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Appello per una campagna nazionale contro la Repressione e la Tortura di Stato

14 settembre 2013 1 commento

Un appello per una “campagna nazionale contro la repressione e la tortura di Stato” era quel che ci voleva per iniziare questa nuova stagione di lotte e mi apre il cuore, visto il solitario impegno di questo blog nel pubblicare quanto più materiale possibile a riguardo e nel far luce, durante tutto lo scorso anno sull’affaire Triaca.
Il 15 ottobre ci sarà finalmente la revisione del processo, che vedeva un torturato condannato per calunnia nel momento in cui aveva sporto denuncia ai suoi aguzzini: ora si può ristabilire un po’ di verità, ora possiamo mandare avanti una battaglia che faccia luce sulle metodologie che lo Stato ha usato per combattere “il terrorismo negli anni ’70/’80”, nient’altro che cilene.
Pubblico l’appello del Comitato “La tortura è di Stato, Rompiamo il Silenzio!”, ma prima ancora il ringraziamento di Enrico Triaca,
che il 15 ottobre avrà la possibilità di vedere i suoi aguzzini.

– Per informazioni sulla figura di De Tormentis leggi:
*Chi è De Tormentis?
* Il segreto di Pulcinella sull’identità del torturatore
– Per informazioni sulle tecniche di tortura usate contro i militanti della lotta armata, leggi:
* Ecco come mi torturò De Tormentis
* Il pene della Repubblica
* Le torture su Sandro Padula
– La tortura sulle donne, quel pizzico in più di sadismo a sfondo sessuale:
* Le torture su Paola Maturi e Emanuela Frascella
* Cercando Dozier in vagina
* Chi è Oscar Fioriolli

Approfitto di questo articolo per ringraziare tutti i compagni e compagne che in questi anni si stanno battendo per far sì che tale battaglia non sia portata avanti silenziosamente come se fosse una guerra personale, ma diventi collettiva e rumorosa, perché tale è, e tale deve essere!, perché l’uso della tortura da parte dello stato è uno strumento contro i movimenti politici di tutti i tempi e non solo del passato. Perché il tentativo di silenziare tale dibattito, la benevolenza con cui si trattano i torturatori smascherati, ci dice chiaramente che lo stato non ha nessuna intenzione di rinunciare a tale strumento, perché negli anni lo stato ha avuto buon gioco, con la complicità di buona parte della Società Civile, a negare tali pratiche, anzi, qualcuno è arrivato anche a giustificare la creazione di una “zona grigia” in periodi “eccezionali”. Una battaglia quindi che indaghi il passato non solo per ripristinare una verità VERA ma anche per capire il presente e futuro e attrezzarsi contro la propaganda infame e denigratoria di regime.

Enrico Triaca

 

1.       Il caso Triaca e la continuità della tortura negli apparati repressivi di Stato.

Lo scorso 18 giugno la Corte d’appello di Perugia ha accolto l’istanza di revisione del processo che nel 1978 vide condannato per calunnia Enrico Triaca dopo che questi, arrestato il 17 maggio dello stesso anno nel corso delle indagini sul caso Moro, denunciò di aver subito torture fisiche e psicologiche fin dalle prime ore che seguirono la sua cattura. Il prossimo 15 ottobre, dunque, saranno chiamati a testimoniare personaggi chiave che hanno ricostruito o custodito le confidenze di Nicola Ciocia, alias “Professor De Tormentis” – capo della squadra di aguzzini alle dirette dipendenze del Ministero degli Interni, istituita per estorcere confessioni ai militanti delle Br nel pieno della guerra civile che si combatteva in Italia alla fine degli anni ’70. In calce a queste brevi righe abbiamo selezionato una piccola bibliografia che vuole essere in grado, seppur sommariamente, di ricostruire la vicenda di Enrico Triaca: l’obiettivo che ci prefiggiamo è, infatti, anche quello di riscostruire in maniera pubblica e collettiva una storia che è stata volutamente sepolta nel dimenticatoio della storia italiana per oltre 35 anni. Ciononostante, non è solo la vicenda di Triaca in sé a spingerci a scrivere e diffondere questo appello. Crediamo infatti che oggi, nei giorni in cui si fa forte nella sinistra antagonista la discussione pubblica sull’amnistia e sull’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento penale, sia doveroso non lasciare taciute le evidenti connessioni che legano la repressione di Stato odierna alla sistematica opera di distruzione, nei decenni ’70-’80, dei tentativi rivoluzionari e di tutte le esperienze politiche che portarono a un livello senza precedenti lo scontro di classe nell’Italia postbellica. Seppur con intensità differenti e direttamente proporzionali alle forze messe in campo dal movimento di classe, lo Stato ha agito una strategia di annientamento delle forze politiche e sociali che hanno provato a invertire e sovvertire i rapporti di forza nel nostro paese. Una strategia giocata senza esclusione di colpi, ricorrendo alla violenza politica e alla tortura, andando ben oltre i limiti consentiti dalle leggi “democratiche”, con buona pace della litania che ci propinano da decenni sulla “vittoria legale” dello Stato nella “guerra contro il terrorismo”. Il caso Triaca assume quindi una forte valenza simbolica, sineddotica: da un lato grimaldello per fare opera di memoria su quanto accaduto in Italia ai militanti politici tra il ’78 e l’82, dall’altro spiraglio per aprire un dibattito storicizzante sulle lotte degli anni’70, senza tabù e rischi di astrazioni decontestualizzanti volte a perimetrarne la portata e screditare con sommario arbitrio le esperienze rivoluzionarie che ne furono avanguardie.

2.       La campagna che immaginiamo: vademecum per le lotte di oggi.

Proprio un’attenta analisi di questa linea di continuità nella repressione di Stato ci spinge oggi a prendere parola in questi termini, provando a inquadrare il fenomeno delle torture in un’ottica differente, di classe, capace di discernere il singolo episodio di sadismo delle forze dell’ordine da un disegno più ampio, studiato, calibrato sulla preoccupazione che le lotte sociali e politiche sono oggi in grado di destare nelle articolazioni nazionali del capitale. Testimone di questa nostra volontà è l’obiettivo che vediamo alla fine del processo che si sta istruendo: non una cieca volontà di risarcimento giudiziario (nonostante l’assoluzione di Triaca faccia parte del giusto risultato cui tende la campagna), ma una testimonianza politica che sia in grado di riportare alla luce del dibattito nazionale l’analisi delle strategie di Stato in termini di repressione e controrivoluzione preventiva. Le stesse sospensioni di diritto praticate nella caserma di Bolzaneto, nel 2001, sono figlie – siamo certi – di quella lunga e continua filiera repressiva che gli apparati di governo hanno messo a punto per esercitare non solo una certosina bonifica dell’insorgenza rivoluzionaria e di classe ma anche per perfezionare un sadico strumento di deterrenza preventiva. Con gli stessi scopi è stata negli anni varata una serie di provvedimenti – dai «braccetti della morte» dell’articolo 90 della legge sull’ordinamento penitenziario del 1975 (isolamento totale, divieto di corrispondenza, divieto di acquisto di libri e quotidiani), poi non rinnovato dalla metà degli anni ’80, al «regime di carcere duro» (un solo colloquio al mese attraverso un vetro divisore, censura della corrispondenza, una sola ora d’aria al giorno) previsto dall’articolo 41 bis della stessa legge e modificato nel 1992 – inizialmente diretti agli accusati per mafia e, in seguito, estesi ai militanti politici e ad altri detenuti. Pensati in chiave deterrente e terroristica,  oltre ad essere veri e propri strumenti di “tortura raffinata”, essi mirano ad annientare (fisicamente e psicologicamente) i detenuti sottoposti a queste condizioni. Fare luce su ciò che incombe sul nostro passato è dunque il primo passaggio per avere chiaro quale deve essere il parametro con cui decifrare l’attuale stretta repressiva che i movimenti e le opzioni politiche antagoniste stanno subendo. Assumono così un senso ancor più profondo e chiaro le dure condanne per la giornata di piazza a Roma lo scorso 15 ottobre 2011, così come crediamo siano legate alla stessa logica di repressione preventiva le numerose carte che giacciono sui tribunali chiamati a criminalizzare le lotte per il diritto all’abitare come le lotte contro l’alta velocità, le battaglie sui luoghi di lavoro e quelle per la difesa dell’istruzione pubblica. Liberare gli anni ’70, favorirne un dibattito squisitamente politico, storicizzare il ciclo di lotte per cui oggi ancora qualcuno paga nella solitudine di una cella, crediamo siano i risultati cui mirare insieme. Contestualizzare all’oggi queste rotte di riflessione e legarle alle lotte contro il 41bis e l’ergastolo che molti detenuti politici hanno lanciato nel corso degli anni sono gli obiettivi che si pone questa specifica campagna, nella convinzione che senza una presa di coscienza collettiva su ciò che sono state la repressione e la tortura di Stato nei decenni passati non si può immaginare di affrontare con determinazione e forza d’animo le lotte che vogliamo costruire domani.

  1. Verso l’udienza del 15 ottobre. Che fare?

Il tempo è galantuomo, e dopo 35 anni offre alla Corte d’appello di Perugia la possibilità di revisionare il processo che nel ’78 condannò Enrico Triaca a 1 anno e 4 mesi per calunnia. Ma il tempo è tiranno, si sa anche questo, e ci lascia un margine molto ristretto per ottimizzare le energie di tutte e tutti in questa campagna. Come primo step immaginavamo di poter sottoporre questo breve appello (i punti 1 e 2) a tutte le realtà, strutture e singolarità che vogliano impegnarsi in questa direzione; soggetti politici che condividano non solo la volontà di fare luce sul caso Triaca ma anche, e soprattutto, la necessità di chiarire quali furono le strategie di Stato che hanno oliato una macchina repressiva ancora oggi in funzione. Il Comitato “La tortura è di Stato! Rompiamo il silenzio!” si impegnerà a promuovere – attraverso l’autonoma condotta dei singoli aderenti – azioni, campagne di sensibilizzazione, interventi, segnalazioni e quant’altro sia utile all’implementare il dibattito in vista dell’udienza del 15 ottobre. Nella speranza e con l’auspicio di poter crescere giorno dopo giorno, firma dopo firma, valuteremo se dovessero esserci le forze per indire, nella giornata del 15 ottobre e a partire dalle ore 9, un presidio sotto la Corte d’appello di Perugia (Piazza Matteotti), in concomitanza con la prima (e forse più importante) udienza del nuovo processo, in cui verranno ascoltati i tre teste chiave (Nicola Rao, Matteo Indice e Salvatore Rino Genova. Per maggiore informazioni sui personaggi citati e il ruolo che ricoprono nella vicenda di Enrico Triaca rimandiamo alla bibliografia che segue).

COMITATO “LA TORTURA è DI STATO! ROMPIAMO IL SILENZIO!”

Settembre 2013

Prime adesioni:

Valerio Evangelisti (scrittore), Osservatorio sulla Repressione, Caterina Calia (avvocato), Cristiano Armati (Red Star Press), Collettivo Militant – Roma (Noi Saremo Tutto), Mensa Occupata – Napoli (NST), Insurgent City – Parma (NST), LP Gagarin 61 – Teramo (NST), Rete dei Comunisti, “Polvere da sparo” baruda.net (blog), Insorgenze (blog), La Scintilla – Bellinzona, Enrico Di Cola, Zaccaria Dale…

Per info e adesioni:

rompiamoilsilenzio@autistici.org

rompiamoilsilenzio.wix.com/home

www.facebook.com/latorturaedistato

***

Bibliografia sul “caso Triaca”:

Progetto Memoria, Le torture affiorate, Sensibili alle foglie, 1998.

Nicola Rao, Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali”, come lo Stato uccise le BR. La storia mai raccontata, Sperling & Kupfer, 2011.

http://www.militant-blog.org/?p=9311

http://insorgenze.wordpress.com/2013/06/20/non-erano-calunnie-il-tribunale-di-perugia-riapre-il-processo-sulle-torture-contro-le-br/

http://insorgenze.wordpress.com/2012/01/19/enrico-triaca/

http://insorgenze.wordpress.com/2012/01/25/enrico-triaca-dopo-la-tortura-linferno-del-carcere-seconda-parte/

http://insorgenze.wordpress.com/2013/06/18/il-processo-alle-torture-di-fara-la-corte-dappello-di-perugia-accoglie-la-richiesta-di-revisione-della-condanna-contro-il-tipografo-delle-br/

http://legislature.camera.it/_dati/leg08/lavori/stenografici/sed0482/sed0482.pdf – Resoconto stenografico delle sedute alla Camera del 22 e del 23 marzo 1982 “Interpellanze e interrogazioni sulle presunte violenze subite dai detenuti accusati di terrorismo”

http://legislature.camera.it/_dati/leg08/lavori/stenografici/sed0528/sed0528.pdf – Resoconto della seduta alla Camera del 6 luglio 1982 “Interpellanze e interrogazioni sull’arresto di cinque appartenenti alla polizia di stato”

http://alienati.org/antipsichiatria/ebooks_2009-01-05/La%20Tortura%20in%20Italia.pdf – Pdf del libro bianco sulla tortura in Italia (1982)

https://www.youtube.com/watch?v=HqI1QPSqYWg – Intervista a Triaca e a Genova (in cui ammette la tortura) a “Chi l’ha visto?”

Categorie:ANNI '70 / MEMORIA, Torture in Italia Tag:, , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,

Chi è Oscar Fioriolli? Biografia di un torturatore

31 luglio 2012 18 commenti

Dal blog di Paolo, INSORGENZE,  insieme al quale si combatte per far sì che tutto ciò diventi memoria collettiva,
parte integrante della nostra conoscenza sullo Stato, e i suoi metodi.
Buona lettura

Oscar Fioriolli, non dimenticate mai questo nome. Nella nota diffusa dopo la conferma definitiva delle condanne pronunciata dalla Cassazione contro i vertici investigativi del ministero dell’Interno, il capo della Polizia Antonio Manganelli dichiarava con parole che si volevano rassicuranti per i cittadini :

«Ora, di fronte al giudicato penale, è chiaramente il momento delle scuse. Ai cittadini che hanno subito danni ed anche a quelli che, avendo fiducia nell’Istituzione-Polizia, l’hanno vista in difficoltà per qualche comportamento errato ed esigono sempre maggiore professionalità ed efficienza. Per migliorare il proprio operato, a tutela della collettività, nell’ambito di un percorso di revisione critica e di aperto confronto con altre istituzioni, da tempo avviato, la Polizia di Stato ha tra l’altro istituito la Scuola di Formazione per la Tutela dell’Ordine Pubblico al fine di meglio preparare il personale alla gestione di questi difficili compiti. Il tutto per assicurare a questo Paese democrazia, serenità e trasparenza dell’operato delle forze dell’ordine, garantendo il principio del quieto vivere dei cittadini».

A dirigere questa scuola, nata con decreto del capo della Polizia il 24 ottobre 2008 e operativa dal 1° dicembre successivo «con l’obiettivo – come recita il comunicato del ministero degli Interni – di formare personale specializzato capace di intervenire con professionalità in caso di eventi che possono degenerare dal punto di vista dell’ordine pubblico, come manifestazioni, cortei ed eventi pubblici, per garantire ancor meglio la sicurezza di tutta la collettività», è stato chiamato il prefetto Oscar Fioriolli.

Chi è questo grande esperto a cui il capo della Polizia ha attribuito il compito di formare dirigenti, funzionari e agenti di Ps affinché ricorrano a condotte più “professionali” durante manifestazioni, cortei ed eventi pubblici per evitare quanto accaduto a Genova nel 2001?

Fioriolli è stato questore ad Agrigento, Modena, Palermo, Genova (subito dopo il G8) e poi a Napoli. Risulta anche indagato in una inchiesta sugli appalti Finmeccanica condotta dai pm della procura di Napoli e in una indagine portata avanti dalla procura genovese su una strana vicenda di consulenze per auto blindate richieste da un dittatore della Guinea Conakry e rapporti con un faccendiere siriano che gli avrebbe elargito una somma di 50 mila euro. Questi scarni cenni biografici tuttavia ci dicono ancora molto poco del ruolo avuto da un funzionario che è stato nel cuore del dispositivo antiterrorismo del ministero degli Interni in anni cruciali (dalla metà degli anni 70 in poi).

Per conoscere qualcosa di più del suo passato dobbiamo ricorrere alla testimonianza di un suo collega: l’ex commissario della Digos e poi questore Salvatore Genova, che lo descrive (cf. l’Espresso del 6 aprile 2012;vedi anche la testimonianza video) mentre all’ultimo piano della questura di Verona conduce l’interrogatorio di Elisabetta Arcangeli, una sospetta fiancheggiatrice delle Brigate rosse arrestata il 27 gennaio 1982.

«Separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna. I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figlie. È uno dei momenti più vergognosi di quei giorni, uno dei momenti in cui dovrei arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale».

Era in corso il sequestro del generale americano James Lee Dozier, vicecomandante della Fatse (Comando delle Forze armate terrestri alleate per il sud Europa) con sede a Verona, da parte delle Brigate rosse-partito comunista combattente. Sempre secondo la testimonianza fornita da Salvatore Genova, nel corso di una riunione convocata dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci presso la questura di Verona, presenti Improta, il poliziotto cui De Francisci aveva affidato il coordinamento del gruppo di super investigatori, Oscar Fiorolli, Luciano De Gregori e Salvatore Genova, si decise il ricorso alle torture. A svolgere il lavoro sporco venne chiamato insieme alla sua squadretta di esperti “acquaiuoli” (profesionisti del waterboarding, la tortura dell’acqua e sale) Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, funzionario proveniente dalla Digos di Napoli, già responsabile per la Campania dei nuclei antiterrorismo di Santillo, in forza all’Ucigos.
De Francisci fece capire che l’ordine veniva dall’alto, ben sopra il capo della polizia Coronas. Il semaforo verde giungeva dal vertice politico, dal ministro degli Interni Virginio Rognoni. Via libera alle «maniere forti» che in cambio forniva anche chiare garanzie di copertura. Fu lì che lo Stato decise di cercare Dozier nella vagina di una sospetta brigastista.

Roma – Il giardino dei torturatori tra via dell’Amba Aradam e via della Ferratella in Laterano

Roma – Il giardino dei torturatori tra via dell’Amba Aradam e via della Ferratella in Laterano

Giovanni Coronas, Gaspare De Francisci e Umberto Improta sono morti nel frattempo. Un giardino in ricordo di Improta, capo della squadra di investigatori che praticarono le torture sistematiche impiegate da varie squadre di poliziotti in un arco di tempo che riveste almeno 11 mesi, è sorto non lontano da piazza san Giovanni, a Roma, tra via dell’Amba Aradam e via della Ferratella in Laterano.
Salvatore Genova è in pensione ed è l’unico che ha deciso di raccontare la verità. Nicola Ciocia, il mago del waterboarding, vive nascosto in una casa del Vomero a Napoli. Non ha più il coraggio di uscire di casa, braccato dai fantasmi del suo passato di aguzzino. L’ex guardasigilli Virginio Rognoni mantiene profilo basso, mostra di ricordare con difficoltà sperando di non essere coinvolto nella riapertura del caso; Oscar Fioriolli è invece ancora al suo posto di dirigente della scuola di polizia. Una scelta davvero rasicurante: l’uomo giusto al posto giusto!

Sentito al telefono da Piervittorio Buffa, il giornalista che è riuscito a sfilare organigrammi e nomi degli autori delle torture dalla bocca di Salvatore Genova, che fino ad allora aveva solo denuciato i fatti senza mai indicare i corresponsabili (una prima volta nel 2007 davanti a Matteo Indice del Secolo XIX, poi nel libro di Nicola Rao, Colpo al cuore, Sperling & Kupfer 2011, infine in una puntata di Chi l’ha visto?), Oscar Fioriolli ha rifiutato qualsiasi incontro per chiarire il ruolo avuto in quelle vicende e negato le circostanze riferite da Genova.
Gratteri, Luperi, Calderozzi, Mortola, Ferri, ed altri funzionari sono stati dimessi dai loro incarichi per le loro responsabilità accertatenel tentativo di depistare e coprire il massacro perpetrato all’interno della scuola Diaz.
Oscar Fioriolli, chiamato in causa con una testimonianza dettagliata per il ruolo avuto nelle torture e in una violenza sessuale, praticate durante gli interrogatori contro persone accusate di appartenere alla Brigate rosse, è sempre al suo posto.


Link

DELLA TORTURA

* * *


Qui sotto potete leggere l’articolo di Piervittorio Buffa, recentemente pubblicato sul Venerdì di Repubblica del 20 luglio 2012, che rievoca i passaggi più importanti su questa vicenda.

Quando in Italia si seviziavano i brigatisti. Nel 1982, per liberare il generale Usa James Lee Dozier, la polizia decise di passare alle maniere forti con i primi arrestati. Ma chi diede l’ordine? «venne dall’alto»

di Pier Vittorio Buffa
Il Venerdì di Repubblica, 20 luglio 2012

Roma. «La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe». Salvatore Genova racconta così quello che accadde nella questura di Verona, nella notte tra il 27 e il 28 gennaio 1982. La ragazza è Elisabetta Arcangeli. Il suo compagno è Ruggero Volinia. Salvatore Genova è uno dei poliziotti che guidarono le indagini sul caso James Lee Dozier, il generale americano rapito dalle Brigate rosse il 17 dicembre 1981. Genova sarà arrestato insieme ad alcuni suoi uomini con l’accusa di aver usato violenza su dei terroristi catturati, ma quella notte, in questura, è solo un testimone: conduce l’interrogatorio il suo collega Oscar Fiorolli.
I poliziotti capiscono che Volinia sta per cedere. «Fu uno dei momenti più vergognosi di quei giorni» dice Genova, «avrei dovuto arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece, caricammo Volinia su una macchina e lo portammo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale e, dopo pochi minuti, parla, ci dice dov’è il generale Dozier».
A coordinare il tutto e a eseguire il trattamento De Tormentis con acqua e sale, una tortura già usata dai francesi e la squadretta nella guerra di Algeria, è una squadretta speciale guidata da un alto funzionario di polizia, Nicola Ciocia e composta da quattro poliziotti chiamati i Quattro dell’Ave Maria. La tecnica è all’apparenza semplice, ma bisogna essere molto esperti per praticarla in modo sicuro ed efficace. D prigioniero è legato a un tavolo, con un tubo gli vengono fatte ingurgitare grandi quantità di acqua e sale che provocano, oltre alla nausea, un forte senso di soffocamento.
Ciocia è in via Caetani a Roma quando, il 9 maggio 1978, viene trovato il corpo di Aldo Moro nella Renault rossa Lo si distingue di spalle, nelle foto, dietro Francesco Cossiga. La sua squadra entra in azione pochi giorni dopo, già con i primi arresti del dopo Moro. All’«acqua e sale» è infatti sottoposto, lo racconta lui stesso nei dettagli, Enrico Triaca, il tipografo delle Br. Ma Ciocia, che Umberto Improta, capo degli investigatori durante il sequestro Dozier, soprannominò dottor De Tormentis, non agì certo di sua iniziativa. Lo si capì già allora, nel 1982, che c’era un piano preciso, venuto dall’alto. Se ne è avuta la conferma ora, a distanza di trent’anni. Ciocia, pur non ammettendo le torture con l’acqua e il sale, ha detto di essere lui il dottor De Tormentis. Salvatore Genova, a sua volta, è stato molto preciso. Ha raccontato della riunione che si tenne in questura a Verona all’indomani del sequestro di Dozier: un via libera all’uso delle maniere forti con terroristi e fiancheggiatori, il timbro ai metodi di Ciocia-De Tormentis.
La riunione fu convocata dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci. Nella stanza c’erano anche Improta, il poliziotto cui De Francisci aveva affidato il coordinamento del lavoro, Oscar Fiorolli, Luciano De Gregori e Salvatore Genova. Ascoltarono De Francisci dire, così ricorda Genova, che l’indagine su quel sequestro era «delicata e importante» e che bisognava fare «bella figura». E dare il via libera all’uso delle maniere forti per risolvere il caso. «Ci guardò uno a uno e con la mano destra» rievoca Genova «indicò verso l’alto. Ordini che vengono dall’alto, spiegò: quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte, sarete coperti, faremo quadrato. Improta fece sì con la testa e disse che si poteva stare tranquilli, che per noi garantiva lui. Il messaggio era chiaro e, dopo la riunione, cercammo di metterlo ulteriormente a fuoco. Fino a dove arriverà la copertura? Fino a dove possiamo spingerci? Dobbiamo evitare ferite gravi e morti? Fu questo che ci dicemmo tra di noi funzionari. E di far male agli arrestati senza lasciare il segno».
Ciocia, con i quattro dell’Ave Maria, arrivò il giorno dopo quella riunione e poi tornò in Veneto negli ultimi giorni del sequestro, quando le indagini portarono ai primi arresti dei fiancheggiatori. E quindi alla necessità di farli parlare. Tutti gli uomini di Improta assistettero alla prima «acqua e sale» di Verona, quella praticata a Nazareno Mantovani, che svenne durante il trattamento.
L’adrenalina scatenata dal successo dell’operazione Dozier (il generale liberato, i brigatisti catturati senza sparare un colpo) e i risultati ottenuti con le tecniche di Ciocia scatenarono lo spirito di emulazione. Nella caserma della Celere di Padova, dove furono portati i terroristi, non si andò tanto per il sottile. Genova e i suoi, infatti, furono arrestati con l’accusa di aver organizzato, tra l’altro, la finta fucilazione del br Cesare Di Lenardo.
In quelle settimane, il ministro dell’Interno Virginio Rognoni disse: «Possiamo respingere, con assoluta fermezza e grande tranquillità di coscienza, l’accusa adombrata in alcune interrogazioni e sicuramente presente in certa campagna di stampa, di avere trasferito la lotta contro il terrorismo su un terreno diverso da quello dell’ordinamento giuridico mediante una pratica sistematica e violenta del rapporto fra Stato e cittadino al momento dell’arresto…».
I giornali ai quali faceva riferimento il ministro erano soprattutto L’Espresso e la Repubblica.

La seconda parte del racconto di Enrico Triaca, tappezziere tipografo torturato

1 febbraio 2012 1 commento

Prosegue (dal blog Insorgenze) la testimonianza di Enrico Triaca dopo il racconto delle torture subite nel maggio 1978 da parte di una squadra speciale della polizia diretta da un funzionario dell’Ucigos conosciuto con l’eteronimo “De Tormentis”. «Lo avevamo fatto anche prima… con Triaca», aveva ammesso lo stesso “De Tormentis” nella testimonianza concessa a Nicola Rao, apparsa in, Colpo al cuore: dai pentiti ai “metodi speciali”, come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, Sperling&Kupfer 2011.

Di Enrico Triaca

«Sono ancora vivo bastardi»
Steve McQueen nel film Papillon

Le manovre per fare di me un pentito
Continuai a restare in isolamento a Rebibbia per altri due, forse tre mesi, dopodiché sono stato messo in socialità con i miei coimputati ma tempo qualche settimana fui nuovamente trasferito a Volterra, sempre in socialità.
Il 27 dicembre del 1979 su La Nazione di Firenze esce un articolo con tanto di foto che, facendo riferimento a «indiscrezioni non smentite provenienti dal palazzo di giustizia», mi attribuisce confessioni fatte ad Achille Gallucci, con tutta una serie di fatti e circostanze che avevano portato la polizia ad arrestare molti militanti delle Brigate Rosse. Il tutto, secondo il giornale, sarebbe avvenuto nel carcere di Fossombrone nel quale, in realtà, non ero mai stato.
Dopo questo articolo venni impacchettato e trasferito. Appena fuori da Volterra il blindato si fermò. Salì un carabiniere in borghese che fece scendere i due militi di scorta e mi tolse gli schiavettoni. Cominciò una tiritera per convincermi a collaborare con i metodi classici dell’intimidazione: «abbiamo saputo che a Volterra volevano ucciderti», mi disse. Gli risposi che non avevo nessuna intenzione di collaborare e che se mi riportavano a Volterra mi facevano un favore. Replicò che mi avrebbero portato in un carcere tranquillo dove non c’erano altri prigionieri politici, così potevo pensare con calma alla proposta che m aveva fatto. Il segnale sarebbe stato la revoca del mandato ai miei avvocati. Lui avrebbe capito e sarebbe venuto subito. Me lo dovetti cibare per tutto il viaggio. Come provavo a tirare fuori le sigarette, lui pronto mi infilava in bocca una delle sue malboro e l’accendeva…….. non ho mai avuto un compagno di viaggio così premuroso. Finalmente arrivammo a Sulmona, dove prima di entrare nel carcere mi salutò facendo risalire sul furgone i due carabinieri della scorta. Finii nuovamente in isolamento. Dopo due, forse tre mesi e varie proteste mie e degli avvocati, fui trasferito in una sezione dove era possibile la socialità, non prima di subire i soliti avvertimenti: «guarda che qui ti ammazzano. Non è uno Speciale, qui la sorveglianza è scarsa, qui non girano coltelli ma spade», e via dicendo. Tempo un mese, mi trasferirono nel carcere speciale di Trani. Pensai che finalmente si erano decisi a mollarmi, ma mi spagliavo di grosso. Dopo due-tre settimane mi trasferirono di nuovo.

Termini Imerese
A Termini Imerese mi ritrovai di nuovo in isolamento. C’erano pochissimi detenuti, il carcere era in ristrutturazione dopo che era stato semidistrutto da una rivolta. Ai miei avvocati dissero che dovevo stare isolato perché ero pericoloso. Secondo loro a Volterra stavo preparando la fuga. In seguito dissero che era per il mio bene perché volevano uccidermi. Capii che qui sarebbe stata lunga, infatti rimasi fino al processo: 2 anni. Volevano farmi arrivare in aula distrutto fisicamente e psicologicamente. Smisi di fumare e cominciai a fare yoga. Dovevo resistere, non dovevo farmi distruggere. Cominciai a pensare che comunque andasse avevo sempre un’ultima arma per sottrarmi all’abuso, alla sopraffazione: il suicidio, ma solo come ultima ratio.
I primi tempi compravo il giornale e lo leggevo tutto, compresi gli annunci mortuari, i numeri di pagina. Poi lentamente non ci riuscivo più, leggevo la prima riga e quando passavo alla seconda non ricordavo più cosa c’era scritto nella prima. Così mi limitavo a leggere i titoli finché alla fine non lo comprai più. Ho cominciato a dormire di giorno e vegliare la notte; l’unico svago era litigare e provocare i secondini. Una volta diedi dello stronzo a un secondino (che si era comportato male) e per dispetto mi lasciavano la luce accesa anche la notte. Tutte le notti mi arrampicavo sugli stipetti e allungando la scopa appiccicavo un pezzo di carta che spalmavo con il dentifricio sulla plafoniera. Il soffitto era alto 5 metri. Le guardie tutte le mattine passavano con la scala e lo toglievano, ed io la notte successiva lo rimettevo…… una goduria.
Dopo un annetto mi chiamò a colloquio un assistente sociale: decisi di andarci per sgranchirmi le gambe e fare un po’ di ginnastica con la lingua. Cominciammo a parlare del più e del meno, poi mi chiese se volevo stare ancora in isolamento. Gli spiegai che non volevo assolutamente starci. Le avevano detto che l’isolamento era una mia scelta, allora le chiesi come mai mi avesse chiamato a colloquio, visto che normalmente non succedeva mai. All’inizio mi diede delle risposte vaghe, poi si sfogò dicendomi che non poteva in così poco tempo capire le persone. Mi confessò quindi che l’avevano mandata per testare la mia diponibilità a parlare con i giudici; gli dissi di riferire che se volevano togliermi dall’isolamento andava bene, altrimenti in quel posto potevo anche morirci e non avevo intenzione di parlare con nessuno di loro, poi tornai in cella.
Per passare il tempo feci una stella a cinque punte sul muro e delle scritte, il giorno dopo ci fu una sfilata di secondini tutti ad ammirare i miei graffiti: guardavano e confabulavano nonostante io abbia una pessima calligrafia. Mi cambiarono di cella e si trattennero dal libretto i soldi per la riverniciatura delle pareti. Nella nuova cella feci la stessa cosa. Questa volta mi chiamò il maresciallo che mi rimprovero dicendo che non si facevano quelle cose perché «le stanze erano tutte pulite e così dovevano restare per gli altri». «Quali stanze?» – risposi, facendogli notare che stavamo in un carcere e non in albergo e che quelle si chiamavano celle. Il maresciallo iniziò a sfogarsi dicendomi che aveva sempre fatto servizio in carceri minorili, che era stato spedito a Termini Imerese per punizione e che non sapeva nulla di queste cose. Pensai che fare da psicologo a un maresciallo frustrato era troppo; inforcai la porta e tentai di andarmene ma davanti c’era un appuntato che cerco di bloccarmi. Mi voltai a guardare il maresciallo che gli disse di riportarmi in cella. Intanto il tempo passava, finalmente fui trasferito di nuovo a Rebibbia per il processo, ma sempre rigorosamente in isolamento.

L’aula bunker
Il primo giorno di udienza mi ritrovo nella gabbia dei pentiti, ma ben distante dagli altri e tenuto per la catena dai carabinieri.
Quando entrò la corte cominciai a protestare chiedendo di essere messo con i compagni. Il giudice acconsentì e un carabiniere mi disse: «quelli ti tagliano la testa». Gli risposi di preoccuparsi della sua di testa.
Restava il nodo dell’isolamento, così continuai a protestare con la corte. Dopo un po’ di tempo i giudici accolsero la mia richiesta, visto che oramai il tentativo era fallito. Dal terzo piano del G12, dove ero rinchiuso, scesi al secondo dove c’erano quelli del 7 aprile e alcuni autonomi. Qui la scena fu divertente: quando arrivai davanti al cancello della sezione scoprii che questi detenuti erano tutti liberi nel corridoio, con le celle aperte (condizione di privilegio), ma quando entrai si rintanarono tutti. Fui portato nella cella di Giuliano Naria. Ci salutammo e mi sedetti sul letto, lui mi disse di disfare la zampogna. Gli risposi che era meglio aspettare, infatti dopo 5 minuti arrivò Emilio Vesce a chiamarlo. Dopo un quarto d’ora si presentarono i secondini a dirmi che si erano sbagliati e che dovevo tornare sù. Al terzo piano, dopo un’altro po’ d’isolamento mi misero in cella con altri due compagnucci freschi d’arresto.
Sospeso il processo per il periodo estivo, mi rispedirono a Termini Imerese (sempre rigorosamente in isolamento). Chiamai il direttore e gliene chiesi il motivo e quello mi rispose di stare tranquillo perché aveva già scritto al ministero che in quel carcere non ero gradito. L’isolamento continuò fino alla ripresa del processo, dove protestai di nuovo con la corte. Finalmente mi declassificarono portandomi al secondo piano del G12, dove non c’erano più i signorini del 7 aprile che già facevano gli omogeneizzati nell’apposita area [il riferimento è alla creazione di apposite sezioni carcerarie declassificate, denominate “aree omogenee per la dissociazione dal/del terrorismo” Ndr]. Venni poi a sapere che erano stati loro a pretendere il mio allontanamento dalla sezione perché c’era il rischio che li ammazzassi – sostenevano – in quanto «irriducibile».

Ancora vivo nonostante tutto
Qui finiscono le torture e inizia il tempo della elaborazione degli avvenimenti, lungo il quale finalmente ripercorro gesti e azioni, fino a rendermi conto di aver oltrepassato la linea della pazzia, di aver fatto cose che razionalmente non si farebbero mai per chiedermi come fossi arrivato ad uscirne. Non ho una risposta, l’unica cosa che posso pensare è la forte convizione di ciò che ero e mi consideravo: un militante comunista prigioniero di uno Stato bugiardo e vigliacco che ha ancora paura di affrontare i propri fantasmi, che tenta di giustificarsi parlando di «mele marce».
La consapevolezza che i miei compagni mi credevano e non hanno avuto dubbi.
Ma io so delle torture degli anni 70 e 80,
io so della mattanza di Bolzaneto,
io so dei morti ammazzati nelle caserme e durante l’arresto.
Io so di poliziotti che passeggiano sulla testa di ragazzini alle manifestazioni.
Di tutto ciò, ci sono le prove.
Allora ti volti indietro e ti accorgi che non si tratta di “mele marce” ma che è l’intero frutteto ad essere marcio.
Per questo ancora oggi mi dichiaro prigioniero politico, non più di un potere giudiziario, carcerario, ma di una verità nascosta, insabbiata, di uno Stato che senza merito si fregia del titolo di democratico, di uno Stato reticente, connivente.

2/fine

1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
 3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4)  Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Triaca

Ancora su De Tormentis: il commento di Enrico Triaca, tipografo delle Br, torturato e poi denunciato per calunnia

10 gennaio 2012 15 commenti

Dopo aver letto nel libro di Rao la testimonianza di “De Tormentis” Enrico Triaca ha postato questo commento sul blog INSORGENZE
Enrico Triaca venne arrestato il 17 maggio 1978 nell’ambito delle indagini sul sequestro Moro.
Appena catturato scomparve per riemergere soltanto il 9 giugno
. Nei giorni in cui fu ostaggio delle forze di polizia venne torturato. Appena fu in grado denunciò le violenze ma non venne creduto. La magistratura lo condannò per calunnia.

Oggi il suo torturatore, un funzionario dell’Ucigos in pensione che esercita la professione di avvocato presso il foro di Napoli, nascondendosi dietro l’eteronimo di “professor De Tormentis” ha ammesso in un libro (scritto da Nicola Rao, Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali”: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, Sperling & Kupfer 2011) che Triaca aveva detto il vero.

Alcune doverose precisazioni sul “caso de tormentis”

Dopo aver letto alcuni articoli sparsi qua e la nella rete ho comprato il libro, “Colpo al cuore”, e ritengo di dover fare alcune precisazioni e considerazioni.
Precisazioni e considerazioni sul libro del giornalista Nicola Rao, e considerazioni sul “Nobile Servo dello Stato” denominato “professor De Tormentis” .
Inizio con il “Professor De Tormentis” che in quanto “Nobile Servo dello Stato” credo meriti la precedenza.
Esso tenta di nobilitarsi e giustificarsi dichiarando: “Io sono stato un combattente perché quella contro le Brigate Rosse era una guerra. Una vera e propria guerra.” Un combattente???????
“Professor De Tormentis” se lo lasci dire, Lei è solo un vigliacco, al servizio dello Stato, ma un vigliacco che ha la necessità di nascondersi dietro l’anonimato e come le Blatte ha vissuto negli interstizi della Storia. Ha ragione quando dice che è stata una guerra ma una guerra rivendicata dalle Brigate Rosse e sempre negata dai suoi Padroni. Quando una guerra è fatta da “combattenti” ci sono regole e codici di comportamento da rispettare tutte cose che Lei, da NON combattente ma da vigliacco, non ha fatto.
Anche le Brigate Rosse hanno fatto dei prigionieri, ed il suo Stato ha tentato in tutti i modo di accreditare l’idea che tali prigionieri venivano maltrattati e torturati, lampanti sono state le lettere dell’Onorevole Aldo Moro che erano diventate le lettere di un pazzo, un drogato. Poi con il prigioniero Dozier avete dovuto ammettere che facevano colazione con i Corn Flakes. Ecco questa è la differenza tra un COMBATTENTE e uno squallido mercenario al soldo dello Stato. Combattente uno che a 30 anni di distanza deve tentare di darsi un tono con le spalle spiaccicate al muro, nascosto nell’ombra?……………………… Sia serio Professore!.

Ancora il “Professor” dice: “E lì si usarono “metodi forti”, gli stessi che portarono due degli ufficiali della CIA che ci affiancavano ogni giorno, a mettersi le mano nei capelli: “Non credevamo, davvero, che gli italiani arrivassero a un livello di “pressione” tale”. Suvvia “professor” si rilassi, tenga a bada la sua boria, la CIA ha una lunga storia e tradizione di “metodi speciali” conosciuta in mezzo mondo e non credo proprio che devono imparare da Lei!
P.S. Caro “Professor De Tormentis” Sicuramente qualcuno Le riconoscerà lo Status di combattente ma io posso affermare, senza possibilità di essere smentito, che Lei oggi entra a pieno titolo e con encomio nel Club degli infami, perchè con le sue (spontanee) dichiarazione chiama direttamente in causa il suo collega Domenico Spinella, allora capo della DIGOS, che in quanto responsabile della mia detenzione non può non sapere a chi mi ha consegnato la notte del 17 maggio 1978.
Cordiali saluti “Prof”

Ora veniamo al libro
Il Sig. Rao fa un breve resoconto del processo contro di me per calunnia che evidentemente è stato estrapolato da qualche articolo di giornale, quindi molto parziale che non rende bene il clima nel quale si è svolto il processo.
Provo a chiarire meglio. Il giornalista Nicola Rao scrive: “La denuncia di Triaca fu formalizzata e si aprì un’inchiesta contro ignoti. Ma, non potendo riconoscere nessuno dei suoi torturatori, il 7 novembre 1982 il tipografo si beccò anche una condanna per calunnia dal tribunale di roma.”
Come precisato nel libro io denunciai le torture il 17 giugno, e il giorno dopo, non dopo un mese, un anno, ma il GIORNO DOPO, mi arrivò un mandato di cattura per calunnia, ora può anche essere possibile che la bravura del giudice istruttore Gallucci fosse così eccezionale che gli bastò una notte per “risolvere il Caso”, ma io un dubbio ce lo avrei.
Al processo a confutare la mia versione dei fatti fu chiamato Domenico Spinella allora capo della DIGOS che mi aveva in custodia, ebbene, le carte presentate in dibattimento e non le chiacchiere degli avvocati, hanno smentito la sua ricostruzione e non la mia, inoltre il giudice chiese a Spinella di dirgli i nomi degli agenti di guardia alle celle di sicurezza la notte che fui portato in questura, Spinella rispose che avrebbe portato il giorno dopo il registro dei turni, ma il giorno dopo si presentò in tribunale un agente che dichiarò che il registro era sparito Sic! tralascio altri episodi per non troppo tediare, ma su questi fatti si basa la mia condanna.

L'unità, 8 novembre 1978

Questo per precisare che forse, come spesso succede in Italia, è vero che “certi colpevoli” non si sarebbero trovati, ma di sicuro non ce stata la volontà di cercarli, in quanto inutile visto che il colpevole dovevo essere io e, che le coperture a certi “metodi speciali” sono state a tutti i livelli, Politici, Giudiziari, Mediatici.
Queste “piccole” verità non posso essere offuscate neanche dalle roboanti parole che il giornalista Rao usa nel descrivere le “atrocità” delle Brigate Rosse, ce stata una guerra ed è vero, ma purtroppo voi “democratici” vi siete troppo specializzati nel fare la conta dei morti altrui dimenticando sempre le vostre di atrocità. Potrebbe magari Sig. Rao un giorno provare a contare i morti fatti dallo Stato Repubblicano prima durante e dopo le Brigate Rosse? Sarebbe interessante!
Io nel mio piccolo provo a citarne qualcuno magari le apro la strada, come ad esempio le stragi di stato.
Negli ultimi 20 anni lo Stato repubblicano tradendo la propria Costituzione ha fatto 4 guerre, una ancora in corso d’opera, e non è che voi potete ritenervi innocenti perché le chiamate “Missioni di Pace”.
Da 20 anni in queste guerre vengono trucidati migliaia MIGLIAIA di CIVILI innocenti, Bambini, Donne, Anziani, e non è che voi potete ritenervi innocenti perché le chiamate “Effetti Collaterali”.
Come può notare Sig. Rao Ce una continuità storica impressionante di mistificazione e bugia non trova?
In questo io ritengo responsabili tutti, perché se è vero che il “bello” della democrazia è che “noi possiamo sceglierci chi ci governa” a differenza delle dittature che pugnalate alle spalle quando non vi servono più come amiche, tutti non possono che essere correi, perché in guerra ci sono andati tutti Centro Centro, Centro Destra, Centro Sinistra.
Le va comunque riconosciuto il merito Sig. Nicola Rao di aver riportato, e non insabbiato, fatti che erano rimasti nelle “Tenebre della Repubblica” e per questo la ringrazio. Ora ci sono tutti gli elementi per identificare il Marrano, a noi non resta che aspettare, e vedere, quanto interessata sia la Repubblica alla verità e giustizia.

Roma 10/01/2012 Enrico Triaca

Torture: la storia di Francesco Giordano, tra martellate e finte esecuzioni

5 dicembre 2011 2 commenti

FRANCESCO GIORDANO,
arrestato a Milano il 7 ottobre 1980 dai Carabinieri, nell’ambito dell’inchiesta sulla Brigata 28 marzo

“Diciotto anni fa, nel mese di ottobre, esattamente martedì 7 er erano le ore 20, venivo arrestato a Milano in viale Premuda, difronte al cinema Cielo, su segnalazione di Mario Marano, mio coimputato.
Quelli che mi arrestarono erano in borghese e dopo il fermo mi fecero salire in un furgone con targa civile: ero ammanettato, seduto sopra una sedia ed accanto vi era un tavolino.
Con il furgone raggiungemmo il parcheggio della caserma dei Carabinieri di via della Moscova e da lì venni trasferito dentro una autovettura.
Con queta mi portarono sempre all’interno di una caserma posta sicuramente fuori Milano.
Dopo l’aresto, che certo non du tra i più canonici, se noni quel periodo per i comunisti, venni torturato, all’interno di quella caserma,che ancora adesso non saprei riconoscere.
Nel mio caso la tortura cosistette in quello che già all’epoca descrissi in una lettera fata recapitare al quotidiano Lotta continua e pubblicata il 6 dicembre 1980, a quasi due mesi dal mio arresto.
Lettera che, una volta resa pubblica, nessun magistrato “democratico” volle, con grande rigore, mai prendere in considerazione, anzi alcuni di questi furono gli organizzatori, certo sapevano ed hanno coperto i torturatori.
Dalla lettera: “Uno di loro mi prese a schiaffi mettendosi a cavalcioni sul mio petto (ero sdraiato), gli altri tre urlarono e mi schiacciarono i testicoli. Qualcuno disse al brigadiere della caserma di prendere il martello (di gomma, quello che si usa nei campeggi)e con questo mi picchiarono sui piedi. Quando finirono continuarono a dirmi che dovevo confessare. Prima di andare via mi fecero spogliare (rimasi solo con le mutande).”
Ancora nella mia lettera: “Arriviamo in un posto deserto, credo sia quasi mezzanotte, comunque è buio, mi fanno scendere dalla macchina chiedendomi se nel tragitto avessi cambiato idea,
perché mi restava poco tempo. Sempre con la pistola puntata contro di me insistono per farmi parlare”.

Questi, alcuni momenti, poi mi lasciarono in assoluto isolamento verso l’esterno per 38 giorni, poco cibo, tante minacce ed offerte di collaborare. Ancora adesso non ho una percezione esatta del tempo, ma credo che completamente nudo (solo con le mutande) ci rimasi per 5/6 giorni.
Ero in una piccolissima stanza senza finestre, sopra un materasso appoggiato in terra ed una coperta di quelle militari.
In questo posto mi davano poco o niente da mangiare e continuamente venivano a trovarmi diversi carabinieri, penso quelli di turno, che cercavano di convincermi a collaborare, dopo essersi informati di quelle che erano le accuse contro di me. E’ mio ricordo che non tutti fossero al corrente di queste accuse.
Da questa caserma, che ancora non saprei indicare, mi potrarono successivamente in quelal che certamente era vicino Arese, per interrogarmi. Nella stanza vi erano diverse persone,  qualcuno lo avevo già visto perché tra quelli che mi avevano arrestato, gli altri mi erano sconosciuti. In quella occasione mi hanno fatto più e più volte ripetere la mia storia politica, quella che fino a quel momento avevo raccontato, cioè la militanza in Lotta continua […]; tra l’altro anche quella sera mi ripeterono i nomi di SergioSegio e Gianni Stefan, di cui poi la redazione di Lotta continua, quando pubblicò la lettera, preferì mettere solo le iniziali.
[…]
Quando mi portarono via, appena usciti dalla caserma dissero che mi conveniva collaborare, che altrimenti avrebbero continuato passando ai fatti. Prima di questa frase effettivamente uno di quelli che aveva partecipato al mio arresto aveva parlato via radio con qualcuno, ovviamente non ho capito chi ci fosse dall’altra parte, ma le frasi riportate nella lettera le avevo sentite molto bene.
Adesso ripensandoci mentre scrivo non ricordo di aver avuto pensieri particolari in quei momenti, cioè quando,al buio mentre piovigginava mi fecero inginocchiare per terra facendo finta di spararmi;[…] tutto ciò accadeva prima di esser trasferito nella Caserma della zona Fiera, sempre a Milano.
Fu in quel posto, invece, che venni interrogato per la prima volta con la presenza del mio avvocato, duramente zittito più volte dall’onnipresente dottor Spataro perché aveva osato chiedere se avevo subìto altri interrogatori precedentemente, senza di lui o altri avvocati.
Rimasi in questa caserma per alcune settimane ed è solo alla fine di questo tempo ( in totale 38 giorni) che venni, con mio grande sollievo, trasferito nel carcere di San Vittore.
[…]
Occorre dire con estrema chiarezza che l’episodio da me testimoniato è stato uno frai tanti; molti altri ne sono stati denunciati con grande precisione e puntualità da chi li ha subìti, pur nella difficoltà di allora e devo dirlo con amarezza, in solitudine, perché gli impegnati e poetici democratici di oggi, in quel tempo preferivano stare dalla parte del potere.
La tortura contro i comunisti ha voluto dire quanto ho scritto sopra, ma anche uso di elettrodi, acqua e sale che veniva fatta bere a litri ai compagni, violenze sul corpo delle compagne ed altro, sempre denunciato, fino agli arresti degli avvocati che ci difendevano o le minacce fatte ai familiari.
Ancora occorre ricordare che questi metodi continuavano poi durante la carcerazione. Le carceri speciali o alcune sezioni delle principali carceri erano gestite in maniera autonoma e fuori dal normale circuito.
Di contro, ricordiamo i contratti tra giudici e delatori.
Voglio precisare che dopo l’incontro con il PM Armando Spataro, sincero democratico, non sentii mai più il desiderio di denunciare quanto avevo subìto; il signore sopradescritto mi aveva fatto ben capire che era perfettamente inutile, che loro si muovevano in assoluta libertà in quel genere di illegalità…”
Testo tratto da “Le torture affiorate” -Progetto Memoria- Edizioni Sensibili alle Foglie-

DELLA TORTURA: dove leggere altro materiale
Diamo un nome a De Tormentis??

Torture in Italia, atto I : quando si torturavano i tipografi…

5 dicembre 2011 25 commenti

AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI

L’anno delle torture argentine nelle celle di sicurezza e nei furgoni bianchi, compiute sui corpi dei prigionieri politici italiani è il 1982.
Abbiamo parlato spesso di quell’anno nero della nostra storia recentissima: anno in cui i “5 dell’Ave Maria”, guidati dal loro Dott. De Tormentis (di cui ci piacerebbe tanto scoprire il nome…ma siamo nel paese dei maniaci del “mistero”… siamo certi che un Lucarelli, un Fasanella, e compagnia bella si faranno in quattro per metter luce su questo NON mistero facilmente scoperchiabile) torturavano con tecniche precise e meticolosamente studiate i brigatisti catturati.

La storia che leggerete poche righe più sotto è un po’ l’apri pista delle torture, del waterboarding e di tutte le privazione compiute successivamente:
Enrico Triaca viene arrestato molto prima dell’anno argentino, nel maggio del 1978, ed oltretutto non è un uomo sospettato di esser parte di un “gruppo di fuoco”, è un tipografo e quella è la funzione che svolge all’interno dell’organizzazione armata.
Il tipografo.
Che può “vantare” d’esser stato il primo torturato delle Brigate Rosse…oltretutto denunciato e condannato per calunnia quando ha avuto il coraggio di raccontare quel che il suo corpo aveva subito. (Mi piace specificare la parola “corpo”, perché in questi anni di studi, racconti e letture sulla tortura la sola cosa che ho capito è che la testa non la torturano, che quella è capace di resistere… che è anche in grado di contare, per razionalizzare ciò che avviene sul proprio corpo, per discostarsene, per gaurdarsi da lontano, per dare un tempo a quel che accade e sapere che poi la sessione di tortura finirà, come quella precedente.La tortura ti vuole vivo, la tortura non vuole ucciderti: c’è chi è stato più forte di lei, chi ce l’ha fatta, chi neanche in quel modo ha aperto la sua bocca…per quello parlo di corpi…solo di corpi…solo quello è torturabile).
Ma ora…facciamo parlare Enrico Triaca, tipografo torturato

RICOSTRUZIONE GIORNALISTICA DELL’ESPERIENZA DI ENRICO TRIACA, Il Manifesto, 20 maggio 1982

“Esiste la tortura in Italia? Credo purtroppo che bisogna rispondere positivamente e non da oggi. Un caso, estremamente interessante, anche perché può essere ricostruito nei dettagli, essendo ormai gli atti tutti pubblici, è quello di Enrico Triaca, il tipografo delle BR che il 7 Novembre 1982 è stato condannato dalla 8° sezione del Tribunale di Roma, quale responsabile del delitto di calunnia “perché nell’interrogatorio reso al consigliere istruttore presso il tribunale di Roma il 19 Giugno 1982 quale imputato di partecipazione a banda armata e di altri reati, incolpava ufficiali e agenti di polizia giudiziaria di PS, sapendoli innocenti, di averlo costretto con torture fisiche a rendere dichiarazioni ammissione di responsabilità proprie ed altrui, il 17-18 maggio 1978”.
Triaca venne arrestato il 17 Maggio 1978 nella tipografia di Pio Foà a Roma. Nominò immediatamente l’avvocato Alfonso Cascone.
Dagli atti risulta:
1) che il Triaca venne interrogato il 17 maggio ore 17,50 nei locali della Digos da due ufficiali di Pg. Il verbale consta di sei facciate dattiloscritte a spazio uno. In esso non vi è alcun cenno al fatto che il Triaca è imputato, né al suo difensore.
2) che in data 18 maggio 1978 Triaca ha rilasciato “spontaneamente e personalmente ” una dichiarazione dattiloscritta davanti ad altro ufficiale di polizia giudiziaria, connettente affermazioni accusatorie nei confronti di terzi;
3) che in pari data il Triaca rilasciò altra dichiarazione accusatoria
4) che alle ore 22 di quello stesso giorno Triaca fu interrogato nel palazzo di giustizia dal consigliere istruttore su mandato di cattura dello stesso, in presenza del difensore Luigi De Cervo, del foro di Roma, nominato d’ufficio. Presente in quanto il Triaca revoca quello da lui nominato in precedenza
5) che il 19 maggio negli uffici della questura di Roma (non è indicata l’ora) Triaca viene interrogato da altro GI, in assenza di qualsiasi difensore. Dal verbale risulta avv. Maria Caurasano con revoca di ogni altra nomina.
Ma la Causarano non risulta presente, né vi è alcuna annotazione riguardante la urgenza di procedere senza aver avvisato il difensore. A questo punto, secondo i difensori attuali, del Triaca si perdono le tracce: né loro, né i parenti del detenuto riescono a sapere alcunché, sino a quando il 9 giugno nel carcere di Rebibbia il consigliere istruttore interroga il Triaca in presenza dell’avv. Cascone, suo difensore originario di fiducia. Nel verbale risulta che Triaca a domanda risponde di aver scritto una dichiarazione dettagliata da una persona della Questura, il cui contenuto però corrispondeva alle sue dichiarazioni.
In un successivo interrogatorio del 19 giugno, Triaca puntualizza: “Ritratto tutto quello che ho detto perché mi è stato estorto con la tortura”.
Domandato risponde: “Potevano essere le 23 e 30 quando fui portato giù e fatto salire su un furgone ove si trovavano due uomini con casco e giubbotto antiproiettile. Fui bendato e steso per terra. Il furgone partì. Ad un certo punto fui fatto scendere e sempre bendato salii dei gradini. Sempre bendato venni legato su un tavolaccio. Qualcuno mi tappò il naso con le mani e mi versò dell’acqua in bocca.
Ritengo che mi versò l’acqua in bocca per non farmi respirare. Inoltre per due volti qualcuno mi gettò in bocca della polverina.
Non so indicare il sapore di questa polverina. Rimasi legato per circa 30 minuti, mentre le persone che mi erano accanto che io non vedevo, perché ero bendato, mi incitavano a parlare. Quindi fui slegato, fui massaggiato e venni rivestito (infatti prima di legarmi mi avevano denudato). Fui portato fuori sempre bendato.
In questura mi tolsero le bende, dico meglio, dentro il furgone mi tolsero le bende, e mi consegnarono in questura, a due agenti che mi portarono in camera di sicurezza. il giorno dopo mi portarono in un ufficio della questura e mi fecero scrivere a macchina una dichiarazione in due fogli. Preciso che la prima dichiarazione la battei a macchina da me la mattina, e l’altra dichiarazione su altro foglio fu scritta da me a macchina in pomeriggio”.
L’imputato ha appena finito di rendere le sue dichiarazioni che il consigliere istruttore  gli contesta di essere indiziato del delitto di calunnia.

Il 4 luglio 1978 il Pm ordina la cattura per calunnia. Triaca, interrogato il girno dopo dichiara: “Confermo quanto ho dichiarato il 19 giugno 1978 al consigliere istruttore Gallucci; preciso che non ho visto particolarmente in faccia, nella semioscurità del furgone, i due agenti che mi ci fecero salire, il cui viso era oltretutto occultato dal casco. Non ho nemmeno badato ai connotati degli agenti che in questura mi portarono in camera di sicurezza, dopo la tortura, né a quelli che, dopo avermi tolto le bende, mi consegnarono ai suddetti agenti. Il fatto che io nei giorni successivi abbia confermato ai magistrati inquirenti tutto quanto avevo in precedenza dichiarato, fornendo anche ulteriori particolari, si spiega col fatto che per vari giorni ho agito nella sfera di intimidazione derivante dalla tortura subita, anche quando mi trovavo in ambiente del tutto estraneo a quello della questura.”

Gli ufficiali o agenti di PG che presero in consegna il 17 maggio Enrico Triaca, dopo che fu interrogato dai due funzionari di PS, non sono mai stati individuati. Durante il processo, celebrato col rito direttissimo, lo stesso Spinella dirigente della Digos, dichiarava che era impossibile identificare gli agenti che erano addetti alla camera di sicurezza sulla scorta di appositi registri.
Senonché, avendo il tribunale disposto che i registri venissero esibiti in visione, la questura rispondeva che non esistevano. Il tribunale, subito acquietato, emetteva la sentenza di condanna ad anni 1 e mesi 4 di reclusione.
Nella motivazione sostiene che non ci sono state torture in quanto già nell’interrogatorio regolarmente verbalizzato il 17 maggio (il primo) l’imputato aveva parlato.
Perciò non vi era ragione perché gli agenti gli usassero violenza. Dimentica però il tribunale che in un caso Triaca aveva parlato di sue responsabilità e nell’altro di responsabilità di terzi (il che per un appartenente ad un’organizzazione non è cosa di poco conto).
[…]
I metodi usati per Triaca (emarginare e se possibile far revocare i difensori scomodi – custodire gli arrestati in luoghi speciali, difficilmente controllabili) pare siano serviti poi da modello per i pentiti o per ottenere i pentimenti.

Risvolto di poco rilievo dell’uso distorto delle procedure e poi l’acquiescenza quasi generale degli organi di informazione.
L‘Unità dell’8 novembre 1978 per esempio arrivò a pubblicare la notizia della sentenza di condanna con commenti di questo genere: “il caso Triaca, dunque, è chiuso, anche perché persino uno dei difensori, ieri ha lasciato capire che il truculento racconto del brigatista è stato un bluff“.
Gli avvocati difensori hanno proposto querela per diffamazione, ma la querela è già stata archiviata.

I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis

Ancora tortura, quel rimosso tutto italiano

26 giugno 2011 1 commento

Tortura, quell’orrore quotidiano che l’Italia non riconosce come reato.

Se c’è stato un motivo per cui ho aperto questo blog è stato pubblicare materiale sulle torture compiute in questo paese, sui corpi dei militanti della lotta armata che nell’ “anno argentino” italiano, il 1982,  sono stati catturati e torturati con le più classiche tecniche di tortura usate nel mondo.
Donne e uomini che, privati della loro libertà, bendati e storditi, sono stati torturati da uomini di Stato per ottenere nomi, luoghi, dettagli.
Torture documentate, torture per cui ci son state anche condanne, torture però completamente rimosse dalla tanto brava “società civile”.
Alcuni dei torturati nel 1982 continuano ad essere in carcere, dopo 30 anni, dopo quello che hanno subito, senza aver mai potuto accedere a nessuna cura o conversazione capace di lenire i traumi che la tortura lascia perenni sul corpo e la mente di chi l’ha subita.
Dimenticati dal mondo, torturati nelle nostre caserme, chiusi ancora giorno e notte nella stessa cella.
Non c’è altro da dire, se non che dovrebbero esser liberi. PUNTO.
ELENCO DEI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
 3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4)  Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.

Dalla perizia del medico legale Mario Marigo, 3 febbraio 1982 Padova. Tracce di tortura compiuta con elettrodi sui genitali di Cesare Di Lenardo, militante dell Brigate rosse in carcere da 29 anni

in ricordo di Franco Serantini

6 Maggio 2010 1 commento

Nasce il 16 luglio 1951 a Cagliari da genitori ignoti. Abbandonato al brefotrofio, vi resta fino all’età di due anni, quando viene adottato da una coppia di origini siciliane. Poco tempo dopo la famiglia fa ritorno in Sicilia dove, nel 1955, muore la madre adottiva ed S. è dato in affidamento ai “nonni materni”, con i quali vive a Campobello di Licata, fino all’età di nove anni quando, per ragioni di decessi ed emigrazioni, la famiglia si sfalda e lui viene nuovamente trasferito in un istituto d’assistenza a Cagliari. Nel 1968 è inviato all’Istituto per l’osservazione dei minori a Firenze e da questi – pur senza la minima ragione di ordine penale – destinato al riformatorio a Pisa Pietro Thouar in regime di “semilibertà”. franco-serantini_0-1
A Pisa dopo aver conseguito la licenza media alla scuola statale Fibonacci frequenta una scuola di contabilità aziendale. Le conoscenze che acquisisce e i nuovi rapporti che allaccia lo portano a guardare il mondo con occhi diversi e ad avvicinarsi all’ambiente politico: frequenta le sedi della fgci della fgsi e dell’estrema sinistra fino ad approdare, nella seconda metà del 1970, al Gruppo anarchico “Giuseppe Pinelli” che ha la sede presso la Federazione anarchica pisana (aderente ai gia) al numero civico 48 di via S. Martino, dove conosce anziani militanti come Cafiero Ciuti, il professor Renzo Vanni e vari giovani libertari. Come molti studenti è particolarmente impegnato nelle manifestazioni antifasciste, nella campagna di controinformazione sulla Strage di stato, serantinigiornalenell’esperienza del “Mercato rosso” nel quartiere popolare del cep e infine nell’accesa questione della candidatura di protesta di Pietro Valpreda.
Il 5 maggio 1972 partecipa alla manifestazione indetta da Lotta continua per protestare contro il comizio dell’on. Giuseppe Niccolai del Movimento sociale, che viene violentemente repressa dalle forze dell’ordine. S., mentre si trova sul lungarno Gambacorti, viene circondato e brutalmente picchiato da numerosi agenti di polizia del 2° e 3° Plotone della 3a Compagnia del 1° Raggruppamento celere di Roma. Successivamente viene condotto nella caserma di polizia e quindi al carcere Don Bosco, dove, il giorno dopo, viene sottoposto a un interrogatorio, durante il quale manifesta uno stato di malessere generale che il giudice, le guardie carcerarie e il medico non giudicano “serio”. Dopo una notte di agonia, la domenica mattina viene trasportato al pronto soccorso del carcere, ma è tardi perché vi muore alle 9,45 del 7 maggio. Il pomeriggio dello stesso giorno le autorità del carcere cercano di ottenere tempestivamente dal comune l’autorizzazione al trasporto e al seppellimento del cadavere, ma l’incaricato si rifiuta di concedere il benestare alla tumulazione mentre la notizia della morte rimbalza in tutta la città. Luciano Della Mea, antifascista e noto militante della sinistra, con il professore Guido Demetrio Bozzoni prendono l’iniziativa di costituirsi parte civile, sostenuti dagli avvocati Arnaldo Massei e Giovanni Sorbi, e danno il via a un’ampia campagna di controinformazione. serantinifune
Nei giorni seguenti, in molte città italiane si tengono manifestazioni di protesta e di denuncia delle responsabilità delle forze dell’ordine. I funerali si svolgono il 9 maggio e sono caratterizzati da una grande partecipazione popolare. Negli anni successivi il fatto sarà quasi sempre ricordato con manifestazioni di vario tipo. Nel 1979 i compagni anarchici di Pisa gli dedicheranno una biblioteca e nel 1982 verrà inaugurato un monumento in suo ricordo in piazza S. Silvestro di fronte all’istituto Touhar che lo aveva ospitato negli ultimi anni di vita. Le indagini per scoprire i “responsabili” della morte di S. affogano nella burocrazia giudiziaria italiana e nei “non ricordo” degli ufficiali di ps presenti al fatto. Nel 1975 Corrado Stajano, giornalista democratico, raccoglie in un appassionato volume la vita di S. contribuendo a mantenerne in vita il ricordo. (F. Bertolucci)

Biografia tratta dal “Dizonario biografico degli anarchici italiani”, BFS Edizioni Fonti bfs,
Carte Giovanni Sorbi; ivi, Carte Luciano Della Mea; ivi; Carte Federazione Anarchica Pisana; ivi, raccolta di testimonianze orali su F. Serantini. Bibliografia
Comitato “Giustizia per F. Serantini”, Franco Serantini, “un assassinio firmato”, Pisa, [1973?];
Giustizia per Franco Serantini, Pisa 1974;
C. Stajano, Il sovversivo. Vita e morte dell’anarchico Serantini, Torino 1975 (nuova ed., Pisa 2002);
Vent’anni 7 maggio 1972-1992 Franco Serantini anarchico assassinato dalla polizia mentre si opponeva ad un comizio fascista, Pisa 1992;
A. Massei, Giustizia per Franco Serantini, in Ora e sempre Resistenza, Pisa 1995;
Franco Serantini. Storia di un sovversivo (e di un assassinio di Stato), «A», mag. 2002;
“S’era tutti sovversivi” dedicato a Franco Serantini, video-documentario di G. Verde, Pisa 2002.

Suicidio Blefari: l’uso della malattia come strumento di indagine

2 novembre 2009 Lascia un commento

La morte di Diana Blefari Melazzi: l’uso della malattia come strumento di indagine
di Paolo Persichetti, Liberazione 3 novembre 2009

Cronaca di una morte annunciata.
«Basta, basta, basta!!! Io voglio uscire. Devo uscire. Giuro che esco e mi ammazzo e vi libero della mia presenza, ma io di questa tortura non ne posso più». Si esprimeva in questo modo Diana Blefari Melazzi in una lettera del 13 maggio scorso, inviata dal carcere di Sollicciano ad un suo amico, Massimo Papini, col quale era stata legata sentimentalmente prima della cattura. Diana Blefari non è uscita, non poteva uscire. Si è suicidata sabato 31 ottobre intorno alle 22.30 nella cella del carcere romano di Rebibbia, dove era stata trasferita da una decina di giorni. Una morte brutta, architettata ricavando un cappio con strisce di lenzuola intrecciate. La sorvegliante l’ha trovata appesa, al termine del giro fatto in sezione dopo la chiusura dei blindati. Poche ore prima gli era stata notificata la sentenza di cassazione che confermava in modo definitivo la sua condanna all’ergastolo, perché ritenuta compartecipe dell’attentato mortale al giuslavorista Marco Biagi.Diana Blefari Melazzi

La Blefari venne arrestata sul litorale romano nel dicembre 2003, inizialmente come “prestanome”, titolare del contratto d’affitto della cantina nella quale le cosiddette «nuove Brigate rosse», il piccolo gruppo che fino al 1999 aveva operato sotto la sigla Ncc per poi sottrarre dalle teche impolverate della storia la vecchia sigla inoperante delle Br-pcc, ma «solo se l’azione D’Antona avesse avuto successo», avevano depositato in fretta e furia archivio e altro materiale sgomberato dalla base dove erano vissuti Nadia Lioce e Mario Galesi, fino al momento della sparatoria mortale sul treno Roma-Arezzo del marzo del 2003.
Ad accusarla della partecipazione materiale all’omicidio Biagi, la pentita Cinzia Banelli. Secondo la collaboratrice di giustizia, che oggi vive sotto programma di protezione, la «compagna Maria», nome di copertura attribuito alla Blefari, avrebbe fatto da staffetta il giorno dell’attentato, sorvegliando il tragitto del consulente del ministero del Welfare dalla stazione fino ai pressi della sua abitazione, quando sarebbe dovuta entrare in azione proprio la Banelli. Solo che quel giorno la collaboratrice di giustizia non vide mai la Blefari, come dovette ammettere più volte in aula sotto contestazione della difesa. Contro di lei pesavano tuttavia altre accuse, come quella di aver preso parte alla “inchiesta” preparatoria e di aver inviato la rivendicazione tramite un internet point. Le vennero, infatti, contestate tracce telefoniche lasciate dal suo cellulare a Modena.

Il primo ottobre scorso, i sostituti procuratori romani, Pietro Saviotti e Erminio Amelio, hanno arrestato anche Massimo Papini, con l’accusa di essere una delle persone ancora non identificate che avrebbero fatto parte del gruppo. Una persecuzione quella contro Papini. Dopo anni d’indagini, pedinamenti e intercettazioni, alla fine del 2008 la procura di Bologna ne chiese l’arresto per il coinvolgimento nell’attentato Biagi, ma il Gip ritenne gli elementi depositati dall’accusa inadeguati a sostenere l’incriminazione. Passati gli atti alla procura romana, sulla base degli stessi elementi e soprattutto per il fatto di aver continuato a seguire la sua ex fidanzata lungo l’odissea carceraria e i meandri dolorosi e allucinati della sofferenza psichiatrica che l’aveva colpita, Papini è stato arrestato con l’accusa di partecipazione a banda armata. Un’accusa allucinata, tanto quanto le visioni che colpivano la Blefari stessa.

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Durante il processo Biagi

Forse sta proprio in questo accerchiamento, in questa inesorabile escalation la pulsione finale che l’ha portata a darsi la morte. In una lettera scritta dal 13 al 23 maggio, in cui si susseguono frasi deliranti di ogni tipo, scriveva a Papini: «Se vogliono che mi cucio la bocca, me la cucio. Se vogliono che parlo, dico tutto quello che mi dicono di dire, ma io non posso più stare così. Io non so proprio cosa fare, io chiedo perdono a tutti, ma basta per pietà». Gli inquirenti hanno interpretato queste parole come un messaggio verso l’esterno, rivolto a presunti referenti che avrebbero dovuto dare indicazioni sul suo modo di comportarsi. In realtà la Blefari nel suo fare ondivago e schizofrenico meditava altro. Da diverso tempo non era più in contatto con i suoi coimputati che le avevano rimproverato la scelta processuale di non ricusare l’avvocato e farsi difendere anche in punto di fatto. Gli estratti di un duro scambio di missive, tutte visionate dalla censura carceraria e finite in mano all’antiterrorismo, apparvero sui giornali.
Nell’ultima lettera, finita di scrivere il 25 settembre, comunicava a Papini di aver informato il direttore del carcere di essersi «resa disponibile a parlare con i magistrati». Cosa avesse realmente in serbo, se volesse avviare una collaborazione e semplicemente circostanziare la sue reali responsabilità, o altro ancora, resterà un segreto che si è portato con sé. Di questa intenzione Papini ha saputo solo in carcere perché arrestato prima del suo recapito. Circostanza che smentisce il teorema accusatorio ed evidenzia il cinico gioco al rialzo portato avanti dagli investigatori contro la detenuta. Assolutamente consapevoli delle sue instabili condizioni di salute e del suo stato di prostrazione, gli inquirenti hanno dato l’idea di pensare alla Blefari come ad un “anello debole” che, prima o poi, si sarebbe spezzato conducendola ad atteggiamenti collaborativi con la giustizia. L’uso della malattia come strumento d’indagine. Mentre tutte le autorità carcerarie avevano riconosciuto da tempo la patologia psicotica che abitava la mente della donna, tanto da declassificarla dal regime duro 41 bis e assegnarla in un circuito comune, con frequenti passaggi nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo fiorentino, dove veniva sottoposta a periodici Tso, sul piano giudiziario si è continuato a negare per anni non solo la sua incapacità a “stare nel processo”, ma anche il diritto ad essere curata in una struttura ospedaliera adeguata.

La cieca sete di vendetta che ha animato l’inchiesta condotta dalla procura di Bologna e l’ostinata sordità delle corti d’assise nel recepire le richieste degli avvocati, documentate da numerose perizie psichiatriche che diagnosticavano una «patologia mentale che ne determina un comportamento psicotico in fase attiva», oltre a un «disturbo delirante, in diagnosi differenziale con Schizofrenia di tipo Paranoide», segnalando il «rischio di atti autolesionistici impulsivi che potrebbero essere fatali», sono finalmente pervenute a comminare quella condanna capitale abolita dalla costituzione italiana.

Racz e Isztoika sono tornati in Romania e chiedono i danni all’Italia

18 giugno 2009 Lascia un commento

Flavia Cristian, giornalista della testata romena Adevarul, ha incontrato Carol Rack e Alexandru Isztoika, i due uomini accusati e arrestati per lo stupro della Caffarella dello scorso febbraio e scarcerati dopo 40 giorni perchè innocenti. Entrambi hanno deciso di far rientro in Romania dopo ed ora lavorano entrambi e continuano ad essere in contatto. untitled_8
Isztoika ricorda il momento del suo arresto compiuto da agenti in borghese, che lo hanno arrestato dopo avergli solamente chiesto se era rumeno e dopo averlo posto in stato di fermo gli avrebbero prelevato la saliva per il test del Dna (per altro mai compiuto per giorni). I poliziotti  gli hanno domandato con chi lavorava mostrandogli una foto di Racz e lui ha confermato di conoscerlo.
Quando Racz è arrivato nel luogo dell’interrogatorio, Alexandru era legato ad una sedia e veniva picchiato anche dalla donna presente ed impaurito per la situazione e per i colpi che riceveva ha accettato di dire che lui e il suo compagno avevano commesso lo stupro.
Racz racconta invece di essere stato arrestato a Livorno e specifica la presenza di due traduttori romeni. E’ un dettaglio importante perchè era stato sempre detto che le pesanti violenze subite dai due durante l’interrogatorio fossero state compiute dalla polizia romena giunta per aiutare gli italiani nella ricerca dei colpevoli, mentre i due non fanno mai riferimento a loro compatrioti se non parlando dei due traduttori.
Racz racconta come già prima di arrivare in Questura fosse stato picchiato e avesse anche ricevuto sputi in faccia dalla gente: tutte cose per cui ha avviato una richiesta di risarcimento e che l’hanno spinto a tornare a casa, dove fa il bracciante.

Il New York Times attacca la giustizia italiana

12 giugno 2009 Lascia un commento

 Il New York Times attacca la giustizia italiana, da Reportonline, di Valentina Perniciaro

Amanda Knox, il « volto d’angelo » presunta complice nell’assassinio di Meredith ha preso parola per la prima volta davanti ai giudici della Corte d’assise di Perugia, continuando a dichiararsi innocente : « Tutto ciò che ho detto, me l’ha suggerito la Polizia. Gli agenti mi hanno picchiato, mi chiamavano stupida e bugiarda. Ciò che ho detto, l’ho detto perché messa sotto pressione. Le dichiarazioni sono state prese contro la mia volontà. Ho detto ciò che ha suggerito il pm”.

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Parole pesanti, che avranno peso nel processo e forte eco sulla stampa americana che già da giorni, dopo l’articolo del premio Pulitzer Thimoty Egan sul New York Times on line, scrive dell’innocenza della studentessa e soprattutto sul processo farsa di cui lei sarebbe vittima.
Nel suo articolo Egan non usa mezzi termini contro il sistema giudiziario italiano, la stampa e soprattutto contro l’inchiesta che sta portando avanti dal primo giorno il pm Giuliano Mignini « potente procuratore italiano incriminato per comportamento scorretto che qualunque giuria seria lo avrebbe già ricusato da mesi» e difende con forza l’innocenza dell’imputata, « una studentessa altrettanto vivace della vittima la cui vita e’ stata quasi distrutta dalla collisione fra un giornalismo rapace e una procura sciatta”.
Nel suo blog il giornalista ricostruisce l’intera vicenda giudiziaria, dimostrandosi già sufficientemente scandalizzato dal primo interrogatorio che durò un’intera notte senza la presenza di un avvocato nè di un interprete. Le dichiarazioni di quella notte sono state per mesi la sola prova nelle mani degli inquirenti ed hanno permesso gli arresti di Amanda Knox e del suo fidanzato Raffaele Sollecito, dando in pasto alla stampa italiana quella che Egan descrive come una vera e propria ossessione del pm Mughini : dimostrare che l’assassinio sia avvenuto durante un’orgia con fiumi di cocaina a cui la vittima voleva sottrarsi.
Le prove trovate dopo mesi contro la coppia « appaiono difettose ed incerte », e i due continuano a dichiararsi innocenti., mentre Rudy Guede è stato già condannato a 30 anni per questo delitto.
La stampa italiana, e non solo quindi la procura che si occupa delle indagini, fa una pessima figura tra le righe del NYTimes, per la pubblicazione continua  di numerosi dettagli della vita privata e dei costumi sessuali di Amanda, « una cosa che non sarebbe stata mai fatta con un uomo”.
Difficile controbattere a questa ricostruzione, anche dopo le dichiarazioni di ieri della stessa Amanda, ma soprattutto conoscendo la giustizia italiana e l’onestà di certe indagini. Chi ricorda Karol Racz e Loyos, accusati dello stupro della Caffarella sa come funzionano gli interrogatori della polizia e come la stampa è pronta a sciacallare e ad invocare il boia. Certo è difficile immaginare che quello sia il viso di un’assassina, ma non siamo soliti usare metodi lombrosiani per arrivare ai verdetti, nè però, lo ammettiamo, per questi abbiamo un grande amore, privatori di libertà e chiavistellatori di vite umane.

Torture nel bel paese

10 luglio 2008 39 commenti

Inizio questa serie sulle Torture.
La inizio perchè mi sento obbligato a farla visto quello che leggo nei blog delle altre persone.
Decine di persone che chiedono che Marina Petrella venga estradata, che chiedono -per esser precisi- che muoia in prigione e che con lei muoiano in prigione tutti quelli che la vorrebbero libera.
Tutti coloro che sanno la sua storia, sanno come ha trascorso questi ultimi anni da rifugiata in Francia, tutti coloro che conoscono bene la storia degli anni’70 e della lotta armata.
E invece si riempiono pagine e pagine di insulti e invettive, senza saper nulla di quegli anni.
Senza sapere che sono stati già scontati più di 50.000 anni di prigione, e che mai una generazione ha pagato tanto nella storia.
Si parla senza sapere, senza conoscere, senza comprendere.
Che questo paese di boia mancati, di giustizieri, impari a star zitto se le cose non le sa.

EMANUELA FRASCELLA, VERBALE DI SOMMARIE INFORMAZIONI, PIACENZA 19 APRILE 1982
[Interrogatorio avanti al Sostituto Procuratore della Repubblica di Padova, Vittorio Borraccetti, Casa Circondariale di Piacenza, 19 Aprile 1982]

“[…]Poco dopo la porta fu sfondata e la polizia fece irruzione; gli agenti ci intimarono la resa e noi lasciammo la stanza abbandonando le armi. […] Fui quindi portata fuori e fatta stendere a terra accanto ai miei compagni; ricordo che avevamo la faccia a terra; con la testa dal lato della porta dello studio medico che si apre sul pianerottolo. In un primo momento fummo ammanettati ma in seguito, non ricordo precisamente quando, ma certo prima che ci portassero via, le manette furono sostituite da strisce di stoffa. Venimmo poi anche bendati. Mentre eravamo stesi sul pianerottolo fummo presi a calci ai fianchi; per quanto mi riguarda personalmente ricordo di essere stata percossa ripetutamente con calci ai fianchi. Ricordo inoltre che qualcuno mi prese i piedi e me li storse. Qualcuno mi alzò poi la gonna, mi abbassò il collant e le mutande e mi colpì ripetutamente a calci sui genitali e sul sedere. Per parecchio tempo nei giorni successivi ho sofferto di dolori all’osso sacro.  […]
Ad un certo momento fui riportata, ammanettata e comunque con le mani legate, e bendata, dentro casa; mi pare che in un primo momento mi abbiano tenuto sull’ingresso. Fui presa a pugni sulla schiena. Mi misi ad urlare e allora fui condotta in un locale che mi parve essere il soggiorno, dove mi furono dati altri pugni. Preciso: prima mi fu chiesto con le buone se volevo collaborare e per tale eventualità venivo invitata a sedermi, poi di fronte al mio rifiuto ripresero i pugni sulla schiena. Ad un tratto qualcuno mi alzò sul petto la maglietta che indossavo e mi tirò i capezzoli dei seni. Dopo di che mi riportarono fuori e mi fecero stendere di nuovo sul pavimento. Qui ripresero a percuotere me e i miei compagni, con i calci.
[…] Poichè non rispondevo mi alzarono la gonna, mi calarono le mutande e iniziarono a strapparmi i alcuni peli dal pube.Gridai.
[…]Gli agenti ripresero a maltrattarmi; mi alzarono la gonna, mi abbassarono nuovamente collant e mutande e mi strapparono altri peli del pube; inoltre mi alzarono la maglietta e mi tirano i capezzoli.

e proseguo…

PAOLA MATURI, Arrestata a Roma il 1 Febbraio 1982
“La notte tra il 3 e il 4 febbraio sono entrati in cella, alcuni incappucciati e uno a viso scoperto, mi hanno legato le mani dietro la schiena, non mi sentivo più circolare il sangue, mi hanno bendata e incappucciata e messa su un pulmino ,dove mi pare ci fossero due uomini, mi hanno detto urlando che ero in uno stato di illegalità, ero sequestrata, nessuno sapeva del mio arresto. Se non parlavo, mi hanno detto che di me avrebbero trovato solo un cadavere. Mi hanno tolto tutti gli indumenti di sopra e a dorso nudo hanno iniziato a picchiarmi con botte sulle cosce, ai fianchi, sullo stomaco, e hanno iniziato a stringermi i capezzoli con non so cosa. Siamo arrivati non so dove, mi hanno messo un maglione addosso e sono scesa dal pulmino. Ho fatto delle scale strette, sempre incappucciata e mi hanno fatto entrare in una stanza.
Lì sono stata denudata completamente, inveivano contro di me, dicendomi che ero una merda, una puttana, e mi hanno chiesto se mi facevo chiavare, io ho risposto da nessuno, allora sei una lesbica dicevano, e lo capiamo perchè fai schifo al cazzo e nessuno ti chiaverebbe, ma adesso ti inculiamo noi. Questo è quello che mi dicevano in continuazione; mi hanno tenuto sempre in piedi, dandomi botte su tutto il corpo, ma quello che più mi distruggeva era il dolore che mi procuravano ai capezzoli, ripeto di nuovo non sono riuscita a capire sinceramente con cosa: poi  mi hanno fatto fumare una sigaretta, dopo due tirate ho sentito che mi si annebbiava il cervello, ad un certo punto mi sono ritrovata in una pozza di urina, in quel momento stavo seduta su una sedia, credo di essere svenuta più volte.
Dimenticavo di dire che mi hanno passato delle cose calde sotto, in vagina e nell’ano, e mi hanno dato dei calci sempre in vagina con dei pizzichi lungo la spina dorsale.

TRATTO DA “LE TORTURE AFFIORATE” Ed. Sensibili alle Foglie

Brigate Rosse alla sbarra

I LINK SULLA TORTURA
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) 
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
 3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4)  
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) 
Arresto del giornalista Buffa
6) 
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) 
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) 
Il pene della Repubblica
9) 
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10)
 Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) 
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Una lettera all’albo degli avvocati di Napoli
13) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
14) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
15) La sentenza esistente
16) Le torture su Sandro Padula, 1982
17) 
La prima parte del testo di Enrico Triaca
18) Seconda parte del testo di Triaca
19) L’interrogazione parlamentare presentata da Rita Bernardini
20) 
” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
21) 
Due firme importanti: Adriano Sofri e Pier Vittorio Buffa
22) Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto
23) L’interrogazione parlamentare cade nel vuoto
24) L’intervista mia e di Paolo Persichetti a Pier Vittorio Buffa
25) Cercavano Dozier nella vagina di una brigatista