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Archive for the ‘Torture in Italia’ Category

Le “donne” dei prigionieri e la storia rimossa, la nostra storia

1 settembre 2010 20 commenti

AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI

Quest’articolo lo lessi che ero poco più di una bambina, a tredici anni, riportato tra le note di un libro che cambiò la mia vita (regalatomi da una mano completamente inconsapevole):
Dall’altra parte”  – l’odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici- di Prospero Gallinari e Linda Santilli.
Un articolo, un “reportage”, una testimonianza scossa di una giornata passata con le “donne dei detenuti” br e non, reclusi nel carcere speciale di Trani dopo appena un mese dalla rivolta. Le compagne di uomini fatti a pezzettini dai GIS, uomini con dita denti schiene e costole spezzate: detenuti politici che avevano messo a ferro e fuoco un carcere e che ora scontavano sulla loro pelle e quella dei loro cari la repressione dello stato.
Uno stato che doveva dimostrare la sua forza: uno stato che aveva mandato i GIS a sedare la rivolta …e c’era riuscito, ovvio!, peccato che al rientro dell’operazione – nei festeggiamenti per il capodanno- il generale che aveva guidato il masssacro è stato ucciso sul pianerottolo di casa.
Quest’articolo racconta il mai raccontato, quello vissuto da chi ha avuto la vita sventrata dal carcere, dalle leggi speciali, dall’ergastolo solo perchè madre, figlio, amore di un compagno prigioniero.

La tradotta di Trani ferma a Barletta. Per Trani si cambia.
Sul marciapiede, alle sette di mattina si riversano i familiari. Perlopiù sono donne, madri, compagne, sorelle. Nei venti minuti d’attesa prima che arrivi il Roma-Bari che bisognerà prendere al volo, di corsa dal giornalaio a raccattare quotidiani, di corsa al gabinetto, di corsa al bar a buttar giù un caffè; poi dieci minuti ancora , questa volta in piedi contro gli sportelli del treno, e giù di nuovo su un altro marciapiede, quello della stazione di Trani.
Qui il femminismo non avrebbe ragione d’esistere.
Le donne dei prigionieri sono forti, gestiscono le loro azioni con autorevolezza, a tratti perfino con allegria. Di fronte al procuratore capo De Marinis, ogni sabato, da quando c’è stata la rivolta, la dignità la chiarezza la determinazione sono loro […].
Il primo sabato: le visite e i pacchi sono sospesi. Il secondo, ancora niente visite e niente pacchi.  Le donne si organizzano, attuano il blocco dei cancelli, aspettano dieci ore, circondate dai carabinieri minacciosi, e commettono un peccato d’onestà: credono all’ufficiale che promette un colloquio con il direttore se il blocco viene tolto. Naturalmente l’ufficiale non rispetta la parola. Però i pacchi passano.
Il terzo sabato, ancora visite distanziate, ancora il ritrovarsi davanti al secondo cancello. Per ogni nome chiamato passa un’ora. I colloqui dovranno essere con i vetri. NO, prigionieri e donne dicono no. […]

Si decide di nuovo il blocco dei cancelli. […]
Da tutte le parti piovono autoblindo, e carabinieri, a nugoli come le mosche. Arriva anche un funzionario in borghese, forse Digos. Dice che le manifestazioni sono proibite, dice che bisogna sgombrare se no ci pensa lui, e infatti ci pensa.
I carabinieri si schierano a pochi passi dalle donne, faccia a faccia. Rigidi e neri che sembrano lì come per un film. Comparse che non conoscono tutta la trama, ma solo il povero ruolo che le riguarda. E caricano duro.
Piovono le botte e gli spintoni, ma il funzionario capisce che la loro è solo forza fisica.[…]
Le notizie che filtrano dall’interno sono come sassi in faccia e perdono ordine e priorità, trasformandosi in una sorta di onda d’urto che spinge le donne ad agire. Guardie incappucciate, da Ku Klux Klan, chiamano per nome i detenuti, e a mano a mano che uno viene crocifisso dalla luce dei fari, giù botte. Quindici prigionieri vengono trascinati sul tetto: le guardie che li tengono chiedono alle altre, in basso, se ci sono morti o feriti tra i loro colleghi. Sono pronte, a una risposta affermativa, a buttar giù i detenuti.
Il policlinico di Bari si lascia portari via dai carabinieri i feriti gravi. Ma questo è avvenuto subito dopo la rivolta. Le donne si sono già battute per organizzare una fitta rete di controinformazione, ma tranne le trasmissioni di poche radio libere e qualche stralcio di notizia censurata dagli stessi giornalisti che la passano, all’opinione pubblica non arriva niente.
Altre notizie, sassi in faccia. I prigionieri sono ammassati in cameroni e come unica forma di protesta possibile attuano la “guerra batteriologica”, buttano escrementi e immondizie nei corridoi e dalle finestre. I feriti curati alla bell’e meglio subito dopo la rivolta peggiorano. I punti vanno in suppurazione, alcuni hanno la febbre alta e non si reggono in piedi, altri hanno le ossa rotte, le mani le caviglie, le costole.
Falco il medico della prigione, che nome meglio di così non poteva avere, non si fa vivo. Neanche il Giudice di sorveglianza. […]
Quando vengono concessi i colloqui, le donne e i prigionieri li rifiutano: si vorrebbe ancora farli parlare attraverso vetri e citofoni. Vengono pestati e trascinati all’isolamento, ma non si illudano i carcerieri che questo possa spingere i detenuti o i loro familiari alla rinuncia della propria dignità umana. Le donne stendono una denuncia. La firmano nominalmente, la portano alla procura, la presentano come legge vuole,  anche se si immaginano che finirà in un cassetto. Trasmettono altri comunicati attraverso l’Ansa, ma anche su questi cala la nebbia.
Notte e nebbia. Nacht und Nebel sulle carceri speciali.
Notte e nebbia sulle coscienze. Nel paese delle interrogazioni parlamentari non si alza una sola voce, fosse anche semplicemente per chiedere. Ma di quello che accade o che potrebbe accadere nei lager di questa repubblica qualcuno dovrà pur rispondere.

Laura Grimaldi
Il Manifesto

29 Gennaio 1981

[A mamma Clara, a suo figlio Bruno]

I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis

Bruciature di sigarette sul corpo di Cucchi. E un 17enne si suicida in carcere, in attesa di giudizio

18 novembre 2009 Lascia un commento

Mentre le pagine dei giornali ci comunicano che sul martoriato corpo di Stefano Cucchi ci sono anche bruciature di sigarette, arriva la notizia di un ragazzo, di un minorenne di 17 anni che s’è impiccato con un lenzuolo nelle docce del carcere minorile di Firenze.
Era in attesa di giudizio, per un tentato furto: uno non può morire a 17 anni per un tentato furto! E’ la dimostrazione di quanto sia assassino questo stato.
Un ragazzo che era in carcere dal 3 agosto in attesa di giudizio: tutto ciò è inaccettabile.
Un giovane ragazzo proveniente dal Marocco, ancora privo di nome nei comunicati ufficiali.

E adesso poi non ci venissero a dire che Cucchi è stato pestato dentro il Tribunale di Piazzale Clodio: non accollassero quest’ omicidio alla penitenziaria (corpo che non è che sto difendendo, ovviamente) perché la mano è dei Carabinieri. Non si spengono sigarette sul corpo di una persona se non per “sapere” qualcosa, magari per sapere dov’era quel kg di hashish che poi è stato ritrovato dalla sua famiglia.
Spegnere sigarette sul corpo di una persona non è pestaggio: ma TORTURA!
Non c’è altro modo di definire questa pratica, si chiama TORTURA. Quella contro cui in questo paese non esiste una legge, quella per cui mai nessuno ha pagato in questo paese.

La mano di Stefano Cucchi. I segni evidenti delle bruciature delle sigarette: anche in un punto della mano da manuale del torturatore…

Violenza e tortura, di Stato

1 novembre 2009 1 commento

Violenza di Stato? Non è una novità. Stefano è l’ultima vittima
di Paolo Persichetti,
Liberazione 31 ottobre 2009 

Una delle foto di Stefano Cucchi che la famiglia ha voluto mostrare.

Stiamo assistendo ad una recrudescenza della violenza statale?
La domanda è d’obbligo dopo l’ultima vicenda che ha portato alla morte di Stefano Cucchi. In realtà il ricorso a pratiche violente da parte degli apparati statali non è una novità. Una semplice disamina di lungo periodo del fenomeno porta a concludere che il ricorso ad un uso brutale, non proporzionato e fuorilegge della forza, è “prassi ordinaria” dei corpi dello Stato. Per i più giovani la memoria arriva alla «macelleria messicana» di Bolzaneto e della Diaz. I più anziani ricordano cosa fossero i commissariati e le carceri del dopoguerra, e cosa accadde nel calderone degli anni 70 con la legge Reale. Dal 1 gennaio 1976 al 30 giugno 1989 vennero uccise dalle «forze dell’ordine» 237 persone, mentre altre 352 rimasero ferite (dati censiti dal Centro Luca Rossi e fondazione Calamandrei). Senza dimenticare le torture contro i militanti della lotta armata praticate nel biennio 1981-1983, dopo il via libera venuto dal Cis, il comitato interministeriale per la sicurezza.

Stefano Cucchi

Stefano Cucchi

Una squadretta dei Nocs imperversò per l’Italia praticando sevizie apprese dai manuali utilizzati dagli aguzzini delle dittature militari dell’America latina. Manuali redatti dai generali francesi che ne avevano aggiornato le tecniche durante la guerra d’Indocina e poi in Algeria, ed esportate in seguito nella famigerata Scuola delle Americhe . Eppure c’è la sensazione che negli ultimi tempi qualcosa sia cambiato. Analisi sociologiche ci spiegano che le forze di polizia si sono hooliganizzate , basta leggere il libro di Carlo Bonini, ( Acab , Einaudi 2009) per farsene un’idea. Sorta di calco del mondo imbastardito delle curve. La sensazione d’impunità, la forza dell’omertà-ambiente che copre questi comportamenti, hanno attenuato i meccanismi di autocontrollo. Il populismo penale, l’importazione dei modelli di “tolleranza zero”, hanno portato alla costruzione di un nuovo “nemico interno” identificato nella piccola devianza, nei migranti. Una gestione dell’ordine pubblico militarizzata, sommata alla legislazione proibizionista e all’internamento carcerario come soluzione dei problemi, hanno generato un mostro sicuritario che produce un fisiologico esercizio della coercizione che dilaga in violenza aperta, tra fermi, celle di sicurezza, tribunali, prigioni. Negli ultimi anni la cronaca è fitta di episodi del genere: Marcello Lonzi , morto nel 2003 all’interno del carcere di Livorno. Sul suo corpo numerosi segni di vergate e colpi di bastone. Dopo anni di denunce la procura ha recentemente riaperto l’inchiesta. Due agenti penitenziari sono indagati. Federico Aldovrandi , pestato a morte il 25 settembre 2005 in piena strada dai poliziotti di una volante. Aldo Bianzino , deceduto il 14 ottobre 2007 nel carcere di Perugia. Sul suo corpo vengono riscontrate «lesioni massive al cervello e alle viscere», provocate prima dell’ingresso nel penitenziario. Un’inchiesta per omicidio volontario è in corso contro ignoti. Stefano Brunetti , arrestato ad Anzio l’8 settembre 2008, muore in ospedale il giorno successivo a causa delle percosse subite. Dall’autopsia emerge un decesso provocato da «emorragia interna dovuta ad un grave danno alla milza. Risultano anche fratture a due costole». Mohammed , marocchino di ventisei anni suicidatosi il 6 marzo 2009 nel carcere di santa Maria Maggiore a Venezia, dopo una lunga permanenza in cella liscia. Sei poliziotti della penitenziaria finiscono nel registro degli indagati per «abuso di autorità contro persone arrestate o detenute». Francesco Mastrogiovanni , morto in un letto di contenzione il 4 agosto scorso dopo un Tso abusivo. Per le molteplici morti violente avvenute in carcere e nelle questure, l’Italia è sotto accusa da parte di alcuni organismi internazionali e dalla commissione europea per la prevenzione della tortura.

Il potere sui corpi è qualcosa di osceno 
«Il lavoro dell’investigatore, poliziotto o pubblico ministero, si colloca su una linea di confine»
Intervista a Carofiglio, senatore PD, magistrato. Di Paolo Persichetti, Liberazione 1/11 2009

«Il lavoro dell’investigatore, poliziotto o pubblico ministero, si colloca su una linea di confine. Da un lato ci sono delle regole, nonfoto6necessariamente giuridiche, che spesso, in modo consapevole o inconsapevole, vengono violate. Ma senza le regole non c’è nessuna differenza fra guardia e ladro, tutto si riduce a una pura questione di rapporti di forza». Si tratta di uno dei passi finali del Paradosso del poliziotto, dialogo tra un giovane scrittore e un vecchio poliziotto, scritto da Gianrico Carofiglio, oggi senatore del Pd, magistrato in aspettativa e per molti anni pubblico ministero, ma soprattutto autore riconosciuto. Per Sellerio ha pubblicato “I casi dell’avvocato Guerrieri”, “Testimone inconsapevole” e “L’Arte del dubbio”, che potremmo definire un vero manuale sulla tecnica dell’interrogatorio. Forse in questo momento è una delle persone più adatte per aiutarci a capire cosa è successo a Stefano Cucchi, e soprattutto perché. Chi meglio di lui può sapere quel che può accadere nelle pieghe delle indagini, nel chiuso di un posto di polizia durante i momenti che seguono il fermo di un indiziato? Nel Paradosso del poliziotto fa raccontare al vecchio sbirro una scena che marca l’inizio della sua carriera, il pestaggio di un giovane appena arrestato: «quando entrai il ragazzo stava gridando, o forse piangeva. Attorno c’erano sei o sette colleghi, un paio in divisa delle volanti e tutti gli altri della mobile. Quello era seduto, ammanettato dietro la schiena. Gli davano schiaffi e pugni a turno e gli gridavano in faccia e nelle orecchie».

A Stefano Cucchi è accaduta una cosa del genere?
Questo lo dovranno appurare i titolari dell’inchiesta. Piuttosto sono rimasto molto colpito dalle dichiarazioni fatte da un ufficiale dell’Arma, secondo cui l’unica cosa certa in questa storia è che i carabinieri quella notte si sono comportati correttamente. Un dato certo in realtà è che qualcuno ha prodotto quelle terribili lesioni sul corpo del ragazzo. Se quell’ufficiale garantisce che i carabinieri non hanno nulla di cui rimproverarsi, vuol dire che sa anche chi ha provocato quelle lesioni sul giovane. La conseguenza successiva è che lo deve dire, se vuole essere credibile e non dare l’idea di una difesa d’ufficio di comportamenti inaccettabili.

 

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Marcello Lonzi, ucciso nel 2003 nel carcere di Livorno

Nelle indagini uno dei maggiori momenti di criticità è la fase iniziale, quella dove le forze di polizia, in presenza di un fermo, possono agire d’impeto prima dell’intervento della magistratura.
E’ normale che un soggetto tratto in arresto possa essere informalmente interrogato per acquisire notizie utili all’immediato proseguimento dell’indagine. Queste dichiarazioni però non sono utilizzabili e nemmeno verbalizzabili. Un soggetto in stato di arresto non può essere formalmente interrogato dalla polizia giudiziaria.

Però nel suo libro il vecchio poliziotto non aspetta il magistrato. Dialoga col rapinatore, gli toglie le manette, gli offre una sigaretta e quello parla?
Nell’ultimo capitolo del mio prossimo romanzo, c’è un dialogo tra un avvocato e un poliziotto. Ad un certo punto i due parlano delle loro regole nella vita. Il poliziotto dice: «faccio lo sbirro. La prima regola per uno sbirro è non umiliare chi ha di fronte». Dice questo perché il potere sulle altre persone è qualcosa di osceno, perché è l’impossessamento di un corpo e l’unico modo per renderlo tollerabile è il rispetto. Evitare di passare da una funzione tecnica d’investigatore o giudice, a una funzione di giustiziere morale. Rispettare l’altro indipendentemente da chi è, da cosa ha fatto o si suppone abbia fatto. Si tratta della regola più importante ma anche di quella più facile da violare.

Il corpo di Stefano Cucchi non ha avuto questo rispetto. Negli ultimi tempi le cronache hanno registrato anomalie, o per utilizzare il linguaggio dei suoi personaggi, hanno umiliato gli indiziati. Basti pensare a una vicenda come quella della Caffarella, o alla morte di Stefano Brunetti nel 2008, deceduto in carcere per traumi subiti nella fase dell’arresto.
Io non parlerei di una recrudescenza. Il fenomeno è più strutturale e si colloca in quella zona grigia che caratterizza le prime fasi concitate delle indagini. In genere, in queste circostanze, c’è il rischio che si manifestino due tipi di violenza, entrambe illegittime, ovviamente. La prima legata alla fase operativa, quando intervengono modalità movimentate di un arresto o di un fermo. La seconda, molto più grave, è quella praticata negli uffici, a volte come inaccettabile punizione preventiva, a volte come altrettanto inaccettabile tecnica investigativa finalizzata ad acquisire prove. Si tratta di una dimensione difficilmente governabile che si colloca nella fase successiva all’arresto, all’apprensione fisica del soggetto interessato all’attività investigativa. Credo che l’unica soluzione – oltre alla repressione rigorosa degli episodi provati – sia lavorare sulla cultura dei dirigenti e degli operatori, mostrando una tolleranza zero verso forme ingiustificabili di puro sadismo. La capacità di parlare con le persone – indagati e testimoni – è in realtà molto più efficace e positiva nelle prospettiva di un’indagine dagli esiti attendibili.

Ci sono analisi sociologiche che descrivono una sorta di hooliganizzazione della polizia. «L’Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino». La frase è di un esponente delle forze di polizia, e si trova nel libro di Carlo Bonini, Acab. Qualcosa vorrà pur dire, se un agente si esprime in questo modo?
Non si può generalizzare l’atteggiamento di un balordo, o di qualcuno che agisce sotto stress. Non dobbiamo commettere l’errore di dire che la polizia, o i carabinieri, siano questo. Ed è altresì un errore confondere l’uso della violenza che a volte si verifica all’interno dell’attività investigativa con le modalità più o meno brutali di gestione dell’ordine pubblico. Si tratta di due fenomeni distinti. Il primo lo si ritrova, in misura minore o maggiore, nelle polizie di tutto il mondo ed è inversamente proporzionale al grado di civilizzazione e cultura del Paese e delle sue forze di polizia. Altra questione, più legata anche a sollecitazioni politiche, dirette o indirette, quella sull’uso eccessivo della forza in situazioni d’ordine pubblico. Certo si può sempre osservare che in una situazione di barbarie collettiva, di violenza verbale, di perdita di freni inibitori, è più facile che la violenza, in generale, si incrementi.

Può anticipare il contenuto dell’interpellanza parlamentare che depositerà la prossima settimana?
Tra le altre cose, ho chiesto chiarimenti sul fatto che l’autopsia sul corpo di Stefano Cucchi è stata disposta nell’ambito di un fascicolo che nel gergo si chiama modello 45, cioè il fascicolo in cui si inseriscono gli atti non costituenti notizia di reato. Quando l’autorità giudiziaria dispone un’autopsia, la premessa concettuale e giuridica è che ci sia un’ipotesi di reato, anche remota, benché in questo caso remota non lo fosse affatto. Si tratta di una strana anomalia che dovrà essere spiegata.

Di anomalie in questa storia ce ne sono tante. Sembra che Cucchi in caserma avesse indicato un proprio legale di fiducia, che però non risulta mai essere stato avvertito. Quando è comparso in tribunale è stato assistito, per così dire, da un legale d’ufficio.
Se la cosa dovesse trovare conferma sarebbe una circostanza di inaudita gravità e probabilmente un indicatore del fatto che si voleva evitare l’intervento del legale di fiducia e la sua funzione di controllo.

LEGGI: A Carlo Giuliani, sul suo assassino stupratore e i pestaggi di Milano

Su Francesco Mastrogiovanni

22 agosto 2009 6 commenti

dal sito Filiarmonici: INTOLLERANTE AI CARABINIERI

Abbiamo deciso di occuparci di questa storia.

Non é una scelta corrente per Filiarmonici, che non usa pubblicare testi propri e tanto meno condurre inchieste. Non l’ha mai fatto e, allo stato, non é prevedibile che lo faccia in futuro. Precisiamo questo per non doverci ritrovare domani, tirati per la giacchetta per non aver seguito questa o quell’altra delle mille ingiustizie che l’Italia (e perché solo l’Italia poi?) sforna con prevedibile regolarità. Questa nostra é un’eccezione, e probabilmente tale rimarrà.
Perché, dunque, ci siamo orientati a tralignare da una condotta consolidata in parecchi anni? Non perché le vittima fosse un anarchico: semmai coltiviamo la speranza che questo elemento ci consenta di arrivare con minori difficoltà a scoprire quanto ci preme. Ma perché ci sono almeno due aspetti che questa vicenda può portare all’attenzione di molti, di quei molti che intuiscono che degli strumenti di controllo dei comportamenti é il caso di diffidare, ma che non hanno mai avuto il tempo e l’occasione per indagarne un po’ più a fondo i processi, le finalità, gli strumenti.

Foto di Valentina Perniciaro _le testuggini di Genova 2001_

Foto di Valentina Perniciaro _le testuggini di Genova 2001_

Il primo é il TSO, il Trattamento Sanitario Obbligatorio. Come tutto ciò che deriva da un obbligo, é immediato comprendere che si tratta di uno strumento esposto per natura agli abusi. Alcuni tra noi pensano addirittura che un obbligo socialmente imposto sia di per sé un abuso. Tuttavia, un po’ tutti, specie i moltissimi che non hanno esperienza personale e diretta di casi simili, sono portati a ritenere che, in fin dei conti, il TSO colpisca ossessi e furiosi, temporaneamente o stabilmente pericolosi. Che si tratti di una violenza, magari eccessivamente brutale, ma in qualche modo non del tutto evitabile.
Poiché noi (anche perché alcuni di noi operano in maniera approfondita per denunciare questo strumento) sappiamo che non é così, ecco una buona occasione per mettere in evidenza la realtà. Il TSO è un abuso in sé, non é uno strumento medico, ma di controllo e repressione sociale, che mira alla psichiatrizzazione totalitaria dei comportamenti. E che, in quanto tale, si presta poi ad ulteriori abusi, facendo rientare nella propria casistica anche molti che, in base ai protocolli, oggi come oggi non vi rientrerebbero. La nostra ipotesi é che la vicenda di cui ci occupiamo sia di questo tipo. Ma, in ogni caso, l’esito tragico ci dimostra quanto il TSO, lungi dal difendere da una pericolosità ipotetica e tutta da dimostrare, costituisca un pericolo, frequentemente un pericolo mortale. Di TSO si muore abbastanza spesso, e si ha la vita rovinata il più delle volte. Questo, se il TSO è stato deciso secondo tutti i crismi della legge. Ma, e qui veniamo alla seconda questione, noi dalle cronache abbiamo tratto l’impressione che forse, o magari probabilmente, questo particolare TSO abbia corrisposto a una volontà persecutoria specifica, ad opera di qualcuno che aveva il potere di attivare la procedura, e che covava un odio di antica data nei confronti di Francesco Mastrogiovanni. Tutti i dati confermano che lui si sentiva perseguitato e sussiste l’ipotesi che sia questo suo terrore ad avergli resa fatale la contenzione (che non fa bene a nessuno, ma che in genere non uccide in soli quattro giorni). Ora, considerando che da ragazzo era stato arrestato per essersi difeso da un’aggressione omicida, che una seconda volta era stato arrestato per aver protestato “per una multa”, può darsi che gli si fosse formata quella che le persone superficiali e i mentitori professionali chiamano “mania di persecuzione”.

Ma, e l’ultima vicenda lo conferma anche ai più scettici, lui era effettivamente perseguitato. Tanto più che le ragioni dell’ultimo TSO appaiono totalmente nebulose, e verosimilmente false. Quindi, appare ragionevole l’ipotesi che fosse in atto, forse da molto tempo, una precisa macchinazione nei suoi confronti ad opera delle autorità. I motivi esatti, i protagonisti precisi, vorremmo scoprirli e indicarli al giudizio di ciascuno. Tanto più che ci appare urgente portare alla luce un aspetto dell’Italia poco noto a chi vive nelle grandi città, all’ombra dell’anonimato che ci regalano le moltitudini: nella provincia, nei piccoli paesi, esiste sovente una sproporzione fra soggetti da controllare e controllori. Questo innesca molte volte una capillarità ossessiva dell’osservazione dello stato. In pratica un’intera stazione dei carabinieri, o un intero ufficio Digos si occupa stabilmente di un unico minimo gruppetto di tipi strani o addirittura di un unico individuo con la “fobia per i carabinieri”. Questa é una vessazione in sé, anche quando non conduce né a TSO né a procedimenti penali. Ma di solito vi conduce. Sono cose che non si sanno. O cui non si pensa. Noi vogliamo che si sappiano, e vogliamo che tutti ci riflettano e possano giudicare se si sentano sicuri grazie a ciò che si fa in nome della sicurezza. E della sicurezza di chi si stia parlando: perché Francesco Mastrogiovanni stava in vacanza e dopo quattro giorni era morto, perché le forze dell’ordine erano andate a prenderlo. Questa é l’unica cosa indiscutibile da cui partiamo. A questo fine intendiamo raccogliere, pubblicare e diffondere tutti gli elementi che emergeranno. Invitando ciascuno a ricavarne le opportune riflessioni. Già che ci siamo, ne avanziamo subito una: gli stessi carabinieri che avevano fatto il blitz contro Mastrogiovanni che passeggiava in ciabatte da mare, adesso portano avvisi di garanzia a medici e infermieri. Lo stesso stato che ha determinato il danno, ora pretende di giudicarlo e di distribuire assoluzioni e forse anche condanne. Nei riguardi tutti, salvo che di sé stesso e delle sue leggi. Ecco, nella ricerca che vorremmo avviare, lo stato non dovrà essere al di sopra delle parti, ma essere chiamato precisamente in giudizio. Già ora infatti, con i soli dati di cui disponiamo, é evidente che Mastrogiovanni é morto a causa dello stato. E che quindi, come sempre d’altro canto, non é dallo stato che possiamo attenderci verità e giustizia.

POI, DI SANDRO PADULA, pubblicato su L’Altro, questo articolo molto bello…

Giustizia: Francesco Mastrogiovanni; basta anarchici “suicidi”
di Sandro Padula, L’Altro, 18 agosto 2009

1972. Su via Velia a Salerno, in un pomeriggio di luglio, muore accoltellato il giovane militante del Msi Carlo Falvella. In carcere finisce l’anarchico Giovanni Marini e ci resta svariati anni. Qui, e lo diciamo con rispetto verso i parenti della vittima, non è importante ricostruire la dinamica del fatto. A quel tempo il clima politico era pieno di odio e bastava poco perché nascessero delle risse o delle forme di violenza sanguinaria fra giovani di opposte idee politiche.giIPOL00050820090813 Qui si vuole ricordare un’altra cosa. Da quel giorno cambia anche la vita dell’anarchico salernitano Francesco Mastrogiovanni.
Lui vive con dolore quella tragedia la cui eco, proprio come succede in ogni piccolo centro urbano nel quale tutti si conoscono, è moltiplicata all’ennesima potenza e la cui radice storica affonda nelle secolari guerre fra i poveri conosciute dal sud d’Italia. Come se non bastasse, è schedato dai carabinieri perché, proprio come Giovanni Marini, ha idee anarchiche.
1999. Francesco viene arrestato per oltraggio a pubblico ufficiale. Trascorre diversi mesi in carcere. Alla fine si scopre che è innocente e riceve un risarcimento per ingiusta detenzione.
2009. Il 31 luglio Francesco viene ricoverato all’ospedale San Luca in seguito ad una crisi di nervi e conseguente certificato di trattamento sanitario obbligatorio. Muore dopo quattro giorni di degenza. L’autopsia attesta che Francesco è morto per un edema polmonare provocato da un’insufficienza ventricolare sinistra. Inoltre si scopre che il suo corpo presenta profonde lesioni a polsi e caviglie.
Lacci e lacciuoli di ferro o di plastica? Questo sospettano in procura. La pratica della contenzione è ammessa per legge solo in stato di necessità e soltanto poche ore, fino alla terapia chimica. Invece, secondo la procura di Vallo della Lucania, le lesioni dimostrerebbero l’allettamento forzato e prolungato del paziente. Non si sa ancora se Francesco sia morto dopo quattro giorni interi di letto di contenzione. In ogni caso è morto in un letto di contenzione e il matto, statene certi, non era lui.
Venerdì 31 luglio le forze dell’ordine, con un dispiegamento da guerra di terra e mare, circondano il bungalow dove Francesco è ospite. La notte precedente, secondo la versione ufficiale, “avrebbe tamponato quattro autovetture”.
Non ci sono le prove. L’automobile di Francesco è normalmente parcheggiata sotto la sua abitazione di Castelnuovo Cilento e non mostra segni di alcun danno. Francesco, sempre per nulla o poco fiducioso nelle istituzioni dello Stato, scappa verso il lido. Prende l’ultimo caffè e fuma l’ultima sigaretta. Viene acciuffato e spedito nell’ospedale psichiatrico San Luca, il posto in cui non avrebbe mai voluto finire perché temeva di morirci dentro. “Hanno ucciso un uomo in letto di contenzione”, dice il pm nel suo atto d’accusa.
Che dire a tale riguardo? Conoscendo il carattere torturante delle carceri in quanto tali, non possiamo auspicare il carcere a nessuno. Sappiamo solo che l’ospedale San Luca dovrebbe essere posto sotto inchiesta amministrativa da parte della Regione Campania e invece quest’ultima finge che nulla sia successo. Sappiamo inoltre che a piangere la morte di Francesco, Franco per gli amici, sono stati i partecipanti al funerale svoltosi il 13 agosto, i suoi alunni della scuola elementare e l’intera popolazione, nessuno escluso, di Castelnuovo Cilento.
In un paese come l’Italia, in questo strano impero del bene, non dovremmo meravigliarci se gli attuali indagati per la morte di Francesco fossero assolti dall’accusa di omicidio colposo.
Nessuno però ci venga a dire che Franco, amico della vita, dei suoi giovani studenti, dei suoi concittadini e di tutti i libertari del mondo, si sarebbe suicidato. È da secoli che si racconta la favoletta secondo cui gli anarchici amerebbero suicidarsi. Adesso basta.

Ristretti Orizzonti, 18 agosto 2009

Comunicato dell’Associazione Italiana Psichiatri – AipsiMed – sulla morte del prof. Franco Mastrogiovanni, nel Spdc di Vallo della Lucania. Vorrei aggiungere ai tanti pervenuti in questi giorni anche un commento altro, il mio, condito di qualche riflessione riguardante la tragica e disperata morte del maestro, insegnante, Franco Mastrogiovanni, avvenuta all’interno del Servizio di Diagnosi e Cura Psichiatrico di Vallo della Lucania (Sa).
Dei drammatici eventi tutti coloro che sono addentro alle cose dell’assistenza psichiatrica, anche perché puntualmente aggiornati da AipsiMed, sono oramai al corrente, ragion per cui non vi tornerò. Ma certamente è bene fare anche un po’ l’avvocato del diavolo in questo che pare già esser connotato come un processo scontatamente sommario ai sette dirigenti medici.
Stavolta, contrariamente all’iconografia ufficiale, questo Diavolo vuol essere anche un buon diavolo, provando a essere persino equilibrato in un dibattito processuale che appare senza un contenzioso dibattimentale di tipo etico e culturale. Ma il Diavolo oggi parlerà da un angolo visuale un po’ spostato, magari defilato, provando tuttavia ad allargare maggiormente orizzonti pur di andare a rintracciare cause anche remote che possono stare dietro e aver persino causato la morte di Mastrogiovanni.

Foto di Valentina Perniciaro _senza casa al Campidoglio, circondati dai servi di Stato_

Foto di Valentina Perniciaro _senza casa al Campidoglio, circondati dai servi di Stato_

I colleghi quando si laurearono in medicina e chirurgia pensavano che “da grandi” avrebbero fatto i medici. I colleghi dopo la specializzazione in psichiatria hanno affinato la loro preparazione anche intima, effettuando complessi e complicati percorsi formativi pensando che da grandi avrebbero fatto gli psichiatri. Nulla di tutto questo. Sono stati sì assunti dall’azienda sanitaria locale, ma arruolati con i compiti di psico-polizia, quella funzione che dai manicomi in poi identifica ancora oggi la tipologia dell’intervento psichiatrico in specie per le psicosi maggiori.
Di questo sono al corrente anche i tutori dell’ordine che ben volentieri si fanno affiancare dagli psichiatri territoriali nella “cattura” delle persone che appaiono di pubblico scandalo e demandano solo agli psichiatri dei reparti psichiatrici la custodia di quelle stesse persone e prima ancora che sia stata effettuata una diagnosi precisa sulle loro vere condizioni clinico-psicopatologiche.
Non solo, ma quegli stessi psichiatri devono anche far passare nel più breve tempo possibile lo stato psichico che potrebbe aver sotteso condotte antisociali. E con che? Con gli psicofarmaci in primis, con il controllo costante da parte di loro stessi e degli infermieri collaboratori e, estrema ratio, con la contenzione.
Insomma gli psichiatri vanno in guerra all’attacco e non in difesa, combattendo una battaglia che mai avrebbero voluto condividere e, soprattutto, vanno in campo con armi giocattolo finendo per tradire ogni giuramento di Ippocrate. Ma si può?
Uno psichiatra è oggi messo nelle condizioni di non potere attendere la trasformazione, anche assai favorevole, di uno stato psichico, ma dev’essere un leguleio conoscitore di quanti minuti bastano per tenere contenuta una persona. Deve servire, obbedire e combattere senza disporre neppure di un test sull’alcolemia di cui è portatore la persona a loro “affidata”, ma deve subito sedare con i gravissimi effetti in termini di interazione\potenziamento dell’alchimia alcool\psicofarmaci. Non può subito effettuare un elettrocardiogramma alla persona che gli portano, visto che per la trafelatezza e la concitazione dell’intervento, che la persona sia affetta da ipertrofia del ventricolo sinistro (come in Mastrogiovanni) al mandante del ricovero pare essere l’ultimo dei suoi problemi.
Si dirà: ma per un medico questo è essenziale! È vero. Ma quanti collaborano a che la persona agitata se ne stia buona buona su un lettino a praticare tutte le indispensabili analisi emato-cliniche e gli accertamenti diagnostici strumentali? Bisogna trovarcisi in quelle bolge dantesche chiamate pronti soccorso all’interno dei quali afferisce tutta un’umanità dolente (non solo nel corpo) ed uno sparuto di medici annichiliti dall’angoscia relativa all’improbo compito tenta di rendersi utile nella sofferenza senza finire sotto inchiesta.
Non ci si vuole dilungare troppo e, si sa, l’unica soluzione per i medici, per gli psichiatri, consiste nell’attenersi rigidamente a ciò che attiene all’intervento sanitario delegando ad altre figure ed istituzioni il controllo del male sociale.
Pare che Mastrogiovanni prima di entrare in Spdc abbia urlato che se finiva in psichiatria sarebbe morto. Non sarebbe stato meglio per lui, oltre che per la sua storia anche politica, una permanenza breve e solo per accertamenti in una struttura solo investigativa e non sanitaria e rimandare ad altri momenti l’acquisizione psicodiagnostica delle cause delle sue angosce di sempre, magari con la costante presenza di uno psichiatra chiamato in consulenza e solo per proteggerlo e non per fargli da Caronte o da suo persecutore più o meno occulto?
La risposta solo è rintracciabile negli intestini d’una legge di assistenza psichiatrica che non s’è mai voluta interrogare sul suo mandato e sulla sua vera funzione. Che Dio ci perdoni. Tutti.

A Fabrizio Pelli, lasciato morire in carcere…30 anni fa

8 agosto 2009 4 commenti

FABRIZIO PELLI

– Nasce a Reggio Emilia, l’11 luglio 1952
– Lavora come cameriere
– Milita nelle Brigate Rosse
– Viene arrestato a Pavia nel dicembre 1975
– Muore di leucemia nel carcere di San Vittore, Milano, l’8 agosto 1979


Documenti prodotti da organizzazioni armate

– Non ne sono stati prodotti, ma a Fabrizio Pelli vengono intitolate una Brigata e un’organizzazione armata a Salerno

Documenti prodotti da gruppi sociali
Comitato di lotta del Campo dell’Asinara, “Onore al compagno Fabrizio Pelli” in: Controinformazione 16, Milano 1979
“Per ogni comunista la morte è un evento naturale e Fabrizio Pelli era comunista combattente.
Anche il mare più incurabile per un rivoluzionario è occasione di lotta e Fabrizio, con il suo comportamento, lo ha dimostrato a tutta la sua classe e ai suoi  nemici, in quest’ultima, solitaria battaglia.

Fabrizio Pelli _Questa foto aveva le sbarre, quelle che lo hanno tenuto costretto fino alla sua morte: sono state tolto, almeno così è LIBERO_

Fabrizio Pelli _Questa foto aveva le sbarre, quelle che lo hanno tenuto costretto fino alla sua morte: sono state tolto, almeno così è LIBERO_

Invano i corvi borghesi hanno atteso un suo cenno di debolezza per piegarlo, per ricondurlo al compromesso dentro l’ordine dell’oppressione. A nulla è servito tenerlo isolato fino all’ultimo istante, privato della posta e della vicinanza dei suoi compagni, negargli – come neppure il fascismo osava fare – di trascorrere le ultime ore di visita in compagnia dei suoi familiari, a casa sua.
La speranza delle iene è andata delusa di fronte ad un comunista che aveva maturato a fondo un principio essenziale: uomini che si rifiutano di interrompere la loro lotta, o vincono o muoiono, invece di perdere o morire!
Il Tribunale di Milano, così sollecito a concedere la libertà provvisoria per motivi di salute ai fascisti assassini di proletari come Braggion, non è che l’ultimo anello di una catena di infamie, cominciata proprio qui, all’Asinara, dove il medico Silvetti si guardò bene dal rilevare il reale stato di salute del compagno Fabrizio, quando nell’estate dello scorso anno cominciò ad accusare i sintomi della malattia.
I Campi di Trani, Fossombrone e Milano sono altrettanti anelli del suo progressivo annientamento che medici e direttori hanno perseguito con lucida e spietata determinazione in occulta armonia con i funzionari del ministero di Grazia e Giustizia. E non vogliamo dimenticare, in questo elenco di canaglie ancora viventi, carabinieri e poliziotti che hanno sottoposto i familiari di Fabrizio alle perquisizioni più vili e che in ogni modo hanno tramato per interrompere il proseguimento delle cure.
Noi proletari prigionieri del Campo dell’Asinara, che con Fabrizio abbiamo lottato e che, anche per il suo contributo, abbiamo rafforzato la nostra identità e la nostra organizzazione, oggi diciamo, senza alcuna retorica, che i suoi nemici sono anche i nostri, che i suoi assassini non resteranno impuniti!
Onore al compagno Fabrizio Pelli!
Onore a tutti i compagni caduti combattendo per il comunismo!”

Testimonianza al Progetto Memoria
– Renato Curcio, Roma 1994
“Ho conosciuto Fabrizio, Bicio per gli amici, nel 1969.
Aveva 17 anni ma, a Reggio Emilia, già da tempo aveva fatto parlare di sé. “Per un colpo di flobert indirizzato ai glutei di un politico del partito liberale”, mi dissero, tra l’ammirato e l’ironico i suoi compagni di allora.
Non aveva ancora 18 anni quando venne a Milano con tutte le sue curiosità per la metropoli. Ma ciò che veramente lo spingeva, in verità era una cosa sola: l’impegno militante a fianco di studenti e operai, di chiunque in qualsiasi modo lottasse, per cambiare le cose.
Si sentiva un po’ anarchico ma il fascino della rivoluzione bolscevica era su di lui così potente che trascorreva infinite notti a leggere, oltre ai testi canonici, qualsiasi saggio, opuscolo, libello che in qualche modo potesse arricchire le sue conoscenze. E se qualcuno per caso citava un’opera che gli era sfuggita, s’infuriava, non sembrandogli lì per lì possibile che quell’opera esistesse veramente. Se non era a volantinare, in qualche manifestazione o a organizzare qualche azione di lotta potevi star sicure che il suo tempo era speso in letture.
Politiche, s’intende. Una dedizione totale, senza mezze misure. Senza concedere a se stesso nemmeno gli spazi dell’esplorazione della vita.
Quando entrò nella lotta armata, nel 1971, se non era il più giovane certo si contendeva il primato. Proprio in relazione alla sua giovanissima età, con altri due compagni ci chiedemmo se fosse il caso di accoglierlo nella vita clandestina che, per ovvie ragioni, non è tra le più permissive. Ma a Bicio il carattere non faceva difetto e non ne volle sapere di tutti gli argomenti che gli mettevamo davanti per dissuaderlo.
Era molto orgoglioso e un po’ testardo. Capitava così che non accettasse di buon grado che altri gli insegnassero qualcosa. Ricordo che una volta si infuriò con un militante: non ritenendolo adeguatamente colto in dottrina marxista, gli negava il diritto di insegnarli a guidare l’automobile. L’altro, naturalmente, lo mollò giù dalla macchina, in piena campagna, dicendogli “Beh, ora vado a studiare, tu raggiungimi a piedi!”
Quando, nel 1975, dopo l’evasione da Casale, lo incontrai di nuovo, a Milano, Fabrizio si era innamorato. Nella sua vita era la prima volta. E  il calore di questa nuova e magnifica esperienza scioglieva tumultuosamente tutte le sue rigidezze. Della sua proverbiale rigorosità, in quei giorni non rimase traccia. A metà della riunione più delicata, lui si alzava e borbottava “Scusate…”, in pieno candore se ne andava a telefonare. Alla vita clandestina il suo stato di grazia causò qualche problema, ma alla sua vita personale certo fece un gran bene.
Ho appreso la notizia del suo arresto alla radio, pochi giorni prima di essere a mia volta arrestato. L’ultimo nostro incontro, dunque, avvenne in carcere, all’Asinara. Alcune divergenze politiche che poco prima del suo arresto lo avevano portato a distaccarsi dalle Brigate Rosse non avevano in alcun modo intaccato il nostro affetto. I giorni trascorsi nella stessa cella, al bunker dell’isola, furono così pieni di confidenze sulla nostra vita privata. Giocammo a scacchi –costruiti con la mollica di pane – ridendocela a più non posso sul nostro incontro qualche anno prima, con quel gioco. Nel tempo della clandestinità, a Torino. Sull’onda del duello tra Carpov e Fisher Bicio aveva deciso di “sapere tutto” sugli scacchi, proprio come qualche anno prima aveva fatto con la rivoluzione bolscevica. S’era quindi comperato una scacchiera , tanti libri, riviste e s’era sprofondato nello studio. Venne finalmente il giorno della prima prova. Si sentiva pronto e col sorriso diceva: adesso ti faccio vedere… Ci provai col fatidico “scacco del barbiere”: scacco matto in pochissime mosse. E la sua inesperienza ebbe la peggio. Come al solito andò su tutte le furie e per un bel po’ di tempo di scacchi preferimmo non parlarne più.
All’Asinara mi disse anche dei malori che poco dopo lo portarono, rapidamente, alla morte. Ma di cosa effettivamente si trattasse, in quel carcere senza alcuna servizio medico, non fu possibile stabilirlo. Non si lamentò mai delle mancate cure: per lui era scontato. E anche questo, ricordando Bicio, non può essere più dimenticato”.
Cartello Fabrizio 1-1

Ancora con l’Italia delle Torture. Questa vola su militante arrestato il 31 agosto ’79, a seguito di un esproprio attribuito a Prima Linea

16 febbraio 2009 26 commenti

ADRIANO ROCCAZZELLA, DENUNCIA ALL’UFFICIO ISTRUZIONE DEL TRIBUNALE DI IVREA, G.I. ANTONIO TISEO, 24 GENNAIO 1980

“Quando fui arrestato nella zona di Alba Adriatica fui malmenato con i calci dei mitra, oltre a calci e pugni con le mani e con i piedi e insieme con me fu malmenata anche l’altra persona che fu arrestata contemporaneamente a me; Cesaroni fernando, il quale fu trattato nella stessa maniera. Fummo catturati contemporaneamente  da CC e agenti della PS che, ho saputo dopo, provenivano dalla caserma di Nereto e dalla questura di Ascoli Piceno.
Durante il trasporto dal luogo di cattura fino alla caserma di Nereto, alcuni CC, attaccando i caricatori dei mitra, pieni di pallottole, mentre io ero costretto con le mani legate in modo molto stretto, mi colpivano con i caricatori contro il gomito del braccio destro, ed anche in testa. Riportai là delle lesioni sia al gomito, che divenne blu e mi doleva, tanto che non riuscivo a piegarlo, sia alla testa, dove il medico, intervenuto successivamente, rilevò dei tagli al cuoio capelluto.rcellecarcere
Fummo condotti nella caserma di Nereto e nel corridoio della stessa passammo attraverso due ali di militari, che impugnavano mitra ed armi di ordinanza, anzi, preciso, fummo trascinati per le manette, che erano del modello a dentiera e che erano tanto tese da non permettere la circolazione del sangue ai polsi. Condottici in una stanza, volevano sapere le nostre vere identità in quanto noi eravamo forniti di documenti falsi e cominciarono a strapparci di dosso i vestiti con colpi di lamette.
A questo punto ci separarono di modo che ognuno di noi fu messo in una stanza. A questo punto io avevo già dato le mie vere generalità ed avevo dichiarato di appartenere ad un’organizzazione comunista. Nonostante ciò continuavano a malmenarmi per circa mezz’ora con calci dei mitra, colpendomi specialmente alla testa e sul naso. Dopo questo pestaggio ebbi un dolore costale, per cui penso che una costola dell’alto sinistro del torace fosse incrinata. […]
Dopo circa 2 ore che mi trovavo in quella stanza, durante le quali ogni tanto entrava qualche CC e mi appioppava calci e sberle, vennero due uomini in borghese che cominciarono ad interrogarmi, anzi preciso che uno dei due mi faceva delle domande, mentre l’altro mi colpiva con un pugno di ferro alla tempia, all’attaccatura della mandibola e alla nuca. […]
Nell’intervallo tra il pestaggio di cui ho parlato e le soste dovute al fatto che i due si recavano dal mio coimputato, venne nella stanza un carabiniere che indossava un blue-jeans ed una canottiera di lana, con un accento che mi sembrò meridionale, il quale, in un primo momento fece la parte del buono, promettendo che se avessi parlato egli si sarebbe adoperato per evitarmi ulteriori pestaggi.
gal_4809Dopo 10-15 minuti costui perse la pazienza e, tirata fuori la cinghia dei pantaloni, prima minacciò di impiccarmi poi iniziò a colpirmi sulle spalle con la cinghia piegata in due, mentre io avevo tutto ciò che indossavo ridotto a brandelli. Ogni tanto entrava qualche militare e mi colpiva con calci ai testicoli nudi, mentre mi tenevano le gambe aperte, perchè non potessi ripararmi. […]
Poco prima dell’interrogatorio del giudice, probabilmente un sostituto procuratore, venne a visitarmi un medico, dopo che i CC avevano ripulito il mio corpo dalle tracce di sangue, che tuttavia, rimasero sui brandelli di vestito che avevo addosso. […] Agli atti istruttori esiste un certificato di quel medico che attesta abrasioni da me riportate al volto oltre cha tagli alla testa e una sospetta frattura del gomito destro. Il medico mi medicò sommariamente con un cerotto sul naso disinfettandomi un po’ i vari tagli da me sofferti. Prima che fossi introdotto davanti al giudice, mi misero in una stanza di fronte a quella dove si trovava il magistrato, insieme al mio coimputato, dove ogni tanto veniva l’uomo con il pugno di ferro e ci colpiva alla nuca con il medesimo. In quella stanza c’erano 6-7 militari ed un po’ tutti ci minacciarono di non riferire le percosse al giudice , perchè in caso contrario ci avrebbero eliminati. […]
Dopo mi portarono in una stanza dove mi presero le impronte digitali, dove per la prima volta da quando ero stato di fronte al giudice, davanti al quale avevano tolto le manette, mi tolsero le manette per prendere le impronte, dopo che mi costrinsero a firmare con la forza sul foglio sul quale erano le mie impronte. A questo punto, siccome non ero in grado di camminare da solo, fui trascinato da due uomini a lavarmi le mani e nel corridoio incontrai un altro ufficiale dei CC che mi sembrò un generale e che poi ho saputo essere venuto da Napoli. […]
Dopo che mi lavai le mani mi portarono in una stanza dove mi legarono con uno spago i testicoli e cominciarono a tirare. Successivamente seppi dal Cesaroni che gli avevano legato i testicoli mentre era sulla punta dei piedi e lo spago era attaccato agli infissi delle finestre, in modo che se egli avesse appoggiato i talloni per terra, si sarebbe strappato i testicoli.
Seppi anche da lui che gli avevano stretto i testicoli tra due sbarrette di legno, glieli avevano tagliati con le lamette e precedentemente avevano messo del sale grosso da cucina e dell’aceto sui tagli relativi alle ferite riportate dallo stesso in seguito ai pestaggi e poi avevano strofinato sia il sale che l’aceto sulle ferite ed infine gli avevano bruciato le piante dei piedi con un mozzicone di sigaretta.”

Tratto da “Le Torture Affiorate”. Edizioni Sensibili alle Foglie

I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis

Torture: l’arresto del giornalista Buffa e i comunicati dei sindacati di polizia _ITALIA 1982_

8 febbraio 2009 22 commenti

[Leggi anche l’intervista a Pier Vittorio Buffa fatta da me e Paolo Persichetti: QUI ]

Pier Vittorio Buffa: “Il rullo confessore” in L’Espresso 28 febbraio 1982

“All’ora di pranzo scendevano in piccoli gruppi, si sistemavano ai tavoli del ristorante Ca’ Rossa, proprio davanti al distretto di polizia di Mestre, e prima di pagare il conto chiedevano al proprietario dei pacchi di sale, tanti. Poi pagavano, e con la singolare ‘spesa’ rientravano al distretto per salire all’ultimo piano, dove c’era l’archivio. In quei giorni, subito dopo la liberazione del generale Dozier, le stanze di quel piano erano off limits: vi potevano entrare solo pochi poliziotti, non più di tre o quattro per volta, insieme agli arrestati, ai terroristi. Lì dentro, dopo il trattamento, un brigatista è stato costretto a rimanere sdraiato cinque giorni senza avere più la forza di alzarsi, da lì uscivano poliziotti scambiandosi frasi del tipo “L’ho fatto pisciare addosso”. “Così abbiamo finalmente vendicato Albanese” [Il funzionario ucciso dalle B.R.].disegno_shut_up
Quest’ultimo piano era infatti diventato -secondo alcune accuse e deposizioni di cui parleremo- il passaggio obbligato per i circa venti terroristi arrestati nella zona.
Non hanno subìto tutti lo stesso trattamento, ma per alcuni di loro l’archivio del distretto di polizia di Mestre ha significato acqua e sale fatta bere in grande quantità, pugni e calci  per ore, per notti intere. Sono fatti, questi, dei quali si sta cominciando a discutere anche all’interno del sindacato di polizia. La voglia di picchiare aveva infatti totalmente contagiato gli agenti di quel distretto ( molti erano venuti per l’occasione anche da fuori, da Massa Carrara, da Roma) che quando il 2 febbraio è stato fermato un ragazzo sospettato di un furto in un appartamento (non quindi di terrorismo) lo hanno picchiato per un paio d’ore per poi lasciarlo andare via quando si sono accorti che era innocente. Secondo le denunce, la violenza della polizia contro le persone arrestate per terrorismo si sta poco a poco estendendo, come un contagio.
Molte sono ormai le testimonianze raccolte dai magistrati sui trattamenti riservati agli arrestati da polizia e carabinieri.  Molte e circostanziate. Il ministro dell’Interno Virginio Rognoni ha già smentito tutto in Parlamento.
Ma dalla lettura dei verbali emerge l’esistenza di un  sistema di pestaggio, con i suoi passaggi prestabiliti, i suoi locali appositamente allestiti, i suoi esperti. Cerchiamo di illustrarlo basandoci su sei denunce presentate in diverse città: Roma, Viterbo, Verona. Quelle di Ennio di Rocco, Luciano Farina, Lino Vai, Nazareno Mantovani e Gianfranco Fornoni, tutti accusati di terrorismo.
Il primo passo è l’isolamento totale in locali che il detenuto non può identificare e senza che nessuno ne sappia niente. Il 12 gennaio scorso una voce anonima ha telefonato allo studio di un avvocato romano: “La persona arrestata in via Barberini si chiama Massimiliano Corsi, è di Centocelle; avvertite la madre, date la notizia attraverso le radio private, lo stanno massacrando di botte.” Solo dopo due o tre giorni si seppe ufficialmente che Corsi era stato arrestato. Il totale isolamento, il cappuccio sempre calato sul viso, le mani strettamente legate dietro la schiena sono la prima violenza psicologica. Poi le

Virginio Rognoni, Ministro degli Interni

Virginio Rognoni, Ministro degli Interni

minacce di morte (“Ti possiamo uccidere, tanto siamo in una situazione di illegalità” avrebbero detto a Stefano Petrella) la pistola puntata alla tempia e il grilletto che scatta a vuoto come in una macabra roulette russa (Nazareno Mantovani).
Per arrivare alle violenze fisiche il passo è breve: tutti dichiarano di aver preso calci e pugni subito dopo l’arresto, ma poi si arriva alla descrizione di sevizie vere e proprie, di torture. Sigarette spente sulle braccia (Di Rocco). Acqua salatissima fatta ingerire a litri, sempre con lo stesso sistema: legati a pancia in su sopra un tavolo, con mezzo busto fuori e quindi con la testa che penzola all’indietro ( Di Rocco, Petrella e Mantovani). Calci ai testicoli (racconta Fornoni: ‘Con certe pinze a scatto hanno effettuato diverse compressioni sui testicoli, minacciando di evirarmi’). Tentativi di asfissia con vari sistemi. Misteriose punture: il sostituto procuratore della Repubblica Domenico Sica ha constatato la presenza di “un segno di arrossamento con escoriazione centrale” sul braccio destro di Di Rocco.
Dopo giorni e giorni di trattamento di questo tipo gli arrestati vengono condotti davanti al magistrato e alcuni verbali sono ricchi di dettagliate descrizioni, fatte dai giudici, dello stato fisico dei detenuti: Di Rocco aveva il polso destro sanguinante per via della manetta troppo stretta, cicatrici fresche in varie parti del corpo.
Lino Vai si è tolto una scarpa davanti al giudice mostrandogli le “spesse croste ematomiche” presenti sul dorso dei piedi. Due istruttorie per accertare la verità sono già iniziate; una a Viterbo, dopo la denuncia di Fornoni, e una a Roma, iniziata dopo le deposizioni di Petrella e di Di Rocco dal sostituto procuratore Niccolò Amato che ha disposto le perizie. In attesa che queste indagini si concludano, c’è chi ha già chiesto al ministro Rognoni di avviare un’indagine amministrativa e chi sostiene che lo stato democratico non può fare della violenza fisica e psicologica uno strumento di lotta. […]

NOTA INFORMATIVA: A seguito della pubblicazione dell’articolo sopra riportato, Pier Vittorio Buffa, il 9 marzo 1982, viene arrestato su ordinanza emessa dalla Procura della Repubblica di Venezia, con l’imputazione “del reato p. e p. dell’art. 372 C.P. perché deponendo innanzi al procuratore della Repubblica di Venezia, Cesare Albanello, taceva in parte ciò che sapeva intorno alla fonte da cui apprese le notizie riportate nell’articolo ‘Il rullo confessore’ apparso sul settimanale L’Espresso del 28 febbraio 1982 e del quale egli era autore” [N. 520/82 del Reg. Gen. del Procuratore della Repubblica di Venezia]

SIULP di Venezia, Comunicato, 10 marzo 1982

“Il Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia di Venezia esprime profondo stupore e rammarico per l’arresto del
siulp_logo_colori_copygiornalista de L’Espresso Pier Vittorio Buffa, rifiutatosi di rivelare la fonte di alcune notizie da lui riportate nell’articolo comparso sul numero del 28/02/82 del settimanale suddetto. In proposito si fa rilevare che le voci di maltrattamenti durante gli interrogatori di persone arrestate nell’ambito delle indagini sul terrorismo sono giunte al sindacato. Il sindacato dei lavoratori della polizia, pur condividendo il convincimento di quanti ritengono ingiustificabili tali pratiche,  esprime la propria preoccupazione per l’orientamento delle inchieste in corso che tendono alla individuazione di responsabilità di singoli appartenenti alle forze dell’ordine, non tenendo conto del clima che ha suscitato tali episodi, e di cui molti devono sentirsi direttamente o indirettamente responsabili.
Non v’è dubbio infatti che tali pratiche sono state tollerate o, addirittura, incoraggiate da direttive dall’alto e infine sostenute dal tacito consenso di una opinione pubblica condizionata dall’incalzare sanguinaria e folle di un terrorismo che ha avvelenato la vita politica e sociale del paese, impedendone il pacifico sviluppo. Il sindacato auspica che le indagini siano indirizzate a rompere il clima di timore venutosi a determinare fra gli appartenenti alle forze dell’ordine più direttamente impegnate nelle difficili indagini e che potrebbero risultare coinvolti in tali episodi. Si auspica inoltre che si punti a far sì che tali pratiche restino un caso isolato determinato da una particolare contingenza.
Allo scopo di dare un contributo per fare la necessaria chiarezza in tale direzione, il sindacato di Venezia, in sintonia con la segreteria nazionale, ha inviato un telegramma al magistrato dott. Albanello per un incontro urgente.

NOTA INFORMATIVA. L’11 marzo 1982, una delegazione del Sindacato di Polizia Siulp di Venezia, deponendo davanti al PM, libera il giornalista Pier Vittorio Buffa dal vincolo del segreto professionale, e pertanto egli, in sede di interrogatorio, indica nel capitano Riccardo Ambrosini e nell’agente Giovanni Trifirò le due persone che gli hanno dato le informazioni relative all’articolo. Riportiamo di seguito il dispositivo della sentenza  che lo assolve: “Visti gli art. 479 c.c.p. e 376 c.p., assolve l’imputato perchè il fatto non costituisce reato perché non punibile per avvenuta ritrattazione. Ne ordina l’immediata scarcerazione se non detenuto per altra causa.”

Dopo questo comunicato una riunione con il questore e tutti i dirigenti della questura di Venezia stila un comunicato in cui si chiede che i poliziotti che hanno scagionato il giornalista de L’Espresso siano trasferiti perchè ‘la loro presenza provocherebbe uno stato di tensione e amarezza in tutto il personale’.
Qui sotto alcune dichiarazioni del capitano Filiberto Rossi, uno dei quadri dirigenti del Sap (il Sindacato Autonomo di Polizia): logo-sapNon ci sono state torture ai terroristi arrestati. Se qualche episodio di violenza fosse avvenuto, sarebbe un fatto isolato. I responsabili, una volta accertata la loro colpa, dovrebbero essere puniti secondo la legge. Nella polizia non ci sono aguzzini o squadre speciali, ma solo persone normali e padri di famiglia. […]
La lotta al terrorismo da parte della polizia è sempre stata condotta nei limiti della legalità. Non bisogna dimenticare che su 1300 terroristi in carcere, soltanto alcuni hanno denunciato di aver subìto violenze. E queste denunce possono essere strumentali, posso essere state fatte per giustificarsi con i loro complici.
I poliziotti non ammettono che si possa ricorrere alle torture, ma non si possono certo trattare i terroristi con i guanti bianchi. Noi siamo convinti della necessità di esercitare pressioni psicologiche.”

Seguiranno aggiornamenti sulla tortura in Italia, con altre testimonianze.

Sono state precedentemente pubblicate le torture ai danni di Emanuela Frascella e Paola Maturi, di alcuni appartenenti ai Proletari Armati per il Comunismo stralci si una sentenza di rinvio a giudizio per 7 agenti di PS con la testimonianza di Ennio di Rocco 

I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
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Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis

Le torture contro i P.A.C. : Italia, febbraio 1979

3 febbraio 2009 19 commenti

 

Non ho profonda stima per Cesare Battisti, ma la verità va detta, sempre.
Proseguirò per molto a scrivere delle torture subite dai militanti dei gruppi armati durante gli anni ’70 e i primi anni ’80 in questo nostro paese.
Questa pagina si concentra soprattutto, dato il momento particolare, sulle dichiarazioni di chi era stato accusato di aver preso parte all’omicidio dell’orefice Torregiani avvenuto il 15 febbraio del 1979 a Milano.
Queste parole chiarificano platealmente come si svolgevano arresti, interrogatori, inchieste e processi durante quegli anni; chiarificano i metodi usati dai nostri apparati di Stato per far rilasciare dichiarazioni dai prigionieri.
Nascondere queste cose è vergognoso. LA TORTURA C’ E’ STATA E C’E’ CHI NON LO DIMENTICA
Seguiranno aggiornamenti su torture subite da militanti di altri gruppi
Sono state precedentemente pubblicate le torture ai danni di Emanuela Frascella e Paola Maturi
e stralci si una sentenza di rinvio a giudizio per 7 agenti di PS con la testimonianza di Ennio di Rocco 

LE TORTURE SUBITE DAI MILITANTI DEI PROLETARI ARMATI PER IL COMUNISMO

MILANO 17-18 febbraio 1979460_0___30_0_0_0_0_0_avaem_071

SISINNIO BITTI:
“Era la notte del 16 febbraio 1979, rientrai a casa con Marco verso le due di notte. Appena entrati ci trovammo davanti una squadra di poliziotti in borghese che ci ammanettarono subito. Essendo entrambi attivi nel collettivo autonomo Barona del quartiere, immaginavamo di essere controllati. Il giorno prima nel pomeriggio in Milano venne ucciso l’orefice Torregiani.
Appena arrivati in questura mi portarono su e giù per le scale, dopodiché venni introdotto in un salone ai piani più alti. Lì venni assalito a calci e pugni alla schiena e dietro il collo, venni buttato a terra e picchiato; chiedevo il perché di tutto ciò e loro mi dicevano “lo sai benissimo perché. Ti conviene parlare altrimenti stanotte per te è finita; ti buttiamo giù dalla finestra.”
Venni sollevato da terra e disteso su un tavolaccio, addosso avevo almeno 6 poliziotti in borghese che mi tenevano ben fermo per le mani e i piedi: i calci li alternavano al ventre e al basso ventre. Ricordo vicino al tavolo due lavandini, in uno dei due vi era inserita una canna di plastica; questa canna mi veniva infilata in bocca e veniva aperto il rubinetto con il massimo della pressione costringendomi ad ingoiare acqua fino a riempirmi lo stomaco come un pallone; un poliziotto mi saliva sulla pancia per farmi vomitare l’acqua.
Mi fecero scendere dal tavolo e mi sedettero su una sedia, venni ammanettato e un poliziotto mi schiacciò i piedi per farmi stare fermo. Da notare che allora pesavo 52 Kg per un’altezza di 1.62, mentre i poliziotti erano quasi tutti il doppio di me. Continuarono le torture; volevano sapere dove avevamo lasciato le armi che, secondo loro, avevamo usato per uccidere Torregiani. Ad un certo punto fui costretto a inventare una scusa per sottrarmi alla violenza fisica, così dissi loro che li avrei portati nel luogo dove avrebbero trovato le armi. Li portai così in uno scantinato dove si riunivano i collettivi della zona. Io non avevo minima idea in quel momento dove si trovassero delle armi, tanto meno quelle usate per l’omicidio Torregiani; appena arrivati, in pochi minuti rivoltarono tutto, ma di armi non c’era traccia. A quel punto ebbi veramente paura, infatti due di loro tirarono fuori le pistole minacciando di uccidermi, ma altri due terbitorerano contrari al punto che litigarono tra loro, tanto da non poter capire se stessero facendo sul serio o se fosse una farsa. Ormai albeggiava, tornammo in questura e fui sbattuto in una cella senza niente, bagnato e gonfio. Mi accasciai dietro la porta; un poliziotto mi controllava continuamente. Venni prelevato dalla cella credo nel pomeriggio, mi trascinarono per un po’ su e giù per le scale, e dopo un po’ venni portato dentro una camera. Di quella esperienza ricordo solo un tavolo e tante coperte ammucchiate. Mi fecero spogliare completamente e mi sdraiarono supino sul tavolo; mi misero le manette alle caviglie e alle mani.
Incominci a picchiarmi il poliziotto Rea Eleuterio, mi avvolse la coperta sul torace e con un bastone mi percosse sul torace. Non so quanto stetti in quella stanza. Mi colpirono sulle tempie già gonfie, le fiammelle degli accendini sotto le piante dei piedi e sotto i testicoli, e il tentativo di introduzione del bastone nell’ano. Mi avevano convinto che dovevo andare dal Magistrato e fare i nomi delle persone che avevano ucciso Torregiani.
Mi portarono davanti a due persone in una stanza semi buia, solo in seguito seppi che quei due erano i giudici Deliguori e Spataro. Da dietro i poliziotti continuavano a suggerirmi di dire quello che avevo affermato davanti a loro, che era in parte ciò che loro mi dicevano che avrei dovuto dire ai giudici.
Il pomeriggio che fu ucciso Torregiani mi trovavo in ospedale a lavorare in presenza di medici e infermieri che in seguito testimoniarono a mio favore. I poliziotti in parte avevano creduto e cercarono di convincermi ad accusare Sebastiano, Pietro Mutti e Franco Angelo, persone che loro conoscevano già.
Dopo questo drammatico interrogatorio davanti ai giudici mi venne finalmente offerto un panino dopo ore e ore di digiuno senza mangiare né bere; in seguito venni trasferito al carcere di San Vittore. Accortisi che stavo molto male venni immediatamente sottoposto a visita medica.
Mi riscontrarono varie lesioni, tra cui: otite traumatica, tachicardia, pressione arteriosa alta, tumefazione alle tempie, alle caviglie, tumefazione e lesione allo scroto, e in seguito venni ricoverato al centro clinico.
Dopo qualche giorno mi venne data la possibilità di poter parlare con i giudici Spataro e Deliguori, i quali li vidi dopo qualche giorno, ed in seguito partirono le denunce per i poliziotti.
Venni scarcerato per mancanza di indizi.”

 I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis

 

IN ITALIA LA TORTURA ESISTEVA ED ESISTE!

31 gennaio 2009 22 commenti

L’Italia ferma agli anni di piombo? «A me risulta che negli anni ’70 il governo brasiliano torturava e uccideva. Non mi risulta che quei personaggi abbiano poi scontato tutta o una parte della loro responsabilità politica e morale. Però capisco che uno fosse, a quell’epoca, all’opposizione e possa avere un cortocircuito». Giovanni Bachelet, deputato Pd e figlio di Vittorio, ucciso dalle Brigate Rosse nel 1980 all’Università La Sapienza, parla in un’intervista al ‘Messaggerò del caso Battisti. Per Bachelet immaginare che il governo italiano degli anni ’70 fosse come quello brasiliano «è un fatto di ignoranza». Bisogna spiegare al Brasile che «la maggioranza dei terroristi italiani non solo sono stati identificati, processati, condannati, ma addirittura hanno già concluso la loro pena». «Se il guardasigilli brasiliano parlasse con ex terroristi -continua Bachelet- scoprirebbe che hanno finito di scontare la loro pena e spesso sono impegnati in opere buone». In Italia, sottolinea ancora, «non siamo stati nè il Sudafrica, nè il Brasile degli squadroni della morte. Ci fu una volontà di non piegarsi ad una logica di guerra civile, che ci fece affrontare in modo democratico e costituzionale questa emergenza»

UN PAESE SENZA VERGOGNA: RILASCIARE SIMILI DICHIARAZIONI VUOL DIRE NEGARE LA REALTA’ DI QUELLA CHE E’ STATA LA REPRESSIONE NEL VENTENNIO CALDO DEL SECOLO SCORSO, VUOL DIRE NEGARE L’ARTICOLO 90, VUOL DIRE FAR FINTA CHE TUTTI I CASI DI TORTURA SUI MILITANTI DELLE BRIGATE ROSSE NON CI SIANO MAI STATI. 

allora, ci vorrà tempo per passare allo scanner e ribattere tutto il materiale che ho, quindi ve ne pubblichero’ un pezzetto alla volta.
Una parte di testimonianze è nelle vecchie pagine di questo blog e vi rimetto il link

torture_vignetta

12 Gennaio 1982: Gli avvocati Edoardo di Giovanni e Giovanna Lombardi, nel corso di una conferenza stampa, denunciano le torture cui sono stati sottoposti due loro assistiti: Stefano Petrella e Ennio Di Rocco.

22 Gennaio 1982: Durante una caccia all’uomo nella zona di Tuscania, viene catturato Gianfranco Fornoni. La sua denuncua sulle torture subite troverà spazio solo su Lotta Continua e Il Manifesto. Intanto proseguono gli arresti di massa; nel mese di marzo il sottosegretario agli Interni Francesco Spinelli dichiarerà  che in circa 2 mesi sono state arrestate 385 persone, con l’accusa di banda armata. Lo stesso Spinelli, riferendosi alle denuncie di tortura, con cinica arroganza afferma: “Non mi risulta che sia mai morto nessuno. Diciamo che nei confronti degli arrestati ci sono stati trattamenti piuttosto duri, ma sono cose che capitano in tutte le polizie del mondo.

Marzo 1982: Amnesty International dichiara di aver raccolto in 3 mesi una “mole impressionante” di denunce di torture in Italia. “…Tra le nostre fonti non ci sono solo le dichiarazioni delle vittime. Esistono anche lettere di agenti di polizia che lamentano la frequenza con cui la tortura verrebbe applicata a persone arrestate per terrorismo (Espresso 21-3-82)

29 Marzo 1982: Luca Villoresi, giornalista di Repubblica viene arrestato per reticenza. Aveva pubblicato un articolo, il 18 marzo, in cui venivano riportate le testimonianze anonime di due agenti che avevano visto torturare una ragazza. Questo racconto coincideva con quello di Alberta Biliato, che ha denunciato di essere stata torturata nella sede del III distretto di polizia di Mestre. Il giornalista viene scarcerato dopo due giorni.

DI MATERIALE CE NE STA ANCHE TROPPO…vi metto l’inizio dellatorture_ritagli
Sentenza di rinvio a giudizio per 7 agenti del 17 marzo 1983:
1) Genova Salvatore
2) Amore Danilo
3) Di Janni Carmelo
4) Laurenzi Fabio
5) Aralla Giancarlo
6)D’Onofrio Nicandro
7) Carabalona Massimo
8 ) Ignoti
IMPUTATI:
A) del reato di cui agli art. 110, 112 nn.1 e 2, 605/1° e 2° C.P. e 61 n. C.P. per aver illecitamente privato Di Lenardo Cesare della libertà personale, perchè in concorso fra loro prelevavano il Di Lenardo dai locali dell’ispettorato di zona del 2° Reparto Celere, dove era legittimamente detenuto in seguito all’arresto avvenuto il 28/02/82, sottraendolo a coloro che erano investiti della custodia, lo caricavano con mani e piedi legati e con gli occhi bendati nel bagagliaio di un’autovettura e lo trasportavano in una località sconosciuta, dove il Di Lenardo veniva fatto scendere e sottoposto alle percosse e minacce descritte nel capo seguente; indi lo trasportavano nuovamente  (sempre nel bagagliaio) nell’area 2° del Reparto Celere e lo conducevano in un sotterraneo, nel quale il Di Lenardo era sottoposto alle percosse e alla violenza descritte nel capo seguente, al termine delle quali veniva riportato nei locali di legittima detenzione; con le aggravanti di aver commesso il fatto abusando dei poteri inerenti alle funzioni di pubblico ufficiale proprie di ciascuno, in numero non inferiore a 5 persone ed al fine di commettere il reato di cui al capo seguente; per Genova inoltre di aver promosso e organizzato la cooperazione nel reato, nonchè di aver diretto l’attività delle persone che vi sono concorse; in Padova tra le 21 e le 24 del 31.03.1982
B) del reato di cui agli art. 56, 81 cpv., 110, 112 nn.1 e 2, 605/1° e 2° C.P in relazione all’art. 339 C.P., per aver in concorso tra loro e con altri con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso mediante violenza, consistita in percosse in diverse parti del corpo, e minaccia, consistita nell’esplosione di un colpo d’arma da fuoco e successivamente mediante violenza, consistita nel legarlo su di un tavolo, sul quale era stato steso, facendo inghiottire del sale grosso, di cui gli era stata riempita la bocca,e , permanendo lo stato di costrizione sul tavolo, venendogli inoltre impedito di respirare con il naso, facendogli ingoiare una grande quantità d’acqua che veniva continuamente versata nella sua bocca, compiuti atti idonei in modo univoco a costringere Di Lenardo Cesare a rendere dichiarazioni sui reati da lui commessi, senza però che tale evento si verificasse; con le aggravanti di aver commesso il fatto in più persone riunite, con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione da ciascuno svolta; per Genova, inoltre, di aver promosso e organizzato la cooperazione di più persone nel reato;
C) del reato di cui agli art. 110, 61 n.9, 112 nn. 1 e 2, 582 C.P per aver in concorso tra loro e con altri, volontariamente cagionato a Di Lenardo Cesare, mediante le percosse e la violenza descritte al capo B, lesioni personali in diverse parti del corpo e in particolare all’orecchio sinistro; con le aggravanti di aver commesso il fatto  con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione da ciascuno svolta, in numero non inferiore a 5 persone; per Genova, inoltre, di aver promosso e organizzato la cooperazione di più persone nel reato;
Amore, Di Janni e Laurenzi:
D) del reato di cui agli art. 110, 81 cpv, 61 n.9, 56 e 610 1°e 2° con. C.P. in relazione all’art. 339, per aver in concorso tra loro e con altre persone non identificate, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, con violenza consistita in percosse, nonchè nella provocazione di ustioni alle mani e in altre parti del corpo, nonché una serie di ferite provocate al polpaccio della gamba sinistra con strumenti taglienti od acuminati e nella somministrazione di scariche elettriche, mediante applicazione di strumenti idonei agli organi genitali e nella zona addominale, posti in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere Di Lenardo Cesare a rendere dichiarazioni sui reati da lui commessi nonchè sulla struttura ed organizzazione della banda armata di cui faceva parte; con le aggravanti di aver commesso il fatto in più persone riunite e con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alle qualità di pubblico ufficiale;
E) del reato di cui agli art. 110, 81 cpv., 61 n.9, 582 e 585 C.P. per avere con le modalità indicate nel capo precedente cagionato a Di Lenardo Cesare lesioni personali guarite in 20 giorni: con le aggravanti di aver commesso il fatto con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla qualità di pubblico ufficiale;
Amore inoltre:
F) del reato di cui agli art. 110, 610/1° e 2° co. in relazione all’art. 339, 61 n.9 C.P., perchè in concorso con altre persone non identificate, mediante violenza, consistita in percosse in diverse parti del corpo e minaccia, consistita nel preannunciarle ulteriori e più gravi atti di violenza, costretto Libera Emilia a rendere dichiarazioni sui reati da lei commessi; con le aggravanti di aver commesso il fatto in più persone riunite e con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla qualità di pubblico ufficiale
Ignoti:
G) del reato di cui agli art. 81 cpv., 61 n.9 e 610/1° e 2° co. C.P. in relazione all’art. 339, per avere, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, mediante violenza consistita in percosse in diverse parti del corpo, e mediante  minaccia consistita nel preannunciare nuovi e più gravi atti di violenza, costretto Savasta Antonio, Libera Emilia, Frascella Emanuela, Ciucci Giovanni a rendere dichiarazioni sui reati da loro commessi;  con le aggravanti di aver commesso il fatto in più persone riunite e con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla qualità di pubblico ufficiale

………………………. potrei andare avanti per giorni!mini_torture_affiorate

ENNIO DI ROCCO, PROCESSO VERBALE, ROMA 11 GENNAIO 1982 [Interrogatorio avanti al P.M. Domeni Sica]

“La sera del mio arresto venni condotto prima al 1° Distretto di polizia ove ricevetti, nella cella, calci e schiaffi. Poi sono stato spostato alla caserma di Castro Pretorio. Dopo circa un’ora sono arrivati tre incappucciati che hanno incappucciato anche me, mi hanno caricato su un furgone e mi hanno condotto in un luogo che non so riconoscere perchè incappucciato, ma che ritengo essere una casa. In questo luogo per la notte e il giorno successivo (per quel che ho potuto capire) sono stato – a rotazione di squadrette di 3 o 4 persone- picchiato con calci, pugni e bastonate ed in pratica in ogni modo, con le manette strette ai polsi di dietro che venivano torte. Mi è stata poi praticata una puntura al braccio destro. Poi sono stato fatto sdraiare su di un letto e coperto con due coperte, chiaramente al fine di farmi sudare. Per un periodo di tempo che non so dire, dopo che avevo subito la puntura, si sono alternate domande suadenti e botte. Non credo di avere detto nulla sotto questo trattamento.
Il giorno dopo c’è stata una nuova rotazione di percosse, sino a che non è arrivata una squadretta che ha continuato a battermi con i bastoni sulla pianta e sul dorso dei piedi e sulle caviglie; preciso che in tutto questo tempo ero legato con mani e piedi ad un letto. Sono stato picchiato anche sulle ginocchia, sul petto ed in testa. In tutto questo periodo sentivo le urla dell’altro compagno, che ritengo fosse Stefano Petrella, che però ovviamente non vedevo.
Può darsi che io dimentichi qualche altro particolare di questi tre giorni. Incappucciato e dentro a un furgone sono stato spostato in un altro edificio; dopo un viaggio di 45 minuti. Nel nuovo luogo di detenzione sono stato costretto a bere tre bottiglie di Caffè Borghetti, così mi dicevano. Mi sono addormentato e nel sonno mi facevano delle domande in relazione a cose che volevano sapere e alle quali ritengo, bene o male, di essere riuscito a non rispondere.
Può darsi che poi io abbia avuto delle allucinazioni, perchè sognavo di gridare e poi mi sono svegliato dopo essermi orinato addosso. Allora qualcuno si è avvicinato. Dopo un intervallo abbastanza lungo, durante il quale  non mi è stato fatto niente, mi hanno fatto  mangiare.
Subito dopo sono stato prelevato dal letto e portato in una cucina (che ho potuto intravedere attraverso le bende agli occhi). Sono stato disteso lungo su un tavolo, mi è stato tolto il maglione e la camicia e messo con mezzo busto fuori dal tavolo. Ero a pancia all’aria e avevo le mani e i piedi legati alle gambe del tavolo. Una persona mi torceva gli alluci; altri due mi tenevano gambe e braccia; un altro mi teneva il naso chiuso e mi reggeva la testa. Qualcun altro mi mandava acqua e sale nella bocca, non facendomi respirare e tentando di soffocarmi. Non so quanto tempo ciò sia durato; ad un certo momento finì l’acqua salata e cominciò quella semplice. Ho tentato di uccidermi trattenendo il respiro ma non ci sono riuscito”

I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis

Torture nel bel paese

10 luglio 2008 39 commenti

Inizio questa serie sulle Torture.
La inizio perchè mi sento obbligato a farla visto quello che leggo nei blog delle altre persone.
Decine di persone che chiedono che Marina Petrella venga estradata, che chiedono -per esser precisi- che muoia in prigione e che con lei muoiano in prigione tutti quelli che la vorrebbero libera.
Tutti coloro che sanno la sua storia, sanno come ha trascorso questi ultimi anni da rifugiata in Francia, tutti coloro che conoscono bene la storia degli anni’70 e della lotta armata.
E invece si riempiono pagine e pagine di insulti e invettive, senza saper nulla di quegli anni.
Senza sapere che sono stati già scontati più di 50.000 anni di prigione, e che mai una generazione ha pagato tanto nella storia.
Si parla senza sapere, senza conoscere, senza comprendere.
Che questo paese di boia mancati, di giustizieri, impari a star zitto se le cose non le sa.

EMANUELA FRASCELLA, VERBALE DI SOMMARIE INFORMAZIONI, PIACENZA 19 APRILE 1982
[Interrogatorio avanti al Sostituto Procuratore della Repubblica di Padova, Vittorio Borraccetti, Casa Circondariale di Piacenza, 19 Aprile 1982]

“[…]Poco dopo la porta fu sfondata e la polizia fece irruzione; gli agenti ci intimarono la resa e noi lasciammo la stanza abbandonando le armi. […] Fui quindi portata fuori e fatta stendere a terra accanto ai miei compagni; ricordo che avevamo la faccia a terra; con la testa dal lato della porta dello studio medico che si apre sul pianerottolo. In un primo momento fummo ammanettati ma in seguito, non ricordo precisamente quando, ma certo prima che ci portassero via, le manette furono sostituite da strisce di stoffa. Venimmo poi anche bendati. Mentre eravamo stesi sul pianerottolo fummo presi a calci ai fianchi; per quanto mi riguarda personalmente ricordo di essere stata percossa ripetutamente con calci ai fianchi. Ricordo inoltre che qualcuno mi prese i piedi e me li storse. Qualcuno mi alzò poi la gonna, mi abbassò il collant e le mutande e mi colpì ripetutamente a calci sui genitali e sul sedere. Per parecchio tempo nei giorni successivi ho sofferto di dolori all’osso sacro.  […]
Ad un certo momento fui riportata, ammanettata e comunque con le mani legate, e bendata, dentro casa; mi pare che in un primo momento mi abbiano tenuto sull’ingresso. Fui presa a pugni sulla schiena. Mi misi ad urlare e allora fui condotta in un locale che mi parve essere il soggiorno, dove mi furono dati altri pugni. Preciso: prima mi fu chiesto con le buone se volevo collaborare e per tale eventualità venivo invitata a sedermi, poi di fronte al mio rifiuto ripresero i pugni sulla schiena. Ad un tratto qualcuno mi alzò sul petto la maglietta che indossavo e mi tirò i capezzoli dei seni. Dopo di che mi riportarono fuori e mi fecero stendere di nuovo sul pavimento. Qui ripresero a percuotere me e i miei compagni, con i calci.
[…] Poichè non rispondevo mi alzarono la gonna, mi calarono le mutande e iniziarono a strapparmi i alcuni peli dal pube.Gridai.
[…]Gli agenti ripresero a maltrattarmi; mi alzarono la gonna, mi abbassarono nuovamente collant e mutande e mi strapparono altri peli del pube; inoltre mi alzarono la maglietta e mi tirano i capezzoli.

e proseguo…

PAOLA MATURI, Arrestata a Roma il 1 Febbraio 1982
“La notte tra il 3 e il 4 febbraio sono entrati in cella, alcuni incappucciati e uno a viso scoperto, mi hanno legato le mani dietro la schiena, non mi sentivo più circolare il sangue, mi hanno bendata e incappucciata e messa su un pulmino ,dove mi pare ci fossero due uomini, mi hanno detto urlando che ero in uno stato di illegalità, ero sequestrata, nessuno sapeva del mio arresto. Se non parlavo, mi hanno detto che di me avrebbero trovato solo un cadavere. Mi hanno tolto tutti gli indumenti di sopra e a dorso nudo hanno iniziato a picchiarmi con botte sulle cosce, ai fianchi, sullo stomaco, e hanno iniziato a stringermi i capezzoli con non so cosa. Siamo arrivati non so dove, mi hanno messo un maglione addosso e sono scesa dal pulmino. Ho fatto delle scale strette, sempre incappucciata e mi hanno fatto entrare in una stanza.
Lì sono stata denudata completamente, inveivano contro di me, dicendomi che ero una merda, una puttana, e mi hanno chiesto se mi facevo chiavare, io ho risposto da nessuno, allora sei una lesbica dicevano, e lo capiamo perchè fai schifo al cazzo e nessuno ti chiaverebbe, ma adesso ti inculiamo noi. Questo è quello che mi dicevano in continuazione; mi hanno tenuto sempre in piedi, dandomi botte su tutto il corpo, ma quello che più mi distruggeva era il dolore che mi procuravano ai capezzoli, ripeto di nuovo non sono riuscita a capire sinceramente con cosa: poi  mi hanno fatto fumare una sigaretta, dopo due tirate ho sentito che mi si annebbiava il cervello, ad un certo punto mi sono ritrovata in una pozza di urina, in quel momento stavo seduta su una sedia, credo di essere svenuta più volte.
Dimenticavo di dire che mi hanno passato delle cose calde sotto, in vagina e nell’ano, e mi hanno dato dei calci sempre in vagina con dei pizzichi lungo la spina dorsale.

TRATTO DA “LE TORTURE AFFIORATE” Ed. Sensibili alle Foglie

Brigate Rosse alla sbarra

I LINK SULLA TORTURA
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) 
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
 3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4)  
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) 
Arresto del giornalista Buffa
6) 
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) 
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) 
Il pene della Repubblica
9) 
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10)
 Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) 
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Una lettera all’albo degli avvocati di Napoli
13) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
14) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
15) La sentenza esistente
16) Le torture su Sandro Padula, 1982
17) 
La prima parte del testo di Enrico Triaca
18) Seconda parte del testo di Triaca
19) L’interrogazione parlamentare presentata da Rita Bernardini
20) 
” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
21) 
Due firme importanti: Adriano Sofri e Pier Vittorio Buffa
22) Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto
23) L’interrogazione parlamentare cade nel vuoto
24) L’intervista mia e di Paolo Persichetti a Pier Vittorio Buffa
25) Cercavano Dozier nella vagina di una brigatista