privilegio), ma quando entrai si rintanarono tutti. Fui portato nella cella di Giuliano Naria. Ci salutammo e mi sedetti sul letto, lui mi disse di disfare la zampogna. Gli risposi che era meglio aspettare, infatti dopo 5 minuti arrivò Emilio Vesce a chiamarlo. Dopo un quarto d’ora si presentarono i secondini a dirmi che si erano sbagliati e che dovevo tornare sù. Al terzo piano, dopo un’altro po’ d’isolamento mi misero in cella con altri due compagnucci freschi d’arresto.
Sospeso il processo per il periodo estivo, mi rispedirono a Termini Imerese (sempre rigorosamente in isolamento). Chiamai il direttore e gliene chiesi il motivo e quello mi rispose di stare tranquillo perché aveva già scritto al ministero che in quel carcere non ero gradito. L’isolamento continuò fino alla ripresa del processo, dove protestai di nuovo con la corte. Finalmente mi declassificarono portandomi al secondo piano del G12, dove non c’erano più i signorini del 7 aprile che già facevano gli omogeneizzati nell’apposita area [il riferimento è alla creazione di apposite sezioni carcerarie declassificate, denominate “aree omogenee per la dissociazione dal/del terrorismo” Ndr]. Venni poi a sapere che erano stati loro a pretendere il mio allontanamento dalla sezione perché c’era il rischio che li ammazzassi – sostenevano – in quanto «irriducibile».
Ancora vivo nonostante tutto
Qui finiscono le torture e inizia il tempo della elaborazione degli avvenimenti, lungo il quale finalmente ripercorro gesti e azioni, fino a rendermi conto di aver oltrepassato la linea della pazzia, di aver fatto cose che razionalmente non si farebbero mai per chiedermi come fossi arrivato ad uscirne. Non ho una risposta, l’unica cosa che posso pensare è la forte convizione di ciò che ero e mi consideravo: un militante comunista prigioniero di uno Stato bugiardo e vigliacco che ha ancora paura di affrontare i propri fantasmi, che tenta di giustificarsi parlando di «mele marce».
La consapevolezza che i miei compagni mi credevano e non hanno avuto dubbi.
Ma io so delle torture degli anni 70 e 80,
io so della mattanza di Bolzaneto,
io so dei morti ammazzati nelle caserme e durante l’arresto.
Io so di poliziotti che passeggiano sulla testa di ragazzini alle manifestazioni.
Di tutto ciò, ci sono le prove.
Allora ti volti indietro e ti accorgi che non si tratta di “mele marce” ma che è l’intero frutteto ad essere marcio.
Per questo ancora oggi mi dichiaro prigioniero politico, non più di un potere giudiziario, carcerario, ma di una verità nascosta, insabbiata, di uno Stato che senza merito si fregia del titolo di democratico, di uno Stato reticente, connivente.
2/fine
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Triaca
Le torture su Sandro Padula,ancora detenuto, 29 anni fa…
AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI
PROSEGUE LA SERIE SULLA TORTURA, DAL BLOG INSORGENZE
Sandro Padula viene arrestato il 14 novembre 1982 a Castel Madama, in provincia di Roma. L’appartamento che faceva da base-rifugio per alcuni militanti latitanti delle Brigate rosse – partito comunista combattente era stato individuato da alcuni giorni dalla Digos che vi aveva fatto irruzione arrestando i presenti. Alcuni dei quali, Romeo Gatti in particolare, furono sottoposti a tortura. La polizia si istalla nella base e attende l’arrivo di Padula che appena entrato viene bloccato e avvolto in un tappeto per essere trasportato via all’insaputa dei vicini che in questo modo non si accorgono dell’arresto. Caricato all’interno di un furgone civile da finti facchini viene condotto con gli occhi bendati in un luogo imprecisato, forse una caserma della zona. Lì inizia il “trattamento”: spogliato viene appeso per le braccia alla parete e sottoposto ad una infinità di colpi su tutto il corpo e sulla testa fino al punto da non sentire più nulla. «Ad un certo punto – racconta quelle poche volte che riesco a strappargli qualche ricordo dalla bocca – il dolore si anestetizza». I seviziatori non hanno alcun ritegno. Il pestaggio condito dal solito florilegio di minacce non sortisce alcun effetto.
A quel punto gli aguzzini passano alla fase due: quella raccontata decine e decine di volte dagli altri torturati sottoposti all’acqua e sale, testimoniata da Salvatore Genova nelle interviste del 1997 a Matteo Indice e nel libro recente scritto da Nicola Rao, tutti materiali che potete trovare in questo blog. Torture ammesse dallo stesso “professor De Tormentis”, il grande maestro dell’acqua e sale, sempre in una intervista a Matteo Indice e nel libro di Rao.
Sandro viene disteso su un tavolo posto accanto ad un lavandino con una parte del corpo, dalla vita in sù, sospesa all’esterno. In bocca gli viene introdotto un tubo ma prima le labbra vengono cosparse di sale. Uno degli aguzzini gli tiene il naso chiuso. Sandro che non è un eroe e tantomeno un campione di apnea (non sa nemmeno nuotare) tuttavia resiste. «Conta che ti passa», gli aveva detto un compagno pochi mesi prima, Umberto Catabiani, membro dell’esecutivo dell’organizzazione ucciso il 24 maggio precedente dopo un lungo inseguimento, mentre ferito aveva guadato un fiume per tentare di fuggire all’arresto. L’acqua e sale nonostante la sua bestialità non sortisce risultati. Un medico, presente, monitorava il cuore. Alla fine i seviziatori di Stato desistono. Uno di loro dirà con disappunto: «Ma questo conta. Ci sta fregando. E’ esperto di apnea».
Arrivati a quel punto il problema era quello di rendere presentabile Padula, che imputato nel processo Moro in corso avrebbe dovuto comparire immediatamente in aula. Sandro viene “preso in cura” da uno strano personaggio che si qualifica come «massaggiatore di una squadra di calcio» che allevia gli ematomi e le contusioni di cui è pieno il suo corpo con massaggi a base di vegetallumina.
Per tre volte le udienze del processo vengono rinviate tra le proteste degli imputati che denunciano le torture in corso e ricordano al presidente di essere complice di quel che stava accadendo. In aperta violazione della legge Sandro Padula resta nelle mani della polizia anche durante l’interrogatorio del 19 novembre, quando Domenico Sica lo va ad ascoltare in questura. Arriverà in aula solo il 19 novembre. Le cronche deformate delle udienze, raccotate con grande disonestà carica di livore in particolare dall’Unità, le potete trovare qui sotto.
Alessandro Padula è ancora in carcere sottoposto a regime di semilibertà. Dal suo arresto e dalle torture sono passati 29 anni e due mesi.
Assente l’imputato Padula, rinviato il processo Moro
L’Unità venerdì 19 novembre 1982
ROMA — È durata tre minuti l’udienza di Ieri del processo Moro. La Corte è entrata e il presidente Santiapichi ha annunciato che nessuno poteva prendere la parola mancando un imputato che invece aveva diritto ad assistere al processo: il br in questione è Sandro Padula, arrestato nei giorni scorsi vicino Roma e accusato di almeno 7 tra I più efferati delitti delle Brigate rosse. La procedura prevede infatti che se un Imputato appena arrestato non fa pervenire l’esplicita rinuncia ad essere presente, il processo non può andare avanti. E infatti il dibattimento è stato aggiornato a lunedì prossimo. La comunicazione del presidente ha dato il via a una serie di proteste e di pesanti minacce dei brigatisti in gabbia. «Lo stanno torturando – hanno gridato i br – avete chiesto perché Padula non è venuto?». Poi una minaccia diretta al presidente della Corte da parte di Pancelli: «Lei si sta rendendo complice delle torture», ma il giudice Santiapichi ha replicato seccamente. «Non sono complice di nessuno, la legge prevede che non si può fare udienza mancando un imputato». Poi sono arrivate anche le minacce ai giornalisti. Lunedì si dovrebbe quindi riprendere con le audizioni dei collaboratori di Moro Rana e Freato, rinviati da alcune udienze per la discussione sulle richieste (tutte respinte) dì alcune parti civili per l’approfondimento in aula di alcuni scottanti retroscena del caso Moro. L’interrogatorio di Nicola Rana era già iniziato e il teste era stato sentito su alcune registrazioni telefoniche. Con queste deposizioni, a seguito della decisione della Corte di rimandare ogni altro approfondimento a una nuova inchiesta della Procura, il processo entra nella fase finale.
Il Br Padula si rifiuta di rispondere al giudice. Lunedì sarà presente al processo per via Fani
La Stampa Anno 116 Numero 251 – Pagina 6 – Sabato 20 Novembre 1982
DALLA REDAZIONE ROMANA ROMA – Sandro Padula, il brigatista rosso arrestato nel corso dell’ultima operazione della Digos, si è rifiutato di rispondere alle domande del sostituto procuratore della Repubblica Domenico Sica, dichiarandosi «militante comunista». Al magistrato, che lo ha interrogato in questura, Padula ha denunciato di essere stato maltrattato dagli agenti che l’avevano arrestato. Il suo difensore, avvocato Giuseppe Mattina, ha fatto mettere a verbale le accuse formulate dall’imputato, preannunciando una denuncia, che verrà presentata probabilmente oggi alla procura della Repubblica. Il magistrato, prima di chiedergli se volesse rispondere alle domande, ha contestato a Padula le accuse di partecipazione a banda armata e di violazione della legge sulle armi. Al momento dell’arresto gli è stata infatti, sequestrata una pistola. A conclusione dell’interrogatorio, Padula avrebbe mostrato al magistrato, a sostegno della sua denuncia, diversi ematomi sul corpo e sugli arti. Ha inoltre sostenuto di essere stato portato in un luogo di cui non sa indicare l’ubicazione e, una volta bendato, di essere stato steso supino su di un tavolo, legato, e costretto a bere acqua e sale. Padula sostiene anche di aver ricevuto pugni sulla testa e sulle orecchie, e di essere stato trattenuto nella casa in cui venne arrestato per un’intera giornata, ammanettato e bendato. Padula ha poi dichiarato al magistrato che, dopo le percosse, ha ricevuto qualche cura dagli agenti che l’avevano in consegna prima di essere trasferito, nelle celle di sicurezza della questura. L’imputato ha quindi sostenuto che, in cambio di un’ampia confessione e dei nomi di suoi compagni di clandestinità, gli è stato anche offerto un passaporto per espatriare e somme di danaro.
Lunedì, Padula sarà nell’aula del Foro Italico dove si celebra il processo per l’uccisione di Aldo Moro
Processo Moro: Padula dice di essere stato «torturato». I brigatisti lanciano accuse alla DIGOS e lasciano l’aula
L’Unità, lunedì 23 novembre 1982
ROMA — Quasi tutta a porte chiuse la sessantacinquesi-ma udienza del processo Moro. Fuori il pubblico, i giornalisti, i fotografi, i cineoperatori, tutti, insomma, tranne gli «addetti ai lavori» muniti di toga: la corte, il pubblico ministero e gli avvocati. Non perché si dovesse parlare di chissà quali segreti (un processo serve proprio per verificare ogni cosa alla luce del sole) ma semplicemente per poter ascoltare in aula le registrazioni delle telefonate intercettate durante Il rapimento, senza violare la «privacy» di nessuno. L’ascolto di queste intercettazioni ha fatto da base per le domande rivolte a Nicola Rana e a Sereno Freato, che furono – assieme a Corrado Guerzoni – I più stretti collaboratori del presidente democristiano. Freato, ascoltato In serata« ha tra l’altro ricostruito la storia di un incontro tra il sottosegretario agli interni Lettieri e l’avvocato svizzero Payot, il quale aveva promesso, facendosi pagare cinque milioni, un Interessamento risolutore, mediante i suoi supposti agganci con I terroristi tedeschi della RAF. Ma la cosa si sarebbe rivelata un volgare «bidone».
Alle deposizioni dei due testimoni non erano presenti neppure gli imputati, che pure ne avrebbero avuto facoltà: nella tarda mattinata hanno abbandonato le gabbie in segno di protesta, dopo che era scoppiato In aula un nuovo «caso», legato al nome di Alessandro Padula, il brigatista accusato di otto omicidi arrestato dalla polizia nove giorni fa a Roma e comparso ieri per la prima volta al processo. Padula ha dichiarato di essere stato «torturato» dagli agenti della DIGOS ed ha inoltre accusato la polizia di avergli impedito di partecipare alle tre udienze della scorsa settimana (com’era suo diritto) attraverso un «falso». La corte ha passato la denuncia di Padula al pubblico ministero, affinché la procura romana possa vagliare le accuse alla DIGOS con una regolare inchiesta.
Il «caso Padula» non è stato aperto dall’interessato ma dal brigatista Prospero Gallinari, imputato di essere stato il boia di Aldo Moro. Appena la corte si é seduta, in apertura d’udienza. Gallinari si è fatto passare il microfono ed ha affermato che Padula é stato tenuto lontano dall’aula del processo per otto giorni ed è stato lasciato nelle mani dei «torturatori di Stato». Il portavoce dell’ala «militarista» delle Br è stato interrotto dal presidente Santiapichi, ma a questo punto ha incalzato lo stesso Padula, ribadendo le stesse accuse alla polizia e aggiungendo una sequela di slogan brigatisti. L’imputato ha mostrato al giornalisti un livido al polso destro ed ha sostenuto di essere stato appeso per le braccia e di aver ricevuto «il trattamento acqua e sale».
Il legale di Padula, l’avvocato Attillo Baccioli, del foro di Grosseto, ha eccepito la nullità delle ultime tre udienze del processo celebrate in assenza dell’imputato e dopo il suo arresto. Tutti gli altri legali si sono opposti, il Pm pure, e la corte – dopo mezz’ora di camera di consiglio – ha respinto l’eccezione di nullità passando, come si è detto, il verbale dell’udienza al rappresentante dell’accusa, per l’apertura di un’inchiesta da parte della procura. il presidente Santiapichi ha inoltre spiegato l’assenza dell’imputato la settimana scorsa, dichiarando che la DIGOS aveva comunicato di aver Identificato il brigatista per Alessandro Padula soltanto il 17 novembre (aveva in tasca documenti falsi). L’interessato ha smentito, accusando di «falso» la polizia, e anche su questo indagherà la procura.
GLI ALTRI LINK SULLA TORTURA IN ITALIA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
La sentenza di condanna sulle torture a Di Lenardo… un pezzo di NON storia da non perdere
Ancora sulla tortura…in questo post la sentenza contro alcuni torturatori, quelli che De Tormentis, nel libro di Nicola Rao liquida come “poco esperti” al punto che hanno lasciato segni e lesioni che hanno portato a dei procedimenti penali..
lui era più bravo.
“Durante l’ultima guerra mondiale, in Albania accadeva che tanti soldati italiani finivano in infermeria o venivano rimpatriati perché dichiaravano di essere stati azzannati da cani idrofobi. Il fenomeno era così diffuso che ad un certo punto le gerarchie militari vollero vederci chiaro. I segni del morso erano ben visibili sui polpacci dei soldati. Tuttavia nella zona non c’erano torme di cani idrofobi.
Il rebus fu spiegato quando venne trovata la riproduzione anatomica, in legno, di una mandibola canina. Il soldato che aveva fabbricato lo strumento, dotandolo di una “dentatura di chiodi” lo affittava ai commilitoni. I quali, con i segni delle “zanne” sulla pelle venivano subito ricoverati.
La messinscena aveva un inconveniente: ai militari che denunciavano di essere stati morsi veniva praticata una puntura al fegato. Ma per quanto l’iniezione fosse dolorosa, lo era sempre meno di una pallottola in combattimento.”
Con questo aneddoto, tratto dai ricordi paterni, il sostituto procuratore Domenico Sica risponde a chi gli chiede se in Italia i terroristi vengono seviziati dalla polizia.
L’aneddoto è in realtà un apologo: i soldati sono i brigatisti, l’inesistente cane idrofobo la tortura, i segni del morso, le ecchimosi e gli ematomi che vengono mostrati a riprova delle sevizie. Sica non crede alle torture, così come non ci credono i magistrati …
(Tratto da un articolo de Il Paese Sera, 18 marzo 1982, a firma di Guido Rampoldi)
Sentenza n. 743/86 Reg. Sent. – N. 1065/83 R.G. – N. 2816/83 P.M. Depositata il 5 novembre 1986, Tribunale Penale di Padova, sez I°
causa penale a procedimento formale contro Genova Salvatore, (…)
- Una foto che racconta tutto: il torturato Di Lenardo è tra le sbarre, i suoi aguzzini senza alcuna privazione, con strane barbe e occhiali scuri
[…]
A) del reato di cui agli artt. 110, 112 nn. 1 e 2, 605/1°2° co. n 2 CP e 61 n. 2 CP
per aver illecitamente privato Di Lenardo Cesare della libertà personale, perché in concorso con Amore Danilo, Di Janni Carmelo, Laurenzi Fabio e Aralla Giancarlo prelevavano il Di Lenardo dai locali dell’Ispettorato di Zona 2° Reparto Celere, dov’era legittimamente detenuto in seguito all’arresto avvenuto il 28.1.1982, sottraendolo a coloro che erano investiti della custodia, lo caricava con mani e piedi legati e con gli occhi bendati nel bagagliaio di una autovettura e lo trasportavano in una località sconosciuta, dove il Di Lenardo veniva fatto scendere e sottoposto alle percosse e minacce descritte nel capo seguente;
indi lo trasportava nuovamente (sempre nel bagagliaio dell’autovettura) nell’area del 2° Reparto Celere e lo conduceva in un sotterraneo, nel quale il Di Lenardo era sottoposto alle percosse e alle violenze descritte nel capo seguente, al termine delle quali veniva riportato nei locali di legittima detenzione; con le aggravanti di aver commesso il fatto abusando dei poteri inerenti alle funzioni di pubblico ufficiale, in numero non inferiore a cinque persone ed al fine di commettere il reato di cui al capo seguente;
di aver promosso e organizzato la cooperazione nel reato, nonché di aver diretto l’attività delle persone che vi sono concorse.
B) del reato di cui agli artt. 56, 81 cpv, 110, 112 n. 2, 61 n.9, 610/1°e 2° co. CP in relazione all’art. 339 CP, per aver in concorso con Amore Danilo, Di Janni Carmelo, Laurenzi Fabio, Aralla Giancarlo e con altri con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso mediante violenza, consistita in percosse in diverse parti del corpo, e minaccia, consistita nell’esplosione di un colpo d’arma da fuoco e successivamente mediante violenza, consistita nel legarlo su di un tavolo, sul quale era stato steso, facendogli inghiottire sale grosso, di cui gli era stata riempita la vocca, e, permanendo lo stato di costrizione sul tavolo, venendogli inoltre impedito di respirare col naso, facendogli ingoiare una grande quantità d’acqua che veniva in continuazione versata nella sua bocca […]
[…]
LETTI GLI ATTI; VISTA A RICHIESTA DEL PM
ritenuto che Genova Salvatore, tratto a giudizio dinanzi al Tribunale di Padova per rispondere dei reati riportati in rubrica, prima che si celebrasse il dibattimento nei suoi confronti viene eletto deputato;
che fu disposta la separazione del procedimento a suo carico;
che nei confronti del Genova venne richiesta alla Camera dei Deputati l’autorizzazione a procedere prescritta dall’art. 68 Cost;
che come risulta dalla comunicazione in atti, la Camera dei Deputati, nella sua seduta del 5.6.1986, ha negato l’autorizzazione a procedere;
che pertanto, mancando la condizione di procedibilità necessaria per proseguire l’azione penale deve dichiararsi non doversi procedere nei confronti dell’imputato, con sentenza da emettersi (anche d’ufficio) in ogni stato e grado del procedimento;
P.Q.M.
Dichiara non doversi procedere nei confronti di Genova Salvatore in ordine ai reati a lui ascritti, perché l’azione penale non può essere proseguita per mancanza dell’autorizzazione a procedere della Camera dei Deputati
ELENCO DEI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto
Ancora tortura, quel rimosso tutto italiano
Tortura, quell’orrore quotidiano che l’Italia non riconosce come reato.
Se c’è stato un motivo per cui ho aperto questo blog è stato pubblicare materiale sulle torture compiute in questo paese, sui corpi dei militanti della lotta armata che nell’ “anno argentino” italiano, il 1982, sono stati catturati e torturati con le più classiche tecniche di tortura usate nel mondo.
Donne e uomini che, privati della loro libertà, bendati e storditi, sono stati torturati da uomini di Stato per ottenere nomi, luoghi, dettagli.
Torture documentate, torture per cui ci son state anche condanne, torture però completamente rimosse dalla tanto brava “società civile”.
Alcuni dei torturati nel 1982 continuano ad essere in carcere, dopo 30 anni, dopo quello che hanno subito, senza aver mai potuto accedere a nessuna cura o conversazione capace di lenire i traumi che la tortura lascia perenni sul corpo e la mente di chi l’ha subita.
Dimenticati dal mondo, torturati nelle nostre caserme, chiusi ancora giorno e notte nella stessa cella.
Non c’è altro da dire, se non che dovrebbero esser liberi. PUNTO.
ELENCO DEI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Ancora con l’Italia delle Torture. Questa vola su militante arrestato il 31 agosto ’79, a seguito di un esproprio attribuito a Prima Linea
ADRIANO ROCCAZZELLA, DENUNCIA ALL’UFFICIO ISTRUZIONE DEL TRIBUNALE DI IVREA, G.I. ANTONIO TISEO, 24 GENNAIO 1980
“Quando fui arrestato nella zona di Alba Adriatica fui malmenato con i calci dei mitra, oltre a calci e pugni con le mani e con i piedi e insieme con me fu malmenata anche l’altra persona che fu arrestata contemporaneamente a me; Cesaroni fernando, il quale fu trattato nella stessa maniera. Fummo catturati contemporaneamente da CC e agenti della PS che, ho saputo dopo, provenivano dalla caserma di Nereto e dalla questura di Ascoli Piceno.
Durante il trasporto dal luogo di cattura fino alla caserma di Nereto, alcuni CC, attaccando i caricatori dei mitra, pieni di pallottole, mentre io ero costretto con le mani legate in modo molto stretto, mi colpivano con i caricatori contro il gomito del braccio destro, ed anche in testa. Riportai là delle lesioni sia al gomito, che divenne blu e mi doleva, tanto che non riuscivo a piegarlo, sia alla testa, dove il medico, intervenuto successivamente, rilevò dei tagli al cuoio capelluto.
Fummo condotti nella caserma di Nereto e nel corridoio della stessa passammo attraverso due ali di militari, che impugnavano mitra ed armi di ordinanza, anzi, preciso, fummo trascinati per le manette, che erano del modello a dentiera e che erano tanto tese da non permettere la circolazione del sangue ai polsi. Condottici in una stanza, volevano sapere le nostre vere identità in quanto noi eravamo forniti di documenti falsi e cominciarono a strapparci di dosso i vestiti con colpi di lamette.
A questo punto ci separarono di modo che ognuno di noi fu messo in una stanza. A questo punto io avevo già dato le mie vere generalità ed avevo dichiarato di appartenere ad un’organizzazione comunista. Nonostante ciò continuavano a malmenarmi per circa mezz’ora con calci dei mitra, colpendomi specialmente alla testa e sul naso. Dopo questo pestaggio ebbi un dolore costale, per cui penso che una costola dell’alto sinistro del torace fosse incrinata. […]
Dopo circa 2 ore che mi trovavo in quella stanza, durante le quali ogni tanto entrava qualche CC e mi appioppava calci e sberle, vennero due uomini in borghese che cominciarono ad interrogarmi, anzi preciso che uno dei due mi faceva delle domande, mentre l’altro mi colpiva con un pugno di ferro alla tempia, all’attaccatura della mandibola e alla nuca. […]
Nell’intervallo tra il pestaggio di cui ho parlato e le soste dovute al fatto che i due si recavano dal mio coimputato, venne nella stanza un carabiniere che indossava un blue-jeans ed una canottiera di lana, con un accento che mi sembrò meridionale, il quale, in un primo momento fece la parte del buono, promettendo che se avessi parlato egli si sarebbe adoperato per evitarmi ulteriori pestaggi.
Dopo 10-15 minuti costui perse la pazienza e, tirata fuori la cinghia dei pantaloni, prima minacciò di impiccarmi poi iniziò a colpirmi sulle spalle con la cinghia piegata in due, mentre io avevo tutto ciò che indossavo ridotto a brandelli. Ogni tanto entrava qualche militare e mi colpiva con calci ai testicoli nudi, mentre mi tenevano le gambe aperte, perchè non potessi ripararmi. […]
Poco prima dell’interrogatorio del giudice, probabilmente un sostituto procuratore, venne a visitarmi un medico, dopo che i CC avevano ripulito il mio corpo dalle tracce di sangue, che tuttavia, rimasero sui brandelli di vestito che avevo addosso. […] Agli atti istruttori esiste un certificato di quel medico che attesta abrasioni da me riportate al volto oltre cha tagli alla testa e una sospetta frattura del gomito destro. Il medico mi medicò sommariamente con un cerotto sul naso disinfettandomi un po’ i vari tagli da me sofferti. Prima che fossi introdotto davanti al giudice, mi misero in una stanza di fronte a quella dove si trovava il magistrato, insieme al mio coimputato, dove ogni tanto veniva l’uomo con il pugno di ferro e ci colpiva alla nuca con il medesimo. In quella stanza c’erano 6-7 militari ed un po’ tutti ci minacciarono di non riferire le percosse al giudice , perchè in caso contrario ci avrebbero eliminati. […]
Dopo mi portarono in una stanza dove mi presero le impronte digitali, dove per la prima volta da quando ero stato di fronte al giudice, davanti al quale avevano tolto le manette, mi tolsero le manette per prendere le impronte, dopo che mi costrinsero a firmare con la forza sul foglio sul quale erano le mie impronte. A questo punto, siccome non ero in grado di camminare da solo, fui trascinato da due uomini a lavarmi le mani e nel corridoio incontrai un altro ufficiale dei CC che mi sembrò un generale e che poi ho saputo essere venuto da Napoli. […]
Dopo che mi lavai le mani mi portarono in una stanza dove mi legarono con uno spago i testicoli e cominciarono a tirare. Successivamente seppi dal Cesaroni che gli avevano legato i testicoli mentre era sulla punta dei piedi e lo spago era attaccato agli infissi delle finestre, in modo che se egli avesse appoggiato i talloni per terra, si sarebbe strappato i testicoli.
Seppi anche da lui che gli avevano stretto i testicoli tra due sbarrette di legno, glieli avevano tagliati con le lamette e precedentemente avevano messo del sale grosso da cucina e dell’aceto sui tagli relativi alle ferite riportate dallo stesso in seguito ai pestaggi e poi avevano strofinato sia il sale che l’aceto sulle ferite ed infine gli avevano bruciato le piante dei piedi con un mozzicone di sigaretta.”
Tratto da “Le Torture Affiorate”. Edizioni Sensibili alle Foglie
I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis
Torture: l’arresto del giornalista Buffa e i comunicati dei sindacati di polizia _ITALIA 1982_
[Leggi anche l’intervista a Pier Vittorio Buffa fatta da me e Paolo Persichetti: QUI ]
Pier Vittorio Buffa: “Il rullo confessore” in L’Espresso 28 febbraio 1982
“All’ora di pranzo scendevano in piccoli gruppi, si sistemavano ai tavoli del ristorante Ca’ Rossa, proprio davanti al distretto di polizia di Mestre, e prima di pagare il conto chiedevano al proprietario dei pacchi di sale, tanti. Poi pagavano, e con la singolare ‘spesa’ rientravano al distretto per salire all’ultimo piano, dove c’era l’archivio. In quei giorni, subito dopo la liberazione del generale Dozier, le stanze di quel piano erano off limits: vi potevano entrare solo pochi poliziotti, non più di tre o quattro per volta, insieme agli arrestati, ai terroristi. Lì dentro, dopo il trattamento, un brigatista è stato costretto a rimanere sdraiato cinque giorni senza avere più la forza di alzarsi, da lì uscivano poliziotti scambiandosi frasi del tipo “L’ho fatto pisciare addosso”. “Così abbiamo finalmente vendicato Albanese” [Il funzionario ucciso dalle B.R.].
Quest’ultimo piano era infatti diventato -secondo alcune accuse e deposizioni di cui parleremo- il passaggio obbligato per i circa venti terroristi arrestati nella zona.
Non hanno subìto tutti lo stesso trattamento, ma per alcuni di loro l’archivio del distretto di polizia di Mestre ha significato acqua e sale fatta bere in grande quantità, pugni e calci per ore, per notti intere. Sono fatti, questi, dei quali si sta cominciando a discutere anche all’interno del sindacato di polizia. La voglia di picchiare aveva infatti totalmente contagiato gli agenti di quel distretto ( molti erano venuti per l’occasione anche da fuori, da Massa Carrara, da Roma) che quando il 2 febbraio è stato fermato un ragazzo sospettato di un furto in un appartamento (non quindi di terrorismo) lo hanno picchiato per un paio d’ore per poi lasciarlo andare via quando si sono accorti che era innocente. Secondo le denunce, la violenza della polizia contro le persone arrestate per terrorismo si sta poco a poco estendendo, come un contagio.
Molte sono ormai le testimonianze raccolte dai magistrati sui trattamenti riservati agli arrestati da polizia e carabinieri. Molte e circostanziate. Il ministro dell’Interno Virginio Rognoni ha già smentito tutto in Parlamento.
Ma dalla lettura dei verbali emerge l’esistenza di un sistema di pestaggio, con i suoi passaggi prestabiliti, i suoi locali appositamente allestiti, i suoi esperti. Cerchiamo di illustrarlo basandoci su sei denunce presentate in diverse città: Roma, Viterbo, Verona. Quelle di Ennio di Rocco, Luciano Farina, Lino Vai, Nazareno Mantovani e Gianfranco Fornoni, tutti accusati di terrorismo.
Il primo passo è l’isolamento totale in locali che il detenuto non può identificare e senza che nessuno ne sappia niente. Il 12 gennaio scorso una voce anonima ha telefonato allo studio di un avvocato romano: “La persona arrestata in via Barberini si chiama Massimiliano Corsi, è di Centocelle; avvertite la madre, date la notizia attraverso le radio private, lo stanno massacrando di botte.” Solo dopo due o tre giorni si seppe ufficialmente che Corsi era stato arrestato. Il totale isolamento, il cappuccio sempre calato sul viso, le mani strettamente legate dietro la schiena sono la prima violenza psicologica. Poi le
minacce di morte (“Ti possiamo uccidere, tanto siamo in una situazione di illegalità” avrebbero detto a Stefano Petrella) la pistola puntata alla tempia e il grilletto che scatta a vuoto come in una macabra roulette russa (Nazareno Mantovani).
Per arrivare alle violenze fisiche il passo è breve: tutti dichiarano di aver preso calci e pugni subito dopo l’arresto, ma poi si arriva alla descrizione di sevizie vere e proprie, di torture. Sigarette spente sulle braccia (Di Rocco). Acqua salatissima fatta ingerire a litri, sempre con lo stesso sistema: legati a pancia in su sopra un tavolo, con mezzo busto fuori e quindi con la testa che penzola all’indietro ( Di Rocco, Petrella e Mantovani). Calci ai testicoli (racconta Fornoni: ‘Con certe pinze a scatto hanno effettuato diverse compressioni sui testicoli, minacciando di evirarmi’). Tentativi di asfissia con vari sistemi. Misteriose punture: il sostituto procuratore della Repubblica Domenico Sica ha constatato la presenza di “un segno di arrossamento con escoriazione centrale” sul braccio destro di Di Rocco.
Dopo giorni e giorni di trattamento di questo tipo gli arrestati vengono condotti davanti al magistrato e alcuni verbali sono ricchi di dettagliate descrizioni, fatte dai giudici, dello stato fisico dei detenuti: Di Rocco aveva il polso destro sanguinante per via della manetta troppo stretta, cicatrici fresche in varie parti del corpo.
Lino Vai si è tolto una scarpa davanti al giudice mostrandogli le “spesse croste ematomiche” presenti sul dorso dei piedi. Due istruttorie per accertare la verità sono già iniziate; una a Viterbo, dopo la denuncia di Fornoni, e una a Roma, iniziata dopo le deposizioni di Petrella e di Di Rocco dal sostituto procuratore Niccolò Amato che ha disposto le perizie. In attesa che queste indagini si concludano, c’è chi ha già chiesto al ministro Rognoni di avviare un’indagine amministrativa e chi sostiene che lo stato democratico non può fare della violenza fisica e psicologica uno strumento di lotta. […]
NOTA INFORMATIVA: A seguito della pubblicazione dell’articolo sopra riportato, Pier Vittorio Buffa, il 9 marzo 1982, viene arrestato su ordinanza emessa dalla Procura della Repubblica di Venezia, con l’imputazione “del reato p. e p. dell’art. 372 C.P. perché deponendo innanzi al procuratore della Repubblica di Venezia, Cesare Albanello, taceva in parte ciò che sapeva intorno alla fonte da cui apprese le notizie riportate nell’articolo ‘Il rullo confessore’ apparso sul settimanale L’Espresso del 28 febbraio 1982 e del quale egli era autore” [N. 520/82 del Reg. Gen. del Procuratore della Repubblica di Venezia]
SIULP di Venezia, Comunicato, 10 marzo 1982
“Il Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia di Venezia esprime profondo stupore e rammarico per l’arresto del
giornalista de L’Espresso Pier Vittorio Buffa, rifiutatosi di rivelare la fonte di alcune notizie da lui riportate nell’articolo comparso sul numero del 28/02/82 del settimanale suddetto. In proposito si fa rilevare che le voci di maltrattamenti durante gli interrogatori di persone arrestate nell’ambito delle indagini sul terrorismo sono giunte al sindacato. Il sindacato dei lavoratori della polizia, pur condividendo il convincimento di quanti ritengono ingiustificabili tali pratiche, esprime la propria preoccupazione per l’orientamento delle inchieste in corso che tendono alla individuazione di responsabilità di singoli appartenenti alle forze dell’ordine, non tenendo conto del clima che ha suscitato tali episodi, e di cui molti devono sentirsi direttamente o indirettamente responsabili.
Non v’è dubbio infatti che tali pratiche sono state tollerate o, addirittura, incoraggiate da direttive dall’alto e infine sostenute dal tacito consenso di una opinione pubblica condizionata dall’incalzare sanguinaria e folle di un terrorismo che ha avvelenato la vita politica e sociale del paese, impedendone il pacifico sviluppo. Il sindacato auspica che le indagini siano indirizzate a rompere il clima di timore venutosi a determinare fra gli appartenenti alle forze dell’ordine più direttamente impegnate nelle difficili indagini e che potrebbero risultare coinvolti in tali episodi. Si auspica inoltre che si punti a far sì che tali pratiche restino un caso isolato determinato da una particolare contingenza.
Allo scopo di dare un contributo per fare la necessaria chiarezza in tale direzione, il sindacato di Venezia, in sintonia con la segreteria nazionale, ha inviato un telegramma al magistrato dott. Albanello per un incontro urgente.
NOTA INFORMATIVA. L’11 marzo 1982, una delegazione del Sindacato di Polizia Siulp di Venezia, deponendo davanti al PM, libera il giornalista Pier Vittorio Buffa dal vincolo del segreto professionale, e pertanto egli, in sede di interrogatorio, indica nel capitano Riccardo Ambrosini e nell’agente Giovanni Trifirò le due persone che gli hanno dato le informazioni relative all’articolo. Riportiamo di seguito il dispositivo della sentenza che lo assolve: “Visti gli art. 479 c.c.p. e 376 c.p., assolve l’imputato perchè il fatto non costituisce reato perché non punibile per avvenuta ritrattazione. Ne ordina l’immediata scarcerazione se non detenuto per altra causa.”
Dopo questo comunicato una riunione con il questore e tutti i dirigenti della questura di Venezia stila un comunicato in cui si chiede che i poliziotti che hanno scagionato il giornalista de L’Espresso siano trasferiti perchè ‘la loro presenza provocherebbe uno stato di tensione e amarezza in tutto il personale’.
Qui sotto alcune dichiarazioni del capitano Filiberto Rossi, uno dei quadri dirigenti del Sap (il Sindacato Autonomo di Polizia): ” Non ci sono state torture ai terroristi arrestati. Se qualche episodio di violenza fosse avvenuto, sarebbe un fatto isolato. I responsabili, una volta accertata la loro colpa, dovrebbero essere puniti secondo la legge. Nella polizia non ci sono aguzzini o squadre speciali, ma solo persone normali e padri di famiglia. […]
La lotta al terrorismo da parte della polizia è sempre stata condotta nei limiti della legalità. Non bisogna dimenticare che su 1300 terroristi in carcere, soltanto alcuni hanno denunciato di aver subìto violenze. E queste denunce possono essere strumentali, posso essere state fatte per giustificarsi con i loro complici.
I poliziotti non ammettono che si possa ricorrere alle torture, ma non si possono certo trattare i terroristi con i guanti bianchi. Noi siamo convinti della necessità di esercitare pressioni psicologiche.”
Seguiranno aggiornamenti sulla tortura in Italia, con altre testimonianze.
Sono state precedentemente pubblicate le torture ai danni di Emanuela Frascella e Paola Maturi, di alcuni appartenenti ai Proletari Armati per il Comunismo stralci si una sentenza di rinvio a giudizio per 7 agenti di PS con la testimonianza di Ennio di Rocco
I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis
Le torture contro i P.A.C. : Italia, febbraio 1979
Non ho profonda stima per Cesare Battisti, ma la verità va detta, sempre.
Proseguirò per molto a scrivere delle torture subite dai militanti dei gruppi armati durante gli anni ’70 e i primi anni ’80 in questo nostro paese.
Questa pagina si concentra soprattutto, dato il momento particolare, sulle dichiarazioni di chi era stato accusato di aver preso parte all’omicidio dell’orefice Torregiani avvenuto il 15 febbraio del 1979 a Milano.
Queste parole chiarificano platealmente come si svolgevano arresti, interrogatori, inchieste e processi durante quegli anni; chiarificano i metodi usati dai nostri apparati di Stato per far rilasciare dichiarazioni dai prigionieri.
Nascondere queste cose è vergognoso. LA TORTURA C’ E’ STATA E C’E’ CHI NON LO DIMENTICA
Seguiranno aggiornamenti su torture subite da militanti di altri gruppi
Sono state precedentemente pubblicate le torture ai danni di Emanuela Frascella e Paola Maturi
e stralci si una sentenza di rinvio a giudizio per 7 agenti di PS con la testimonianza di Ennio di Rocco
LE TORTURE SUBITE DAI MILITANTI DEI PROLETARI ARMATI PER IL COMUNISMO
MILANO 17-18 febbraio 1979
SISINNIO BITTI:
“Era la notte del 16 febbraio 1979, rientrai a casa con Marco verso le due di notte. Appena entrati ci trovammo davanti una squadra di poliziotti in borghese che ci ammanettarono subito. Essendo entrambi attivi nel collettivo autonomo Barona del quartiere, immaginavamo di essere controllati. Il giorno prima nel pomeriggio in Milano venne ucciso l’orefice Torregiani.
Appena arrivati in questura mi portarono su e giù per le scale, dopodiché venni introdotto in un salone ai piani più alti. Lì venni assalito a calci e pugni alla schiena e dietro il collo, venni buttato a terra e picchiato; chiedevo il perché di tutto ciò e loro mi dicevano “lo sai benissimo perché. Ti conviene parlare altrimenti stanotte per te è finita; ti buttiamo giù dalla finestra.”
Venni sollevato da terra e disteso su un tavolaccio, addosso avevo almeno 6 poliziotti in borghese che mi tenevano ben fermo per le mani e i piedi: i calci li alternavano al ventre e al basso ventre. Ricordo vicino al tavolo due lavandini, in uno dei due vi era inserita una canna di plastica; questa canna mi veniva infilata in bocca e veniva aperto il rubinetto con il massimo della pressione costringendomi ad ingoiare acqua fino a riempirmi lo stomaco come un pallone; un poliziotto mi saliva sulla pancia per farmi vomitare l’acqua.
Mi fecero scendere dal tavolo e mi sedettero su una sedia, venni ammanettato e un poliziotto mi schiacciò i piedi per farmi stare fermo. Da notare che allora pesavo 52 Kg per un’altezza di 1.62, mentre i poliziotti erano quasi tutti il doppio di me. Continuarono le torture; volevano sapere dove avevamo lasciato le armi che, secondo loro, avevamo usato per uccidere Torregiani. Ad un certo punto fui costretto a inventare una scusa per sottrarmi alla violenza fisica, così dissi loro che li avrei portati nel luogo dove avrebbero trovato le armi. Li portai così in uno scantinato dove si riunivano i collettivi della zona. Io non avevo minima idea in quel momento dove si trovassero delle armi, tanto meno quelle usate per l’omicidio Torregiani; appena arrivati, in pochi minuti rivoltarono tutto, ma di armi non c’era traccia. A quel punto ebbi veramente paura, infatti due di loro tirarono fuori le pistole minacciando di uccidermi, ma altri due erano contrari al punto che litigarono tra loro, tanto da non poter capire se stessero facendo sul serio o se fosse una farsa. Ormai albeggiava, tornammo in questura e fui sbattuto in una cella senza niente, bagnato e gonfio. Mi accasciai dietro la porta; un poliziotto mi controllava continuamente. Venni prelevato dalla cella credo nel pomeriggio, mi trascinarono per un po’ su e giù per le scale, e dopo un po’ venni portato dentro una camera. Di quella esperienza ricordo solo un tavolo e tante coperte ammucchiate. Mi fecero spogliare completamente e mi sdraiarono supino sul tavolo; mi misero le manette alle caviglie e alle mani.
Incominci a picchiarmi il poliziotto Rea Eleuterio, mi avvolse la coperta sul torace e con un bastone mi percosse sul torace. Non so quanto stetti in quella stanza. Mi colpirono sulle tempie già gonfie, le fiammelle degli accendini sotto le piante dei piedi e sotto i testicoli, e il tentativo di introduzione del bastone nell’ano. Mi avevano convinto che dovevo andare dal Magistrato e fare i nomi delle persone che avevano ucciso Torregiani.
Mi portarono davanti a due persone in una stanza semi buia, solo in seguito seppi che quei due erano i giudici Deliguori e Spataro. Da dietro i poliziotti continuavano a suggerirmi di dire quello che avevo affermato davanti a loro, che era in parte ciò che loro mi dicevano che avrei dovuto dire ai giudici.
Il pomeriggio che fu ucciso Torregiani mi trovavo in ospedale a lavorare in presenza di medici e infermieri che in seguito testimoniarono a mio favore. I poliziotti in parte avevano creduto e cercarono di convincermi ad accusare Sebastiano, Pietro Mutti e Franco Angelo, persone che loro conoscevano già.
Dopo questo drammatico interrogatorio davanti ai giudici mi venne finalmente offerto un panino dopo ore e ore di digiuno senza mangiare né bere; in seguito venni trasferito al carcere di San Vittore. Accortisi che stavo molto male venni immediatamente sottoposto a visita medica.
Mi riscontrarono varie lesioni, tra cui: otite traumatica, tachicardia, pressione arteriosa alta, tumefazione alle tempie, alle caviglie, tumefazione e lesione allo scroto, e in seguito venni ricoverato al centro clinico.
Dopo qualche giorno mi venne data la possibilità di poter parlare con i giudici Spataro e Deliguori, i quali li vidi dopo qualche giorno, ed in seguito partirono le denunce per i poliziotti.
Venni scarcerato per mancanza di indizi.”
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breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
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