Archivio
Quei 625 posti di blocco dove son partiti “colpi accidentali”
IL Corriere della Sera ha il coraggio di parlare di “Tragedia”: parola aulica non certo adatta a descrivere un assassinio.
Un ragazzo di 17 anni ucciso da un colpo di pistola di un carabiniere non è una tragedia.
Un ragazzo di 17 anni che sfreccia su un motorino e non si ferma all’alt, se poi muore ammazzato non è una tragedia.
Un motorino con tre persone a bordo, di cui una muore ammazzata, non è una tragedia.
Era una tragedia se si schiantavano su un muro,
era una tragedia se li prendeva in pieno un Tir:
invece è stato ammazzato da un colpo di pistola, già una volta fermato il motorino dopo una caduta su un’aiuola.
E allora, cari fottuti giornalisti:
non è una tragedia ma un omicidio.
Perchè non è uno ma sono più di 620, e sono tutti uccisi dalla stessa legge,
tutti ammazzati dal piombo di Stato in nome dell’articolo 53 del codice penale e Legge 22 Maggio 1975, n. 152, conosciuto come Legge Reale.
Il più piccolo di loro aveva 13 anni, si chiamava Gerardino Diglio, e noi non smettiamo di ricordarlo,
come non dimentichiamo chi è l’assassino, sempre lo stesso, sempre con la stessa pistola o mitra d’ordinanza.
Non è una tragedia: ma un omicidio di Stato.
Ciao Davide Bifolco, qualunque fosse la ragione per cui eravate tre a sfrecciare,
qualunque fosse la ragione per cui non vi siete fermati: noi siamo con te.
Ci vorrebbe una Ferguson napoletana per farglielo capire bene…
Leggi: A Gerardino
P.S.: il numero 625 si riferisce ai casi che vanno dal 7 giugno 1975 al 30 giugno 1989 presenti : quando fu conclusa l’inchiesta che portò al Libro Bianco sulla Legge Reale uscita nel 1990.
Ora siamo oltre i mille, ma di molto oltre
A Gerardino Diglio, crivellato dallo Stato
Oggi ricorre un anniversario silenzioso.
Silenzioso come gli altri 625. Sono 625 persone uccise alle spalle,
crivellate dal piombo dei proiettili di una pistola di ordinanza.
Sempre e solo colpiti alla schiena.
Perché non si sono fermati ad un posto di blocco, o perché viaggiavano in una macchina che non si è fermata ad un ALT di un poliziotto, o di un Carabiniere ( o spesso di un agente in borghese)
625 nomi.
Oggi ricorre l’anniversario di Gerardino Diglio,
che con i suoi 13 anni di vita doveva essere veramente un pericolo per questo Stato.
Un pericolo così ingestibile da essere risolto con 3 colpi di pistola conficcati nella sua schiena.
Era a bordo di una macchina con altri 3 amici: l’auto era rubata, all’alt sono andati dritti.
Raffica di mitra e un bambino di 13 anni muore.
In nome dello Stato Italiano.
In nome dell’ articolo 53 del codice penale e Legge 22 Maggio 1975, n. 152, conosciuto come Legge Reale.
Le torture su Alberto Buonoconto, poi morto suicida … 1975, questura di Napoli
RIPORTO PER INTERO, RINGRAZIOLO, DAL BLOG CONTROMAELSTROM , così da integrare la lunga serie sulla tortura presente su questo blog
In questo paese si è sempre usata la tortura, per sopperire alle incapacità investigative degli inquirenti di fronte a fatti che colpivano la cosiddetta “opinione pubblica”. Ma dal 1975, comincia a diventare un metodo centrale dell’attività repressiva dei movimenti politici antagonisti e rivoluzionari.
Nel 1975 succedono fatti nuovi che ne consentono l’applicazione sistematica.
Correva la VI legislatura, era in carica il “IV Governo Moro” (23.11.1974 – 12.02.1976) formato da DC e Pri (presidente del consiglio Aldo Moro, vicepresidente Ugo La Malfa) agli interni, Luigi Gui, alla giustizia, Oronzo Reale (quello della “Legge Reale” ). Nel 1975 inizia la “politica di solidarietà nazionale” (1975-1978), con la collaborazione prevalente tra Dc e Pci che porterà ai governi di “unità nazionale”, caratterizzati dall’assenza di qualsiasi opposizione parlamentare (se non piccole formazioni come Democrazia Proletaria e altre). Sull’esempio della “Grosse Koalition” in Germania Ovest tra Cdu/Csu (cristiano democratici/cristiano sociali) e Spd (socialdemocratici) che era stata formata il 1° dicembre 1966.
Sarà proprio l’unità tra tutte le forze politiche a consentire una “politica controrivoluzionaria” una repressione feroce e totalmente al di fuori del quadro costituzionale e dello “stato di diritto”. Da qui la tortura, introdotta gradualmente ma sempre più massicciamente, le leggi speciali, le carceri speciali, i processi speciali, ecc…
Vedi a questo link la tortura nei confronti del compagno Enrico Triaca nel 1978 e in questo la risposta dello stesso Triaca al suo torturatore
Alberto Buonoconto viene arrestato l’8 ottobre 1975
Dal comunicato della “Lega per i diritti dei detenuti”
…Due giorni dopo l’arresto nel carcere di Poggioreale, Alberto Buonoconto dichiarava al Sostituto Procuratore della Repubblica, dr. Di Pietro di essere stato interrogato nella Questura di Napoli per 10 ore consecutive, senza la presenza del legale di fiducia o di un difensore di ufficio. Precisava poi che nel corso dell’interrogatorio, aveva subito, da parte di funzionari e d agenti, percosse e violenze fisiche somministrate con sistemi scientifici tali da poter essere qualificate come vere e proprie torture.
Il Sostituto Procuratore dava atto che il giovane presentava escoriazione e contusioni multiple su innumerevoli parti del corpo. Nei giorni successivi 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 ottobre il difensore del Buonoconto, avvocato Senese,vedeva costantemente respinta la richiesta di colloquio con il suo assistito, fino a che il giorno 17 ottobre (10 giorni dopo l’arresto) gli pervenne una denunzia autografa del giovane:
«Nella stanza dove mi hanno condotto ho trovato una decina di poliziotti, tutti in borghese, ed in più Fabbri e, credo, forse Ciocia (due funzionari PS di Napoli della squadra politica. N.d.r.), ed uno che gli altri chiamavano “dottore” mi diceva che lui mi faceva “gettare il sangue e l’anima”. Mi hanno fatto prima sedere normalmente su una sedia, poi, mentre mi schiaffeggiavano abbondantemente mi chiedevano se conoscevo i due che erano con me sulla macchina, mi tiravano cazzotti, e mi chiedevano quale “azione” ero in procinto di fare, mi tiravano la barba e mi strappavano i capelli per sapere dove avevo dormito la notte. Mi hanno tirato i nervi del collo, spremuto il naso, colpito violentemente con i tagli delle mani sul collo, sulle spalle e sulla schiena, stringendo anche le manette (dopo avevo i polsi il doppio di come li avevo entrando in Questura). Mi hanno storto le dita, le braccia, i gomiti, i polsi…poi mi prendono e mi stendono su una sedia. Uno di loro mi afferra con una mano il piede e con l’altra la coscia destra e fa leva col suo ginocchio. Non riuscivo più a tenere la testa alta, allora il sangue saliva e vedevo da questa posizione la dentiera di Fabbri che si apriva in larghi sorrisi di compiacimento per i suoi assistenti che mi tiravano calci sotto la testa per farmela tenere sollevata da terra… Hanno cominciato poi a tirarmi cazzotti nello stomaco, colpi di punta sul fegato, e continuavano in quella posizione distesa a tirarmi i capelli e a schiaffeggiarmi».
Immediatamente l’avvocato presentava denunzia alla Procura della Repubblica… contestualmente veniva richiesta ammissione al carcere di Poggioreale di un medico di parte, per costatare lo stato di salute del Buonoconto e l’entità delle lesioni. In data 20 ottobre il P.M. designato comunicò di non ammettere l’accesso al carcere del medico di parte, in quanto era stata già disposta , ed anche eseguita una perizia d’ufficio. Dichiarò inoltre che era stato omesso l’avviso alla difesa perché «le tracce delle lesioni potrebbero modificarsi durante il tempo necessario per la notifica dell’avviso».
Poiché per i reati commessi all’interno della Questura di Napoli, da alti funzionari, è assolutamente da escludersi la possibilità di reperire una qualsiasi prova testimoniale, appare evidente che privare la difesa del Buonoconto di una perizia medico-legale di parte, significa voler privare la denunzia di ogni elemento di prova . A confermare queste gravi considerazioni, sono venute nei giorni successivi, sulla stampa locale e nazionale, le giustificazioni dei funzionari della Questura di Napoli, che dichiaravano che il Buonoconto… si era prodotto lesioni sbattendosi la testa in un muro , all’atto del trasferimento dalla Questura al carcere. A parte che non esiste nessun referto ospedaliero sottoscritto dal Buonoconto, la stessa perizia eseguita dal medico-legale designato dal tribunale, elenca una lunga serie di lesioni, alcune delle quali localizzate in parti del corpo (fra le quali il collo), tali da dover escludere l’ipotesi dell’autoferimento.
Il prof. Faustino Durante dell’Università di Roma, ha infatti sostenuto in una sua controperizia, eseguita sulla scorta dei dati, di cui alla perizia del tribunale, che le lesioni subite dal Buonoconto gli sono state chiaramente e inequivocabilmente prodotte al seguito di colpi infertigli da terze persone.
Nonostante la controperizia… la Procura della Repubblica non ha ancora ritenuto di dover procedere all’invio di comunicazioni giudiziarie.
Una accorata testimonianza del padre di Alberto:
«…E ancora mi chiedo il perché di tanta crudeltà, di tanto spietato accanimento contro di lui, il perché delle torture che gli hanno inflitto dopo l’arresto, durante e dopo la lunga carcerazione, quel lungo calvario che giorno per giorno ha determinato la distruzione di Alberto.
[…] Ci lasciano per delle ore in una stanza [della Questura] e di tanto in tanto viene un funzionario a chiedermi che cosa so io di mio figlio. Perché non lo richiamo a casa? Da quanto tempo manca da Napoli? Ipocritamente con me insistono per sapere qualche cosa di mio figlio . Sono domande tranello perché Alberto è già nelle loro mani: lo stanno picchiano e seviziando. Sono io che lo ignoro.
Poi vengo a sapere, dagli avvocati e dalla stampa, che Alberto è ferito. Le denunzie fatte sono state archiviate perché contro ignoti. Ignoti!!! le sevizie a lui inflitte, gli sono state fatte in un pubblico ufficio, dove sarebbe stato facile se solo avessero voluto, risalire ai responsabili.
Da quel giorno è iniziata la disperazione di tutti noi. Mio figlio ha pagato con la vita la sua lotta contro la diseguaglianza e l’ingiustizia. Un giorno, mio figlio, il mio Alberto e tanti altri come lui, presenteranno “il conto” a tutti quelli, potenti e indifferenti, che reprimono, schiacciano, uccidono. E il “conto” sarà salato».
Il 20 dicembre 1980, a Napoli, il militante dei NAP Alberto Buonoconto s’impicca a casa dei genitori, mentre ancora sta scontando la pena.
Torture, vessazioni di ogni genere, carcere speciale, isolamento, portano Alberto al suicidio. Ma è un vero assassinio di Stato.
Su Alberto Buonoconto vedi su questo blog anche il post: http://contromaelstrom.wordpress.com/2011/09/07/ancora-tortura-negli-anni-settanta-e-ottanta/
Terroristi urbani: ecco il nuovo nemico
IL VIMINALE E IL SINDACO DI ROMA ATTACCANO IL DIRITTO DI MANIFESTARE
sulle pagine di Liberazione domani,
a firma di Paolo Persichetti
Quando in Italia si manifesta un’emergenza politico-sociale è subito pronta una legge d’eccezione. Un vizio che mette radici nei lontani anni 70. Anni tabù che si ripresentano continuamente sotto forma di spettro. Chi sabato scorso ha risposto ai pericolosi caroselli della polizia in piazza san Giovanni (tre mila secondo il Viminale) è un «terrorista urbano».
Il ministro degli Interni Roberto Maroni, dopo l’invocazione venuta da Antonio Di Pietro di una nuova legge Reale (la famigerata normativa sull’ordine pubblico che dal 1975 al 1990 ha provocato 625 vittime, tra cui ben 254 morti per mano delle forze di polizia), ha subito risposto coniando una nuova tipologia criminale (in incubazione da oltre un decennio) che va ad accrescere la lunga lista dei nemici politici dello Stato. In parlamento il ministro di polizia ha spiegato che sono in cantiere una serie di misure calco dei dispositivi d’eccezione già applicati per reprimere la delinquenza negli stadi: l’arresto in flagranza differita, i Daspo anche per i cortei (in barba all’articolo 21 della costituzione), l’ennesimo specifico reato associativo per chi esercita violenza aggravata nelle manifestazioni politiche (oramai siamo quasi a quota dieci all’interno del nostro codice penale, oggi molto più repressivo del testo originale coniato dal guardasigilli del fascismo Alfredo Rocco).
L’idea cardine contenuta nel nuovo edificio legislativo d’eccezione è quella di arretrare il più possibile l’avvio del reato, e dunque l’intervento penale, sanzionando non più soltanto il fatto compiuto o il suo tentativo ma gli «atti preparatori». Nozione incerta, volutamente fumosa, assolutamente pericolosa poiché apre all’abisso del processo alle intenzioni. Giuristi come Luigi Ferrajoli dissentono profondamente: «occultare l’incapacità del governo e la cattiva gestione dell’ordine pubblico con nuove misure repressive non serve. E’ assurdo che addirittura un sindaco possa introdurre un limite alle libertà costituzionali come quella di manifestare».
Per Gianni Ferrara, «una legislazione repressiva di questo tipo è inammissibile perché in contrasto non solo con un sistema costituzionale e una civiltà risultato di secoli di lotte sociali e politiche, ma è soprattutto inutile e dannosa come lo fu a suo tempo la legge Reale». Stavolta però questa nuova emergenza giudiziaria non è calata dall’alto dei Palazzi arroccati della politica. L’invocazione di legge ed ordine è venuta dall’interno stesso della manifestazione di sabato 15 ottobre. La reazione scomposta di pezzi ampi di ceto politico, le grida avventate di personaggi e strutture navigate, che hanno recepito le violenze e gli scontri come uno spodestamento del proprio ruolo, insieme all’ambiguo protagonismo di settori crescenti di società civile legati alla multiforme galassia giustizialista, vero must culturale egemone che tiene insieme i vari pezzi di ciò che resta della sinistra, subito pronti a lanciare la rincorsa alla delazione, le dichiarazioni dei vertici del Pd, la pressione di Repubblica(che aveva tentato di mettere il cappello alla giornata di sabato amplificando la grottesca dichiarazione dell’estensore della lettera della Bce, Draghi, nella quale si chiedevano lacrime e sangue per la popolazione italiana), hanno aperto la strada alla discesa in campo di Di Pietro e alla sortita di Marroni. Un boomerang clamoroso che ha portato addirittura all’ukaze di Alemanno, il sindaco che ha sospeso per un mese l’applicazione della costituzione a Roma, vietando tutte le manifestazioni. La politica e morta e che come Valentino Parlato che, memore di altre epoche, sul manifesto di domenica aveva provato a ricordare che «nell’attuale contesto, con gli indici di disoccupazione giovanile ai vertici storici era inevitabile che ci fossero scontri con la polizia e manifestazioni di violenza […]segni dell’urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile», è rimasto solo.
Nel frattempo per giovedì 20 ottobre alle 17 è stato convocato un presidio in solidarietà con gli arrestati durante la manifestazione:
L’appuntamento è al Gianicolo, all’altezza dell’Anfiteatro, sopra al carcere di Regina Coeli dove son rinchiusi i fermati (uomini)
Violenza e tortura, di Stato
Violenza di Stato? Non è una novità. Stefano è l’ultima vittima
di Paolo Persichetti,
Liberazione 31 ottobre 2009
Stiamo assistendo ad una recrudescenza della violenza statale?
La domanda è d’obbligo dopo l’ultima vicenda che ha portato alla morte di Stefano Cucchi. In realtà il ricorso a pratiche violente da parte degli apparati statali non è una novità. Una semplice disamina di lungo periodo del fenomeno porta a concludere che il ricorso ad un uso brutale, non proporzionato e fuorilegge della forza, è “prassi ordinaria” dei corpi dello Stato. Per i più giovani la memoria arriva alla «macelleria messicana» di Bolzaneto e della Diaz. I più anziani ricordano cosa fossero i commissariati e le carceri del dopoguerra, e cosa accadde nel calderone degli anni 70 con la legge Reale. Dal 1 gennaio 1976 al 30 giugno 1989 vennero uccise dalle «forze dell’ordine» 237 persone, mentre altre 352 rimasero ferite (dati censiti dal Centro Luca Rossi e fondazione Calamandrei). Senza dimenticare le torture contro i militanti della lotta armata praticate nel biennio 1981-1983, dopo il via libera venuto dal Cis, il comitato interministeriale per la sicurezza.
Una squadretta dei Nocs imperversò per l’Italia praticando sevizie apprese dai manuali utilizzati dagli aguzzini delle dittature militari dell’America latina. Manuali redatti dai generali francesi che ne avevano aggiornato le tecniche durante la guerra d’Indocina e poi in Algeria, ed esportate in seguito nella famigerata Scuola delle Americhe . Eppure c’è la sensazione che negli ultimi tempi qualcosa sia cambiato. Analisi sociologiche ci spiegano che le forze di polizia si sono hooliganizzate , basta leggere il libro di Carlo Bonini, ( Acab , Einaudi 2009) per farsene un’idea. Sorta di calco del mondo imbastardito delle curve. La sensazione d’impunità, la forza dell’omertà-ambiente che copre questi comportamenti, hanno attenuato i meccanismi di autocontrollo. Il populismo penale, l’importazione dei modelli di “tolleranza zero”, hanno portato alla costruzione di un nuovo “nemico interno” identificato nella piccola devianza, nei migranti. Una gestione dell’ordine pubblico militarizzata, sommata alla legislazione proibizionista e all’internamento carcerario come soluzione dei problemi, hanno generato un mostro sicuritario che produce un fisiologico esercizio della coercizione che dilaga in violenza aperta, tra fermi, celle di sicurezza, tribunali, prigioni. Negli ultimi anni la cronaca è fitta di episodi del genere: Marcello Lonzi , morto nel 2003 all’interno del carcere di Livorno. Sul suo corpo numerosi segni di vergate e colpi di bastone. Dopo anni di denunce la procura ha recentemente riaperto l’inchiesta. Due agenti penitenziari sono indagati. Federico Aldovrandi , pestato a morte il 25 settembre 2005 in piena strada dai poliziotti di una volante. Aldo Bianzino , deceduto il 14 ottobre 2007 nel carcere di Perugia. Sul suo corpo vengono riscontrate «lesioni massive al cervello e alle viscere», provocate prima dell’ingresso nel penitenziario. Un’inchiesta per omicidio volontario è in corso contro ignoti. Stefano Brunetti , arrestato ad Anzio l’8 settembre 2008, muore in ospedale il giorno successivo a causa delle percosse subite. Dall’autopsia emerge un decesso provocato da «emorragia interna dovuta ad un grave danno alla milza. Risultano anche fratture a due costole». Mohammed , marocchino di ventisei anni suicidatosi il 6 marzo 2009 nel carcere di santa Maria Maggiore a Venezia, dopo una lunga permanenza in cella liscia. Sei poliziotti della penitenziaria finiscono nel registro degli indagati per «abuso di autorità contro persone arrestate o detenute». Francesco Mastrogiovanni , morto in un letto di contenzione il 4 agosto scorso dopo un Tso abusivo. Per le molteplici morti violente avvenute in carcere e nelle questure, l’Italia è sotto accusa da parte di alcuni organismi internazionali e dalla commissione europea per la prevenzione della tortura.
Il potere sui corpi è qualcosa di osceno
«Il lavoro dell’investigatore, poliziotto o pubblico ministero, si colloca su una linea di confine»
Intervista a Carofiglio, senatore PD, magistrato. Di Paolo Persichetti, Liberazione 1/11 2009
«Il lavoro dell’investigatore, poliziotto o pubblico ministero, si colloca su una linea di confine. Da un lato ci sono delle regole, nonnecessariamente giuridiche, che spesso, in modo consapevole o inconsapevole, vengono violate. Ma senza le regole non c’è nessuna differenza fra guardia e ladro, tutto si riduce a una pura questione di rapporti di forza». Si tratta di uno dei passi finali del Paradosso del poliziotto, dialogo tra un giovane scrittore e un vecchio poliziotto, scritto da Gianrico Carofiglio, oggi senatore del Pd, magistrato in aspettativa e per molti anni pubblico ministero, ma soprattutto autore riconosciuto. Per Sellerio ha pubblicato “I casi dell’avvocato Guerrieri”, “Testimone inconsapevole” e “L’Arte del dubbio”, che potremmo definire un vero manuale sulla tecnica dell’interrogatorio. Forse in questo momento è una delle persone più adatte per aiutarci a capire cosa è successo a Stefano Cucchi, e soprattutto perché. Chi meglio di lui può sapere quel che può accadere nelle pieghe delle indagini, nel chiuso di un posto di polizia durante i momenti che seguono il fermo di un indiziato? Nel Paradosso del poliziotto fa raccontare al vecchio sbirro una scena che marca l’inizio della sua carriera, il pestaggio di un giovane appena arrestato: «quando entrai il ragazzo stava gridando, o forse piangeva. Attorno c’erano sei o sette colleghi, un paio in divisa delle volanti e tutti gli altri della mobile. Quello era seduto, ammanettato dietro la schiena. Gli davano schiaffi e pugni a turno e gli gridavano in faccia e nelle orecchie».
A Stefano Cucchi è accaduta una cosa del genere?
Questo lo dovranno appurare i titolari dell’inchiesta. Piuttosto sono rimasto molto colpito dalle dichiarazioni fatte da un ufficiale dell’Arma, secondo cui l’unica cosa certa in questa storia è che i carabinieri quella notte si sono comportati correttamente. Un dato certo in realtà è che qualcuno ha prodotto quelle terribili lesioni sul corpo del ragazzo. Se quell’ufficiale garantisce che i carabinieri non hanno nulla di cui rimproverarsi, vuol dire che sa anche chi ha provocato quelle lesioni sul giovane. La conseguenza successiva è che lo deve dire, se vuole essere credibile e non dare l’idea di una difesa d’ufficio di comportamenti inaccettabili.
Nelle indagini uno dei maggiori momenti di criticità è la fase iniziale, quella dove le forze di polizia, in presenza di un fermo, possono agire d’impeto prima dell’intervento della magistratura.
E’ normale che un soggetto tratto in arresto possa essere informalmente interrogato per acquisire notizie utili all’immediato proseguimento dell’indagine. Queste dichiarazioni però non sono utilizzabili e nemmeno verbalizzabili. Un soggetto in stato di arresto non può essere formalmente interrogato dalla polizia giudiziaria.
Però nel suo libro il vecchio poliziotto non aspetta il magistrato. Dialoga col rapinatore, gli toglie le manette, gli offre una sigaretta e quello parla?
Nell’ultimo capitolo del mio prossimo romanzo, c’è un dialogo tra un avvocato e un poliziotto. Ad un certo punto i due parlano delle loro regole nella vita. Il poliziotto dice: «faccio lo sbirro. La prima regola per uno sbirro è non umiliare chi ha di fronte». Dice questo perché il potere sulle altre persone è qualcosa di osceno, perché è l’impossessamento di un corpo e l’unico modo per renderlo tollerabile è il rispetto. Evitare di passare da una funzione tecnica d’investigatore o giudice, a una funzione di giustiziere morale. Rispettare l’altro indipendentemente da chi è, da cosa ha fatto o si suppone abbia fatto. Si tratta della regola più importante ma anche di quella più facile da violare.
Il corpo di Stefano Cucchi non ha avuto questo rispetto. Negli ultimi tempi le cronache hanno registrato anomalie, o per utilizzare il linguaggio dei suoi personaggi, hanno umiliato gli indiziati. Basti pensare a una vicenda come quella della Caffarella, o alla morte di Stefano Brunetti nel 2008, deceduto in carcere per traumi subiti nella fase dell’arresto.
Io non parlerei di una recrudescenza. Il fenomeno è più strutturale e si colloca in quella zona grigia che caratterizza le prime fasi concitate delle indagini. In genere, in queste circostanze, c’è il rischio che si manifestino due tipi di violenza, entrambe illegittime, ovviamente. La prima legata alla fase operativa, quando intervengono modalità movimentate di un arresto o di un fermo. La seconda, molto più grave, è quella praticata negli uffici, a volte come inaccettabile punizione preventiva, a volte come altrettanto inaccettabile tecnica investigativa finalizzata ad acquisire prove. Si tratta di una dimensione difficilmente governabile che si colloca nella fase successiva all’arresto, all’apprensione fisica del soggetto interessato all’attività investigativa. Credo che l’unica soluzione – oltre alla repressione rigorosa degli episodi provati – sia lavorare sulla cultura dei dirigenti e degli operatori, mostrando una tolleranza zero verso forme ingiustificabili di puro sadismo. La capacità di parlare con le persone – indagati e testimoni – è in realtà molto più efficace e positiva nelle prospettiva di un’indagine dagli esiti attendibili.
Ci sono analisi sociologiche che descrivono una sorta di hooliganizzazione della polizia. «L’Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino». La frase è di un esponente delle forze di polizia, e si trova nel libro di Carlo Bonini, Acab. Qualcosa vorrà pur dire, se un agente si esprime in questo modo?
Non si può generalizzare l’atteggiamento di un balordo, o di qualcuno che agisce sotto stress. Non dobbiamo commettere l’errore di dire che la polizia, o i carabinieri, siano questo. Ed è altresì un errore confondere l’uso della violenza che a volte si verifica all’interno dell’attività investigativa con le modalità più o meno brutali di gestione dell’ordine pubblico. Si tratta di due fenomeni distinti. Il primo lo si ritrova, in misura minore o maggiore, nelle polizie di tutto il mondo ed è inversamente proporzionale al grado di civilizzazione e cultura del Paese e delle sue forze di polizia. Altra questione, più legata anche a sollecitazioni politiche, dirette o indirette, quella sull’uso eccessivo della forza in situazioni d’ordine pubblico. Certo si può sempre osservare che in una situazione di barbarie collettiva, di violenza verbale, di perdita di freni inibitori, è più facile che la violenza, in generale, si incrementi.
Può anticipare il contenuto dell’interpellanza parlamentare che depositerà la prossima settimana?
Tra le altre cose, ho chiesto chiarimenti sul fatto che l’autopsia sul corpo di Stefano Cucchi è stata disposta nell’ambito di un fascicolo che nel gergo si chiama modello 45, cioè il fascicolo in cui si inseriscono gli atti non costituenti notizia di reato. Quando l’autorità giudiziaria dispone un’autopsia, la premessa concettuale e giuridica è che ci sia un’ipotesi di reato, anche remota, benché in questo caso remota non lo fosse affatto. Si tratta di una strana anomalia che dovrà essere spiegata.
Di anomalie in questa storia ce ne sono tante. Sembra che Cucchi in caserma avesse indicato un proprio legale di fiducia, che però non risulta mai essere stato avvertito. Quando è comparso in tribunale è stato assistito, per così dire, da un legale d’ufficio.
Se la cosa dovesse trovare conferma sarebbe una circostanza di inaudita gravità e probabilmente un indicatore del fatto che si voleva evitare l’intervento del legale di fiducia e la sua funzione di controllo.
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