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Una lettera dalle Vallette racconta il carcere di oggi. Femminile.
Purtroppo nulla di quel che ho letto in queste righe mi ha stupito.
Chi conosce il pianeta carcere, chi con lui ha la familiarità e l’odio del caso sa perfettamente che quel che raccontano queste righe è normale amministrazione, è il carcere di oggi, quello che azzitta e separa, quello dove non esiste lotta ed organizzazione,
quello dove l’abuso è tra i più squallidi e il controllo farmacologico pane quotidiano.

Carcere di Rebibbia…
Mi piacerebbe lo leggessero tutte coloro che si sono addannate per trovare delle scarpette rosse, due giorni fa.
Stralci di una lettera dalle Vallette.
04/11/2013
(…) Mi trovo tutt’oggi ancora ai Nuovi Giunti. Sono stata trasferita il 22 luglio. Io come altre detenute, siamo al livello di non ritorno dalla quasi pazzia. In teoria nei Nuovi Giunti puoi starci massimo 15 giorni.
Dopo svariati mesi da una petizione siamo riuscite a ottenere uno sgabello per cella, poter fare l’aria a uno stesso orario, e non come pecore da pascolo, o tappa-buchi quando le altre sezioni non scendono. Questo era un disagio non da poco. Una mattina alle 9, il giorno dopo alle 11 come veniva comodo a loro e quell’ora d’aria diventava una corsa per poter essere pronte all’improvviso. Questa situazione è da sempre insostenibile. Due ore d’aria e ventidue chiuse senza la possibilità di fare un’attività ricreativa. C’è una bellissima palestra inagibile. Abbiamo ottenuto di poter usufruire della doccia dalle 9 alle 11, orario in cui devi essere già pronta per la così sospirata ora d’aria. Alle 11 passa il vitto. Bene noi al nostro ritorno dall’aria alle 12 abbiamo nei piatti qualcosa di commestibile, di cui non si capisce la fattispecie, messa a giacere per un’ora fino al nostro ritorno in cella. Prima cosa non mi sembra molto corretto e igienico che io debba avere il vitto per un’ora dentro la cella senza neppur vedere cosa mi ci si mette dentro. Io personalmente ho un piccolo aiuto dall’esterno e vado avanti da più di tre mesi a yogurt e frutta. Ma chi non ha la possibilità di fare quel minimo di spesa si fa coraggio chiude gli occhi e butta giù. Le mie compagne mangiano degli alimenti con corpi estranei all’interno!
Poi c’è il lusso della doccia dalle 13 alle 15. Alle 15 bisogna essere pronte per l’aria. Quindi in una sezione dove ora siamo 25, ma spesso si è in 50, con 2 docce funzionanti e un lavabo bisogna fare coincidere tutto. Voglio puntualizzare che nelle celle non c’è proprio la predisposizione per l’acqua calda a differenza delle docce dove c’è un termostato per la temperatura a piacimento loro. Quello che potrebbe essere un piccolo ritaglio di relax diventa una vera e propria tortura per molte, direi quasi tutte. La temperatura priva di calore rende insostenibile il nostro livello di stabilità. Io personalmente faccio comunque la doccia seppur con la speranza che non mi si geli il cervello. Ma le mie compagne sono tutte comunque di un’età sulla cinquantina anche oltre puoi capire il loro disagio e impossibilità di lavarsi dignitosamente: si prendono a secchiate a vicenda prendendo l’acqua dal lavabo della doccia che è per lo meno tiepida. Potrebbero chiamarsi problematiche sorvolabili invece queste condizioni imposte rendono la nostra permanenza e sopravvivenza insostenibili a un minimo tenore dignitoso. Ho deciso di scrivere questa parte di lettera di sfogo perché vedo crollare la stabilità delle compagne sotto ai miei occhi! E mi sto quasi sentendo impotente a poter solo tendergli la mano.
Ci sono detenute che andrebbero spostate in centri che possano aiutarle e non essere imbottite di terapia per non disturbare la quiete delle lavoranti “agenti-assistenti” con il continuo urlo straziante per il loro malessere psicologico con “invalidità al 100% neurologica”. Sono già state in diverse strutture OPG ma ora giacciono qui nei Nuovi Giunti. Io non mi permetto di chiudere la bocca a nessuno. Così per non sentire queste urla assordanti ho praticamente un trapianto di cuffie alle orecchie.
Ho preso realmente coscienza che bisogna fare uscire al di fuori da queste mura la realtà vera, cruda delle carceri italiane. Perché lottando sole facciamo solo numero. Così da questa sera a un mese ognuna di noi farà da passaparola per fare girare la voce nelle carceri italiane. Il 4|12 alle ore 16 faremo una battitura. Nel giro di un mese credo che il passaparola sarà arrivato in tutte le carcere e chi ha la possibilità di mandarci giornalisti al di fuori di queste strutture da degrado, aiuterà a fare uscire oltre queste infinite sbarre il nostro grido di aiuto. Se una persona lotta da sola, resta solo un sogno, quando si lotta assieme la realtà cambia. Qualcuno dovrà pure darci ascolto!
Siamo ancora prive di un contatto con il mondo esterno, prive di tv che potrebbe aiutare a distogliere la mente dai nostri pensieri. La posta potrebbe essere un po’ di zucchero per i nostri cuori ma anche lì abbiamo il lusso che ci venga consegnata “dal martedì al venerdì”, forse non avendo contatti con il mondo esterno non siamo a conoscenza che le poste italiane ora lavorano solo quei giorni. Ma non credo sia così. Dopo un mese dal mio trasferimento a questo penitenziario nuova disposizione: tutta la posta deve essere registrata al computer “quando ne hanno tempo”. Altrimenti come oggi seppur lunedì la posta vista da altre detenute non c’è stata consegnata. In prima sezione hanno fatto la battitura, noi nuovi giunti all’aria ci mettiamo sul piede di guerra: minacciamo di non risalire dall’aria. Così per azzittirci la nostra dignitosa ispettrice ci viene a dire che stanno registrando la posta. A chiacchiere: niente posta. Io personalmente una raccomandata l’ho firmata dopo 9 giorni dal suo arrivo!
Non veniamo rifornite di niente: generi di prima necessità per l’igiene persona e quant’altro. Solo al nostro arrivo un rotolo di carta igienica, due piatti e due posate di plastica, uno spazzolino e un dentifricio con saponetta. Poi dopo aver dormito senza lenzuola coperte e cuscino se sei fortunato entro un paio di giorni dal tuo arrivo puoi ottenerle e poi niente più. E, mi ripeto, chi non ha un piccolo aiuto dall’esterno economico è privo di tutto. Non viene rifornito neppure dalla carta igienica. Ma per fortuna c’è la domenica di mezzo. Ci viene data gentilmente in regalo Famiglia Cristiana e molti giornali. E molte hanno trovato rimedio a scopo carta.
Scrivo terra-terra sdrammatizzando ma siamo nel tunnel degli orrori. Prendendo atto di ciò che è accaduto il 31 ottobre ora do il libero sfogo. Abbiamo sollecitato più volte le assistenti di sezione di tenere sotto osservazione una nostra compagna da giorni in uno stato confusionale e, preoccupate per questa visibile instabilità, abbiamo solo richiesto che venisse applicato il loro ruolo: controllarci. Bene se questo fosse stato fatto con i tempi giusti oggi non ci si troverebbe in questa condizione. Bene siamo scese all’aria alle 15 e al nostro ritorno dopo più di un’ora che eravamo rientrate notiamo un’allarmante via vai di assistenti nella cella di questa nostra compagna. L’hanno trovata priva di sensi con entrambe le braccia tagliate da ferite importanti tanto da procurarsi la sutura di 19 punti al braccio sinistro e 24 al quella destro. Ovviamente mentre era in infermeria viene fatto il cambio cella per essere poi piantonata. “Ovviamente”. Tutto ciò poteva essere evitato ascoltando le sue ragioni. Non volevano consegnarle la spesa della sua concellina uscita liberamente, che aveva fatto tanto di domandina per lasciare la sua spesa a lei. Domandina vista da vari assistenti e poi credo cestinata. Questa è stata la goccia che ha interrotto quel filo sottile della sua stabilità già offuscata. Anche qui sarebbe bastato ascoltare e controllare prima che succedesse l’accaduto.
Malgrado piantonata, la stessa notte per la seconda volta ci è andata troppo vicina: si stava soffocando con la sua maglia, e per ritardare l’accesso alla sua cella di piantonamento ha tirato su la branda facendola incastrare nelle sbarre del blindo. Allora tiriamo fuori la realtà, la verità. Non credo che bisogna aspettare che uno sia sottoterra. Questo va ben oltre. Ieri è andata bene, se così si può dire, facciamo qualcosa. Aiutateci. Aiutiamo queste donne, figlie, madri.
Per finire in bellezza la stessa notte una compagna si sente male. Soffre di gastrite nervosa. Mi dirai che non è una patologia così allarmante, sì se solo non soffrisse di problemi cardiocircolatori. Ha già avuto un arresto cardiaco provocato da questi attacchi. Continuano a farle flebo e punture di “Contramal” per alleviare il suo dolore. Ma in sostanza con i problemi che ha aggrava solo le sue condizioni. Portandola tra le mie braccia di peso sino in infermeria è passata più di un’ora e mezza per fare intervenire la guardia medica.
Bene. Io sono allibita da tutto ciò. Ma non smetterò di combattere per me e le mie compagne, il nostro grido di dolore è assordante ma non ci sente nessuno. La guardasigilli Cancellieri si sta muovendo per noi? Per la popolazione carceraria? Ma deve aiutare noi tutte, detenute dal degrado.
Un grido di aiuto e un affettuoso saluto le detenute seconda sezione Nuovi Giunti.
M.
Seguono le firme di 22 detenute
BUUUUM! Il Duka sugli scontri del 14 dicembre’10
MO IO NON SO UNA CHE DI SOLITO “AMMIRA L’ESTETICA” COME SCRIVE ALLA FINE IL DUKA,
MA QUESTA PAGINA M’HA FATTO SORRIDERE, NON POSSO NEGARLO!
Buumm! Sembra la festa di Fuorigrotta! Però questa volta le bombe di carta non scoppiano per festeggiare santi, ma solo le porchemadonne di chi sta pagando la crisi. Bumm! Buuum! BUUUUM! Uomini e donne attaccano i blindati e danno fuoco alla città indorata per gli acquisti natalizi. Buumm! Dopo Atene anche a Roma bruciano gli alberi di Natale!
Poco prima, nel preciso momento in cui dal palazzo filtravano notizie sulla scandalosa fiducia, si frantumava il mito di un popolo civile che protesta civilmente. Dove qualcuno tifava per un 25 luglio, si è aperta la strada di un 25 aprile. Buumm!
Lo scenario è cambiato in un botto. La parola è passata alle piazze. E mentre i media facevano retromarcia urlando alla guerriglia criminale, il reale ha squarciato il reality show. Buumm! Il sito di Repubblica impallidisce terrorizzato: dov’è finito il popolo educato dell’anti-berlusconismo? Dove sono andati i vostri immaginari bravi ragazzi? Buum!
Ci sono sedicenni con magliette azzurre e la scritta “Napoli ti seguiremo ovunque” che dopo aver lanciato i sacchi dell’immondizia fanno scoppiare petardoni in stile Terzigno. C’è uno sbarbato che ha tirato fuori dallo zainetto una picozza d’alpinista e ora sta sfasciando i vetri di una camionetta della finanza. Ragazze in passamontagna e felpa nera sfondano bancomat e telecamere. Punkettini in adrenalina recuperano sampietrini dal selciato. Ultras delle curve fanno girare le cinte di cuoio davanti alle guardie. Militanti di piccoli collettivi di periferia si buttano sui celerini con la loro bandierina rossa, spinti in missione da una forza interiore. Un liceale piccoletto con il casco in testa cammina come un robottino caricato a molla, avanza da solo verso gli scudi dei poliziotti. Un pezzo di legno in mano e gli occhi spiritati. Buum Buumm!
Piazza del popolo non c’è più. Buum Buumm! Gli sfigati, i soliti ignoti, occupano la scena. Da Londra all’Italia le fiamme illuminano la strada maestra. Il sapere non è più la sacra icona da difendere, ma è una mostruosa arma con cui fare male al nemico. È l’intelligenza collettiva di organizzarsi nello spazio metropolitano, di rendersi imprendibili, di farsi sciame e di attaccare nei punti migliori. Buum! Buum!!
Ci sono i rappresentanti della brigata Monicelli, erano in 2000 sul red carpet, ora sono solo in otto su via del corso, eppure si fanno sentire lo stesso. Sono guidati da un ciccione venticinquenne che fa lo sceneggiatore precario, i capelli lunghi e biondi alla Gérard Depardieu. Da novello Danton con il megafono in mano comizia: “La speranza, come diceva Monicelli, è solo una trappola dei padroni. Una presa in giro per noi giovani senza futuro, siamo noi che viviamo sulla nostra pelle le conseguenze umilianti di leggi modellate sui privilegiati.”
Una fiumana di gente subisce una carica, lo sceneggiatore si mette in mezzo alla via e con la sua mole blocca gli studenti impauriti. “Non scappiamo, non vi accalcate uno sull’altro. Piano! Piano! Andate piano.” E’ la prima volta che fa scontri eppure ha il senso di responsabilità di un generale napoleonico. Si sente di guidare uno spezzone piccolo ma importante di questo movimento, i lavoratori del cinema italiano. In un momento di pausa, in un attimo di calma, tra le nuvole dei lacrimogeni, grondando sudore, riappoggia le labbra al megafono, alza la testa verso il cielo, chiude gli occhi e urla: “La linea discriminante non corre più tra violenza e non-violenza, ma tra violenza dei governi, della polizia, delle banche e dall’altra parte la nostra forza costituente.”
Dove qualcuno tifava per un 25 luglio, si è aperta la strada di un 25 aprile. Buumm!
Chi sono? Chi sono? Sono tutti giovani. Gente mai vista! Sono radicali nei comportamenti, infuriati in piazza. Hanno afferrato la questione alla radice: o si trasforma tutto, o la crisi la pagheremo noi. Buum! Buum!! BUUMM!
Sommerso dalla baraonda mi sento preso da un sogno, e così al posto di scroccare la solita canna, al Danton con il megafono gli chiedo: “Che c’hai un sercio?” Non ce n’erano più di serci, né di pietre, né di bastoni o legnetti, niente di niente, tutto era già stato lanciato. Allora ho alzato lo sguardo insieme alle migliaia di persone di piazza del Popolo. Una colonna di fumo nero, un’enorme colonna alimentata da un blindato in fiamme, s’alzava all’imbocco di via del Babbuino. C’è stato un momento di silenzio, poi un gran boato di gioia. Esattamente come qualche giorno prima ai piedi del Big Ben londinese. La stessa scena ad uso consumo degli obbiettivi dei telefonini, per abbellire una pagina di Facebook con uno storico ricordo. Momenti che passano attraverso la stretta apertura del presente ed entrano indelebili nella memoria collettiva.
Forse non serve a niente attaccare d’inverno il palazzo, ma ogni tanto è bello vedere che l’ordine è messo sottosopra. Buum! Buum!
Non facciamo scempio di questo bel gesto compiuto proprio mentre dentro quello stesso palazzo se ne svolgeva un altro immondo, con le carogne in giacca e cravatta che si rubavano il portamonete a vicenda.
I lacrimogeni scoppiano a ripetizione, i blindati fanno caroselli, la piazza piano a piano si svuota, inizia la caccia all’uomo. I ragazzini vengono massacrati per terra. Corro via insieme a un tipo anziano bell’allenato “Faccio due ore di spinning al giorno nella palestra del mio quartiere.” mi dice “Per questo sono qui, quelli della mia età non ce la fanno più a reggere uno scontro, altrimenti sarebbero venuti.” Io e il pensionato vediamo un nugolo di poliziotti che s’accaniscono con i manganelli sulla faccia di uno studente già sdraiato per terra “ Nel 1968 a Parigi” mi dice lui “ Il prefetto aveva invitato le forze dell’ordine a non commettere violenza inutile perché rimane nell’occhio di un ragazzo che la vede. E non passa più.” Ecco, i processi della memoria riaffiorano ancora. A Genova non sfondammo la zona rossa. A Roma l’abbiamo varcata. Nel 2001 abbiamo lottato separati. Adesso siamo rimasti uniti. Allora i diciottenni scapparono perché non si attendevano l’inferno, oggi i diciottenni sono quelli che incitano gli altri a non scappare più.
Eppure il 14 dicembre non è la cura. Il 14 è solo il sintomo. Adesso bisogna dire stop alle contrapposizioni tra buoni e cattivi, chi c’era e chi non c’era. Cercare di non dividere, anzi sforzarsi di unire. Questo è un punto da tenere fermo. Un corpo sociale in grave sofferenza si esprime con rabbia contro chi l’ha condannato al male. Noi sosterremo sempre la spontaneità e la furia, ascolteremo il rombo di quelle acque. Ci caleremo dentro. Ma sappiamo anche che senza un corso in cui incanalarsi, senza argini tra i quali correre, l’acqua non forma più un fiume, ma solo una palude. Non dobbiamo fermarci al sintomo, ma trovare la cura. Andare oltre il momento della negazione. Serve il collegamento tra le lotte, serve organizzarsi, servono alleanze, servono saperi adeguati.
E’ vero, il fatto che si sia riaffacciata la metafora dell’assedio non fa capire nulla della natura del potere. Ma quando si innalza il livello dello scontro, non c’è niente oltre al “no future”.
È un non-senso bruciare le macchine, d’accordo, le banlieues ce l’hanno insegnato, ma per avere un senso si deve far crescere una consapevolezza comune.
Ma oggi non ci mettiamo a recriminare o a trovare ragioni politiche da una parte e dall’altra.
Per una volta proviamo ad andare oltre al No future, per una volta ammiriamo l’estetica.
Buumm! Buumm! BUUUMMM!
Napoli: sgomberi al Materdei
Posto il comunicato dei compagni di Napoli, sgomberati ieri dal quartiere Materdei.
Contemporaneamente è stata sgomberata Casa Pound, nello stesso quartiere
Napoli: Sgomberata la Ex-Schipa occupata!
Questa mattina all’alba, con 9 blindati e la celere in assetto antisommossa, è stata sgomberata la Ex-Schipa occupata di via Salvator Rosa. 40 persone, tra attivisti e nuclei familiari che li vivevano, sono state sorprese nella notte e sono uscite dopo una trattativa di 30 minuti. Ciò malgrado sono state deportate in questura dove sono state denunciate per “invasione e occupazione di edificio”. In questo momento, mentre gli occupanti escono dalla questura dopo le identificazioni, attesi da un presidio di altri compagni, stanno murando l’ingresso della Skipa e con esso i nostri sogni, il nostro lavoro, la ludoteca che partiva martedi (qualcuno lo spiegherà ai bambini!), la sala cineforum dove già si erano fatte le proiezioni in questi giorni ecc.
Abbiamo saputo che contemporaneamente è stata sgomberata Casapound a Materdei. 4 i fascisti che sono stati fermati. Delle due l’una: o hanno concordato lo sgombero o l’esiguità delle presenze rivela chi con l’occupazione rispondeva a un bisogno sociale e chi invece ne faceva una speculazione politica di estrema destra. Gli Schifone, i Taglialatela, i Santoro, rappresentanti istituzionali di una destra che quando le fa comodo sostiene di fare abiura del fascismo, dovrebbero spiegarci se l’appoggio e il sostegno concreto e continuo a un’organizzazione che per statuto si propone di “innovare e rinverdire l’eredità del fascismo” è semplicemente nostalgia per il loro passato di “camerati” o altro…
Noi non accettiamo in nessun modo questa equiparazione tra chi fa parte di una tradizione di esperienze e di autogestione a scopo sociale (che comprende non solo i centri sociali, ma gli occupanti casa, i movimenti dei disoccupati, perfino esperienze religiose ecc) e un gruppo sparuto di persone che punta a insediarsi a Napoli in strutture pubbliche per riprodurre le pratiche neofasciste, xenofobe e razziste di cui si sono resi protagonisti in tutta Italia! Con modalità squadriste e agguati che già abbiamo imparato a conoscere… Oggi il comune di Napoli e le altre istituzioni citttadine hanno compiuto un grave errore di pavidità culturale e politica. Una responsabilità anche per il futuro. Crediamo che la città debba schierarsi su questo, perchè ne va del grado di civiltà stessa della vita sociale.
Rete napoletana contro il neofascismo, il razzismo e il sessismo
Dai detenuti della casa di reclusione di Padova
Ristretti Orizzonti, 12 maggio 2009
Il sovraffollamento delle carceri si fa sentire pesantemente anche alla Casa di Reclusione di Padova: creata per condannati a pene lunghissime ed ergastolani, ha solamente celle “singole” (8 metri quadri), che avrebbero dovuto consentire una detenzione meno gravosa per questa tipologia di detenuti e una gestione migliore della sicurezza da parte degli agenti. In realtà le celle “pensate” per una sola persona sono state subito occupate da 2 “inquilini” ed oggi ci è arrivata la notizia dell’aggiunta di una “terza branda”. Una situazione per la quale i detenuti hanno deciso una serie di “azioni dimostrative”, a partire da venerdì prossimo: rifiuto del vitto dell’amministrazione, sciopero della fame e “battitura” delle porte blindate.
Lo rendono noto in una lettera indirizzata a Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Direzione del carcere, nella quale denunciano la “sopraffazione psico-fisica subita con l’istallazione della terza branda, in celle singole che mal si adattavano a due persone”.
Protesta avvalorata anche dal parere del Dirigente Sanitario del carcere, che riterrebbe le celle di 8 mq inadatte “per una normale convivenza di tre persone, specialmente in prossimità di temperature che in estate raggiungeranno facilmente i 40 gradi”.
I detenuti concludono appellandosi alle autorità competenti perché “vogliano prendere coscienza della situazione a dir poco drammatica di chi vive sulla propria pelle, quotidianamente, l’insufficienza d’aria, di igiene e di spazio”.
La Casa di Reclusione di Padova, costruita per 350 detenuti, ne “ospita” stabilmente oltre 700 e l’aggiunta della terza branda nelle celle lascia presagire che il numero è destinato molto presto ad aumentare, probabilmente nel tentativo di decongestionare le sovraffollate Case Circondariali della Regione: nel Veneto i carcerati sono oltre 3.100, mentre i posti-branda sono appena 1.900… in altre parole ogni 100 posti ci sono 162 detenuti.
Il lavoro in carcere, ferie, salario, previdenza. Turelare i diritti anche in prigione
Il lavoro in carcere di Paolo Persichetti, Liberazione 21 gennaio 2009
tratto dal suo blog INSORGENZE
«Uno dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione». Lo scrive Harry G. Frankfurt nella prima riga di un brillante saggio uscito in Italia nel 2005, edito dalla Rcs e per l’appunto inequivocabilmente intitolato, Stronzate. Vacue scemenze infestano i dibattiti televisivi, le pagine dei giornali, soprattutto la politica, per dimostrarlo Frankfurt ricorre a dotte riflessioni su Wittgenstein, Pound, Agostino. Molto più modestamente (siamo in Italia e di più non è possibile ricavare), a noi tocca fare i conti con Borghezio (il ciccione nazista che gli immigrati di Colonia hanno rispedito a casa senza tante scuse), Gasparri (quello col pensiero flatulescente), Carlucci (quella del Festivalbar), Bertolini (ma chi è?). Questi «onorevoli politici», a 25 mila euro al mese e vitalizio assicurato, hanno intasato le agenzie di compiaciute e sarcastiche dichiarazioni sul mancato riconoscimento della pensione Inps a Renato Curcio (l’ex fondatore delle Br che da anni ha terminato di scontare la condanna). Pure alcuni familiari delle vittime si sono lasciati trascinare in questo stupidario. Cosa era successo? Curcio si trovava a Pesaro, centro sociale Oltreconfine. Stava presentando uno degli ultimi libri della sua casa editrice, Sensibili alle foglie. Un po’ scherzosamente un giornalista gli ha chiesto se era prossimo alla pensione e lui ha risposto che nonostante avesse lavorato una vita in carcere, l’Inps non gli ha riconosciuto alcun diritto alla pensione perché gli istituti di pena dove è stato recluso non hanno mai versato i contributi o questi erano bassissimi. Insomma una truffa bella e buona. Ha poi aggiunto che non può avere diritto nemmeno alla pensione sociale perché la moglie percepisce un reddito troppo alto. Tutto qui. Nessuna protesta, nessuna lamentela. Solo una breve considerazione, per giunta sollecitata, di una persona che fa il suo lavoro senza chiedere nulla a nessuno. La pensione, come sanno tutti quelli che lavorano, non è certo una gentile concessione dello Stato, un regalo o un premio del Padrone, ma il dovuto che il lavoratore vede ritirare ogni mese dal suo stipendio, debitamente rivalutato secondo indici stabiliti per legge. Si chiama sistema per “ripartizione”. È roba sua insomma, prestata alle casse previdenziali che in questo modo sostengono quel po’ di welfare ancora in piedi. Anche le polemiche più inutili e strumentali possono servire. Questa vicenda apre uno scorcio sul mondo opaco delle carceri, sulla fragilità dei diritti dei detenuti che lavorano. La disavventura accaduta a Curcio non è un fatto isolato. Il carcere ha bisogno dei suoi detenuti perché sia autosufficiente e si riproduca ogni giorno, affinché le aree comuni della prigione, corridoi, uffici, passeggi, laboratori, matricola, caserma, siano sempre pulite e le cucine sfornino una colazione e due pasti al dì, i guasti elettrici, idraulici vengano subito riparati. Negli istituti di pena ci sono anche officine, tipografie, falegnamerie, rilegatorie, che servono a fabbricare suppellettili per altre carceri, blindati, cancelli, mobilio per i tribunali e i ministeri, registri, formulari per gli uffici. Le prigioni non potrebbero funzionare senza i carcerati. Pochi lo sanno, i più non arrivano nemmeno ad immaginarlo, ma il carcere vive del lavoro dei suoi ospiti rinchiusi. Non potrebbe farne a meno.
Diventerebbe ancora più antieconomico se dovessero essere assunti degli esterni, senza contare i problemi della sicurezza. Il miglior modo per metter a terra un carcere, infatti, è lo sciopero dei «lavoranti». Impresa ardua, riuscita in pochi casi. Ma quando i lavoranti si fermano, la direzione negozia subito. Proprio per questo il lavoro è una risorsa strategica del governo carcerario, gestito con oculato clientelismo e paternalismo. Non solo il lavoro dei detenuti è sotto tutela costituzionale ma esistono normative che ne regolano modalità e diritti. L’articolo 20 della legge penitenziaria stabilisce che «il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato», organizzazione e metodi «devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale». La durata delle prestazioni lavorative «non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti in materia di lavoro e, alla stregua di tali leggi, sono garantiti il riposo festivo e la tutela assicurativa e previdenziale». Ed è in ragione di questa normativa che negli ultimi anni i detenuti hanno avviato delle vertenze di fronte alla magistratura del lavoro. Con la sentenza n. 158 del 2001, la Corte Costituzionale ha ribadito il diritto alle ferie e la loro remunerazione in caso di mancato usufrutto. Allo stesso modo l’associazione Papillon, grazie ad una sentenza pilota del 1993, ha ottenuto l’equiparazione delle mercedi (salario) al contratto collettivo nazionale del comparto corrispondente alla mansione lavorativa svolta. Altre battaglie sono state realizzate per il riconoscimento dell’assegno di disoccupazione. Il carcere è un grande cantiere sempre in funzione, sarebbe ora che i sindacati (Cobas e Cgil) vi aprissero degli sportelli per formare sindacalmente i detenuti e creare osservatori sui diritti del lavoro.
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