Archivio

Posts Tagged ‘sprigioniamo gli anni ’70’

L’ergastolo e le farfalle

2 marzo 2013 11 commenti

“Una farfalla si posò sul polpastrello del mio dito medio,
vi adagiò l’addome,
e mi portò all’orgasmo.”

“L’ergastolo io lo penso come la maggioranza di quelli che sono come me: non è una pena indefinita.
Prima o poi finirà, devono capire.”

Mio caro,
ho sognato che venivo a Rebibbia per il nostro consueto colloquio,
ma tu non c’eri, non è che eri stato trasferito in un altro carcere, non c’eri proprio più.
Al risveglio mi son chiesta se esisti veamente.
Questo nostro rapporto è difficile e mi sento vecchia anzitempo.
Preferirei lasciar passare un po’ di tempo prima di venire nuovamente a colloquio.

TU PUOI CONTARE I GIORNI, PER ME E’ SEMPRE 1,1,1,1 …

[Tratto da Ergastolo, di Nicola Valentino, edizioni Sensibili alle Foglie]
ADOTTA IL LOGO CONTRO L’ERGASTOLO: Qui il sito Liberidallergastolo;libera i tuoi spazi, reali e virtuali, dall’aberrazione del FINE PENA MAI

A mamma Clara… “chi ha deciso che non posso toccare le mani di mio figlio?”

12 settembre 2012 6 commenti

Provo a fare un saluto a Clara, quella che ho sempre sentito nominare e chiamare “mamma Clara”.
La mamma di tutti e tutte coloro che in quegli anni combattevano tra l’art.90, gli ergastoli che piovevano, la tortura, le traduzioni continue, le privazioni totali e costanti.
Mamma Clara è andata via da pochi giorni, portandosi dietro un bagaglio d’amore immenso,
portandosi dietro migliaia di km fatti su e giù per l’Italia, le tante botte ripetutamente prese,  con altre donne, figlie, mogli, mamme, amiche…
tutte, anche esse, vittime dimenticate di quell’epoca;
è andata via portando con sé i pacchi, i vetri su cui poggiavano le mani lei e Bruno,
il suo figlio carcerato,
suo figlio terrorista, suo figlio brigatista,
suo figlio, punto.
Sono stati in tanti ed in tante ad aver Clara come mamma, come spalla, come amica…
E allora usiamo le sue parole per salutarla, perché son belle e vere,
perché c’è tutta quella donna fatta di fornelli e borgate romane,
che è diventata combattente lucida, piena d’amore.

“Non avevo mai visto un carcere in vita mia, né ci avevo mai pensato. Non sapevo neppure come era.
Trenta anni fa sentivo dire che stavano costruendo Rebibbia, ma non sapevo neanche che era un carcere.
Dopo una settimana, quando lo trasferirono lo andai a trovare a Napoli. Siamo stati abbracciati tutto il tempo, non gli chiesi nulla, non potevo chiedergli niente.
Gli dissi solo queste parole: “sta cosa me la potevi risparmiare, figlio mio”. Lui non ha detto niente, io non ho più parlato.
Quando lo vidi là dentro non ho pensato a nulla, non potevo pensare, che cosa avrei dovuto pensare?
Piangevo e basta. Per me contava solo che era vivo.
Dopo un bel po’ di tempo, quando era iniziato il pentitismo, gli dissi questo: “Prima di fare la spia impiccati, sarebbe la cosa più giusta.

Il primo incontro con il carcere è stato traumatico. C’erano un’infinità di cancelli di ferro che mi si chiudevano alle spalle lungo un corridodio buio che portava al sotterraneo. Lì mi hanno spogliata completamente, mi hanno fatto togliere perfino il reggiseno e le mutande. Io piangevo, mentre mi spogliavo piangevo.
[…] Quel giorno cominciarono i viaggi.
Quel giorno erano cominciate pure le umiliazioni.
Dopo un paio di settimane Bruno fu trasferito a Palmi.

[…]Il periodo più duro è stato quello dell’art.90. Non potevo portargli cibo nè niente, solo poca biancheria intima.
I colloqui si facevano con un vetro che ci separava.
Parlavamo a distanza e non si riusciva a sentire bene la voce, così mi aiutavo coi gesti.
Per due anni non l’abbiamo toccati i nostri figli. E’ stato un tempo orribile, che non finiva mai.
Ovunque, anche per la strada ci sentivamo controllati, pressati. In carcere erano ore e ore di attesa. Ci buttavano come le bestie dentro una stanza, dalle nove del mattino fino all’una, alle due, in attesa di poter fare un colloquio. Tutte noi venivamo da parti diverse dell’Italia e avevamo viaggiato tutta la notte. Penso che lo facevano apposta, per cattiveria, per punire anche noi familiari. Perché non ce li facevano toccare con le mani, neanche una carezza e questo non poteva avere senso.

[…] Andammo a Genova perchè ci dissero che li avrebbero fatti toccare.
Ci dissero che potevano passare solo le donne che avevano dei bambini in braccio, così io mi feci prestare la pupa di Francesca. Ce li fecero abbracciare solo per un attimo. Erano anni che non toccavo mio figlio.
[…] A Laura mi sono affezionata moltissimo. Quando l’hanno arrestata io ero disperata, perché quella ragazzina non c’aveva nessuno, né madre né padre. Ho sempre cercato di esserle vicina, mi chiamava mamma Clara.
[…] Poi sono diventata mamma Clara per tanti altri ragazzi; mica solo a Laura ho fatto pacchi! Questi figli ho cercato di aiutarli, di essere uguale con tutti e non disponibile solo con mio figlio.
Tutta l’economia della famiglia da tredici anni è quindi rivolta non solo a Bruno, ma a tutti gli altri.
A Bruno ora che sta a Roma a Rebibbia faccio il pacco ogni settimana, ogni giovedì. Cucino la mattina stessa prima di andare al colloquio. Lo faccio con tanto amore, è l’unica cosa che mi è rimasta per dimostrargli il bene: stirargli le camicie, lavargli bene i panni, improfumarglieli.
Solo questo mi è rimasto.
I pacchi non sono importanti solo per chi sta in carcere, ma anche per chi li prepara.
Io penso a mio figlio…ieri gli ho portato i fagiolini con il pesce spada, le alici e la frutta.”

il profumo dei tuoi piatti è entrato nelle peggiori celle del nostro paese,  ed è riuscito a renderle dolci.
Grazie…che chiederlo a fare alla terra di esser lieve su di te?
Buon viaggio mamma Clara…

[il virgolettato è tratto da “Dall’altra parte. Odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici” di Prospero Gallinari e Linda Santilli. Feltrinelli Editore, settembre 1995]

Le “donne” dei prigionieri e la storia rimossa, la nostra storia

1 settembre 2010 20 commenti

AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI

Quest’articolo lo lessi che ero poco più di una bambina, a tredici anni, riportato tra le note di un libro che cambiò la mia vita (regalatomi da una mano completamente inconsapevole):
Dall’altra parte”  – l’odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici- di Prospero Gallinari e Linda Santilli.
Un articolo, un “reportage”, una testimonianza scossa di una giornata passata con le “donne dei detenuti” br e non, reclusi nel carcere speciale di Trani dopo appena un mese dalla rivolta. Le compagne di uomini fatti a pezzettini dai GIS, uomini con dita denti schiene e costole spezzate: detenuti politici che avevano messo a ferro e fuoco un carcere e che ora scontavano sulla loro pelle e quella dei loro cari la repressione dello stato.
Uno stato che doveva dimostrare la sua forza: uno stato che aveva mandato i GIS a sedare la rivolta …e c’era riuscito, ovvio!, peccato che al rientro dell’operazione – nei festeggiamenti per il capodanno- il generale che aveva guidato il masssacro è stato ucciso sul pianerottolo di casa.
Quest’articolo racconta il mai raccontato, quello vissuto da chi ha avuto la vita sventrata dal carcere, dalle leggi speciali, dall’ergastolo solo perchè madre, figlio, amore di un compagno prigioniero.

La tradotta di Trani ferma a Barletta. Per Trani si cambia.
Sul marciapiede, alle sette di mattina si riversano i familiari. Perlopiù sono donne, madri, compagne, sorelle. Nei venti minuti d’attesa prima che arrivi il Roma-Bari che bisognerà prendere al volo, di corsa dal giornalaio a raccattare quotidiani, di corsa al gabinetto, di corsa al bar a buttar giù un caffè; poi dieci minuti ancora , questa volta in piedi contro gli sportelli del treno, e giù di nuovo su un altro marciapiede, quello della stazione di Trani.
Qui il femminismo non avrebbe ragione d’esistere.
Le donne dei prigionieri sono forti, gestiscono le loro azioni con autorevolezza, a tratti perfino con allegria. Di fronte al procuratore capo De Marinis, ogni sabato, da quando c’è stata la rivolta, la dignità la chiarezza la determinazione sono loro […].
Il primo sabato: le visite e i pacchi sono sospesi. Il secondo, ancora niente visite e niente pacchi.  Le donne si organizzano, attuano il blocco dei cancelli, aspettano dieci ore, circondate dai carabinieri minacciosi, e commettono un peccato d’onestà: credono all’ufficiale che promette un colloquio con il direttore se il blocco viene tolto. Naturalmente l’ufficiale non rispetta la parola. Però i pacchi passano.
Il terzo sabato, ancora visite distanziate, ancora il ritrovarsi davanti al secondo cancello. Per ogni nome chiamato passa un’ora. I colloqui dovranno essere con i vetri. NO, prigionieri e donne dicono no. […]

Si decide di nuovo il blocco dei cancelli. […]
Da tutte le parti piovono autoblindo, e carabinieri, a nugoli come le mosche. Arriva anche un funzionario in borghese, forse Digos. Dice che le manifestazioni sono proibite, dice che bisogna sgombrare se no ci pensa lui, e infatti ci pensa.
I carabinieri si schierano a pochi passi dalle donne, faccia a faccia. Rigidi e neri che sembrano lì come per un film. Comparse che non conoscono tutta la trama, ma solo il povero ruolo che le riguarda. E caricano duro.
Piovono le botte e gli spintoni, ma il funzionario capisce che la loro è solo forza fisica.[…]
Le notizie che filtrano dall’interno sono come sassi in faccia e perdono ordine e priorità, trasformandosi in una sorta di onda d’urto che spinge le donne ad agire. Guardie incappucciate, da Ku Klux Klan, chiamano per nome i detenuti, e a mano a mano che uno viene crocifisso dalla luce dei fari, giù botte. Quindici prigionieri vengono trascinati sul tetto: le guardie che li tengono chiedono alle altre, in basso, se ci sono morti o feriti tra i loro colleghi. Sono pronte, a una risposta affermativa, a buttar giù i detenuti.
Il policlinico di Bari si lascia portari via dai carabinieri i feriti gravi. Ma questo è avvenuto subito dopo la rivolta. Le donne si sono già battute per organizzare una fitta rete di controinformazione, ma tranne le trasmissioni di poche radio libere e qualche stralcio di notizia censurata dagli stessi giornalisti che la passano, all’opinione pubblica non arriva niente.
Altre notizie, sassi in faccia. I prigionieri sono ammassati in cameroni e come unica forma di protesta possibile attuano la “guerra batteriologica”, buttano escrementi e immondizie nei corridoi e dalle finestre. I feriti curati alla bell’e meglio subito dopo la rivolta peggiorano. I punti vanno in suppurazione, alcuni hanno la febbre alta e non si reggono in piedi, altri hanno le ossa rotte, le mani le caviglie, le costole.
Falco il medico della prigione, che nome meglio di così non poteva avere, non si fa vivo. Neanche il Giudice di sorveglianza. […]
Quando vengono concessi i colloqui, le donne e i prigionieri li rifiutano: si vorrebbe ancora farli parlare attraverso vetri e citofoni. Vengono pestati e trascinati all’isolamento, ma non si illudano i carcerieri che questo possa spingere i detenuti o i loro familiari alla rinuncia della propria dignità umana. Le donne stendono una denuncia. La firmano nominalmente, la portano alla procura, la presentano come legge vuole,  anche se si immaginano che finirà in un cassetto. Trasmettono altri comunicati attraverso l’Ansa, ma anche su questi cala la nebbia.
Notte e nebbia. Nacht und Nebel sulle carceri speciali.
Notte e nebbia sulle coscienze. Nel paese delle interrogazioni parlamentari non si alza una sola voce, fosse anche semplicemente per chiedere. Ma di quello che accade o che potrebbe accadere nei lager di questa repubblica qualcuno dovrà pur rispondere.

Laura Grimaldi
Il Manifesto

29 Gennaio 1981

[A mamma Clara, a suo figlio Bruno]

I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis

Passerotti uccisi: i cortili delle carceri speciali

10 agosto 2010 Lascia un commento

Foto di Valentina Perniciaro _colori bruciati, terre in esplosione_

Terra-cotta: che parola ancestrale.
Mi rilassa solo dirlo, come se con sé avesse un portato di colori ed odori sempre esistiti…
Terra-cotta: che sa di lavoro, sa di secoli d’esperienza, sa di  mani che modellano.

UNA VECCHIA LETTERA DA BADU E CARROS [Sante Notarnicola]

“Poi, caro compagno, nei cortili
dopo gli idranti,
sono entrati i guardiani.
Avevano caschi, scudi
mazze e manganelli.

Ci siamo battuti,
a mani nude, noi.
E’ stata lunga la strada
dai cortili alle celle.
Qua e là: chiazze di sangue.
Nell’atrio
per le scale
e nelle celle: sangue.

La primavera è stupenda
da queste parti, lo sai.
E sai che a volte
i passeri più piccoli
cadono dal tetto
della prigione.
Uno era finito
nel nostro cortile.
Volava in modo
incerto, era buffo.
Io l’ho visto quando,
l’agente più giovane
del gruppo, lo colpì …
come fosse
una  palla da baseball.

Finì appiccicato al muro.
Restò un attimo sospeso.
Poi cadde…
Ridevano tra loro
i guardiani: non
voleva rientrare …”

Compagno, la primavera
è stupenda da queste parti…”
PALMI, 16 dicembre 1984

Foto di Valentina Perniciaro _ceramiche e terracotte siciliane_

Caso Battisti: altra udienza sospesa

12 novembre 2009 Lascia un commento

Udienza per l’estradizione di Battisti: sospesa dopo un 4 a 4 nelle votazioni
di Paolo Persichetti, Liberazione 13 novembre 2009

Colpo di scena all’apertura dell’udienza del Supremo tribunale federale brasiliano che ieri doveva pronunciarsi sulla estradizione di Cesare Battisti, condannato in Italia a due ergastoli per una serie di attentati mortali commessi sul finire degli anni 70 dai Pac.
Il presidente della corte, Gilmar Mendes, ha reso noto il contenuto di una lettera inviata da Dias Toffoli, il giudice insediatosi tra le polemiche lo scorso 23 ottobre al posto di Menezes Direito, deceduto il primo settembre. Toffoli, che in qualità di avvocato generale dell’Unione era già intervenuto nel procedimento, chiamato a fornire un parere sull’eccezione di incostituzionalità sollevata contro la concessione dell’asilo politico a Battisti, aveva difeso la correttezza della decisione presa dal ministro della Giustizia, Tarso Genro.

dsc_0023

Il Supremo tribunal federal di Brasilia

Per evitare conflitti d’interesse ha preferito appellarsi alla clausola di coscienza e non prendere parte al voto. Un gesto che smentisce clamorosamente tutti quelli che avevano accusato Lula di averlo designato per far pendere gli equilibri del Tribunale a favore di Battisti. Nei giorni scorsi era persino circolata l’intensione del governo italiano di presentare ricorso contro la sua nomina. Voce che ha provocato la ferma reazione del ministro Genro contro l’atteggiamento irrispettoso della sovranità interna brasiliana. Fin dall’inizio l’Italia ha interferito in modo pesante sulla giustizia brasiliana. Un proconsole del governo, il procuratore Italo Ormanni, è stato inviato sul posto per manovrare nei corridoi del Tribunale e influenzare l’esito finale del voto. In realtà Toffoli avrebbe potuto votare. Non esistevano ostacoli giuridici, anzi i giuristi avevano elencato diversi precedenti. Soprattutto avrebbe potuto esprimersi sulla procedura di estradizione, nella quale non era mai intervenuto. Il Tribunale, infatti, con una scelta senza precedenti, e che molti hanno considerato quanto mai barocca, ha deciso di accorpare le due procedure: quella sulla costituzionalità della legge che attribuisce al ministro della Giustizia il potere di concedere lo status di rifugiato; e l’altra, sulla richiesta di estradizione avanzata dall’Italia. Il presidente Gilmar Mendes ha manovrato l’intera vicenda procedurale fornendo prova di notevole fantasia e creatività, al punto che nei manuali di diritto verrà ricordato come il fondatore del surrealismo giuridico brasiliano.
Venuto meno il voto di Toffoli, che avrebbe potuto subito chiudere la questione dando la maggioranza ai contrari alla estradizione, restano ancora aperti diversi scenari. Marco Aurelio Mello, il magistrato che all’ultima udienza aveva chiesto una sospensione, ha sciolto la riserva e si è detto contrario alla estradizione perché «il Tribunale supremo non può sostituirsi all’esecutivo». Di fronte ad una situazione di perfetta parità, 4 contro 4, la corte ha sospeso l’udienza. Al momento in cui questo giornale va in tipografia, non siamo in grado di dirvi quando riprenderà. Per sciogliere questa situazione di stallo, il presidente Mendes potrebbe essere chiamato ad esprimere un voto dirimente.

img_9983

Il carcere di Papuda, dove è rinchiuso Battisti

Decisione per nulla scontata. I contrari all’estradizione porranno, infatti, la questione dell’habeas corpus, ovvero il rispetto del principio del favor rei. Già in passato Mendes si era astenuto dal votare in situazione simile. Se prevalesse questa soluzione, la vicenda verrebbe archiviata e Battisti, scontata la pena per i documenti falsi, liberato. Una seconda incognita riguarda l’ipotesi che uno dei giudici chieda di rivedere la propria posizione. Nei giorni scorsi su alcuni quotidiani si era ventilata l’ipotesi di un ripensamento di Carlos Britto, che inizialmente si era detto favorevole all’estradizione. Anche in questo caso Battisti tornerebbe libero. Esiste anche l’eventualità che uno dei votanti chieda una ulteriore pausa di riflessione.
Se dovesse invece prevalere la volontà di far votare il presidente Mendes, da sempre favorevole all’estradizione, legato da stretti rapporti con gli ambienti del centrodestra italiano, e che della vicenda Battisti ha fatto un trampolino di lancio per le sue ambizioni politiche, allora la partita davanti al Tribunale si chiuderebbe con un voto a maggioranza favorevole alla estradizione. A quel punto la palla dovrebbe passare nelle mani di Lula, ma anche qui c’è chi è intenzionato a porre un problema di legittimità che aprirebbe uno scontro di poteri tra esecutivo e giudiziario. L’Italia, infine, dovrebbe comunque accedere alla condizione posta dal Tribunale perché l’estradizione possa esser possibile: commutare la pena dell’ergastolo a 30 anni di reclusione.

Poche ore alla sentenza Battisti

9 settembre 2009 Lascia un commento

battisti_arrestoSi è aperto poche ore fa il dibattimento sul caso Cesare Battisti a Brasilia, di fronte al Supremo Tribunale del Brasile (STF) che dee pronunciarsi sul ricorso presentato dall’Italia contro la concessione dell’asilo politico all’ex militante dei PAC (proletari armati per il comunismo) per cui è stata invece chiesta l’estradizione. Cesare non è presente in aula, al contrario di un rappresentante del ministero di Grazia e Giustizia italiano, Italo Ormanni e l’ambasciatore italiano a Brasilia Gherardo La Francesca.
Il ministro della giustizia  Tarso Gendro ha ribadito questa mattina la sua posizione a riguardo, augurandosi che sia mantenuta la giurisprudenza in vigore, sulla quale lui aveva basato la concessione dell’asilo politico.
Cosa che ci auguriamo tutti… anche il Procuratore generale del Brasile, Roberto Gurgel, ha affermato che la decisione del ministro della Giustizia Genro di concedere l’asilo politico a Battisti «è fondata sulla Costituzione, le leggi e i trattati internazionali».
IN BOCCA AL LUPO!

Ballata per una prigioniera

26 Maggio 2009 3 commenti

Era pericolosocarcere_blindato
lasciarle mani franche
senza ferri avvitati intorno ai polsi
quando rivide spazio,alberi,strade,
al cimitero dove
portavano suo padre.
Dieci anni già scontati,
ma contarli non serve,
l’ergastolo non scade ,
più vivi più ci resti.

Era pericoloso
permetterle gli abbracci,
e da regolamento
è escluso ogni contatto.
Era pericoloso2550_67020283277_618018277_2260865_426553_n
il lutto dei parenti,
di fronte al padre morto
potevano tentare
chissà di liberare
la figlia irrigidita,
solo per pareggiare
la morte con la vita.

Spettacolo mancato
la guerriera in singhiozzi,
ma chi è legato ai polsi
non può sciogliere gli occhi.Marina6
Per affacciarsi,lacrime e sorrisi,
debbono avere un pò di intimità
perchè sono selvatici,non sanno
nascere in cattività.

<<Non si è più stati insieme,vero,babbo?
Prima la lotta,gli anni clandestini,
neppure una telefonata per Natale,
poi il carcere speciale, la tua faccia
rivista dietro il vetro divisorio,
intimidita prima, poi spavalda
e con una scrollata delle spalle
dicevi: ”muri, vetri, sbarre, guardie,
non bastano a staccarci,
io sto dalla tua parte
anche senza toccarti,
anzi, guarda che faccio,
metto le mani in tasca”
Porta pazienza babbo, anche stavolta
non posso accarezzarti
tra i miei guardiani e i ferri.
Però grazie: di avermi fatto uscire
stamattina,di un gruzzolo di ore
di pena da scontare all’aria aperta>>.

Ora la puoi incontrareamnistia
la sera quando torna
a via Bartolo Longo,
prigione di Rebibbia
domicilio dei vinti
di una guerra finita,
residenza perpetua
degli sconfitti a vita.
Attravesa la strada,non si gira,
compagna Luna,antica prigioniera
che s’arrende alle sbarre della sera.

Erri De Luca, Ballata per una prigioniera

DEDICATO A TUTTI QUELLI CHE LA SERA, E POI DI NUOVO OGNI MATTINA, ANIMANO IL GRIGIO DI VIA BARTOLO LONGO, FACENDO USCIRE I PROPRI SORRISI AL SOLE DAL BLU DI QUELLA PORTA MALEDETTA.

Ultima settimana dello sciopero della fame contro l’ergastolo

8 marzo 2009 2 commenti

Giustizia: uno sciopero della fame per l’abolizione dell’ergastolo
di Sandro Padula Liberazione, 7 marzo 2009

Il 16 marzo sciopero della fame in tutta Italia, di ergastolani, detenuti, parenti, amici, volontari. L’ergastolo, residuo monarchico delle pene detentive italiane, fa discutere e lottare dentro e fuori le mura delle carceri della penisola. Continua infatti lo sciopero della fame degli ergastolani iniziato il primo dicembre, a staffetta e per gruppi di regioni, e proseguono le iniziative dei solidali, all’esterno delle carceri, COF04015nell’ambito della campagna per l’abolizione del “fine pena mai”. Il bollettino “Mai dire mai” del mese di febbraio, pubblicato dall’Associazione Liberarsi, e numerosi siti Internet fanno capire che la lotta è proseguita a gennaio e febbraio, trovando anche la solidarietà dentro e fuori dalle mura delle galere in Germania, Spagna, Grecia, Svizzera, Francia e Cile. In diverse città italiane si sono svolti presidi nelle vicinanze delle carceri: il 14 gennaio a Montorio (Verona), il 18 gennaio a Biella; il 24 gennaio ad Alessandria; il 29 gennaio nel borgo S. Nicola di Lecce; il 31 gennaio in via Speziale a Taranto, al quale è seguito un concerto con tre gruppi musicali (SFC, Sick Boy e No Thanx); il 14 febbraio vicino al carcere Dozza di Bologna; il 15 febbraio in via Burla 59 a Parma. Si sono altresì avuti diversi incontri e dibatti: ad esempio, il 17 gennaio presso il laboratorio sociale “La città di sotto” di Biella e il 27 gennaio nella sede di un circolo anarchico di Lecce, dove è stato proiettato il film Filaki – Una rivolta nelle carceri greche, aprile 2007. Alcuni consiglieri regionali hanno espresso la propria solidarietà alla lotta per l’abolizione dell’ergastolo anche nei mesi di gennaio e febbraio: a metà gennaio i consiglieri regionali del Frilui Venezia Giulia Stefano Pustetto e Roberto Antonaz hanno fatto visita al carcere di Tolmezzo, accompagnati da Christian De Vito e da Giuliano Capecchi dell’associazione Liberarsi, per incontrare i detenuti delle sezioni a 41 bis e i detenuti ergastolani della sezione A.S. (Alta Sorveglianza); il 3 febbraio inoltre il Consigliere regionale del Molise Michelangelo Bonomolo, accompagnato da Giuliano Capecchi, ha incontrato i detenuti ergastolani del carcere di Larino. I grandi organi di informazione, complici come sono della produzione dell’”emergenza criminalità” e della caccia al Girolimoni di turno, hanno continuato per lo più a disinteressarsi del fatto che da oltre 60 anni, come dimostra l’esistenza dell’ergastolo, l’articolo 27 della Costituzione repubblicana non è applicato in maniera effettiva. Solo da parte di alcuni giornali locali si è avuto il coraggio di fornire qualche indiretto riferimento alla lotta per l’abolizione dell’ergastolo. Domenica 25 gennaio, ad esempio, il quotidiano “Gazzetta del Sud” ha pubblicato un articolo, riguardante il carcere calabrese di Rossano, che terminava in questo modo: “in vista della protesta di carattere nazionale degli ergastolani che partirà domani e che consisterà proprio nel rifiuto del vitto… tutto il cibo cotto e pronto per la consumazione, anziché essere buttato nella spazzatura, sarà consegnato gratuitamente alla mensa della Caritas”. Qui ovviamente riportiamo fatti che ognuno è libero di considerare come meglio ritiene. Il dramma è che spesso i fatti connessi alla lotta contro l’ergastolo neanche si conoscono. Per questo non solo è utile riportarli nudi e crudi ma anche comunicare subito le scadenze previste per l’immediato futuro. Prima di tutto bisogna ricordare che, dopo il turno della Sicilia (2-8 marzo), lo sciopero della fame riguarderà gli ergastolani e i detenuti del Lazio (9-15 marzo). Il 15 marzo, contemporaneamente all’ultimo giorno di lotta nel Lazio, alle ore 11 avrà inizio un incontro nazionale con all’ordine del giorno due punti: un primo bilancio generale dello sciopero della fame iniziato il 1° dicembre 2008 e le iniziative future per giungere all’abolizione dell’ergastolo e all’attuazione dell’art. 27 della Costituzione. L’Associazione Liberarsi ha chiesto al csoa Forte Prenestino (via Federico Delpino – Centocelle – Roma tel. 0621807855 mail: forte@ecn.org) di poter organizzare al suo interno questo momento di scambio e discussione anche perché già da tempo segue le tematiche del carcere. È prevista la chiusura alle ore 18.00. Last but not least, lunedì 16 marzo ci sarà, a livello nazionale, lo sciopero della fame per l’abolizione dell’ergastolo e per l’attuazione dell’art. 27 della Costituzione italiana. Si mobiliteranno ergastolani, detenuti, parenti, amici, volontari e persone che ritengono giusta la lotta per l’abolizione del “fine pena mai”!

QUESTA SERA AL VOLTURNO OCCUPATO DALLE ORE 18.30
INIZIATIVA SULLA DETENZIONE FEMMINILE, CON PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI ANGELA DAVIS,
CENA CON LE RICETTE EVASIVE TRATTE DI SCARCERANDA.

Vicino agli esclusi, tra gli esclusi … di Jean Marc Rouillan

20 gennaio 2009 Lascia un commento

Stralci di un libro che parla di carcere, che descrive il carcere minuto dopo minuto. Il libro di un prigioniero politico francese che ancora lotta per la sua libertà. Un libro per non dimenticarci mai cos’è il carcere e chi sono i carcerieri.531523-649325

Al risveglio, la prigione salta alla gola. 
Le prime sensazioni mi avvertono della sua presenza nascosta. Un angolo di muro illuminato dal chiarore dell’alba, l’odore del disinfettante, le diverse abluzioni dei congeneri, la carezza della coperta carceraria e lo scoramento indicibile. Mi penetra di colpo.
Tiranna sovrana, la “malamorte” della lebbra moderna e carceraria è qui, dentro di me. E non c’è modo di sfuggirle. Fino al più lontano e ultimo esilio, sentirò questa nausea. Non ci si abitua mai alla prigione. Più passa il tempo, più le mattine sono dolorose. Tredici anni. Più di 4750 mattine.
[…] La penultima porta è la mia. L’ingresso della mia pelle di cemento nudo, della mia conchiglia, della mia corazza. Bevo delle grandi tazze di caffè  e mi immergo. Torturo la tastiera con due dita incazzate. “Tu batti come gli sbirri”, sì, io batto con odio. Così forte che i nuovi vicini chiedono sempre cosa può essere questo ticchettio mitragliatore. […] Scrivo sentendo montare dentro di me la bomba ad orologeria di questi anni di solitudine. Ho paura di perdere la dignità, di sprofondare nella follia, di dimenticare l’etica della giusta rivolta. E action_directequesto timore oggi è tirannico.
No, non ho stile. Non ho talento per questo esercizio letterario. Scrivo perché non ho ancora trovato altro da fare per uccidere definitivamente le mie mattine in carcere. Oppure non ne ho avuto il coraggio. Scrivo perché queste mattine senza vita siano imprigionate e sprofondino nel dolore delle parole e della loro fragile architettura. 
[…]Intra-muros, si assassina per “fatalità” giuridico-amministrativa. Si elimina il non compatibile. Lo si scioglie nell’acido del tempo. Lo si fa crepare come un batterio. Siamo come quelle vecchie carpe tirate fuori dall’acqua che agonizzano per ore e ore nella cesta.
[…]In fondo alle scale, una porta blu sbarra il passaggio. E’ il limite blindato del nostro territorio. Direi quasi della nostra autonomia. […]jean-marc_rouillan
Quando in prigioniero è sotto sorveglianza, le videocamere seguono i suoi passi senza fine nei cortili dell’aria. Esse inclinano il loro muso verso l’erba quando ci si stende al sole. Da quando emergiamo dalla cella, esse ci arpionano nel loro mirino. Sulle scale. Dietro ogni cancello, ogni porta. Nei passeggi. Alla fine, ci sono più videocamere che prigionieri. Un povero diavolo si metteva sull’attenti a venti centimetri dall’obiettivo della telecamera principale del corridoio. E scandiva militarmente: “Cavia 848 a rapporto. Tutto bene, capo!”
Si interiorizza questa sorveglianza. Finisce per far parte di noi stessi. Si gioca alla normalità. Si fa “finta di niente”. Si mantiene il ruolo del detenuto modello. Si ridiventa veramente sè stessi soltanto quando si nasconde qualcosa. Non appena si riesce ad ingannare l’occhio guercio.
In questo paese, dove il buonsenso popolare sa bene che non si picchia un cane legato, altrimenti diventa cattivo, si accetta e si trova normale il fatto che qualche maniaco del manganello si accanisca su diverse migliaia di uomini incatenati.
 
 
Signor procuratore, voleva darci il tempo per capire. Ma cosa c’è da capire? Si, so bene che per lei bisognava farci entrare nel cranio: l’inutilità della resistenza, dell’illegalità, della violenza di fronte al migliore dei mondi che lei rappresentava. Ma per fare ciò, caro Procuratore, non era il caso di sprofondarci nelle sue viscere più immonde. Mi spiace dirglielo, ma il suo ragionamento è idiota. Ho il sospetto che fosse soltanto una retorica indispensabile alla miniatura della condanna amministrativa. Doveva aggiungergli corpo e stile. Eppure, se avesse voluto veramente farci riconoscere il migliore dei mondi, avrebbe dovuto spedirci sulle spiagge dove i padroni si abbronzano con tranquillità, imporci il lusso in cui si stravaccano con nobiltà. Avrebbe dovuto condannarci a gestire un portafoglio di azioni e obbligazioni, costringerci a portare la cravatta e lo Chanel per le signore, a farci portare in automobili climatizzate con autista, a pavoneggiarci nei lunch recitando le quotazioni e le futilità estremiste con cui si gargarizzano le tribù della bella società. Bisognava rinchiuderci nelle ville delle soap televisive, tra Helene in stanza e Cricri in cantina. In questa condizione, forse, avremmo potuto “capire” la futilità rivoluzionaria, sorridere alle minacce dei più poveri, alzare le spalle di fronte alle rivolte picaresche. Allora, per lassismo, per perdita del “senso comune”, avremmo bevuto fino alla feccia, fino alla cicuta, ogni vergogna, ci saremmo raddrizzati sugli speroni in nome della razza degli eredi.
Ma signor Procuratore, sulla paglia delle celle, vicino agli esclusi tra gli esclusi,  ai poveri tra i poveri, cosa potevamo “capire” che andasse nel suo senso?
Sono più di 13 anni che giro da un carcere all’altro… Ho molto disimparato.
Ho disimparato la notte. Non fa mai notte nelle vostre prigioni. Siamo sempre sotto i proiettori alogeni arancioni, come sulle autostrade belghe e nei parcheggi dei supermercati.
Ho disimparato il silenzio. La prigione non conosce silenzio. Ne esce sempre un lamento, un grido, un rumore.
Ho dimenticato l’odore del sottobosco, di quando andavamo a funghi nella foresta di Orlèans, qualche mese prima del nostro arresto.
Ho dimenticato il sibilo dei copertoni sul pavè bagnato. Il rumore dei passi la sera, tardi, sui marciapiedi.
162891186_1cc7ae677bDi sicuro, signor Presidente, in 13 anni di galera mi ha strappato alle cose più semplici. Alla vita. All’amore. Non mi ricordo neanche più dell’infinita dolcezza delle cosce di una donna.
Invece, le devo confessare che saprei ancora smontare e rimontare una Colt 45, a occhi bendati, con la stessa destrezza che le occorre per compilare il fascicolo di un povero sventurato.
Potrei far scivolare i proiettili nei tamburi con quella disinvoltura che è la sua, quando sorvola sulle pagine. 
Se la incontrassi per strada, non la riconoscerei neppure. Questo la rassicurerebbe quasi, no? Lei fa parte di quel gregge di mezzi-uomini mezzi-uniformi che mi misero le manette. E a cui ho svelato il mio buco del culo per il controllo regolamentare.
Guardi, signor Procuratore, ecco una cosa imparata in questi anni: mostrare il culo con distacco. E’ vero che nella vita di tutti i giorni, è più una cosa inconscia, una metafora. Si sporge il culo come si accende una sigaretta. Ma, in quei momenti, tutto è crudo. Si abbassano le mutande, ci si sporge in avanti, si fissa con l’occhio unico lo sguardo gendarmesco. “Tossisca!”
Ho compreso che, a mostrare così la propria intimità, non si perde nulla in dignità Alla fine, questo danneggia ancora più il sistema e coloro che lo impongono. […]Avevano bisogno di appropriarsi del corpo, di mostrare la propria autorità attraverso la fragilizzazione dell’altro, di metterlo a nudo di fronte all’uniforme. “Tossisca!”

Tratto da ODIO LA MATTINA, di Jean Marc Rouillan , ergastolano, militante di Action Directe arrestato  il 21 febbraio 1987 passerà oltre 10 anni in regime di isolamento. Qui sotto un articolo di Paolo Persichetti  (tratta dal suo blog: INSORGENZE ) di qualche mese fa, sull’annullamento della semilibertà che gli era stata concessa, dopo un’intervista ad un settimanale francese: 


Per una intervista al settimanale l’Express, sospesa la semilibertà a Jean-Marc Rouillan, co-fondatore di Action directe
di Paolo Persichetti
Liberazione 10 ottobre 2008

La sintesi di una intervista anticipata mercoledì 1 ottobre sul sito internet del settimanale L’Express è costata la sospensione della semilibertà a Jean-Marc Rouillan, cofondatore di Action directe, il gruppo armato dell’estrema sinistra francese attivo negli anni 80. La misura sospensiva emessa dal magistrato di sorveglianza è intervenuta su richiesta della procura generale di Parigi, titolare in materia di antiterrorismo, che ha domandato la revoca della misura prim’ancora che il testo integrale dell’intervista apparisse nelle edicole.
Dal 2 ottobre Rouillan è di nuovo rinchiuso nel carcere marsigliese delle Baumettes, da dove usciva ogni mattina per raggiungere il suo posto di lavoro presso la casa editrice 
Agone, in attesa che il prossimo 16 ottobre il tribunale di sorveglianza si pronunci sulla legittimità della richiesta di revoca. All’ex militante di Action directe, la cui domanda di liberazione condizionale doveva essere esaminata il prossimo dicembre, la procura contesta alcune frasi contenute nell’intervista uscita in contemporanea anche sulle pagine di Libération il 2 ottobre. L’anticipazione dell’Express ha bruciato sui tempi il quotidiano parigino che non ha mancato di sollevare una piccola polemica rilevando il carattere «un po’ delinquenziale» di chi dietro la frenetica caccia allo scoop ha innescato un artificioso caso mediatico sulla pelle di un ergastolano. Ed in effetti l’intera vicenda puzza di strumentalizzazione costruita ad arte.
Secondo la procura, Rouillan avrebbe «infranto l’obbligo di astenersi da qualsiasi tipo d’intervento pubblico relativo alle infrazioni per le quali è stato condannato». Condizione che gli era stata imposta al momento della concessione della semilibertà nel dicembre 2007, dopo aver trascorso 20 anni di reclusione tra isolamento e carceri speciali. Il suo avvocato, Jean-Louis Chalanset, contesta però questa interpretazione che considera «infondata giuridicamente». E non ha tutti i torti perché gran parte delle risposte fornite dall’ex esponente di Ad riguardano, in realtà, la sua adesione al processo costituente del Nuovo partito anticapitalista che sta raccogliendo attorno a se la galassia della sinistra sociale e antagonista francese. Ingresso di cui aveva parlato la stampa la scorsa estate dopo un incontro avuto con Olivier Besancenot, il porta parola della Lcr che da mesi svetta nei sondaggi ed ha promosso questo processo d’unificazione.screenshot_2
«Dopo 22 anni di carcere – dichiara l’ex membro di Ad – ho bisogno di parlare, di apprendere di nuovo dalle persone che hanno continuato a lottare in tutti questi anni (…) la mia adesione è una scelta individuale». Che lo scandalo suscitato dalle sue parole sia il prodotto di una manipolazione emerge chiaramente dal raffronto dei due diversi resoconti realizzati dai giornalisti che l’hanno incontrato, Michel Henry di
Libération e Gilles Rof dell’Express. Nel testo apparso su Libération vengono riportate delle affermazioni estremamente posate. Rouillan spiega come s’immagini «semplice militante di base. L’epoca dei capi è finita. Sono entrato nell’Npa per imparare dagli altri. Vorrei che dimenticassero chi sono». Ben 11 delle 20 domande riportate sull’Express insistono sulle ragioni di quest’adesione, dunque sul presente, non sul passato. Rouillan non si sottrae però a domande più difficili e spiega a Libération che seppur «assumo pienamente la responsabilità del mio percorso, non incito però alla violenza (…) se lanciassi un appello alla lotta armata commetterei un grave errore». Quando viene incalzato precisa che «il processo della lotta armata per come si è manifestato dopo il 68, nel corso di un formidabile slancio di emancipazione, non esiste più». E di fronte alle ulteriori, e a questo punto tendenziose insistenze del giornalista dell’Express, puntualizza che «quando ci si dice guevarista [il riferimento è a un’autodefinizione di Besancenot, Ndr] si può rispondere che la lotta armata è necessaria in determinati momenti storici. Si può avere un discorso teorico senza per questo fare della propaganda all’omicidio». Nel resto dell’intervista descrive sommariamente la sua concezione conflittuale della lotta politica e il senso di smarrimento di fronte ai disastrosi mutamenti della società scoperti dopo l’uscita dal carcere. Ricorda infine che degli ultimi 4 prigionieri di Ad, una di loro è morta e due sono gravemente malati, risultato dei durissimi anni di detenzione subiti.
Insomma nonostante lo sforzo di fargli dire dell’altro, Rouillan è chiaro. Tuttavia la procura e subito dietro i commentatori della stampa di destra come di sinistra, la presidente di Sos-attentats, un’associazione di vittime del terrorismo, hanno duramente stigmatizzato le sue parole denunciando l’assenza di rimorsi, la mancanza di una richiesta di perdono, intimando a Besancenot di liberarsi di una presenza ingombrante, equivoca, «ripugnante».
Eppure se ci si sofferma qualche istante sull’intervista, ci si accorge che Rouillan non ha fatto altro che attenersi alle prescrizioni del magistrato: «Non ho il diritto di esprimermi sull’argomento… – dice – ma il fatto che non mi esprima è già una risposta. È evidente che se mi pentissi del passato potrei esprimermi liberamente. Ma attraverso quest’obbligo al silenzio s’impedisce alla nostra esperienza di tirare un vero bilancio critico».
Il direttore della redazione dell’
Express, Christophe Barbier, alla notizia dell’intervento della procura ha reagito spiegando che se il bilancio di Action directe è «indifendibile», Rouillan è comunque «un cittadino che continua a pagare il suo debito con la società» e ha «diritto alla libertà di espressione». Gilles Rof, il giornalista freelanceche ha ceduto il suo pezzo all’Express, si è detto «scioccato» dalla reazione della magistratura e dal cortocircuito mediatico che ha deformato le affermazioni di Rouillan, rivelando che questi per ben due volte in passato aveva rifiutato l’intervista per alla fine accettare a condizione di rileggerne il testo prima della pubblicazione. «Non ha mai detto che non esprimeva rimorso per l’uccisione di Georges Besse [il presidente-direttore generale della Renault ucciso nel 1986, Ndr]. Anzi ha riscritto con cura la risposta per dire che non aveva il “diritto di esprimersi” non che non poteva esprimersi». Benché non avesse concordato domande sui fatti oggetto della condanna, Rof sostiene che evitare l’argomento avrebbe posto una questione di credibilità all’intervista.
Niente di quanto abbia fatto Rouillan durante la semilibertà, o detto nell’intervista, risulta reprensibile. Tra i requisiti previsti dalla legge francese non vi è alcun obbligo di
regret, ovvero d’esprimere ravvedimento. Le condizioni poste riguardano invece la verifica della cessata pericolosità sociale e gli obblighi civili di risarcimento. In realtà Rouillan quando sottolinea che il silenzio imposto sui fatti sanzionati dalla legge impedisce la possibilità di una vera rielaborazione critica e pubblica del proprio percorso, mette il dito nella piaga. Sono gli ostacoli frapposti al lavoro di storicizzazione, che presuppone un dibattito pubblico senza esclusioni e preclusioni, che impediscono il processo di oltrepassamento relegando un periodo storico negli antri angusti dei tabù sacralizzati, dell’indicibile se non nella forma dell’esorcismo che ha solo due forme espressive: l’anatema o il pentimento. Qualcosa di simile sta accadendo anche in Italia, dove il paradigma del complotto che ha imperversato per due decenni è stato soppiantato dalla demonizzazione pura e semplice. Così oggi Rouillan rischia di essere ricacciato negli inferi del fine pena mai sulla base di una mancata abiura. Delitto teologico che già ha fatto parlare alcuni di «reato d’opinione reinventato» (Daniel Schneiderman su Libération del 6 ottobre).n1606848852_48703_3997
Questo intervento della magistratura sembra dare voce al dissenso di una parte degli apparati, e probabilmente di una parte dello stesso ministero della Giustizia, verso la politica messa in campo nei confronti dei residui penali dei conflitti politico-sociali degli anni 70-80. Infatti, dopo una iniziale politica di segno opposto, Nicolas Sarkozy è sembrato rendersi conto – forse anche sulla scia della vicenda Petrella – dell’utilità che poteva rappresentare la chiusura degli «anni di piombo». Sono altre le emergenze che preoccupano il presidente francese. Le nuove politiche sicuritarie si indirizzano altrove: migranti, banlieues, integralismo islamico. I residui penali del novecento rappresentano una zavorra anche per la visibilità sociale dei vecchi militanti incarcerati, sostenuti da una parte della società civile che ne chiede da tempo la scarcerazione. Così il 17 luglio scorso è stata concessa la liberazione condizionale a Nathalie Ménigon, anche lei membro di Action directe e con diversi ergastoli, in semilibertà da un anno. Prima di lei, Joëlle Aubrun, arrestata nel 1987 con Rouillan, Ménigon e Georges Cipriani, aveva ottenuto negli ultimi mesi di vita la sospensione della pena a causa delle gravi condizioni di salute.6aa632
Nel quadro delle prescrizioni indicate dalla nuova legge sulla «retenzione di sicurezza» (vedi 
Queer del 13 luglio 2008), Georges Ibrahim Abdallah, Régis Schleicher, Georges Cipriani, Max Frérot, Emile Ballandras, tutti prigionieri politici con oltre 20 anni di carcere sulle spalle, sono stati concentrati nell’istituto penitenziario di Fresnes, nella periferia sud di Parigi, dove è presente il centro d’osservazione nazionale incaricato di valutare la pericolosità sociale dei detenuti prima che questi vengano ammessi al regime in prova della semilibertà e successivamente in libertà condizionale.

A questo punto la decisione che dovrà prendere la magistratura di sorveglianza il prossimo 16 ottobre non investe solo la sorte di Rouillan, ma il destino dell’intera “soluzione politica”. Intanto oggi e domani si tiene a Parigi un convegno di studi organizzato da uno degli istituti universitari più prestigiosi, la grande école di science po, sostenuto dall’istituto culturale italiano, il comune di Parigi, dedicato a «L’Italia degli anni di piombo: il terrorismo tra storia e memoria». Che sia utile a far riflettere i giudici? 

Aboliamo il carcere -un testo di V. Guagliardo-

27 ottobre 2008 5 commenti

ABOLIZIONISMO di Vincenzo Guagliardo

 

Per fortuna ormai un pò di gente arriva a dire che è in atto da anni una regressione dallo Stato sociale allo Stato penale, criminalizzando la miseria, ovvero mettendo in galera il diseredato solo perché è tale e neanche più per quello che ha potuto fare. Tendere a imprigionare la gente per quel che è a prescindere da quel che ha fatto, è anche un passaggio, come alcuni ricorderanno, dalla logica penitenziaria a quella del lager, dove si finiva in quanto ebrei, zingari, omosessuali … 

la cella "liscia"

la cella "liscia"

Questa tendenza, auspicata da tanti e denunciata da pochi, vive dagli anni di Reagan, in pratica da un ventennio, e ha invaso tutto l’Occidente. Essa richiede una riflessione che non si limiti a dire che è in atto una svolta repressiva contro i poveri; richiede una riflessione in grado di capire che questa è la conclusione di una lunga storia. Quanto avviene in questi due decenni è l’epilogo grave, l’ultima evoluzione d’una civiltà fondata sul dominio ed è perciò che bisogna cominciare a parlare di abolizionismo: di movimento per l’abolizione di tutto il sistema penale, dal diritto penale alle prigioni; e non nella società del domani in testa a qualcuno, ma in questa. 
    
Almeno in Italia, l’attuale svolta non cominciò considerando ogni emarginato un potenziale colpevole, ma colpendo con meccanismi inquisitoriali. Tizio e Caio vennero puniti più di altri se volevano pensare con la loro testa. Già qui non importava più quel che si era fatto; fu l’epoca dei pentiti e delle dissociazioni, ovvero delle delazioni e abiure a pagamento, in nome dell’emergenza antiterrorista. E’ da quella fase tipo gulag che si è poi arrivati all’inizio di questa nuova, tipo lager. Naturalmente i due principi continuano a coesistere; se il primo storicamente prepara il secondo, il secondo comprende il primo. E se ci si pensa, non è la prima volta che questo processo si verifica nella storia della nostra civiltà. Solo che questa volta, tale processo, unito ad altri fattori degenerativi, rischia di travolgere tutto e tutti con beate incoscienze e diffuse partecipazioni. 
Il rito del capro espiatorio è stato e resta a fondamento della nostra cultura, la base su cui si è costruito ogni potere prima, quindi ogni dominio e infine ogni sistema di sfruttamento. E’ la costante, il fattore K. E’ utile rileggersi cosa fu il massacro degli eretici fino alla definitiva sconfitta dei catari nel Duecento, e poi vedere non già esaurirsi, ma rilanciarsi l’Inquisizione che lì era nata, per darsi al massacro nella cosiddetta “caccia alle streghe” durante i secoli successivi. Vi si scopre che tante novità non sono tali, appunto. Anche allora ci fu un passaggio dal modello tipo gulag verso gli eretici e i mondi sociali che rappresentavano, a quello tipo lager contro le streghe, donne mandate al rogo non più per quello che pensavano (se non nell’immaginario degli inquisitori) ma per ciò che costituivano: l’indipendenza di un mondo fondato sulla sussistenza, fuori dalla logica invadente del mercato. Oggi, nel regno liberista, tutto questo avviene però in un giorno, invece che in qualche secolo. Ecco che chi fa l’abiura delle lotte per la liberazione sociale – riducendola a vicende da KGB e di subordinazione al regime dittatoriale dell’URSS – manda negli stessi giorni il grande messaggio della lotta alla criminalità: in pratica contro i più deboli dei deboli, quei 50 mila in carcere che sono già, comunque, il doppio di alcuni anni fa. 
Ancora una volta, dunque: ancora una volta vediamo che offrire vittime sacrificali serve ad ogni potere a “limitare” la violenza e a controllarla a suo uso e consumo. La si indirizza contro qualcuno per evitare che tutti si scannino contro tutti mossi dall’invidia, dal risentimento, dato che comunque si tratta di salvare un sistema basato sull’ingiustizia e non certo sull’amorevolezza … Questo antichissimo meccanismo permette di cooptare chiunque, anche il ribelle, perché è la via più facile per spiegarsi le cose. E’ infatti più facile vedere la pagliuzza nell’occhio altrui che la trave nel proprio; soprattutto è più comodo. E non è forse vero che anche i rivoluzionari hanno spesso mantenuto questo vizio, “tradendo” così ogni volta ogni rivoluzione? In un breve scritto poco conosciuto, Gramsci si entusiasmò per la nuova profonda autenticità della rivoluzione bolscevica perché il primo atto che la contraddistinse fu la liberazione dei prigionieri a Riga. La rivoluzione francese ha ancora oggi come simbolo la presa della Bastiglia. Ma poi arrivano quelli della rivoluzione diventata potere … e sappiamo che Stalin fece fuori per primi proprio i bolscevichi suoi compagni, e poi instaurò un immenso sistema penale che giunse a incarcerare anche i dodicenni (sì, come Blair). E nella rivoluzione francese quando, pochi anni dopo, furono assalite delle carceri, fu per massacrare i prigionieri! 
Il principio della pena è l’unico valore, il centro della morale di questa società. Essa non ha altro, e praticamente tutti partecipano al suo sistema, da cui discendono modelli educativi, teorie psicologiche, concezioni filosofiche, ecc. Quella della pena è la lingua in cui parliamo tutti, e fin da piccoli. I benpensanti vogliono in galera i poveracci, gli altri i ricchi o i “fascisti”, ma tutti accettano quel centro, i ruoli previsti dalla tragica sceneggiatura, il cui perno è la vittima sacrificale, demone per l’ uno o eroe per l’altro. La pena non è mai servita a reprimere realmente i colpevoli; ogni storico serio lo riconoscerà. Serve a gratificare, a cementare il senso d’appartenenza di quelli che la vogliono applicata ad altri. La pena è dunque “inefficiente” per definizione, per la sua stessa natura; e proprio così unisce tutti, amici e nemici. 
    
Ma ora che, nella vita sempre più atomizzata del mondo attuale, tutte le sue istituzioni implodono, è come se – per reazione – si tornasse sempre più alle origini con l’esplosione del sistema penale. E’ come se, dopo aver distrutto via via tutto, non restasse più altro, come valore morale, che questo atto fondatore di una comunità linciante. Perciò oggi la violenza insita nel rito della vittima sacrificale non incontra più i confini, i “limiti” stabiliti nel sacro da cui è nata e vediamo anzi la logica del sistema penale diventare sempre più invadente: dominando la politica interna (questione sociale = questione criminale), quella internazionale (dalla crisi della diplomazia verso l’esaltazione di un tribunale penale internazionale permanente), fino ad aver pericolosamente rovesciato recentemente lo stesso senso “tradizionale” della guerra. Le guerre non sono mai state definite come delle sentenze. La guerra convenzionale è una sanzione violenta che pretende di raggiungere l’ordine che si è dato, come è in fondo altro tipo di lotta violenta e non, dallo sciopero al boicottaggio. Solo l’incarcerazione e la pena di morte hanno generalmente lo scopo di punire la disobbedienza a un ordine e non di raggiungere l’obbiettivo per cui esso è stato dato. Ma la guerra Nato condotta nei Balcani è stata frutto di un ragionamento penale invece che guerresco vero e proprio. 
 In questo nuovo contesto, parlare di abolizionismo significa anzitutto guardar se stessi prima di mettere in croce un altro (o volere che ci resti come martire e faro di ribellione … futura): perché si vada alla radice della pena come centro della morale comune, onde definire una nuova strategia dei conflitti non più fondata su una loro prevalente riduzione a reati. 
 Tutto ciò apre il campo a molte riflessioni che non si possono affrontare qui per ragioni, se non altro, di spazio. Ma una cosa mi è chiara: non tutti gli abolizionisti saranno necessariamente dei rivoluzionari; ma, di sicuro, chi non è abolizionista, rivoluzionario da oggi in poi non potrà più esserlo.

Vincenzo Guagliardo

Carcere di Opera, ottobre 1999

Sabina Rossa ottima e coraggiosa!

16 ottobre 2008 1 commento

Sabina Rossa: «Scarcerate l’uomo che ha sparato a mio padre»
Giorgio Ferri, Liberazione del 16 ottobre 2008 

Sabina Rossa, la figlia di Guido Rossa, l’operaio dell’Italsider di Cornigliano, sindacalista della Cgil e militante del Pci ucciso nel corso di un’azione realizzata dalla colonna genovese delle Brigate rosse, ha chiesto alla magistratura di sorveglianza di riconsiderare la decisione che ha portato al rifiuto di concedere la libertà condizionale a Vincenzo Guagliardo, 31 anni di carcere sulle spalle, anche lui ex operaio della Fiat e membro del gruppo di fuoco che la mattina del 24 gennaio 1979 colpì suo padre.
«Ho incontrato Vincenzo Guagliardo quando era in regime di semilibertà e credo di poter testimoniare a favore del suo ravvedimento», ha dichiarato la deputata del Pd, aggiungendo di voler «parlare con il giudice perché possa riconsiderare la sua decisione».
Guido Rossa venne colpito dopo aver denunciato e fatto arrestare dai carabinieri un altro operaio, Francesco Berardi, suo compagno di lavoro, sospettato di diffondere volantini delle Br in fabbrica e poi morto suicida nel carcere speciale di Cuneo. 
L’episodio fu uno dei momenti più drammatici e laceranti della storia di quegli anni. Mise a nudo la profondità di un conflitto che arrivava fin nel cuore più rosso e combattivo della classe operaia e segnò uno dei punti di crisi maggiore nella strategia brigatista.
La scelta di colpire Rossa fu molto dibattuta all’interno delle Br, consapevoli dei rischi politici che quell’azione comportava per la loro organizzazione. Dopo aver scartato per ragioni operative l’ipotesi del rapimento incruento, i brigatisti optarono per il ferimento ma qualcosa andò male quella mattina. L’inchiesta giudiziaria accertò che Guagliardo aprì il fuoco solo per ferire il sindacalista. Dietro di lui Riccardo Dura intervenne nuovamente colpendo Rossa, questa volta mortalmente forse perché questi nel tentativo di sottrarsi aveva spostato il baricentro del suo corpo. In un comunicato dell’esecutivo i brigatisti parlarono di errore. La morte di Rossa suscitò viva emozione nel paese e i funerali furono l’occasione per un grande cordoglio di massa. La colonna genovese non si riprese più dopo quell’episodio.
Sabina Rossa era una bambina in quegli anni e in un libro pubblicato nel 2006, Guido Rossa, mio padre (Rizzoli Bur), rievoca il doloroso percorso della memoria, la riscoperta del padre attraverso chi l’aveva conosciuto e con lui aveva vissuto la fabbrica, la lotta politica, il clima di “guerra civile contro il terrorismo”, la grande passione per l’alpinismo. Un libro molto sincero, che non nasconde nulla e svela anche aspetti rimasti sconosciuti. Un percorso del lutto che la porta a voler incontrare anche le persone condannate dalla giustizia per la morte del padre. Una passaggio difficile ma a cui Sabina Rossa, mostrando grande forza e coraggio, non si sottrae. Il libro si apre con la telefonata a Guagliardo, che interpella subito con un «tu», quasi fosse una figura familiare. Finalmente dava una voce, una consistenza materiale a una figura che per decenni aveva accompagnato i suoi pensieri, le sue angosce, la sua rabbia, i suoi incubi, la voglia di sapere.
Il libro riporta i passaggi registrati della telefonata, l’imbarazzo ma anche la cordialità umana del detenuto. «Tu hai debito con me, non puoi rifiutarti di incontrarmi» e Guagliardo accetta. 
Nell’ordinanza che il 23 settembre scorso il tribunale di sorveglianza di Roma ha emesso per motivare il rigetto della domanda di semilibertà non c’è però alcuna traccia di questo episodio. A Guagliardo, sia pur riconoscendo la positività del «percorso trattamentale» realizzato, si contesta paradossalmente «la scelta consapevole di non prendere contatti con i familiari delle vittime. 
Qui si tocca un nodo di fondo, lo stesso affrontato in una lettera scritta nel luglio scorso da Marina Petrella, ma resa nota solo ieri e pubblicata da Le Monde , «il dolore delle vittime mi ha sempre accompagnato. Il pudore nel manifestarlo e il rifiuto di ricavarne un qualunque guadagno personale sono state sempre le uniche ragioni che hanno fatto ostacolo alla sua espressione».

Aboliamo l’ergastolo!

9 settembre 2008 11 commenti

Quando un Tribunale condanna un recluso ad una pena temporale, anche elevata, gli riconosce comunque il diritto alla libertà. Se invece condanna una persona all’ergastolo gli toglie questo diritto e, per il malcapitato, la libertà diventa una concessione.

Dopo 6 anni l’ergastolo mi è stato tolto e tramutato in trent’anni di carcere.
Mi sono raddrizzato. Da curvo che ero, con quel macigno sul collo.

Il suo compagno di cella insisteva.
-L’ergastolo di fatto non esiste più, al massimo dopo vent’anni si esce.
Quella sera stizzito rispose:
-Ma tu…ti sei mai addormentato con l’ergastolo?

 336 ergastoli, tanti ne sono stati erogati tra il 1969 e il 1989 in processi contro le Brigate Rosse ed altre organizzazioni di sinistra per fatti di lotta armata. 
L’art. 1 della legge antiterrorismo, varata tra il dicembre del 1979 ed il febbraio 1980, introducendo un’aggravante particolare per i reati commessi con finalità eversiva, rendeva certo ed automatico l’ergastolo per tutti quei delitti che lo prevedevano. L’impennata nelle condanne all’ergastolo si ha proprio negli anni successivi all’entrata in vigore di quella legge approvata dal parlamento in un periodo di acutizzazione dello scontro. Basti ricordare che nella primavera del 1978 avvennero il sequestro e l’omicidio dell’onorevole Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. 
Con le leggi emergenziali per la lotta al terrorismo il Parlamento ha legittimato, per la prima volta in Italia, un uso massivo ed abnorme dell’ergastolo. Delle centinaia di ergastoli una parte sono stati sicuramente erogati per responsabilità materiale diretta al reato, molti però, per semplice concorso morale o per la partecipazione solo marginale alle attività preparatorie di un delitto. 

Terrorista: persona senza inflessioni dialettali. Sradicata da qualunque contesto sociale. Alieno. Manovrato da forze occulte, o paesi stranieri. Infatuato da ideologie deliranti. Senza alcun seguito di massa. Assalta la democrazia. Semina il terrore nella comunità.
Questo, a grandi linee, potrebbe essere lo stereotipo del terrorista che è stato impropriamente applicato alle persone e al fenomeno della lotta armata degli anni ’70.
Terrorista può tradursi anche in ergastolano. Terrorista – ergastolano. Due termini che legano bene. L’ergastolo sembra infatti la sanzione più ovvia e naturale per un terrorista, perché non fa che espellere a vita dal consorzio umano un corpo che gli è stato giudicato estraneo.

-TRATTO DA “ERGASTOLO” di Nicola Valentino- 

 

PER L’ABOLIZIONE DELL’ERGASTOLO.
FUORI I DETENUTI POLITICI, AMNISTIAMO GLI ANNI ’70
CONTRO IL CARCERE, GIORNO DOPO GIORNO 

Scarcerata, FINALMENTE, Marina Petrella!

6 agosto 2008 2 commenti

SCARCERATA MARINA PETRELLA, RIDOTTA ORMAI A 39 KG.
FINALMENTE UN PO’ DI RAZIOCINIO IN TERRA FRANCESE. ORA SI CONTINUA A LOTTARE PER BLOCCARE L’ESTRADIZIONE. 

Marina Petrella, Processo Moro

 

DALLA PRIMA PAGINA DI LIBERAZIONE DI OGGI

«Il nostro impegno proseguirà con la richiesta al presidente Sarkozy di ritirare il decreto applicando la clausola umanitaria prevista nella convenzione europea sulle estradizioni», ha poi concluso. Ora la piccola Emma, la seconda figlia della Petrella nata in Francia, potrà rivedere la madre. Forse non subito viste le condizioni di salute dell’esiliata italiana arrivata a pesare 39 kg. «L’ho trovata estremamente indebolita, si direbbe che sia invecchiata di 20 anni. Mi ha guardato negli occhi e mia ha detto: “lo sai che sarà dura, ma avranno soltanto il mio cadavere. Non porteranno via nient’altro”», ha raccontato Hamed ad una radio parigina, il compagno che aveva finalmente potuto rendergli visita per la prima volta dopo tre mesi.
La decisione era nell’aria da alcuni giorni, dopo il cordoglio suscitato dalla scomparsa di uno degli avvocati di Marina Petrella, Jean-Jacques De Félice, figura storica del foro di Parigi sempre in prima fila nella difesa dei sans papiers e dei senza tetto, membro del comitato di difesa dell’Fln ai tempi della guerra d’Algeria. A smuovere le acque è stata anche la ferma presa di posizione del professore Frédéric Rouillon, titolare della cattedra di psichiatria presso l’università René-Descartes che in passato aveva denunciato la presenza di gravi errori nelle scelte terapeutiche impiegate sulla fuoriuscita. Sulle pagine del quotidiano Libération del primo agosto, il responsabile del servizio dove la Petrella è in cura, aveva spiegato che il ricovero d’urgenza della paziente era avvenuto disattendendo quanto previsto dalla legge e domandone, per questo, una rapida scarcerazione affinché potesse essere sottoposta ad un trattamento terapeutico efficace. Non c’è stata, quindi, nessuna particolare sorpresa quando nella serata di lunedì 4 agosto le agenzie hanno diramato la notizia che il giorno successivo sarebbe stata discussa la rimessa in libertà, su richiesta stessa della procura generale che annunciava anche il suo orientamento favorevole alla scarcerazione.
Se è vero che questa decisione non influisce minimamente sulla proseguio della procedura d’estradizione, il Consiglio di Stato deve infatti ancora pronunciarsi sul ricorso sospensivo depositato dall’avvocato Irène Terrel, tuttavia segnala un evidente cambio di rotta del potere politico francese.
Un cambio di strategia che si era già palesato con le dichiarazioni rese dal presidente della repubblica francese a conclusione del vertice del G8 in Giappone e con l’invio di una lettera al primo ministro Berlusconi, nella quale si chiedeva al governo italiano di farsi latore di una domanda di grazia presso il Quirinale. Gli argomenti esposti da Sarkozy sono andati col tempo affinandosi dopo la confusione iniziale. Soprattutto l’ospite dell’Eliseo ha insistito ripetutamente sull’insensatezza di sanzioni penali, per giunta infinite, che restano ancora pendenti a distanza di decenni dai fatti incriminati.
Che Sarkozy sia in qualche modo tornato sui suoi passi, lo dimostra anche la politica globale messa in campo negli ultimi tempi sull’intera materia dei residui penali dei conflitti politico-sociali che hanno segnato la fine del Novecento.
È di questi giorni, infatti, la concessione della liberazione condizionale a Nathalie Ménigon, membro di Action directe in semilibertà da un anno, arrestata nel 1987 e condannata a diversi ergastoli. Dopo Joëlle Aubrun, liberata a seguito delle sue gravi condizioni di salute e deceduta nel frattempo, e Jean-Marc Rouillan, messo in semilibertà da alcuni mesi, Sarkozy ha deciso la chiusura degli «anni di piombo» francesi. Tutti i militanti legati alla stagione della lotta armata svoltasi in Francia tra la fine degli anni 70 e gli anni 80 sono stati concentrati nell’istituto penitenziario di Fresnes, nella periferia sud di Parigi, dove è presente il Centro d’osservazione nazionale incaricato di valutare la pericolosità sociale dei detenuti prima che questi vengano ammessi al regime di prova della semilibertà e successivamente in libertà condizionale. Sono altre le emergenze che preoccupano il presidente francese. Le nuove politiche securitarie si indirizzano ormai contro i migranti, i residui penali del Novecento rappresentano solo una zavorra anche per la visibilità sociale dei vecchi militanti incarcerati, sostenuti da una parte della società civile che ne chiede da tempo la scarcerazione. Solo in Italia il passato divora il futuro e si nutre di vendette senza fine. Come è accaduto per Rita Algranati estradata nel 2004 per scontare l’ ergastolo.
PAOLO PERSICHETTI, LIBERAZIONE 6 Agosto 2008

Perpetuitè

20 giugno 2008 22 commenti

“Erba: modo carcerario di dire ergastolo.
Avere l’erbetta sul groppone!
Non si conosce l’origine di questo eufemismo.
Immagini evocate:
Ne hai da brucare per tutta la vita! Oppure: campa cavallo che l’erba cresce. Come dire: passerà tanto di quel tempo che ti verrà l’erba sulle spalle.

A chi cresce l’erba sul groppone?
A chi è seppellito a pancia in giù.

Dal dizionario etimologico.
Ergastolo, dal latino ergastulum ‘prigione di schiavi’, adattamento del greco ergasterion ‘cava di lavoro’.

Ergastolo: Oggi, domani e sempre.

In francese, perpetuitè.

FINE PENA MAI: 99/99/9999
Incubo numerico che sostituisce il MAI nei certificati di detenzione computerizzati.

In Francia viene chiamato la “ghigliottina secca”.

“L’ergastolo è più della morte.
La morte dura un attimo e richiede un coraggio momentaneo.
L’ergastolo è un’esistenza” _Ignazio Silone: Il segreto di Luca_

Santo Padre,
sono la mamma di un detenuto politico condannato all’Ergastolo. Ora mio figlio si trova rinchiuso nel carcere di Rebibbia, sono cattolica e come me anche mio figlio. Molte volte mi viene a mancare la fede, perchè la parola Ergastolo è un tarlo che sta distruggendo il mio cervello.

Nicola Valentino -ERGASTOLO- Edizioni Sensibili alle Foglie