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In Egitto si incoraggiano i cittadini all’arresto dei “vandali”
Che è complicato anche scriverle due righe di commento a quest’articolo…le parole di Talaat Abdullah, praticamente un appello alla manetta libera, sembrano parlare direttamente a quel che nei tempi di Mubarak si chiamava la Baltagheyya, e che non credo proprio abbia cambiato nome. I fedelissimi, le squadracce pronte a difendere l’ordine costituito e il potere, quelle della battaglia dei cammelli, delle violenze, degli omicidi durante gli attacchi, dei ripetuti stupri degli ultimi mesi alle attiviste e militanti delle piazze del paese.
Con lo scontro tra polizia e esercito che s’è palesato a Port Said al suon dei proiettili che volavano, ci mancava anche un’ufficiale deligittimazione delle forze armate e d’ordine pubblico per “armare i fedelissimi”.E’ la risposta alla risposta popolare di queste settimane, la risposta alle sentenze, le grandi lotte operaie che iniziano a conoscere oltre allo sciopero e all’autorganizzazione anche l’autogestione dei posti di lavoro.
Un laboratorio di repressione si struttura, per rispondere all’immenso laboratorio rivoluzionario che è l’Egitto
Sta suscitando un ampio dibattito sulla stampa la dichiarazione rilasciata domenica dal Procuratore generale egiziano, Talaat Abdullah, per il quale i cittadini hanno il diritto di arrestare chi trasgredisce la legge.

Port Said, 7 marzo 2013
“Il Procuratore generale incoraggia tutti i cittadini ad esercitare il diritto assegnato loro dall’articolo 37 della legge di procedura penale dell’Egitto emesso nel 1950 – si legge nel comunicato diffuso dalla Procura – di arrestare chiunque sia trovato a commettere un crimine e consegnarli al personale delle forze di sicurezza”.
In una precisazione diffusa ieri, la Procura ha aggiunto che il procuratore generale non intendeva estendere ai civili i poteri d’arresto giudiziario, ma piuttosto circoscriverli al solo personale di polizia. Entrambe le dichiarazioni hanno però acceso numerose critiche, soprattutto da parte degli esponenti dell’opposizione laica e liberale al governo guidato dal presidente Mohamed Morsi, secondo i quali questa misura sarebbe il preludio alla sostituzione della polizia da parte di milizie appartenenti al movimento della Fratellanza musulmana o a gruppi ad esso vicini.
Numerosi membri di gruppi politici islamici hanno infatti immediatamente accolto con dichiarazioni positive la proposta di Abdullah.
“La decisione è un primo passo per porre fine alla sistematica violenza in corso in Egitto – ha detto per esempio all’agenzia di stampa nazionale MENA il segretario del partito ultra-conservatore Al-Gamaa Al-Islamiya, Alaa Abu El-Nasr – Il potere politico ha il diritto di avere una propria forza di polizia, capace di combattere i crimini per le strade”.
Nazer Gharab, membro dello stesso partito, ha specificato in un’intervista concessa alla televisione di voler istituire al più presto “una forza di polizia islamica per ristabilire l’ordine”.
Il timore che si diffondano milizie politiche armate nel paese, esacerbando ulteriormente il livello dello scontro, ha portato diversi esponenti militari, che hanno preferito parlare sotto condizione dell’anonimato, a suggerire la possibilità di un intervento dell’esercito.
Una fonte militare citata dal quotidiano governativo Al-Ahram ha infatti detto che “questa decisione aprirebbe la strada alla creazione di milizie private, garantendo una copertura politica alla violenza che significherebbe semplicemente la fine dello stato di diritto e l’avvio sulla strada di una guerra civile: in quel caso l’esercito non potrebbe restare a guardare”.
Michele Vollaro, InfoAfrica
Port Said: quando l’Egitto parla di autogestione e lotte operaie
Leggo questo reportage da Port Said col cuore sospeso.
Perché appena caduto Mubarak, dopo nemmeno 4 giorni,
siamo corsi proprio lì a vedere come la rivoluzione procedeva (in quei giorni si gioiva e basta) in quel territorio e in quello di Mahalla al-Kubra e Tanta, due importanti centri industriali e tessili del paese.
Mahalla aveva vissuto i grandi scioperi,
la chiusura forzata e continuativa delle fabbriche, le braccia incrociate nei campi di cotone…
Port Said era una città praticamente a rilento.
Il canale di Suez che mai per decenni e decenni si era fermato non vedeva muoversi una goccia d’acqua : gli scioperi che avevano bloccato tutto stavano terminando ma il giubilo era troppo perchè si potesse tornare ai ritmi soliti in poco tempo.
Una situazione elettrizzante, che poi ha subito anche lo sventramento di tutta la vicenda dei 75 morti allo stadio: pagina buia, molto buia del nuovo Egitto, soprattutto con le 21 condanne a morte.
Dove a pagare son sempre gli stessi, e non i mandanti e i responsabili politici.
Col cuore sempre in subbuglio seguo le vicende di quelle città, sempre obnubilate dallo spazio dato a Tahrir, almeno sulla stampa europea.
quindi queste righe pubblicate oggi da Infoaut sono una boccata d’aria: a dir poco bella!
buona lettura
Egitto. L’autogestione di Port Said e le lotte operaie
Una realtà senza precedenti si sta realizzando nella città di Port Said: una completa autogestione, un rifiuto di tutto ciò che rappresenta l’autorità. Una realtà che i protagonisti delle lotte egiziane di questo momento – i lavoratori – stanno cercando di riprodurre anche in altre città.
Port Said è diventato un luogo completamente nelle mani del popolo. All’entrata della città, se in passato molti erano i posti di blocco della polizia, adesso si trova un check-point formato però dagli abitanti, soprattutto lavoratori in sciopero, autoproclamatisi “polizia popolare”. La stessa cosa vale per il traffico: non più vigili urbani, ma giovani, studenti e lavoratori che autogestiscono il traffico urbano.
Disobbedienza civile: ciò che caratterizza adesso la città è un completo rifiuto del governo di Morsi in tutte le sue forme, dunque cacciata della polizia, rifiuto del lavoro e del sistema scolastico governativo.
Per quanto riguarda il fattore “sicurezza”, con l’autogestione, le strade risultano adesso più sicure che mai. La polizia – a seguito delle proteste di piazza, della rabbia popolare seguita alle 21 condanne a morte legate alla strage di Port Said e alle 40 vittime dei successivi scontri – la settimana scorsa si è vista costretta ad accettare di lasciare la città nelle mani del popolo.
Il governo Morsi ha accettato di richiamare la polizia sia per le inconfutabili prove video che mostrano poliziotti del regime sparare ed uccidere a sangue freddo i manifestanti, ma anche perché convinto che una città da sola non avrebbe potuto autogestirsi e che Port Said avrebbe richiesto l’intervento del governo per sedare le probabili rivolte. Invece la realtà è molto diversa e mostra che una città senza le “forze dell’ordine” è più sicura e vive meglio.
Vi è poi un tacito accordo che permette all’esercito (maggiormente rispettato dal popolo in quanto tradizionalmente meno legato al regime rispetto alla polizia, emanazione questa del potere e dei servizi segreti) di presidiare i punti nevralgici della città, ma senza potere di intervento.
Dunque la realtà è questa: militari inermi a presidiare luoghi come il tribunale e l’importantissimo porto (adesso in sciopero) e la “polizia popolare” che si occupa della sicurezza nella città.
Il rifiuto di tutto ciò che rappresenta l’autorità si ritova nella pratica di non pagare tasse governative e bollette, rifiutando anche qualunque comunicazione con il governo sia centrale che locale.
La chiusura del governo centrale e l’autorganizzazione di mezzi e modi di produzione, rendono l’esperienza di Port Said una realtà senza precedenti ed una sperimentazione di un nuovo modo di vivere, di produrre, di esistere.
Le fabbriche sono chiuse, il traffico marino è bloccato, si produce ciò solo che serve e rimangono aperti solo i servizi necessari.
Si produce il pane (nella foto a destra un negozio che vende pane a prezzi popolari; i cartelli indicano le ragioni della protesta); gli alimentari, gli ospedali e le farmacie rimangono aperti. In ogni fabbrica, sono gli operai a decidere se continuare la produzione o meno e la risposta generale adesso è NO. Prima giustizia, prima completamento della rivoluzione e poi, semmai, ripartirà la produzione.
Una nuova forma di autorganizzazione si sta sperimentando anche nelle scuole. Queste rimangono aperte ma le stesse famiglie di Port Said rifiutano di mandare i propri figli nelle scuole del governo. Proprio in queste ore insegnanti e comitato popolare stanno cercando di organizzare scuole popolari nella piazza centrale, rinominata la Piazza Tahrir di Port Said, in cui, accanto alle materie scolastiche si vorrebbero insegnare la giustizia sociale e i valori della rivoluzione egiziana.
Una realtà che può sembrare impossibile. Anche sulle pagine di questo portale abbiamo in passato raccontato l’esperienza di Port Said con altri occhi. Ma dopo la condanna a morte dei 21 imputati per la mattanza dello stadio, una nuova coscienza popolare è sorta in questa città, probabilmente in passato molto tradizionalista. Infatti, ad essere condannati sono stati 21 giovani, prevalentemente studenti, mentre la colpa della mattanza va ricercata in ambito politico; la sentenza sembra essere stata più un contentino dato a chi cercava giustizia. Nessuno degli imputati proviene dalle fila della polizia o dello stato e dei suoi servizi segreti. Questo Port Said l’ha capito e, appena le condanne a morte sono state emesse, sono scoppiati forti proteste che hanno portato all’uccisione di una quarantina di manifestanti, alcuni dei quali addirittura durante i funerali delle vittime degli scontri di piazza. Da qui è iniziato lo sciopero, la disobbedienza civile.
Una realtà che anche noi stessi, prima di vederla con i nostri occhi, non avremmo mai immaginato.
Una rabbia, inizialmente nata da una voglia di giustizia per le condanne a morte e per le successive 40 vittime, ma che poi è cresciuta ed è diventata politica. Il forte protagonismo operaio, la crescita di coscienza della popolazione di Port Said hanno reso questa protesta una lotta senza precedenti che tanto fa tremare il regime di Morsi. Una lotta che, se realizzata anche in altre città, potrebbe veramente mettere il regime in ginocchio.
Adesso non si chiede più, come era appena una settimana fa, di non punire i cittadini di Port Said per colpe che invece ha commesso il regime. Adesso si chiede una giustizia per tutte le vittime della rivoluzione, adesso si chiede a gran voce la caduta del regime.
Nella giornata di lunedì una grande manifestazione si è tenuta nelle strade di Port Said: sindacato indipendente dei lavoratori, studenti, movimento rivoluzionario, in molti sono scesi in piazza, in molti sono partiti dal Cairo per portare solidarietà ai lavoratori ed alla città in lotta. Un grande corteo ha invaso le strade della città, appellandosi ad uno sciopero generale in tutto il paese.
Intanto altre città egiziane hanno in queste ultime settimane sperimentato grandi scioperi: a Mahalla, Mansoura, Suez gli operai di molte fabbriche hanno incrociato le braccia per settimane. Allo stesso modo in centinaia sono scesi in piazza per invocare lo sciopero generale in tutto il paese, molte le scuole e le università che hanno annunciato un prossimo sciopero generale. Molti i lavoratori ed i settori sociali che stanno scioperando senza però riuscire – per adesso – a generalizzare lo sciopero e la lotta, come avvenuto invece a Port Said.
Non si sa quanto quest’esperienza, chiamata “la comune di Parigi egiziana”, possa continuare. Sicuramente è difficile portare avanti una lotta di questo genere in un momento in cui il potere centrale potrebbe staccare acqua ed elettricità e, per ora, se non lo fa è solo perché teme maggiori espolosioni di rabbia. Inoltre, il proseguimento o meno dello sciopero dei lavoratori, è fortemente legato alla possibilità che questo si generalizzi e si riproduca anche in altre città.
Inizialmente gli abitanti di Port Said avevano annunciato di voler continuare lo sciopero fino al 9 prossimo marzo – data in cui verranno confermate le 21 condanne a morte – adesso, con il protagonismo dei lavoratori, il futuro si presenta incerto, ma sicuramente ricco di potenzialità.
Le difficoltà al momento potrebbero sembrare tante, ma la presa di coscienza di tutto il popolo (dunque non solo operaia), la pratica del rifiuto del regime, l’autorganizzazione, sono tutti elementi che sembrano dare delle prospettive positive a queste lotte.
La corrispondente di Infoaut dall’area mediorientale
Leggi anche: Lo stupro del branco come arma politica
La rabbia che si riappropria delle strade d’Egitto: yalla!
L’Egitto torna in piazza urlando al nuovo faraone che la rabbia è tanta,
non meno di quella che lo scorso anno ha portato ai feroci scontri che per giorni sono avvenuti in via Mohammad Mahmoud, verso il Ministero dell’Interno.
Caddero corpi come mosche sotto i colpi delle armi dello SCAF, il Consiglio Supremo delle Forze Armate che doveva garantire la transizione dall’era Mubarak alle elezioni.
Molti altri persero la vista, colpiti con scientifica intenzione, agli occhi.
Non è la prima volta che l’Egitto ci riprova, non è la prima volta che diverse componenti della società egiziana, progressiste o anarchiche, organizzazioni giovanili e gruppi ultras, rivolgono la loro rabbia alla Fratellanza Musulmana, che dopo l’accordo di tregua tra Hamas e Israele ha assunto un ruolo internazionale non da poco.
Non è la prima volta che le strade dicono la loro sulla Fratellanza Musulmana.
La piazza non crede a nessuna delle promesse fatte, il proletariato egiziano non credo certo alle promesse di liberazione della Palestina del proprio Rais Morsi,
e insorge.
La piazza insorge contro un decreto che appare più come un colpo di stato.
Da ore la piazza è stracolma e gli scontri si succedono su Qasr al Aini, con un fitto lancio di gas lacrimogeni e già molti feriti che vengono trasportati venrso Tahrir,
tra poco gli ospedali da campo probabilmente torneranno a sbucare qua e là,
per le strade di una città che ha la capacità ormai di trasformarsi in un fitto campo di battaglia, spesso ben organizzato.
Molte le sedi politiche prese d’assalto e incendiate dalla folla,
anche la sede di Al-Jazeera ha avuto lo stesso trattamento
Una bandiera rosso-nera sventola dal quartier generale di Morsi,
le frange progressiste, come quelle anarchiche, hanno voglia di dire la loro.
E noi siamo al loro fianco.
W L’EGITTO CHE RESISTE!
LEGGI ANCHE da INFOAUT: QUI
Per altro materiale sull’Egitto: QUI
Amnistia in Egitto
Mohammed Morsi “festeggia” i suoi 100 giorni di carica come presidente egiziano, annunciando un’amnistia che tirerà fuori dal carcere tutti coloro che sono stati arrestati nei mesi della rivoluzione avvenuta per abbattere Hosni Mubarak, e il suo decennale potere.
Il decreto è disponibile anche sui Social Network, molto utilizzati prima dalla giunta militare ed ora dal governo presediuto dalla fratellanza musulmana, per comunicare con la cittadinanza: il testo completo è infatti apparso poco dopo il suo discorso sulla pagina ufficiale che gestiscono su Facebook.
E’ un’amnistia che coinvolgerà e libererà dalla prigionia tutti i detenuti arrestati a partire dal 25 gennaio del 2011, fino all’insediamento di Morsi (quindi anche tutti coloro che hanno partecipato alle manifestazioni successive alla caduta di Mubarak, contro il Consiglio Supremo delle Forze Armate.)
Saranno migliaia i prigionieri che torneranno in libertà.
L’amnistia sì, quella che dalle nostre parti resta un’eterna sconosciuta, rimossa e bistrattata
Egitto: ricominciamo da Tahrir?
…tutto da rifare.
Tutto completamente da rifare perché la Corte Costituzionale ha deciso così, le elezioni sono annullate.
Si ricomincia.
Con il Consiglio Supremo delle Forze Armate che tiene stretto il potere nelle mani, con Shafiq lì ad osservare soddisfatto.
Che dire? Come leggevo oggi sulle pagine di alcuni compagni egiziani “parliamo di mesi di rivoluzione, ma dobbiamo farla”.
Eh si, dolcissimo mio Egitto, i cui sogni di rivoluzione ho condiviso sulle tue strade…
ricominciamo dagli scioperi, ricominciamo dai campi di cotone, ricominciamo dalle fabbriche ferme,
dal canale di Suez immobilizzato e deserto.
Ricominciamo da Tahrir, da Suez e le sue fiamme, dalle strade di tutto il paese.
Ricominciamo dal conflitto al potere e all’esercito senza cadere in trappole e in illusioni.
Ricominciamo dall’organizzazione, che non è mai esistita…
dai popolo di Tahrir, siamo con te.
Yalla
Egitto: sciopero generale !
Così come lo scorso anno la caduta del regime non è stata frutto solamente dello spontaneismo e dell’imponenza di Tahrir,
ma dell’enorme lavoro portato avanti in anni di lotte sui posti di lavoro, nei campi, negli scioperi generali, nel canale di Suez e nelle fabbriche…
Così ora è nelle loro mani l’avanzata di un processo rivoluzionario.
Nessuna altra strada esiste se non il portare il conflitto e la lotta nella quotidianeità dei posti di lavoro, tutti; con la nascita costante di organizzazioni capaci di canalizzare le energie e creare una coscienza di classe e operaia in grado di spazzar via gli anfibi del regime, così come quelli dell’esercito che dovrebbe garantire la transizione,
e che ovviamente sta garantendo solo la repressione, il terrore, l’annullamento del processo rivoluzionario.
LUNGA VITA ALLA RIVOLUZIONE EGIZIANA… TAHRIR IN OGNI POSTO DI LAVORO!
Vi allego, come sempre 😉 un articolo di Infoaut
Secondo gli organizzatori è stato “un vero successo!” lo sciopero generale del movimento rivoluzionario egiziano. E a parlare sono anche le cifre, come sempre ridotte all’impossibile, che sono state costrette a rendere note le fonti ufficiali: “almeno il 60% dei lavoratori”. La grande iniziativa di lotta era stata lanciata in un percorso politico e sociale tutto in salita perché se è vero che sabato scorso era il primo anniversario delle dimissioni di Mubarak non era affatto scontato che l’occasione da farsa celebrativa (per il potere) si tramutasse in giornata di lotta in continuità con il processo rivoluzionario.
Gli Imam e gli esponenti politici di spicco del movimento islamista moderato dei Fratelli Musulmani si erano sgolati tutta la settimana per sabotare lo sciopero condannandolo duramente e invitando gli egiziani a non prendere parte all’iniziativa che avrebbe potuto trascinare nel caos l’economia egiziana. In perfetta sintonia con la fazione islamista anche i rappresentanti politici e clericali della comunità cristiana che si sono uniti al coro del ritorno all’ordine e alla pace sociale.
Eppure lo sciopero c’è stato e ha fatto male alla controparte individuata dal movimento nella giunta militare, lo Scaf, che venerdì in una nota si era detto molto preoccupato per i complotti in corso contro lo stato e per uno sciopero che a dir loro avrebbe messo a repentaglio gli esiti della rivoluzione.
All’indomani della strage dello Stadio di Port Said il movimento ultras di Piazza Tahrir aveva fatto appello alla vendetta contro la giunta militare ritenendola responsabile della punizione contro una delle tifoserie più attive della piazza rivoluzionaria. Ne erano seguiti giorni di scontri violentissimi nei pressi del Ministero degli Interni in cui erano stati uccisi dalla polizia anche numerosi manifestanti. Lo sciopero generale di sabato era stato indetto proprio in questo contesto altamente conflittuale anche con l’obiettivo di dare uno sbocco alla forza politica che il movimento stava esprimendo sulle barricate. Solo venerdì decine di migliaia di manifestanti erano riusciti a raggiungere il Ministero della Difesa scandendo lo slogan delle ultime settimane “il popolo vuole giustiziare il federmaresciallo” esortando a continuare la lotta e a costruire per il giorno dopo (il sabato dello sciopero) una importante iniziativa.
Allo sciopero generale, oltre a settori del pubblico e del privato, hanno preso parte anche diverse università e moltissimi studenti medi che fin dalle prime ore del mattino hanno presidiato gli edifici dei propri istituti per poi muoversi in corteo scandendo slogan contro lo Scaf. In questo modo il processo rivoluzionario si è mostrato per quello che è: radicatissimo nel cuore dei rapporti sociali del paese, tra fabbriche, università e quartieri.
Lo sciopero generale di sabato è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi: ha mostrato la completa autonomia del movimento, è riuscito a dare sbocco politico e sociale all’alta conflittualità raggiunta negli scontri di piazza degli ultimi giorni, e, elemento decisivo, sta continuando a provocare le controparti (Scaf, potere esecutivo, e Fratelli Musulmani, potere legislativo) facendole emergere per quello che sono: il blocco reazionario in marcia. Viste le cifre di adesione allo sciopero c’è da chiedersi quanti elettori del movimento islamista vi hanno preso parte non curanti degli appelli ad andare al lavoro ripetuti dalla fratellanza, e come avranno digerito le dichiarazioni dei propri eletti all’assemblea parlamentare che per alcuni giorni hanno parlato in sintonia con le dichiarazioni della giunta militare evocando complotti contro lo stato di chissà quale potenza oscura.
Un nuovo goal per il movimento rivoluzionario egiziano, che c’è da crederlo fino a quando non raggiungerà l’obiettivo minimo di scacciare i militare dal potere non lascerà la piazza, ma anzi sembra proprio ben attrezzato per raggiungere anche ben altri e importanti grandi scopi.
LEGGI IL RESTO SULL’ EGITTO: QUI
Finalmente il movimento rivoluzionario egiziano si distacca dalla fratellanza, a suon di ceffoni !
La cosa era nell’aria, già da qualche settimana precedente le commemorazioni per l’anniversario, il primo , di quella che ormai chiamiamo “rivoluzione egiziana”.

Foto di Valentina Perniciaro, pane caldo per il Cairo
La vittoria delle elezioni, schiacciante, ha aperto a nuovi scenari, non poi così inaspettati: la cosa che speravo, e che sembra stia iniziando ad avvenire con una cadenza quasi quotidiana, è che la piazza (tutte le piazze egiziane) capissero che quel tipo di potere, colluso ed accondiscendente da sempre con i meccanismi e i meandri del regime di Mubarak, non è altro che un rivale, l’ennesimo servo del “tutto rimarrà immutato, malgrado voi e la vostra Tahrir”.
E così già la scorsa settimana, nel 25 gennaio ormai simbolo di liberazione, il corteo più radicale e partecipato, che ha puntato subito verso il Maspero si è già caratterizzato come una manifestazione che NON desiderava alcuna partecipazione da parte della fratellanza musulmana.
Se ne potevano rimanere a Tahrir, sotto i loro due enormi palchi, troppo enormi e sfarzosi per piacere a chi è stato abituato a cucire le proprie ferite nelle tende della piazza, tra uno sgombero ed una carica.
Insomma… eccolo il nuovo terreno di scontro che dobbiamo osservare ed alimentare. Ecco quel che dobbiamo imparare a conoscere del nuovo Egitto, ai suoi primi vagiti.
Sperando che questo movimento rivoluzionario sappia trovare le capacità organizzative necessarie, che sappia entrare nelle fabbriche e nei campi, che sappia spazzare via i servi di regime, qualunque maschera indossino.
VI LASCIO CON UN ARTICOLO PRESO DA INFOAUT, che ringrazio
Duri scontri tra il movimento rivoluzionario e i Fratelli Musulmani al Cairo. Almeno 40 i feriti. E’ l’episodio più cruento mai avvenuto fino ad ora nell’ambito dei regolamenti di conti tra i soggetti politici emersi nell’immediato post-Mubarak e le forze sociali rivoluzionarie egiziane.
Doveva essere il pomeriggio delle celebrazioni ufficiali per il nuovo parlamento insediatosi dopo le elezioni con tanto di intervento del premier Kamal El-Ganzouri, e invece l’attenzione si è concentrata sulle strade intorno all’edificio dove i cortei convocati dal movimento rivoluzionario sono entrati in collisione con il servizio d’ordine, armato di tutto punto (anche di manganelli teaser), dei Fratelli Musulmani. Il movimento islamista moderato a quanto pare non poteva sopportare che i protagonisti della rivoluzione gli rovinassero la festa per la schiacciante vittoria conseguita alle elezioni politiche.

Foto di Valentina Perniciaro _una strada in salita, molto, ma da percorrere assolutamente_
Più di 40 organizzazioni rivoluzionarie avevano indetto per oggi, il martedì della perseveranza, diversi cortei che si sarebbero dovuti concludere con un presidio unitario nei pressi del parlamento. L’obiettivo dei manifestanti era contestare lo Scaf rivendicandone lo scioglimento e la messa a giudizio da un tribunale, e l’immediata convocazione delle elezioni presidenziali per l’11 febbraio (data delle dimissioni di Mubarak). Ma invece di trovare solo i plotoni della polizia militare a difendere uno dei palazzi del potere questa volta il movimento si è trovato di fronte anche il servizio d’ordine dei Fratelli Musulmani.
Che la tensione era salita alle stelle era già chiaro dalle iniziative del 25 gennaio. Durante il primo anniversario dell’inizio della rivoluzione più di 2milioni di egiziani avevano raggiunto piazza Tahrir per dare continuità alla lotta contro lo Scaf. Spesso in quell’occasione lo slogan “irhal!”, “vattene!”, da sempre rivolto contro Mubarak o gli uomini del vecchio e attuale regime, venne gridato da migliaia di manifestanti in faccia ai portavoce dei Fratelli Musulmani che si alternavano sul palco del movimento islamista. Non è servito a niente alzare il volume dell’impianto audio che per coprire la contestazione pompava versetti del corano a tutto volume visto che i numerosi contestatori per esprimere ancora meglio l’ostilità politica contro “La Fratellanza” alzarono le scarpe minacciosamente in aria.

Foto di Valentina Perniciaro _l'Egitto e il potere_
I Fratelli Musulmani che non hanno mai aderito ufficialmente al movimento rivoluzionario, oggi godono, con il loro partito Libertà e Giustizia, di 235 seggi su 498 e di ben 12 commissioni parlamentari su 19. Da subito configuratisi come forza politica del “ritorno all’ordine e alla pace sociale” sono entrati fin dalle prime ore post-Mubarak in perfetta sintonia con lo Scaf di cui hanno appoggiato la proposta delle (leggere) riforme costituzionali al posto dell’elezione dell’assemblea costituente come reclamato dalla piazza rivoluzionaria. I Fratelli Musulmani si sono caratterizzati come uno degli elementi attivi della transizione democratica in senso reazionario e gli eventi di oggi approfondiscono radicalmente l’abisso tra il movimento rivoluzionario egiziano e le forze della contro-rivoluzione. La frattura post-islamista praticata dal movimento rivoluzionario tunisino ed egiziano non poteva avere solo come nemici le persistenze del vecchio regime ma anche le formazioni politiche islamiste che un tempo seppur avendo vissuto all’opposizione dei Rais, non hanno poi esitato un solo istante a collocarsi nel nuovo scenario politico istituzionale come forze reazionarie e organizzate per bloccare e contrastare le straordinarie trasformazioni politiche, sociali e culturali interne ai processi rivoluzionari.
Seppur costata numerosi feriti tra i compagni e le compagne, la giornata di oggi può essere salutata come un nuovo passo avanti del movimento rivoluzionario che dopo le insurrezioni d’autunno continua a definire, localizzare ed isolare i propri nemici. La tendenza in atto sembra voler spingere il potere esecutivo e lo Scaf ad esprimere il suo ruolo reazionario nella forma più pura, isolata e allo stesso tempo fragile per costringerli allo scioglimento e conquistare lo spazio per un ulteriore sviluppo del processo rivoluzionario.
Intanto con l’entrata in scena del nuovo potere legislativo il movimento non ha aspettato un solo istante a dare battaglia per svelarne l’orientamento esplicitamente reazionario e approfondire l’ostilità tra la posizione islamista moderata e il punto di vista rivoluzionario.
Tahrir, la traduzione di un volantino da Infoaut
DA INFOAUT
(GRAZIE)
Pubblichiamo la nostra traduzione di un volantino distribuito dai Comitati Popolari per la Difesa della Rivoluzione in Egitto. Raccolto nelle strade intorno Piazza Tahrir il 18 novembre, si tratta dell’appello alla mobilitazione che poi sfocerà nella grande insurrezione ancora in corso nella capitale e nel resto del paese egiziano. In poche righe si condensa il programma della rivoluzione riconoscendo nell’ultimo paragrafo il grande lavoro di lotta e organizzazione che ha attraversato l’Egitto dalle giornate di gennaio fino ad oggi. L’esortazione è che quel lavoro rivoluzionario trovi finalmente la massima espressione politica e sociale per compiere il nuovo titanico passo avanti nel proseguimento degli obiettivi della rivoluzione, primo tra tutti lo scioglimento del Consiglio Militare.
Insieme per il Potere del Popolo
I Comitati Popolari per la Difesa della Rivoluzione partecipano alle manifestazionidi Venerdì 18 Novembre, per richiedere il passaggio di potere al governo dei civili, così realizzando gli obiettivi della rivoluzione che il popolo egiziano ha richiesto. I quali sono: giustizia sociale, libertà e dignità. Il Consiglio Militare sta bloccando la loro realizzazione a causa della propria parzialità verso i propri interessi che, necessariamente, sono in contraddizione con gli interessi del popolo. Il popolo vuole il suo pane quotidiano, ma essi vogliono accumulare ampie ricchezze nei loro conti bancari personali. Il popolo vuole libertà, ma essi non possono continuare a governare senza trascinare migliaia dei nostri ragazzi nelle loro prigioni. Il popolo vuole dignità, ma essi la schiacciano a terra migliaia di volte al giorno. Questa e la realtà nell’ombra del governo del Consiglio Militare, che protegge i lasciti di Mubarak, garantendo ad essi il controllo sul nuovo parlamento. Questo è ciò che ci ha spinto a dire con sicurezza che il Consiglio Militare è il primo nemico della rivoluzione, il vero leader della contro-rivoluzione, che non vuole il meglio per l’Egitto o per il suo popolo.
Al contrario, dal momento che il Consiglio Militare è salito al potere, esso ha preparato il sentiero catastrofico attraverso il quale siamo stati condotti, riguardo all’amministrazione del paese. E’ un sentiero basato sulla repressione; tribunali militari per i civili; esasperazione del conflitto settario tra cristiani e musulmani di quando in quando per distrarre il popolo dalle proprie vertenze di principio; degenerazione della sicurezza pre-programmata; assenza di processi per gli uccisori dei martiri; ritardo nel mettere a processo l’assassino Mubarak ed i suoi complici; e l’assassinio di cittadini, crivellati di colpi e travolti da mezzi corazzati che gli egiziani hanno comprato con i loro magri redditi.
Oggi, gli egiziani non hanno nulla, se non la loro unità e l’organizzazione dei propri gruppi rivoluzionari e comitati popolari in espansione in ogni strada d’Egitto, che si preparano a strappare il potere al Consiglio Militare e a stabilire un’autorità popolare rivoluzionaria che dia alla nazione ed ai cittadini la propria dignità ed il proprio diritto ad una vita libera e degna. Alcuni hanno ventilato che raggiungere questo obiettivo sia impossibile. Diciamo ad essi che è impossibile andare avanti sotto il peso di un governo autoritario che ha succhiato il sangue del popolo egiziano per più di trent’anni. E’ impossibile arrendersi sugli obiettivi della rivoluzione, che il popolo egiziano ha sognato per molti lunghi anni. Libertà e giustizia non sono troppo per gli egiziani, perché essi possono realmente strapparle alla morsa dei tiranni del Consiglio Militare, che si immaginano di essere al di sopra del popolo e di ogni responsabilità.
Insieme per un Governo Civile Rivoluzionario
Abbasso il Governo Militare
Tahrir: lacrimogeni o gas nervino? giudicate voi
AGGIORNAMENTO ORE 13
UN NEONATO, DI NOVE MESI, E’ MORTO IN BRACCIO ALLA SUA MAMMA MENTRE PASSAVA IN UNA STRADA ADIACENTE ALLA PREFETTURA, DOVE STAVANO AVVENENDO SCONTRI CON LE FORZE ARMATE.
I GAS L’HANNO UCCISO IN POCO TEMPO. E’ IL PIU’ GIOVANE MORTO DELLA RIVOLUZIONE EGIZIANA.
SI INIZIA A PARLARE UFFICIALMENTE DI NERVINO…
“To the doctors in the field (tahrir and elsewhere), my experience with the gas used by the police: It causes extra-pyramidal symptoms (involuntary jerks in extremities and trunk mimicking a convulsive seizure, occulo-gyric crisis, etc.) and little respiratory distress. The jerking is relieved by low-dose (3-5mg) diluted diazepam given slowly IV.
The type of gas used is still uncertain but it is certainly very acidic and is not the regular tear gas used in January. Please try to capture as many videos as possible of the symptoms for documentation (and eventually legal action).”
Queste son le considerazioni di alcuni medici degli ospedali cairoti, riguardo i sintomi provocati dai gas che invadono l’aria di tutta la zona adiacente a piazza Tahrir.
Cosa c’è nelle centinaia di candelotti lanciati?
Non certo gas lacrimogeni, visto quante morti ci son state per asfissia: gli effetti sono drammatici, questi gas bloccano il sistema nervoso con paralisi che durano ore, che causano soffocamento e ripetuti conati di vomito.
Le immagini parlano da sole.
Oltre ai proiettili rivestiti che fanno saltare occhi su occhi dei manifestanti che non vogliono mollare la piazza, questi maledetti gas stanno cercando di spazzare via questa rivoluzione: che non è la seconda.
E’ semplicemente la prima, al 302esimo giorno di svolgimento!
Peccato solo che si son fidati così tanto, peccato che hanno dato per mesi fiducia a quelli che -come immaginavamo- ora godono nel vederli cadere a terra morti.
THAWRA HATTA AL-NASR
I Fratelli musulmani disertano: non scendono a Tahrir ad affrontare l’esercito
Se nelle ultime settimane i Fratelli musulmani avevano progressivamente acquisito visibilità per le loro posizioni critiche contro i militari, ora sembrano intenzionati a fare un passo indietro. Un atteggiamento ambiguo, ma non sorprendente.
di Anthony Santillida OsservatorioIraq
Dall’inizio del mese di novembre e sino a venerdì scorso la Fratellanza aveva svolto un ruolo di leadership nelle iniziative volte a contestare l’esercito, in particolare dall’apparizione del famoso “documento al-Selmi”.
La loro visibilità su tutti i media nazionali e internazionali era in crescita, anche in vista delle prossime elezioni. Da quando tuttavia sono cominciati gli scontri tra la piazza e gli apparati di sicurezza egiziani, gli Ikhwan hanno deciso di fare un passo indietro.
Mentre i movimenti salafiti e la sinistra più radicale erano per le strade, e il numero dei morti e dei feriti aumentava inesorabilmente, i Fratelli musulmani si sono limitati ad una “ferma condanna” delle violenze in corso.
Non si possono dimenticare le affermazioni del Segretario generale del partito della Giustizia e della Libertà [braccio politico degli Ikhwan] di domenica scorsa. Il dr. Sa’ad Katatny aveva infatti criticato la pratica dei sit-in prolungati che avrebbero, a suo dire, “paralizzato la città”.
Una velata critica a chi aveva deciso di rimanere in piazza la notte tra venerdì e sabato, quando invece i Fratelli si erano già ritirati.
Intanto gli scontri continuavano. Costretta a schierarsi, la Fratellanza ha emesso numerosi comunicati, solo apparentemente contraddittori. In un loro comunicato di ieri [21 novembre, ndr] gli Ikhwan hanno affermato di ritenere “il Consiglio supremo delle forze armate il principale responsabile di tutto quanto accaduto” e “il governo provvisorio il secondo principale responsabile di questi sanguinosi eventi”.
Tra le principali richieste vi erano l’immediata cessazione di qualsiasi atto di aggressione verso i manifestanti, il ritiro delle truppe dalla piazza, le dimissioni del governo provvisorio, una road map che definisca in maniera dettagliata il ritiro dei militari, e la costituzione di un governo civile entro la metà del 2012.
Tuttavia, in un altro comunicato sempre di ieri si affermava che “la Fratellanza si asterrà dal partecipare a qualsiasi sit-in o protesta che potrebbe causare altri scontri”. Questo atteggiamento apparentemente ambiguo riflette in realtà una tendenza in seno alla Fratellanza che da tempo oramai sembra prevalere nel dettare i comportamenti dell’elite dirigente.
I Fratelli musulmani intendono agire nel solco della legalità. La loro lotta contro il documento al-Selmy partiva da presupposti giuridici ben definiti che la Fratellanza ha sempre manifestato in maniera trasparente. La sostanza delle critica portata al documento era che, in uno stato di diritto, non si può condizionare la sovranità popolare attraverso documenti dettati dall’alto.
Ecco motivata la loro richiesta di costituire una commissione d’inchiesta per accertare le responsabilità delle violenze di questo lungo week-end. Ecco perché hanno deciso di non supportare, almeno ufficialmente, le mobilitazioni in programma per oggi in tutto l’Egitto.
Non vogliono presentarsi come dei semplici agitatori, ma come partner affidabili a livello interno e nel panorama internazionale, sostenitori quindi del processo elettorale che, a loro avviso, non deve essere sospeso.
Tuttavia, in un momento delicato come quello che sta vivendo l’Egitto, il loro atteggiamento non è certo condiviso da chi in piazza ha lasciato morti e feriti. Bisognerà allo stesso tempo vedere quello che la stessa base della Fratellanza deciderà di fare.
E’ emblematico tuttavia quanto accaduto a piazza Tahrir ieri pomeriggio. In un primo momento la Fratellanza aveva declinato l’invito a scendere in piazza. Ma quando Muhammad al-Beltagi, una delle più eminenti figure della Fratellanza, aveva deciso di entrare in piazza, pur senza un folto seguito, i manifestanti hanno deciso di cacciarlo.
La scissione che si ebbe nei primi giorni delle mobilitazioni, che portarono lo scorso febbraio alla cacciata di Mubarak, è nota. Da una parte i quadri del movimento non vollero sostenere le proteste, mentre le generazioni più giovani decisero di “disobbedire” scendendo per strada. Il sostegno ufficiale alla rivolta, dato solo a posteriori, rappresentò una vittoria della base.
Nelle prossime ore capiremo come le differenti correnti in seno al movimento, assieme agli altri gruppi, reagiranno alla tradizionale ambiguità imposta dall’alto.
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