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Luca Zaia e le crociate
Chi come me ha avuto modo di studiare approfonditamente le Crociate sente nel più profondo del cuore un atavico desiderio di tornare indietro nel tempo solo per arruolarsi tra le file degli uomini di Salah ad-Din (Saladino) per maciullarne un po’… per avvelenarnargli le fonti durante i lunghi assedi e vederli rantolare sotto al sole alla ricerca di qualcosa da bere … per farli cadere nelle trappole con migliaia di arceri nascosti … per vederli crepare di sete.
I Crociati a Marrat an-Numan mangiarono tutti i bambini: avevano fame dopo la traversata della valle, in una stagione che loro, ignoranti mezzo-padani del medioevo, non immaginavano così calda e arida. Andarono a prendere tutti i bambini sotto i tre anni, perchè più grandi avrebbero avuto la carne più dura … tutto ciò è riportato da diversi storici, tutto ciò fa parte del DNA che l’Europa ha provato a innestare nei territori ad oriente.
Le Crociate non esistono sui nostri libri di storia…le Crociate non esistono nemmeno nelle nostre librerie più fornite. C’è solo una versione, ci sono poche pagine di monologo storico privo di fonti arabe, di traduzioni dei testi del luogo; c’è solo una campana, stonata e complice di massacri.
Per studiare quell’epoca bisogna leggere in inglese, in francese, in tedesco, in arabo: a noi italiani non hanno dato diritto ad avere certi testi, nessuno ce li ha mai tradotti.
Tanto che abbiamo un ministro della Repubblica, il MINISTRO per le politiche agricole Luca Zaia, che dichiara “Noi ci riteniamo gli avamposti nella trincea della Chiesa: potremmo dire che siamo i nuovi crociati. Siamo coloro che vanno a difendere tutte quelle idee che spesso qualcuno, magari, si vergogna di difendere”.
Questo stamattina, incontrando i giornalisti al meeting di Comunione e Liberazione.
Io inizio veramente a non farcela
Del carciofo … tradizioni mediterranee, dai sultani a Lungotevere
Il carciofo è la più misteriosa delle verdure. E anche la più femminile, e senza dubbio una cosa spiega l’altra.
Mentre le verdure di sesso maschile, come il cetriolo, l’asparago o il porro, non si peritano di esibire ai quattro venti la loro arrogante virilità, il carciofo, al contrario, per pudore innato, se non per civetteria, fa di tutto per nascondere la propria intimità sotto sottane e merletti, pieghe e panneggi. Per accedervi, i suoi amanti devono per prima cosa togliergli tutti questi fronzoli, a uno a uno, delicatamente, lentamente, prendendosi il tempo necessario.
Allora il carciofo offre loro il suo cuore carnoso , quella parte che i francesi, in epoche meno pudibonde, non chiamavano come adesso ‘fond‘, ma designavano molto appropriatamente, a causa della consistenza setosa e della forma arrotondata, con la parola ‘cul‘.
Non è tuttavia per la sua femminilità, come si può facilmente indovinare, che il carciofo è stato a lungo proibito in Francia alle ragazze di buona famiglia. Il Cynara scolymus, che nel XVI secolo aveva attraversato le Alpi proveniente dall’Italia, era considerato, al pari di altre piante fino ad allora sconosciute, come il pomodoro, potente afrodisiaco.
All’epoca, è un fatto, questo tipo di ghiottonerie era molto di moda, e l’aesempio veniva dall’alto: secondo la comica testimonianza di Brantome, dalla regina madre in persona, Caterina de’ Medici, assai incline alla scappatella. Costei aveva dunque una passione per i cibi creduti a torto o a ragione stimolanti, come i cuori di carciofo e le creste di gallo, tanto che, nel 1575, durante un banchetto di nozze rischiò di scoppiare. Questo non bastò comunque a ostacolare l’esaltante carriera del carciofo. Si racconta per esempio che a Parigi, sotto Enrico IV, i venditori ambulanti di frutta e verdura ne vantavano ancora le incomparabili virtù ‘per il signore e per la signora’. Ma la ‘signora’, che quando mangiava carciofi veniva mostrata a dito, sarebbe stata abbastanza arguta, come prova una poesia popolare della metà del XVIII secolo, da rivolgersi al ‘signore’ in questi termini:
…Mangiali tu, amore mio,
così meglio faranno
che se li mangiassi io.
Questa seducente reputazione ovviamente non poggia su alcunché di solido. Ed è un puro caso che Enrico VIII, colui che fondò davanti all’Eterno la Chiesa anglicana, consumasse mogli e carciofi con eguale appetito. Certo, nel mondo islamico, Rhazes aveva attirato l’attenzione sugli effetti stimolanti del
prezioso ortaggio sin dal X secolo, nel suo Libro dei correttivi sugli alimenti, Ma non ho letto da nessuna parte né ho mai sentito dire che i califfi, sultani o re delle nostre parti, che pur avevano tutti il temibile obbligo morale di soddisfare un intero harem, ne abbiano fatto largo uso. Mi chiedo del resto se kangar di cui parla Rhazes fosse davvero il carciofo. E mi pongo la stessa domanda di fronte a termini come harshaf, kharshaf, kharshuf, qinariya… Quanto al ‘akkub‘, che compare nell’opera del geografo palestinese Muqaddasi, e che il mio amico André Miquel traduce con ‘carciofo’, sono sicuro che si tratta di un cardo spinoso, e per altro delizioso, lo stesso che insanguinava le mani di mia nonna quando si ostinava a prepararcelo.
Veniamo così a un altro mistero del carciofo: quelle delle sue origini. In effetti, attraverso i secoli, nei paesi di lingua araba sono stati dati nomi diversi a una stessa pianta o famiglia di piante, che potevano o meno essere identiche al carciofo, a volte, al contrario, un solo nome a ogni sorta di acanti, cardi e carciofi selvatici o coltivati. Sfido chiunque a raccapezzarsi tra queste piste orribilmente confuse, prima per colpa degli stessi botanici, da Dioscoride a Ibn al-Baytar, quindi dei loro traduttori, e infine della coorte dei commentatori, i quali, inutile dirlo, non hanno affatto contribuito a fare chiarezza. Quel che mi sembra più o meno certo, in questo ginepraio, è che il carciofo è nato nell’Africa del Nord, da un cardo selvatico , e che sono stati i nostri cugini maghrebini ad allevarlo e prendersene cura. Erano interessanti alle costole più che alla testa, somigliante a quella del cardones, altro cardo commestibile.
Gli andalusi, incontestati maestri giardinieri, hanno cercato in seguito di ingrandirne la testa, come lascia intendere, alla fine del XII secolo, l’agronomo sivigliano Ibn al-Awwam. Dalla Spagna, quel che ormai conviene senz’altro chiamare carciofo passò in Sicilia, e quindi a Napoli, donde arrivò a Firenze nel 1466. La parola arava al-harshaf, designante il cardo, diviene alcarchofa in spagnolo, anticcioco in lombardo, artichaut in francese. Nel XIX secolo, riscoprendolo al termine di questa lunga evoluzione, gli arabi del Levante lo chiamarono ardishoki, parola veramente geniale perché chiude il ciclo delle derivazioni arricchendone al tempo stesso il significato, dato che il termine –shoki (come shawk, spina) rinvia per assonanza all’ascendenza spinosa del carciofo.
Non c’è da meravigliarsi, in queste condizioni, se il Maghreb è oggi, con l’Italia, l’area in cui il carciofo è più valorizzato. Questo è anche vero per il cardo, che i francesi, sfortunatamente, hanno troppo trascurato, malgrado l’avveduto consiglio di grimod de la Reynière, che nel suo Almanach des gourmands lo definisce il “nec plus ultra della scienza umana“. Secondo lui, “un cuoco capace di fare un piatto di cardi squisiti può intitolarsi primo artista d’Europa”.
Di cuochi siffatti non ne esistono più, in Europa, o molto pochi, ma ce ne sono in Marocco, dove il tagin ai cardi, quanariya, è tanto raffinato che viene utilizzato per controllare la qualità dell’olio d’oliva nuovo. E che dire del tagin ai cuori di carciofo selvatico, con eventuale aggiunta di fave verdi o piselli, se non che si tratta di uno dei piatti più prelibati che esistano sul pianeta terra?
Per prepararlo, ci vogliono indubbiamente molto coraggio e abnegazione, perché questo tipo di carciofo somiglia a una corona di spine, ma alla fine del calvario c’è il Paradiso. Tuttavia, se non siete disposti a sacrificarvi per i vostri convitati, pure volendo far loro piacere, non esitare a tentare il tagin ai carciofi selvatici, o lo spezzatino tunisino ai carciofi ( ganarriyya) e limone, insaporito col peperoncino rosso, o ancora i cuori di carciofo (qarnun) all’algerina farciti di carne tritata, cipolla e prezzemolo, il tutto amalgamato con un uovo e aromatizzato col pepe nero e la cannella.
Ho visto la mia vicina di Costantina metterli in una pirofila, arricchirli con polpette preparate con lo stesso ripieno, e poi cuocerli in una salsa di pomodori freschi. Una ricetta diversa dalla nostra ma che non ha nulla da invidiarle.
Non andate ora a pensare, vedendomi celebrare le virtù dei carciofi maghrebini, che sottovaluti quelli francesi, Al contrario, non ne conosco di migliori, e neppure di equivalenti salvo forse i pinzimoni italiani, che si lasciano sgranocchiare senza tante moine, crudi con un po’ di sale.
Il carciofo è sempre saporito, divertente, ricco di vitamine, povero di calorie, coleretico, diuretico, e molte altre cose ancora. E se non è veramente afrodisiaco, lo può diventare. Basta crederci.
Polpette di carciofo _Mbattan gannariyya_
Tunisia
Ingredienti per 4 persone:
@ 250 gr di cosciotto d’agnello disossato e tritato
@ 12 cuori di carciodo
@ 1/2 limone
@ 2 cipolle tritate sottilmente
@ 2 uova
@ 100 gr di formaggio grattuggiato
@ 1 mazzo di prezzemolo sfogliato e tritato
@ 4 cucchiai di farina e 1/2 cucchiaino di paprika
@ 2 cucchiai di polpa di pomodoro
@ olio d’oliva, harissa, sale e pepe
• Fate cuocere i carciofi in acqua con un po’ di sale e succo di limone, e riduceteli in purè. Mescolate il purè con la carne, il prezzemolo, la cipolla, il formaggio grattuggiato, il sale e le spezie.
• Formate delle polpette e friggetele dopo averle immerse nelle uova battute e nella farina.
• Diluite il concentrato di pomodoro e la harissa in un bicchier d’acqua, aggiungete un po’ d’olio d’oliva e portate a ebolizione. Controllate il sale e fate restringere la salsa a fuoco lento
• Servite caldo con salsa a parte
e adesso passiamo alle tradizioni di casa:
Il carciofo è un ottimo alimento che, soprattutto nel Lazio, gode di un apprezzamento fuori dal comune. Tra i vari tipi di carciofi, di provenienza oltre la campagna romana, si preferisce quello romanesco o cimarolo, coltivato nella zona compresa, grosso modo, tra Roma e Civitavecchia e particolarmente nella campagna di Cerveteri e Ladispoli. Il segreto, ammesso che si tratti di segreto, per ottenere un carciofo tutto da gustare, grazie soprattutto alla sua tenerezza, sta nel saperlo ‘capare’, ossia nel saperlo liberare completamente delle foglie dure, altrimenti, come si dice a Roma ‘ciancichi e sputi’.
La mani esperta, pignola ma non esagerata, taglia la parte più dura delle foglie, quella superiore per intenderci, con un coltellino a punta, ben affilato, cominciando dal fondo che ha le foglie più tenere, per proseguire fino al centro. Il carciofo acquista allora una forma sferica. E’ bene insistere che in particolare, riguardo alle prime foglie da togliere, la mano si affida alle proprie dita e, foglia dopo foglia, le spezza nel punto dove finisce il tenero che, dall’alto verso il basso, viene liberato di quella pellicola leggera che lo ricopre. A questo punto si pulisce il gambo, togliendogli, senza affondare troppo il coltello, la corteccia e lo si immerge in acqua ben acidulata con succo di limone, affinchè non si faccia nero. Successivamente, aperta bene la bocca del carciofo e battuta più volte sulla tavola, se ne estrae dall’interno l’eventuale fieno, a Roma detto ‘pelo’, poi vi si introduce un pezzetto d’aglio, un pizzico di mentuccia, insieme a sale, pepe e all’olio necessario e abbondante. Una strofinata esterna, leggera, di un po’ di sale e pepe non guasta.
Ogni carciofo così preparato si dispone capovolto in un tegame, preferibilmente di terracotta, con i bordi alti affinché i gambi rimangano dritti e fermi durante la cottura. Nel tegame poi si versa tanto olio vergine di oliva quanto ne occorre per coprire a metà i carciofi e si aggiunge inoltre l’acqua necessaria perchè la copertura sia totale.
Queste ricette e notizie sul carciofo e i cardi sono tratte da “La cucina di Ziryab” di Farouk Mardam-Bey e “La cucina romana e del Lazio” di Livio Jannattoni
Una grande opportunità che non sfrutteremo.
Di solito non amo molto quello che scrive. Ogni tanto quando lo leggo mi incazzo proprio,
ma di quelle incazzature belle, fondamentalmente sane.
Quest’articolo di prima pagina, uscito oggi su Liberazione, però mi piace abbastanza, mi piacerebbe parlarne, mi fa venir voglia di discutere di molte cose. Anche di criticarlo, perchè non credo molto in alcune categorie che più volte vengono fuori nel suo articolo e non solo in questo.
Non credo molto nella categoria Occidente cosi come lui la mette, malgrado i miei studi arabisti mi portino a volte ad appropriarmene. Non ci credo in quanto comunista, in quanto materialista…preferisco rapportarmi con le classi, tutt’altro genere di categoria (scusate il vizio, ma non ci passa).
Ma molte cose del suo articolo sono condivisibili, anche se forse sottolineano poca conoscenza effettiva di quello che lui mai nomina, cioè l’ “Oriente”.
Ma ci sarebbe troppo da scrivere a riguardo, quindi per ora vi lascio leggere l’articolo,
sottolineando che ha ragione, molta ragione, quando dice che è ” un’enorme, imprevedibile ed imprevista opportunità”, che visto come siamo ridotti anche noi, non sapremo sfruttare.
Chi lo farà, probabilmente, sarà peggio di loro. Sarà peggio di oggi.
L’OCCIDENTE ALLA CATASTROFE FORSE è UN MALE FORSE è UN BENE
_____Franco Berardi Bifo, da Liberazione del 8 ottobre 2008_____
Il crollo del sistema finanziario internazionale è l’inizio di un processo di trasformazione profonda e catastrofica delle società di tutto il mondo. Gli effetti di questo collasso sono ormai prevedibili. Avendo succhiato tutte le risorse disponibili per salvare le banche, senza peraltro riuscire a salvarle, il potere politico americano ha fatto una scelta: mandare nell’abisso l’economia reale.
Cosa vuol dire infatti il colossale intervento del Tesoro? Vuol dire ipotecare le risorse di tutti. Ogni americano pagherà duemila dollari per salvare Wall Street, non ci sarà più credito disponibile e non ci saranno soldi per gli investimenti. La disoccupazione in America è aumentata di centosessantamila unità nel mese di settembre. E’ facile immaginare cosa accadrà nei prossimi mesi. La crisi finanziaria, d’altronde, non va vista come un fenomeno isolato. Essa è in stretto collegamento con un’altra catastrofe, quella geopolitica, quella militare.
Dal 1492 l’Occidente ha potuto disporre delle risorse del pianeta perché disponeva di una forza militare schiacciante. Puntando la pistola alla tempia dell’umanità, gli occidentali hanno potuto appropriarsi delle risorse di tutti gli altri. Ma con la disfatta in Iraq e in Afghanistan, con il ritorno aggressivo della potenza russa, l’egemonia militare è finita. La pistola puntata alla tempia ora appare scarica (anche se purtroppo non lo è). Sta accadendo una cosa nuova: i popoli della terra ora sanno che l’Occidente non ha più nessuna egemonia militare, dunque chiedono di ridistribuire quelle risorse di cui l’Occidente si è appropriato. La restituzione del debito che l’Occidente ha accumulato non solo negli ultimi trenta o quarant’anni, ma negli ultimi cinquecento anni.
Questa è la posta in gioco, questo è l’orizzonte nel quale ci muoviamo. Il 20% della popolazione terrestre che si appropria dell’80% delle risorse della terra è forse pronto a restituire il maltolto? Purtroppo non è pronto, anzi non vuole nemmeno riconoscere l’entità del problema, almeno fino ad oggi. E questo vorrà dire guerra, razzismo, violenza. E’ bene saperlo.
Ma questo vorrà dire anche la fine dell’Occidente. Non del capitalismo badate bene, ma la fine dell’Occidente, del mondo come lo conosciamo da Cristoforo Colombo in poi.
C’è qui un’opportunità per gli eredi del movimento egualitario e libertario, c’è qui un’opportunità per i movimenti di autonomia della società?
C’è un’opportunità gigantesca, a mio parere, anche se ora è difficile da cogliere.
Il capitalismo non è una cosa, non è un ammasso di cose. Ce l’ha spiegato Marx. Marx ha detto: il capitale è un rapporto, non una cosa. Io, se me lo permettete, che pure sono piccolo piccolo, vorrei correggere, su questo punto, Marx. Il capitale non è una cosa, ma non è nemmeno un rapporto.
Il capitalismo è l’introiezione di un rapporto. Solo quando gli uomini e le donne introiettano il rapporto tra lavoro e salario, tra valorizzazione e dominio, tra bisogno e merce, solo quando gli uomini e le donne credono che lo sfruttamento sia naturale, il capitalismo li può dominare.
Se gli umani capiscono che ci sono altri modi di organizzare la loro attività e il loro scambio, il loro rapporto con la natura e con le risorse, se capiscono che ci sono modi meno faticosi e meno violenti, allora forse vivere senza dominio capitalista diviene possibile.
Oggi noi attraversiamo una catastrofe. Catastrofe non è una brutta parola, una parola che porta disgrazia. E’ un concetto dal senso preciso. In greco significa spostamento che permette di vedere una prospettiva che non si vedeva prima.
Kata significa giù, sotto, ma anche oltre, al di là. E strofein significa spostare.
La catastrofe finanziaria e geopolitica non è di per sé una liberazione. Al contrario, di per sé moltiplica il pericolo, di per sé aumenta la paura.
Ma se ci sono uomini e donne intelligenti, creativi, coraggiosi e soprattutto liberi dall’eredità del passato, come noi siamo o almeno dovremmo essere, allora vedi che si presenta una enorme (imprevedibile ed imprevista) opportunità. L’opportunità è quella di cavalcare la (inevitabile) disfatta dell’Occidente, che ormai è in corso, che ormai è inarrestabile, in un nuovo atteggiamento mentale, in una nuova concezione vissuta della ricchezza.
La ricchezza non è la massa di cose di cui disponiamo, la ricchezza è il modo in cui viviamo il tempo, è il rapporto di solidarietà che sappiamo avere tra noi. Come i gigli nei campi e come gli uccelli nel cielo anche noi umani possiamo vivere di poco, di molto poco. Dovremo imparare a vivere del poco indispensabile, perché altrimenti finiremo tutti malissimo. Non sarà facile impararlo e ancor più difficile sarà insegnarlo a tutti gli occidentali. Ma impareranno, con le buone o con le cattive.
Noi vediamo oggi, grazie alla catastrofe, che il capitalismo non è eterno e non è naturale, che l’economia della crescita non è la migliore organizzazione della vita sociale. Quel che dobbiamo fare è comunicarlo. Senza ansia, senza rabbia, senza arroganza.
Molte cose scompariranno nei prossimi mesi, molti moriranno di fame e molti di violenza e di guerra. E’ bene saperlo, è bene prepararsi. E’ bene preparare quelli che ci stanno intorno. Ma nulla di ciò che sta sulla terra è eterno, neppure le nostre vite, i nostri giornali, i nostri partiti. La sola cosa che non deve estinguersi è la capacità di capire. Comprendere, comprendere, e trasformare.
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