Archivio

Posts Tagged ‘sicurezza’

ANGELA DAVIS: Oltre l’Impero, il carcere e la tortura

18 febbraio 2009 2 commenti

INTERVISTA AD ANGELA DAVIS, della quale metteremo diverse cose su questo blog.
Militante nera americana, ex detenuta, è il simbolo della lotta contro il carcere , per l’abolizionismo
“Nel Quaderno 03 di Scarceranda abbiamo pubblicato la traduzione di un brano del libro “Are prisons obsolete?” di Angela Y. Davis (2003) sulle alternative abolizioniste al carcere. Siamo quindi stati contattati dalla casa editrice minimum fax che ci ha annunciato la prossima pubblicazione (gennaio 2009) per i loro tipi della traduzione italiana dell’intero saggio della Davis insieme al suo libro-intervista “Abolition democracy. Beyond empire, prisons, and torture” del 2005 in un’unica pubblicazione in italiano dal titolo “Aboliamo le prigioni?”. Vi presentiamo qui, per gentile concessione dell’editore, un breve estratto dell’intervista di Eduardo Mendieta ad Angela Y. Davis nella traduzione di Giuliana Lupi.”aboliamoleprigioni-davisp
IL LIBRO E’ STATO PUBBLICATO DALLA MINIMUM FAX ED E’ VERAMENTE STRAORDINARIO.
CON IL LIBRO ANCHE UN SAGGIO IN APPENDICE A FIRMA DI GUIDO CALDIRON E PAOLO PERSICHETTI

 In questo momento abbiamo la globalizzazione della «guerra al terrorismo» e, in successione, dei centri di detenzione e delle prigioni statunitensi creati per eludere la legge statunitense e internazionale. Scorge dei nessi tra la globalizzazione di queste prigioni illegali e il complesso carcerario-industriale interno?

 

I due processi sono chiaramente correlati. Innanzitutto entrambe le istituzioni appartengono al sistema penale statunitense e sono classificate insieme nel censimento annuale del Federal Bureau of Statistics. Questa classificazione comprende le prigioni statali e federali, le carceri di contea, le prigioni in territorio indiano, i centri di detenzione gestiti dal Dipartimento della Sicurezza Interna, le prigioni territoriali in aree che gli Stati Uniti si rifiutano di riconoscere come proprie colonie e le prigioni militari, tanto all’interno degli Stati Uniti che fuori dei confini nazionali. La crescita della popolazioneangela_wantedcarceraria nazionale, la nascita di nuove industrie che dipendono da questa crescita, la riqualificazione di vecchie industrie per adeguarsi al mercato carcerario e trarne profitto, l’espansione dei centri di detenzione per immigrati e l’uso delle prigioni militari come un’arma importante nella cosiddetta guerra al terrorismo, la combinazione della retorica contro la criminalità con la retorica contro il terrorismo sono alcune delle nuove caratteristiche del complesso carcerario industriale.Il complesso carcerario-industriale è un fenomeno globale, che non si può comprendere appieno come uno sviluppo isolato all’interno dei soli Stati Uniti. Ciò che è stato consentito negli Stati Uniti e la proliferazione di strutture e popolazioni carcerarie; la rapidità con cui il capitale è affluito nell’industria carceraria cosicché non è più un settore di nicchia, bensì una componente importante dell’economia statunitense; tutto questo ha implicazioni globali. È lo stesso percorso che ha fatto della produzione militare un settore centrale della nostra economia. È una delle principali ragioni per cui abbiamo scelto di diffondere il termine complesso carcerario-industriale : perché riecheggia per tanti versi il complesso militare-industriale.Così le prigioni, la loro architettura, la loro tecnologia, i loro regimi, le merci che la loro popolazione consuma e produce e la retorica che legittima la loro proliferazione, partono tutti dagli Stati Uniti verso il resto del mondo. Perché un paese come il Sudafrica, che sta costruendo, speriamo, una società giusta – non razzista, non sessista, non omofoba – ha bisogno delle tecnologie repressive del carcere di massima sicurezza? Perché la Turchia ha bisogno di prigioni di tipo F [a celle di isolamento, n.d.t. ] del tipo statunitense? L’introduzione di queste prigioni in Turchia ha provocato nelle carceri di quel paese un lungo sciopero della fame – digiuno fino alla morte – che è costato la vita a un centinaio di detenuti.È importante riflettere sui diversi livelli di questo processo globale. Come riconosciamo che la prigione di Guantánamo, per esempio, o quella di Abu Ghraib, alle porte di Baghdad, riflettono ed estendono la normalizzazione della tortura nelle prigioni all’interno degli Stati Uniti? Per quanto orrende siano le recenti rivelazioni circa il trattamento dei prigionieri di Guantánamo e Abu Ghraib, non è qualitativamente diverso da quanto accade nelle prigioni statunitensi. Prendiamo per esempio l’onnipresenza della violenza sessuale, soprattutto nelle carceri femminili. Le detenute del Michigan hanno intrapreso un’importante azione legale contro lo stato, in cui sostenevano che il governo autorizzava condizioni carcerarie che consentivano molestie e abusi sessuali, implicando con ciò che lo stato stesso fosse colpevole di violenza sessuale. Human Rights Watch ha presentato un rapporto intitolato Un evento fin troppo familiare: l’abuso sessuale nelle prigioni statali statunitensi che documenta questo abuso sistematico. cambogia-camere-di-torturaPerciò le molestie sessuali nella prigione di Abu Ghraib confermano i nessi profondi tra la violenza sessuale e le pratiche sessualizzate di disciplina e di potere insite nei sistemi detentivi. Queste pratiche trasmigrano facilmente da un sistema all’altro: detenzione comune, carcerazione militare e reclusione degli immigrati. In tutti e tre queste tipologie carcerarie, la coercizione sessuale è una tecnica comprovata di disciplina e potere. La tortura e la coercizione sessuale che appaiono così barbare e terribili ai telespettatori quando le vedono trasmesse da 60 Minutes non sono così eccezionali come si potrebbe credere, perché alla loro base c’è la violenza quotidiana, di routine, che è giustificata come un normale mezzo di controllo sulla popolazione carceraria negli Stati 

• L’enfasi che lei pone sulla continuità disciplinare m’induce a riesaminare i presupposti su cui si basava la mia domanda, uno dei quali riguardava l’importanza di una discontinuità legale. Il fatto che queste prigioni e questi centri di detenzione gestiti dagli Stati Uniti sfuggano al controllo della legge, dei legislatori e dei media statunitensi…

Ma si potrebbe dire lo stesso delle prigioni sul territorio nazionale.

• Il che solleva la questione del ruolo della legge stessa. La legge fa davvero una differenza significativa in questo caso? Che ne è del suo potenziale di mettere in discussione questi abusi? L’esistenza della legge nel caso del sistema carcerario interno è un argomento su cui potremmo fare leva?char_davis01

Anche se sarebbe sbagliato considerarla come l’arbitro ultimo dei problemi sociali, la legge ha effettivamente un’importanza strategica nella lotta per il progresso e la trasformazione radicale. Può però anche essere uno degli ostacoli peggiori per il cambiamento, proprio perché le si dà l’ultima parola. In vari momenti, le battaglie legali hanno consentito riforme specifiche del carcere, ma, il più delle volte, quelle riforme hanno fondamentalmente consolidato l’istituzione. Certo, dobbiamo appellarci alla legge, tanto a livello nazionale quanto internazionale, ma ne dovremmo anche riconoscere i limiti. La miriade di battaglie legali contro la pena di morte non sono ancora riuscite ad abolirla

• Posso essere d’accordo sul fatto che la legge non basta, ma abbiamo i mezzi per contestare le azioni, se non abbiamo la legge?

Non lo so. Sono un po’ indecisa su questo punto, perché non so se sono disposta a riconoscere così tanto potere alla legge. Nei casi in cui ci sono state vittorie importanti, nel caso dei detenuti statunitensi, per esempio, quelle vittorie sono state, per la maggior parte, vittorie sulla legge, di solito con l’assistenza cruciale di movimenti organizzati di massa. La legge non opera nel vuoto. Sì, ci affidiamo a essa se la possiamo usare per ottenere quelli che definiamo obiettivi progressisti, ma, di per sé, è impotente. Riceve il suo potere dal consenso ideologico. Avendo combattuto il sistema carcerario da un discreto numero di anni, penso che dobbiamo sollecitare gli individui e le organizzazioni già impegnate nella lotta contro le disuguaglianze di razza e di classe e contro la repressione generalizzata prodotta dalle prigioni comuni a riorganizzare la loro militanza contro il carcere in modo da affrontare e contrastare le atrocità perpetrate nei centri di detenzione controllati dagli Stati Uniti in Afghanistan, in Iraq e nella baia di Guantánamo.

 • Per tornare al suo rilascio, è sembrato più il risultato dell’attivismo politico e del conseguente cambiamento nel dibattito nazionale che non il risultato di considerazioni su basi legali.

Sì, e dell’impatto che quell’attivismo politico ha avuto sul procedimento giudiziario. Questa è la dinamica – la dialettica – che vorrei sottolineare.

• Noam Chomsky ha detto che l’agente primario del terrorismo è lo stato…free_angela_button

Sì, è vero. Sono assolutamente d’accordo con lui…

• Concorda anche sul fatto che il complesso carcerario-industriale sia uno dei meccanismi mediante i quali lo stato fa del terrorismo, del tipo di cui parla Chomsky, giustificandolo – nelle prigioni – con il fatto di combattere la criminalità?

C’è un fondo di verità in ciò che lei dice, ma la questione è un po’ più complessa, soprattutto dato che il ruolo delle prigioni nella società statunitense è diventato quello di soluzione di ripiego ai principali problemi sociali del nostro tempo. Perciò èterrorismo, ma terrorismo in risposta a un’economia politica ingestibile. Anziché affrontare seriamente i problemi che affliggono tante comunità – povertà, mancanza di alloggi, di assistenza sanitaria, di istruzione – il nostro sistema getta in prigione le persone che soffrono per questi problemi. Il carcere è diventato l’istituzione per eccellenza dopo lo smantellamento dello stato assistenziale. Perciò parlerei sì di terrorismo di stato, ma è terrorismo con uno scopo, non gratuito o soltanto come reazione a una resistenza politica conscia.

• Nel suo saggio Race and Criminalization lei scrive: «La figura del criminale – la figura razzializzata del criminale – ha finito per rappresentare il nemico più minaccioso della “Società Americana”. Praticamente tutto è accettabile – tortura, brutalità, un grande dispendio di fondi pubblici – fintantoché lo si fa nel nome della sicurezza pubblica». Pensa che il «terrorista» sia il nostro nuovo criminale razzializzato?

Ricordo che quando scrissi quel saggio pensavo al «criminale» come surrogato del «comunista» nell’epoca di «legge e ordine». Pensavo a questa nuova figura teorica del criminale, che aveva assorbito gran parte del discorso a proposito del nemico comunista. Dopo l’11 settembre, la figura del «terrorista» mobilita paure collettive in un modo che richiama e consolida le ideologie precedenti sul nemico nazionale. Sì, il terrorista è il nemico contemporaneo. La retorica, le conseguenti ansie e le strategie diversive prodotte dall’uso della figura del terrorista sono molto simili alla produzione del criminale come minaccia diffusa e fanno affidamento a essa in modi molto concreti.botero_abu_ghraib_57

• Nel ripercorrere il cammino storico dal comunista al terrorista, assistiamo anche a un cambiamento nella dinamica dei rapporti razziali qui in patria, e in particolare dei rapporti razziali tra le comunità afroamericane, musulmane e arabo-americane dopo l’11 settembre. Cosa pensa di questo cambiamento?

Prima di rispondere alla sua domanda, vorrei dire molto semplicemente che il razzismo era un ingrediente significativo delle campagne anticomuniste. Basti considerare che Martin Luther King era descritto spesso dai suoi avversari come un comunista e non perché fosse iscritto al Partito Comunista, ma perché si pensava che la causa dell’uguaglianza razziale fosse una creazione dei comunisti. L’anticomunismo ha consentito di opporsi ai diritti civili in un’infinità di modi, e viceversa; il razzismo ha favorito la diffusione dell’anticomunismo. In altre parole, il razzismo ha avuto un ruolo chiave nella produzione ideologica del comunista, del criminale e del terrorista.
Però vorrei provare a rispondere alla sua domanda sull’impatto della nascita di questa nuova figura di nemico e su quanto le comunità afroamericane siano state coinvolte in questo nuovo razzismo. Subito dopo l’11 settembre, una nuova mobilitazione nazionalista ha fatto affidamento sulla presentazione del nemico terrorista come musulmano, arabo, del Sud dell’Asia, del Medio Oriente, e così via, e per la primissima volta altre persone di colore sono state accolte nell’abbraccio nazionale. E questo fatto, stranamente, lo si è vissuto come la realizzazione di quella nazione multiculturale che era stata l’obiettivo delle lotte per la giustizia sociale – il sogno di Martin Luther King, se vuole – e molte comunità precedentemente escluse hanno avvertito – sia pure momentaneamente – un senso di appartenenza nazionale. Ovviamente il processo si fondava sull’esclusione del terrorista e di quei corpi ai quali era appiccicata quell’etichetta. Siamo ancora alle prese con le conseguenze di quel momento.
ghosts-of-abu-ghraib_filmstill1Talvolta i neri stentano ad ammettere che sia possibile per loro essere razzisti allo stesso modo dei bianchi. Questa è oggi una sfida importante. Non è più possibile presumere che le vittime del razzismo non siano vulnerabili anche loro alle stesse ideologie che hanno insistito sulla loro inferiorità. Non c’è un passaggio garantito dall’attivismo radicale di un tempo alle posizioni progressiste odierne. La cosa più promettente adesso sono gli attuali sforzi per costruire alleanze tra le comunità nere e arabo-americane. In un momento in cui esponenti di governo neri come Colin Powell e Condoleezza Rice rivestono ruoli di spicco come architetti della guerra globale, queste alleanze saranno fondamentali per la creazione di reti di resistenza. Ma è altrettanto importante cercare alleanze con altre comunità di immigrati, soprattutto quelli originari dell’America Latina e dell’Asia.

• Come per il «comunista» e il «criminale», quando parliamo del «terrorista» finiamo ben presto per parlare della sua carcerazione. Abbiamo visto che la baia di Guantánamo, in particolare, è diventata un simbolo potente della carcerazione. Quale pensa che sia l’opera ideologica svolta dalla prigione statunitense di Guantánamo?

In questo particolare momento, intende?

• Sì.

La storia di Guantánamo è lunga e brutta. Dieci anni fa, la prigione militare di Guantánamo era utilizzata come l’unico centro di detenzione al mondo per profughi sieropositivi. Nel 1993 alcuni prigionieri haitiani fecero uno sciopero della fame per protestare contro la propria detenzione, e un gran numero di persone negli Stati Uniti partecipò al digiuno in un gesto di solidarietà. Ma lei si riferisce alla prigione militare illegale dove all’inizio tutto era possibile perché il governo degli Stati Uniti credeva che una struttura fuori del territorio nazionale potesse essere anche fuori del controllo della legge nazionale. Così, l’amministrazione Bush si è comportata come se potesse agire senza dover rispondere delle proprie azioni.Vorrei sfruttare questa occasione per parlare brevemente delle idee ufficiali di democrazia che circolano oggi e del perché attivisti, intellettuali, studiosi, artisti, operatori culturali devono prendere molto sul serio quelli che sono segnali chiari di imminenti politiche e pratiche fasciste. Uso il termine fascista a ragion veduta. Non è un aggettivo che abbia mai utilizzato con leggerezza. Ma in che altro modo si possono descrivere le torture, l’abbandono e le malvagità inflitti ai reclusi di Guantánamo, persone che sono state arrestate per il solo motivo di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato? Ci sono state famiglie rimaste per anni senza alcun contatto con i propri figli imprigionati che, a detta dei massimi funzionari governativi, non hanno diritto a un avvocato perché non si trovano sul territorio degli Stati Uniti. E Guantánamo è solo uno dei tanti buchi controllati dagli Stati Uniti in cui la gente scompare.Se si prende in considerazione la crescente erosione delle libertà e dei diritti democratici sotto gli auspici dell’ USA PATRIOT Act, per esempio, dovrebbe essere un indizio della necessità di un nuovo movimento di massa. Fortunatamente, grazie ai cittadini britannici che sono stati rilasciati di recente e hanno tenuto delle conferenze stampa ampiamente diffuse, abbiamo potuto ottenere molte più informazioni su ciò che accade a Guantánamo che se non fossero stati cittadini britannici. Il fatto che i media fossero molto più interessati a cittadini del Regno Unito che non a cittadini dell’Afghanistan o del Pakistan è estremamente inquietante, perché implica che gli afgani privi di un passaporto britannico o gli iracheni sottoposti a brutalità e violenze sessuali non sono considerati degni dell’attenzione dei media. Posso soltanto dire che si tratta di segnali davvero preoccupanti di un futuro repressivo che molti di noi hanno paura perfino di immaginare. Dobbiamo però affrontare questa possibilità se ci preme la creazione di un futuro democratico negli Stati Uniti e nel mondo.

• Le sue osservazioni circa il rilascio di cittadini britannici da Guantánamo sembrano illustrare ancora una volta il potere di un’opinione pubblica organizzata nel fare pressioni sul governo, sia britannico che statunitense, per ottenerne la scarcerazione in assenza di meccanismi legali e di giurisdizione…

Proprio così.

• Pensa che Guantánamo abbia soppiantato la prigione di massima sicurezza come minaccia carceraria estrema nell’immaginario sociale?abu_ghraib_new-721906

Le spaventose realtà di Guantánamo hanno effetti materiali ed emotivi per tutti quelli che hanno la disgrazia di esservi detenuti. Ma Guantánamo è anche quell’ambiente sociale immaginario per tutti quelli etichettati come «il nemico». È la tecnologia della repressione che un nemico si merita, a quanto si dice. Le strutture detentive militari come quelle di Guantánamo sono state rese possibili dal rapido sviluppo di nuove tecnologie nelle prigioni su territorio nazionale. Al tempo stesso, le nuove carceri di massima sicurezza sono state rese possibili dalle torture e dalle tecnologie militari.
Mi piace pensarle come simbiotiche. Il centro detentivo militare come luogo di tortura e repressione non soppianta quindi il supercarcere su territorio nazionale (che, per inciso, viene esportato in tutto il mondo); piuttosto, costituiscono entrambi dei luoghi estremi nei quali la democrazia ha perso ogni diritto. In un certo senso, si potrebbe affermare che la minaccia del carcere di massima sicurezza supera perfino quella del centro detentivo militare. Non mi piace creare gerarchie della repressione, perciò non sono neanche sicura che dovrei esprimermi in questi termini. Quello che voglio dire è che la normalizzazione della tortura, la quotidianità della tortura che è caratteristica del supercarcere potrebbe avere un potere più duraturo rispetto alla prigione militare illegale. Nel carcere di massima sicurezza si applica la deprivazione sensoriale e i contatti umani sono così scarsi che spesso i detenuti arrivano al punto di usare le escrezioni del proprio corpo – urina e feci – come un mezzo di azione e libertà. Questa regolarizzazione, questa normalizzazione può essere ancora più pericolosa, soprattutto se la si dà per scontata e quindi non la si reputa degna dell’attenzione mediatica. Le pratiche del supercarcere non sono mai rappresentate come aberrazioni, come è accaduto invece per i fatti di Guantánamo o Abu Ghraib, descritti non come normali o di ordinaria amministrazione, bensì come pratiche eccezionali di cui sono responsabili singoli individui. Il supercarcere non lo si può descrivere come un’aberrazione. È classificato attualmente come il più sicuro tra i sistemi detentivi interni. Una volta, un minimo implicava un medio e un massimo . Ora il minimo implica il carcere di massima sicurezza e chissà cos’altro in seguito. Ma ovviamente con questo non voglio sottovalutare gli orrori delle prigioni militari illegali.

MAYDAY MAYDAY: LA RETE E’ A RISCHIO

16 febbraio 2009 Lascia un commento

Proposta di modifica n. 50.0.100 al DDL n. 733

50.0.100 (testo 2) D’ALIA

V. testo 3  Dopo l’articolo 50, inserire il seguente:
«Art. 50-bis.  (Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet)

        1. Quando si procede per delitti di istigazione a delinquere o a disobbedire alle leggi, ovvero per delitti di apologia di reato, previsti dal codice penale o da altre disposizioni penali, e sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che alcuno compia detta attività di apologia o di istigazione in via telematica sulla rete internet, il Ministro dell’interno, in seguito a comunicazione dell’autorità giudiziaria, può disporre con proprio decreto l’interruzione della attività indicata, ordinando ai fornitori di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine.

        2. Il Ministro dell’interno si avvale, per gli accertamenti finalizzati all’adozione del decreto di cui al comma 1, della polizia postale e delle comunicazioni. Avverso il provvedimento di interruzione è ammesso ricorso all’autorità giudiziaria. Il provvedimento di cui al comma 1 è revocato in ogni momento quando vengano meno i presupposti indicati nel medesimo comma.

        3. I fornitori dei servizi di connettività alla rete internet, per l’effetto del decreto di cui al comma 1, devono provvedere ad eseguire l’attività di filtraggio imposta entro il termine di 24 ore. La violazione di tale obbligo comporta una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 50.000 a euro 250.000, alla cui irrogazione provvede il Ministro dell’interno con proprio provvedimento.

        4. Entro 60 giorni dalla pubblicazione della presente legge il Ministro dell’interno, con proprio decreto, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico e con quello della pubblica amministrazione e innovazione, individua e definisce i requisiti tecnici degli strumenti di filtraggio di cui al comma 1, con le relative soluzioni tecnologiche.

        5. Al quarto comma dell’articolo 266 del codice penale, il numero 1) è così sostituito: “col mezzo della stampa, in via telematica sulla rete internet, o con altro mezzo di propaganda”.

Foto di Valentina Perniciaro _Lasciateci Liberi NO VAT 14 febbraio 2009_

Foto di Valentina Perniciaro _Lasciateci Liberi NO VAT 14 febbraio 2009_

All’interno del già pericoloso “pacchetto sicurezza”, il Dll 733, c’è inserito anche quest’articolo, che rischia di far saltare diversi blog della rete.
La proposta di D’Alia mette a sero rischio la libertà d’espressione nella rete e chiama in causa direttamente i fornitori di connettività, che dovranno essere i preposti a “filtrare” e staccare l’accesso incriminato. Tutto ciò a discrezione del Ministero dell’Interno e con una tempistica che non potrà superare le 24 ore, pena multe salatissime ai danni dei gestori.Il rischio più grande, sottolinea l’avvocato Minotti, è l’ombra dell’accusa di essere corresponsabili di “apologia o di istigazione in via telematica sulla rete internet”. “Rischiano di essere accusati di concorso – spiega Minotti – si tratta di un meccanismo perverso: avere l’obbligo giuridico di impedire un evento e, sfuggire a quest’obbligo equivale a lasciare che altri continuino a compiere il reato; si finisce per dover rispondere di reato omissivo improprio. Pagando per la stessa imputazione”. Che in Italia è punita con il carcere, da uno a cinque anni.
I reati d’opinione rischieranno presto di sovrapporsi con la manifestazione del pensiero dell’individuo: diritto tutelato dall’articolo 21 della Costituzione.

MANIFESTAZIONE NAZIONE CONTRO LE LOGICHE SECURITARIE, PER L’AUTOGESTIONE E GLI SPAZI SOCIALI

16 febbraio 2009 Lascia un commento

n1606758765_30148972_9836Le mani moleste della Proprietà e del Controllo sono in grande attività: Trasformano la salute in un affare per imprenditori
Ci raccontano che la migliore cura è l’espulsione
Cancellano l’edilizia popolare e trasformano in merce i bisogni
Negano i diritti, la solidarietà Per salvaguardare i loro loschi affari
ingabbiano la cultura, cacciano le persone, cancellano la storia
In città ridotte a macchine per fare soldi, vogliamo liberare spazi, luoghi in cui stare e tempi da attraversare
Con la forza dei nostri desideri e con le armi della solidarietà vogliamo sconfiggere l’ossessione di controllo di chi nega il diritto all’esistenza e l’avidità di chi trasforma la conoscenza in un lusso
Per la salvaguardia e l’ampliamento dei diritti, contro la meschinità del razzismo di governo e contro la cementificazione delle città e delle menti

             28 febbraio
MANIFESTAZIONE NAZIONALE CONTRO LE LOGICHE SECURITARIE, PER L’AUTOGESTIONE E GLI SPAZI SOCIALI
    ——– Milano ore 15 piazza XXIV maggio ——–

       _LE COMPAGNE E I COMPAGNI DI MILANO_

“Cancellate mio nonno dal Memoriale delle vittime ebree dal nazismo”

31 gennaio 2009 Lascia un commento

Cancellate il nome di mio nonno da Yad Vashem
di Mosè Braitberg 

Signor Presidente dello Stato di Israele, vi scrivo perché voi interveniate presso chi di dovere affinchè venga cancellato dal Memoriale di Yad Vashem, dedicato alla memoria delle vittime ebree del nazismo, il nome di mio nonno, Moshe Brajtberg, morto nelle camere a gas di Treblinka nel 1943, come quello di altri membri della mia famiglia deportati e morti nei differenti campi nazisti durante la seconda guerra mondiale. Vi chiedo di acconsentire alla mia richiesta, signor presidente, perché quanto è successo a Gaza, e più in generale, la sorte toccata al popolo arabo della Palestina da sessanta anni in qua, ha screditato ai miei occhi Israele come centro della memoria del male fatto agli ebrei, e dunque all’umanità intera. Vedete, fin dalla mia infanzia, io ho vissuto circondato da sopravissuti ai campi della morte. Ho visto i numeri tatuati sulle loro braccia, ho ascoltato il racconto delle torture, ho conosciuto i lutti indicibili e ho condiviso i loro incubi. Bisognava, cosi mi hanno insegnato, che questi crimini non si ripetessero mai più; perché mai più doveva accadere che uomini, forti della loro appartenenza ad una etnia o ad una religione avessero in disprezzo altri uomini, e si facessero beffe dei loro diritti più elementari come quello di vivere una vita dignitosa in sicurezza, libertà, e con la luce, sia pur lontana di un futuro di serenità e di prosperità. Ma, signor presidente, io devo constatare che nonostante le decine di risoluzioni prese dalla Comunità internazionale, malgrado la palese evidenza dell’ingiustizia perpetrata nei confronti del popolo palestinese dal 1948, nonostante le speranze sorte a Oslo e nonostante il riconoscimento del diritto degli ebrei israeliani a vivere in pace e in sicurezza, sovente ribaditi dall’Autorità palestinese, le sole risposte date dai governi successivi del vostro paese sono state la violenza, il sangue versato, la reclusione, i controlli incessanti, la colonizzazione e i saccheggi.
Mi direte, signor presidente, che è legittimo, per il vostro paese, difendersi da chi lancia razzi su Israele, o contro i kamikaze che uccidono molti israeliani innocenti. A ciò risponderò dicendo che il mio sentimento di umanità non varia a seconda della cittadinanza delle vittime. Invece, signor presidente, voi dirigete le sorti di un paese che pretende, non soltanto rappresentare gli ebrei nel loro complesso, ma anche la memoria di quelli che furono le vittime del nazismo. Questo mi riguarda ed è per me insopportabile. Conservando nel Memorial di Yad Vashem, nel cuore dello Stato ebreo, il nome dei miei congiunti, il vostro Stato tiene prigioniera la mia memoria familiare dietro il filo spinato del sionismo per farne l’ostaggio di una cosiddetta autorità morale che commette ogni giorno quel crimine abominevole che è la negazione della giustizia. Quindi, per favore, cancellate il nome di mio nonno del santuario dedicato alla crudeltà fatta agli ebrei perché essa non giustifichi più quella fatta ai palestinesi.
Con i miei rispettosi saluti
Jean-Moïse Braitberg (scrittore) c

Fonte: Le Monde del 28.01.09

una giornata di guerra tra tante

29 gennaio 2009 Lascia un commento

12.48: INCIDENTI LAVORO: OPERAIO PRECIPITA DA TETTO A PERUGIA (ANSA) – PERUGIA, 28 GEN – Un operaio è precipitato da un tetto a Ponte Valleceppi ed è stato ricoverato in ospedale con varie ferite. L’ incidente, secondo le prime informazioni, è avvenuto intorno alle dieci in via Barcaccia. Sul tetto di un edificio erano in corso lavori di bonifica dell’ amianto. L’ operaio è caduto dall’ altezza di circa cinque metri. Sul luogo sono intervenuti 118 e pompieri.

15.11: Una parte di montagna è franata a Caltanissetta travolgendo due operai che stavano eseguendo lavori di canalizzazione in via Mario Gori, nel quartiere Redentore. I soccorritori hanno estratto i corpi sepolti dalla terra e dal fango. Il terzo operaio che lavorava con i due compagni si è invece salvato perché si era allontanato poco prima del crollo. Le vittime della frana nel nisseno sono  Santo Notarrigo, 37 anni, titolare della ditta che stava svolgendo i lavori, di Caltanissetta, e Felice Baldi, 19 anni, originario di un centro della provincia. Il corpo di Notarrigo è stato estratto subito dal fango, mentre quello di Baldi è stato individuato dai soccorritori dopo quasi un’ora di scavi. 

17.52:  BERGAMO, 28 GEN – Un ingegnere di 28 anni è rimasto ferito oggi pomeriggio in un incidente sul lavoro all’azienda Tenaris di Dalmine (Bergamo). L’uomo si trovava nei pressi di una gru in movimento, quando una traversa si è staccata dal macchinario ed Š precipitata, colpendo la vittima alle gambe. È successo poco prima delle 16 nel reparto Fas, lo stesso in cui a dicembre morì sul lavoro un operaio di 20 anni. L’ingegnere Š stato soccorso dai colleghi, poi dai sanitari del 118, che lo hanno portato in ospedale, con gli arti inferiori fratturati. Sul posto sono intervenuti anche i carabinieri e i tecnici dell’Asl che dovranno ora accertare l’esatta dinamica dell’incidente e verificare eventuali responsaibilità

Foto di Valentina Perniciaro _Totem contro le morti sul lavoro_

Foto di Valentina Perniciaro _Totem contro le morti sul lavoro_

 

 

18.09: PERUGIA, 28 GEN – È rimasto ferito alle gambe, ma le sue condizioni non sono gravi, l’operaio precipitato dal tetto di uno stabile, a Ponte Valleceppi, dove erano in corso lavori di bonifica dell’ amianto. Si tratta di un marocchino di 27 anni in regola con il permesso di soggiorno. Sull’incidente sono in corso accertamenti dei carabinieri. L’ operaio è caduto dall’ altezza di circa cinque metri. Sul luogo sono intervenuti 118 e vigili del fuoco.

23.10: Un operaio di 34 anni, Salvatore Vittorioso, è morto al Petrolchimico di Gela per l’esplosione di un’apparecchiatura sotto pressione. L’uomo lavorava per la Ecorigen, azienda che opera nel settore della rigenerazione dei catalizzatori e degli olii esausti. L’incidente è avvenuto poco dopo le 21.30, per cause non ancora accertate. La porta di un forno si sarebbe staccata dall’apparecchiatura, investendo l’operaio, che in quel momento si trovava nell’area, raggiunto anche dalle fiamme fuoruscite dalla stessa macchina. Sul posto sono intervenuti i carabinieri e i vigili del fuoco che operano per conto dell’Eni. Le indagini sono coordinate dal pm di Gela, Monia Di Marco, che ha sequestrato l’intero impianto della Ecorigen, che si trova nell’Isola 13 del Petrolchimico.

Vicino agli esclusi, tra gli esclusi … di Jean Marc Rouillan

20 gennaio 2009 Lascia un commento

Stralci di un libro che parla di carcere, che descrive il carcere minuto dopo minuto. Il libro di un prigioniero politico francese che ancora lotta per la sua libertà. Un libro per non dimenticarci mai cos’è il carcere e chi sono i carcerieri.531523-649325

Al risveglio, la prigione salta alla gola. 
Le prime sensazioni mi avvertono della sua presenza nascosta. Un angolo di muro illuminato dal chiarore dell’alba, l’odore del disinfettante, le diverse abluzioni dei congeneri, la carezza della coperta carceraria e lo scoramento indicibile. Mi penetra di colpo.
Tiranna sovrana, la “malamorte” della lebbra moderna e carceraria è qui, dentro di me. E non c’è modo di sfuggirle. Fino al più lontano e ultimo esilio, sentirò questa nausea. Non ci si abitua mai alla prigione. Più passa il tempo, più le mattine sono dolorose. Tredici anni. Più di 4750 mattine.
[…] La penultima porta è la mia. L’ingresso della mia pelle di cemento nudo, della mia conchiglia, della mia corazza. Bevo delle grandi tazze di caffè  e mi immergo. Torturo la tastiera con due dita incazzate. “Tu batti come gli sbirri”, sì, io batto con odio. Così forte che i nuovi vicini chiedono sempre cosa può essere questo ticchettio mitragliatore. […] Scrivo sentendo montare dentro di me la bomba ad orologeria di questi anni di solitudine. Ho paura di perdere la dignità, di sprofondare nella follia, di dimenticare l’etica della giusta rivolta. E action_directequesto timore oggi è tirannico.
No, non ho stile. Non ho talento per questo esercizio letterario. Scrivo perché non ho ancora trovato altro da fare per uccidere definitivamente le mie mattine in carcere. Oppure non ne ho avuto il coraggio. Scrivo perché queste mattine senza vita siano imprigionate e sprofondino nel dolore delle parole e della loro fragile architettura. 
[…]Intra-muros, si assassina per “fatalità” giuridico-amministrativa. Si elimina il non compatibile. Lo si scioglie nell’acido del tempo. Lo si fa crepare come un batterio. Siamo come quelle vecchie carpe tirate fuori dall’acqua che agonizzano per ore e ore nella cesta.
[…]In fondo alle scale, una porta blu sbarra il passaggio. E’ il limite blindato del nostro territorio. Direi quasi della nostra autonomia. […]jean-marc_rouillan
Quando in prigioniero è sotto sorveglianza, le videocamere seguono i suoi passi senza fine nei cortili dell’aria. Esse inclinano il loro muso verso l’erba quando ci si stende al sole. Da quando emergiamo dalla cella, esse ci arpionano nel loro mirino. Sulle scale. Dietro ogni cancello, ogni porta. Nei passeggi. Alla fine, ci sono più videocamere che prigionieri. Un povero diavolo si metteva sull’attenti a venti centimetri dall’obiettivo della telecamera principale del corridoio. E scandiva militarmente: “Cavia 848 a rapporto. Tutto bene, capo!”
Si interiorizza questa sorveglianza. Finisce per far parte di noi stessi. Si gioca alla normalità. Si fa “finta di niente”. Si mantiene il ruolo del detenuto modello. Si ridiventa veramente sè stessi soltanto quando si nasconde qualcosa. Non appena si riesce ad ingannare l’occhio guercio.
In questo paese, dove il buonsenso popolare sa bene che non si picchia un cane legato, altrimenti diventa cattivo, si accetta e si trova normale il fatto che qualche maniaco del manganello si accanisca su diverse migliaia di uomini incatenati.
 
 
Signor procuratore, voleva darci il tempo per capire. Ma cosa c’è da capire? Si, so bene che per lei bisognava farci entrare nel cranio: l’inutilità della resistenza, dell’illegalità, della violenza di fronte al migliore dei mondi che lei rappresentava. Ma per fare ciò, caro Procuratore, non era il caso di sprofondarci nelle sue viscere più immonde. Mi spiace dirglielo, ma il suo ragionamento è idiota. Ho il sospetto che fosse soltanto una retorica indispensabile alla miniatura della condanna amministrativa. Doveva aggiungergli corpo e stile. Eppure, se avesse voluto veramente farci riconoscere il migliore dei mondi, avrebbe dovuto spedirci sulle spiagge dove i padroni si abbronzano con tranquillità, imporci il lusso in cui si stravaccano con nobiltà. Avrebbe dovuto condannarci a gestire un portafoglio di azioni e obbligazioni, costringerci a portare la cravatta e lo Chanel per le signore, a farci portare in automobili climatizzate con autista, a pavoneggiarci nei lunch recitando le quotazioni e le futilità estremiste con cui si gargarizzano le tribù della bella società. Bisognava rinchiuderci nelle ville delle soap televisive, tra Helene in stanza e Cricri in cantina. In questa condizione, forse, avremmo potuto “capire” la futilità rivoluzionaria, sorridere alle minacce dei più poveri, alzare le spalle di fronte alle rivolte picaresche. Allora, per lassismo, per perdita del “senso comune”, avremmo bevuto fino alla feccia, fino alla cicuta, ogni vergogna, ci saremmo raddrizzati sugli speroni in nome della razza degli eredi.
Ma signor Procuratore, sulla paglia delle celle, vicino agli esclusi tra gli esclusi,  ai poveri tra i poveri, cosa potevamo “capire” che andasse nel suo senso?
Sono più di 13 anni che giro da un carcere all’altro… Ho molto disimparato.
Ho disimparato la notte. Non fa mai notte nelle vostre prigioni. Siamo sempre sotto i proiettori alogeni arancioni, come sulle autostrade belghe e nei parcheggi dei supermercati.
Ho disimparato il silenzio. La prigione non conosce silenzio. Ne esce sempre un lamento, un grido, un rumore.
Ho dimenticato l’odore del sottobosco, di quando andavamo a funghi nella foresta di Orlèans, qualche mese prima del nostro arresto.
Ho dimenticato il sibilo dei copertoni sul pavè bagnato. Il rumore dei passi la sera, tardi, sui marciapiedi.
162891186_1cc7ae677bDi sicuro, signor Presidente, in 13 anni di galera mi ha strappato alle cose più semplici. Alla vita. All’amore. Non mi ricordo neanche più dell’infinita dolcezza delle cosce di una donna.
Invece, le devo confessare che saprei ancora smontare e rimontare una Colt 45, a occhi bendati, con la stessa destrezza che le occorre per compilare il fascicolo di un povero sventurato.
Potrei far scivolare i proiettili nei tamburi con quella disinvoltura che è la sua, quando sorvola sulle pagine. 
Se la incontrassi per strada, non la riconoscerei neppure. Questo la rassicurerebbe quasi, no? Lei fa parte di quel gregge di mezzi-uomini mezzi-uniformi che mi misero le manette. E a cui ho svelato il mio buco del culo per il controllo regolamentare.
Guardi, signor Procuratore, ecco una cosa imparata in questi anni: mostrare il culo con distacco. E’ vero che nella vita di tutti i giorni, è più una cosa inconscia, una metafora. Si sporge il culo come si accende una sigaretta. Ma, in quei momenti, tutto è crudo. Si abbassano le mutande, ci si sporge in avanti, si fissa con l’occhio unico lo sguardo gendarmesco. “Tossisca!”
Ho compreso che, a mostrare così la propria intimità, non si perde nulla in dignità Alla fine, questo danneggia ancora più il sistema e coloro che lo impongono. […]Avevano bisogno di appropriarsi del corpo, di mostrare la propria autorità attraverso la fragilizzazione dell’altro, di metterlo a nudo di fronte all’uniforme. “Tossisca!”

Tratto da ODIO LA MATTINA, di Jean Marc Rouillan , ergastolano, militante di Action Directe arrestato  il 21 febbraio 1987 passerà oltre 10 anni in regime di isolamento. Qui sotto un articolo di Paolo Persichetti  (tratta dal suo blog: INSORGENZE ) di qualche mese fa, sull’annullamento della semilibertà che gli era stata concessa, dopo un’intervista ad un settimanale francese: 


Per una intervista al settimanale l’Express, sospesa la semilibertà a Jean-Marc Rouillan, co-fondatore di Action directe
di Paolo Persichetti
Liberazione 10 ottobre 2008

La sintesi di una intervista anticipata mercoledì 1 ottobre sul sito internet del settimanale L’Express è costata la sospensione della semilibertà a Jean-Marc Rouillan, cofondatore di Action directe, il gruppo armato dell’estrema sinistra francese attivo negli anni 80. La misura sospensiva emessa dal magistrato di sorveglianza è intervenuta su richiesta della procura generale di Parigi, titolare in materia di antiterrorismo, che ha domandato la revoca della misura prim’ancora che il testo integrale dell’intervista apparisse nelle edicole.
Dal 2 ottobre Rouillan è di nuovo rinchiuso nel carcere marsigliese delle Baumettes, da dove usciva ogni mattina per raggiungere il suo posto di lavoro presso la casa editrice 
Agone, in attesa che il prossimo 16 ottobre il tribunale di sorveglianza si pronunci sulla legittimità della richiesta di revoca. All’ex militante di Action directe, la cui domanda di liberazione condizionale doveva essere esaminata il prossimo dicembre, la procura contesta alcune frasi contenute nell’intervista uscita in contemporanea anche sulle pagine di Libération il 2 ottobre. L’anticipazione dell’Express ha bruciato sui tempi il quotidiano parigino che non ha mancato di sollevare una piccola polemica rilevando il carattere «un po’ delinquenziale» di chi dietro la frenetica caccia allo scoop ha innescato un artificioso caso mediatico sulla pelle di un ergastolano. Ed in effetti l’intera vicenda puzza di strumentalizzazione costruita ad arte.
Secondo la procura, Rouillan avrebbe «infranto l’obbligo di astenersi da qualsiasi tipo d’intervento pubblico relativo alle infrazioni per le quali è stato condannato». Condizione che gli era stata imposta al momento della concessione della semilibertà nel dicembre 2007, dopo aver trascorso 20 anni di reclusione tra isolamento e carceri speciali. Il suo avvocato, Jean-Louis Chalanset, contesta però questa interpretazione che considera «infondata giuridicamente». E non ha tutti i torti perché gran parte delle risposte fornite dall’ex esponente di Ad riguardano, in realtà, la sua adesione al processo costituente del Nuovo partito anticapitalista che sta raccogliendo attorno a se la galassia della sinistra sociale e antagonista francese. Ingresso di cui aveva parlato la stampa la scorsa estate dopo un incontro avuto con Olivier Besancenot, il porta parola della Lcr che da mesi svetta nei sondaggi ed ha promosso questo processo d’unificazione.screenshot_2
«Dopo 22 anni di carcere – dichiara l’ex membro di Ad – ho bisogno di parlare, di apprendere di nuovo dalle persone che hanno continuato a lottare in tutti questi anni (…) la mia adesione è una scelta individuale». Che lo scandalo suscitato dalle sue parole sia il prodotto di una manipolazione emerge chiaramente dal raffronto dei due diversi resoconti realizzati dai giornalisti che l’hanno incontrato, Michel Henry di
Libération e Gilles Rof dell’Express. Nel testo apparso su Libération vengono riportate delle affermazioni estremamente posate. Rouillan spiega come s’immagini «semplice militante di base. L’epoca dei capi è finita. Sono entrato nell’Npa per imparare dagli altri. Vorrei che dimenticassero chi sono». Ben 11 delle 20 domande riportate sull’Express insistono sulle ragioni di quest’adesione, dunque sul presente, non sul passato. Rouillan non si sottrae però a domande più difficili e spiega a Libération che seppur «assumo pienamente la responsabilità del mio percorso, non incito però alla violenza (…) se lanciassi un appello alla lotta armata commetterei un grave errore». Quando viene incalzato precisa che «il processo della lotta armata per come si è manifestato dopo il 68, nel corso di un formidabile slancio di emancipazione, non esiste più». E di fronte alle ulteriori, e a questo punto tendenziose insistenze del giornalista dell’Express, puntualizza che «quando ci si dice guevarista [il riferimento è a un’autodefinizione di Besancenot, Ndr] si può rispondere che la lotta armata è necessaria in determinati momenti storici. Si può avere un discorso teorico senza per questo fare della propaganda all’omicidio». Nel resto dell’intervista descrive sommariamente la sua concezione conflittuale della lotta politica e il senso di smarrimento di fronte ai disastrosi mutamenti della società scoperti dopo l’uscita dal carcere. Ricorda infine che degli ultimi 4 prigionieri di Ad, una di loro è morta e due sono gravemente malati, risultato dei durissimi anni di detenzione subiti.
Insomma nonostante lo sforzo di fargli dire dell’altro, Rouillan è chiaro. Tuttavia la procura e subito dietro i commentatori della stampa di destra come di sinistra, la presidente di Sos-attentats, un’associazione di vittime del terrorismo, hanno duramente stigmatizzato le sue parole denunciando l’assenza di rimorsi, la mancanza di una richiesta di perdono, intimando a Besancenot di liberarsi di una presenza ingombrante, equivoca, «ripugnante».
Eppure se ci si sofferma qualche istante sull’intervista, ci si accorge che Rouillan non ha fatto altro che attenersi alle prescrizioni del magistrato: «Non ho il diritto di esprimermi sull’argomento… – dice – ma il fatto che non mi esprima è già una risposta. È evidente che se mi pentissi del passato potrei esprimermi liberamente. Ma attraverso quest’obbligo al silenzio s’impedisce alla nostra esperienza di tirare un vero bilancio critico».
Il direttore della redazione dell’
Express, Christophe Barbier, alla notizia dell’intervento della procura ha reagito spiegando che se il bilancio di Action directe è «indifendibile», Rouillan è comunque «un cittadino che continua a pagare il suo debito con la società» e ha «diritto alla libertà di espressione». Gilles Rof, il giornalista freelanceche ha ceduto il suo pezzo all’Express, si è detto «scioccato» dalla reazione della magistratura e dal cortocircuito mediatico che ha deformato le affermazioni di Rouillan, rivelando che questi per ben due volte in passato aveva rifiutato l’intervista per alla fine accettare a condizione di rileggerne il testo prima della pubblicazione. «Non ha mai detto che non esprimeva rimorso per l’uccisione di Georges Besse [il presidente-direttore generale della Renault ucciso nel 1986, Ndr]. Anzi ha riscritto con cura la risposta per dire che non aveva il “diritto di esprimersi” non che non poteva esprimersi». Benché non avesse concordato domande sui fatti oggetto della condanna, Rof sostiene che evitare l’argomento avrebbe posto una questione di credibilità all’intervista.
Niente di quanto abbia fatto Rouillan durante la semilibertà, o detto nell’intervista, risulta reprensibile. Tra i requisiti previsti dalla legge francese non vi è alcun obbligo di
regret, ovvero d’esprimere ravvedimento. Le condizioni poste riguardano invece la verifica della cessata pericolosità sociale e gli obblighi civili di risarcimento. In realtà Rouillan quando sottolinea che il silenzio imposto sui fatti sanzionati dalla legge impedisce la possibilità di una vera rielaborazione critica e pubblica del proprio percorso, mette il dito nella piaga. Sono gli ostacoli frapposti al lavoro di storicizzazione, che presuppone un dibattito pubblico senza esclusioni e preclusioni, che impediscono il processo di oltrepassamento relegando un periodo storico negli antri angusti dei tabù sacralizzati, dell’indicibile se non nella forma dell’esorcismo che ha solo due forme espressive: l’anatema o il pentimento. Qualcosa di simile sta accadendo anche in Italia, dove il paradigma del complotto che ha imperversato per due decenni è stato soppiantato dalla demonizzazione pura e semplice. Così oggi Rouillan rischia di essere ricacciato negli inferi del fine pena mai sulla base di una mancata abiura. Delitto teologico che già ha fatto parlare alcuni di «reato d’opinione reinventato» (Daniel Schneiderman su Libération del 6 ottobre).n1606848852_48703_3997
Questo intervento della magistratura sembra dare voce al dissenso di una parte degli apparati, e probabilmente di una parte dello stesso ministero della Giustizia, verso la politica messa in campo nei confronti dei residui penali dei conflitti politico-sociali degli anni 70-80. Infatti, dopo una iniziale politica di segno opposto, Nicolas Sarkozy è sembrato rendersi conto – forse anche sulla scia della vicenda Petrella – dell’utilità che poteva rappresentare la chiusura degli «anni di piombo». Sono altre le emergenze che preoccupano il presidente francese. Le nuove politiche sicuritarie si indirizzano altrove: migranti, banlieues, integralismo islamico. I residui penali del novecento rappresentano una zavorra anche per la visibilità sociale dei vecchi militanti incarcerati, sostenuti da una parte della società civile che ne chiede da tempo la scarcerazione. Così il 17 luglio scorso è stata concessa la liberazione condizionale a Nathalie Ménigon, anche lei membro di Action directe e con diversi ergastoli, in semilibertà da un anno. Prima di lei, Joëlle Aubrun, arrestata nel 1987 con Rouillan, Ménigon e Georges Cipriani, aveva ottenuto negli ultimi mesi di vita la sospensione della pena a causa delle gravi condizioni di salute.6aa632
Nel quadro delle prescrizioni indicate dalla nuova legge sulla «retenzione di sicurezza» (vedi 
Queer del 13 luglio 2008), Georges Ibrahim Abdallah, Régis Schleicher, Georges Cipriani, Max Frérot, Emile Ballandras, tutti prigionieri politici con oltre 20 anni di carcere sulle spalle, sono stati concentrati nell’istituto penitenziario di Fresnes, nella periferia sud di Parigi, dove è presente il centro d’osservazione nazionale incaricato di valutare la pericolosità sociale dei detenuti prima che questi vengano ammessi al regime in prova della semilibertà e successivamente in libertà condizionale.

A questo punto la decisione che dovrà prendere la magistratura di sorveglianza il prossimo 16 ottobre non investe solo la sorte di Rouillan, ma il destino dell’intera “soluzione politica”. Intanto oggi e domani si tiene a Parigi un convegno di studi organizzato da uno degli istituti universitari più prestigiosi, la grande école di science po, sostenuto dall’istituto culturale italiano, il comune di Parigi, dedicato a «L’Italia degli anni di piombo: il terrorismo tra storia e memoria». Che sia utile a far riflettere i giudici? 

CONTRO IL PACCHETTO SICUREZZA

12 gennaio 2009 Lascia un commento

striscia-copyAppello della Rete contro il Pacchetto Sicurezza

Appello per la cotruzione di una mobilitazione contro il ddl 733: Lunedì 19  Gennaio Sit – in sotto il Senato e Sabato 31 Gennaio Manifestazione a Roma

Il 19 gennaio prossimo è prevista in Senato la discussione del“Pacchetto sicurezza” (DdL 733), che provocherà una grande trasformazione del quadro normativo italiano, già fortemente repressivo e discrezionale nel suo impianto. Le norme contenute nel Pacchetto, infatti, prevedono una politica esplicitamente fondata su misure segregazioniste e razziste per le persone migranti, con o senza permesso di soggiorno, le prime a essere additate come figure pericolose e causa di “allarme sociale”, e su nuove e ancora più drastiche misure repressive contro chiunque produca conflitto e non rientri dentro le strette maglie del controllo. 

barcone_migranti_nLe norme del pacchetto sicurezza colpiscono in primo luogo le persone migranti. Se il Pacchetto sarà approvato chi è senza permesso di soggiorno non potrà più: andare al Pronto Soccorso e ricevere cure mediche, riconoscere figli e figlie, sposarsi e inviare soldi a casa. Il Ddl introduce inoltre: la detenzione nei CIE (ex CPT) per 18 mesi; la tassa di 200 euro su richiesta e rinnovo del permesso di soggiorno; controlli ancora più stretti per acquisire la cittadinanza; il reato d’ingresso illegale nello stato. 
Altre norme, alcune già sperimentate sui/sulle migranti, vengono estese al resto dei cittadini e delle cittadine che non si adeguano alla retorica del “decoro urbano”: l’obbligo di dimostrare l’idoneità alloggiativa per ottenere l’iscrizione anagrafica (che colpisce migranti, senzatetto, occupanti e chiunque non possa permettersi un’abitazione “idonea”); le norme anti-graffito; l’inasprimento delle norme per il reato di danneggiamento. 
Questo delirio securitario esplode mentre i governi decidono di sostenere le aziende e le banche in difficoltà, invece di pensare a nuove politiche sociali di sostegno alla cittadinanza colpita dalla crisi. Scaricando, tra l’altro, tutto il lavoro di cura sulle donne: in quest’ottica, l’unica immigrazione che sembra piacere è quella delle “badanti”. Ai sindaci e ai prefetti sceriffo si attribuiscono nuovi poteri, mentre il Ddl Carfagna criminalizza e stigmatizza le prostitute, imponendo norme di comportamento a tutte e tutti.migranti-02
La loro risposta alla crisi è il governo della paura. La risposta, in Italia come in Europa, da Milano a Castelvolturno, da Atene a Malmöe… è stata un grido di rabbia e libertà: 

NON ACCETTIAMO LA SOCIETA’ DEL RAZZISMO, DELLO SFRUTTAMENTO E DEL CONTROLLO!

Lunedì 19 gennaio appuntamento per tutti e tutte alle 10:00 sotto il Senato a Piazza Navona per un Sit-In che duri fino a sera, per far sentire la nostra voce mentre nelle aule verrà votato il disegno di legge.

Sabato 31 gennaio saremo ancora in strada con un corteo che attraverserà la città, toccando alcuni luoghi simbolo.Appuntamento alle 14.30 a Porta Maggiore per proseguire per Piazza Vittorio e Termini fin sotto al Ministero dell’Interno, per ripensare insieme un’idea di cittadinanza che garantisca a tutt@ i diritti fondamentali e la libertà di scelta e di movimento.

Contro il Pacchetto Sicurezza e il modello di società che impone

Per l’abolizione immediata della Bossi/Fini, perché perdere il lavoro a causa della crisi rappresenta per le persone migranti una condanna alla clandestinità
Per la regolarizzazione di tutte e tutti
Contro il legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro, dispositivo di controllo che imprigiona i migranti e le migranti e rende precaria la vita di tutte e tutti
Contro le classi separate per i bambini e le bambine stranier@
Contro la militarizzazione dei confini e delle città
Contro l’ansia e la paura in cui vorrebbero farci vivere
Per ripensare insieme un’idea di cittadinanza che garantisca a tutt@ i diritti fondamentali e la libertà di scelta e di movimento

cpt-disegnoLUNEDI’ 19 GENNAIO 2009: SIT- IN SOTTO IL SENATO        dalle 10:00 a Piazza Navona
SABATO 31 GENNAIO 2009: MANIFESTAZIONE A ROMA        alle 14:30 a Porta Maggiore

Invitiamo tutti e tutte – migranti, studenti e studentesse, scuole in mobilitazione, associazioni, movimenti di lotta per l’abitare, centri sociali, movimenti di donne, femministe e lesbiche, comitati di cittadini e cittadine, precari e precarie, lavoratori e lavoratrici, personale medico e sanitario, artisti e artiste – a partecipare, a moltiplicare le iniziative anche nelle altre città e a coordinarci per dare più voce alla nostra rabbia:

NOI… NON ABBIAMO PAURA!  
RETE CONTRO IL PACCHETTO SICUREZZA

Per adesioni, informazioni, contributi, per mettere in rete le iniziative locali e dislocate nelle città attraverso questo bloghttp://nopacchettosicurezza.noblogs.org inviate un’e-mail a:pacchettosicurezza@anche.no

“Cosa fosse davvero il carcere non lo capivo”

1 dicembre 2008 4 commenti

Avevo quattro anni_di Martina_
(brano tratto da
Scarceranda, l’agenda di Radio Onda Rossa)

Avevo quattro anni, ma anche cinque e anche tre, perché mio papà mica c’è stato un anno solo in carcere. Mia mamma mi aveva insegnato a saperlo, ma anche a non dirlo, reati politici. E lo andavo a trovare con sua la nuova fidanzata, andavamo in macchina, ma io mi ricordo di più di quando andavamo in treno. Cassino. Quella parola mi è ancora odiosa, come guardie, polizia, fascisti.
Vi ricordate com’erano i treni prima? Avevano la gomma nera con i pallini sul pavimento, e dei disegni strani sulle pareti, tipo cerchi dentro rombi, o cose simili. Mi ricordo anche che avevano un odore dolciastro, di sporco, sudore e viaggi. Tutta la campagna correva fuori dal finestrino, lei leggeva il giornale in modo scomposto, nel senso che non riusciva a tenere insieme le pagine man mano che le sfogliava, e il giornale diventava sempre più grande, occupava sempre più spazio. Poi una volta il treno si ferma, e fuori dalla porta c’è un campo arato. Lei si mette a ridere forte, quella risata che fanno i grandi quando non è che si stanno divertendo. Quella risata che uno pensa, meno male che ride, invece di prendersela con me. Perché i grandi quando sono nervosi a volte se la prendono con noi, ma mica perché sono cattivi, è che con qualcuno se la devono prendere.
Come quella volta che stavo sdraiata sul bancone che divideva noi che eravamo andati a fare il colloquio (il colloquio è da aggiungere alla lista delle parole brutte) e sotto questo bancone c’era una grandissima
gomma da masticare tipo big bubble rosa, spiaccicata da qualcuno e lasciata lì. Io lo so che le gomme diventano dure dopo un po’, allora uno ha voglia di buttarle. So pure che non si appiccicano in giro, bisogna metterle dentro un pezzo di carta e buttarle nel cestino. Poi so anche che non bisogna toccare le gomme lasciate in giro dagli altri. Tutte queste cose che so, ve le dico per farvi capire che io sono una
bambina abbastanza brava. Però certi posti ti fanno fare cose che in genere non fai, allora io stavo lì sdraiata, ho visto questa enorme gomma appiccicata e l’ho toccata. E mi è rimasta appiccicata sul dito. Intanto loro parlavano, mio papà e la sua fidanzata, e poi mio papà se n’è accorto di quello che avevo fatto, allora mi ha dato un pizzico sulla guancia che ancora me lo ricordo. Quanto mi sono mortificata! Era la prima volta! Poteva mettersi a ridere, invece se l’è un po’ presa con me, capito che intendo?
Vabbè, quella volta sul treno che abbiamo sbagliato fermata, e invece della stazione di Cassino c’era il campo arato, poi siamo tornate indietro (o siamo andate avanti, non lo so), e tutto è andato bene. 
Mi ricordo che fuori dal carcere c’era una specie di giardinetto, con le panchine. Poi si entrava in questa stanza, ma che stanza, un enorme corridoio. Allora, funziona così: c’è questo bancone che separa in due la stanza. In alto a sinistra una gabbia di vetro gigante, con dentro una guardia enorme! Mi sono sempre chiesta come facesse quella scatola di cristallo a non rompersi con quel cristone dentro! Al di là del bancone, in fondo a destra, c’è una porta di ferro. Avete presente la porta della radio, quella rossa di ferro con i buchini che i grandi ci possono guardare attraverso? Ecco così. Da quei buchini si vedeva mio papà pronto per venire al colloquio con noi. Io volevo sempre fargli lo scherzetto, e stare nascosta fino a quando non usciva, ma non riuscivo mai a resistere, e fissavo quei buchini (o forse era un quadratino di vetro) per vedere la capoccetta riccia di papà.
Allora io gli davo tanti bacetti, perché ero proprio contenta quando veniva fuori, però con la coda dell’occhio controllavo la guardia gigante. A volte leggeva il giornale, allora i bacetti a papà glieli davo più volentieri.

La fidanzata di mio padre non sapeva cucinare neanche un uovo fritto, però sua mamma era bravissima. Allora una volta abbiamo portato la lasagna a papà. Quando siamo entrate per quella porticina dove ti controllavano quello che portavi, ce l’hanno tutta rotta! Che rabbia! Stavano lì che la rivoltavano, ma insomma è la lasagna della mamma della fidanzata di mio padre! Un po’ di rispetto! Ho pensato, povero papà, vabbé, tanto basta il pensiero.
Cosa fosse davvero il carcere non lo capivo. Sapevo solo che per lo stato mio padre era cattivo, ma che lo stato era cattivo per mio padre. Io chiaramente, mi fidavo di più del giudizio di mio padre. Poi ho scoperto che lo stato non era proprio sicuro che mio padre fosse cattivo, ma intanto che si decideva, era meglio che se ne stesse lì, a Cassino. Poi lo stato ha pensato che poteva pure stare a casa, ma non poteva uscire.
Ho imparato che quello si dice “arresti domiciliari”, o semplicemente “domiciliari”.
Solo dopo qualche anno, quando ho scoperto la parola “domicilio”, ho capito cosa volesse dire. Cioè, ho imparato prima la parola “domiciliari” che la parola “domicilio”. Come se uno impara prima a dire “sfratto” e poi “affitto” (cosa che peraltro mi sa che mi è pure capitata! Ma questa è un’altra storia).

Ora che ci penso, tutto mi sembrava enorme. E di fatto lo era. Da bambini, è vero, tutto ti sembra grande, ma Cassino lo era ancora di più. Non riuscivo a comprendere pienamente la situazione, ma la sensazione che fosse qualcosa di enormemente mostruoso, inumano, come una macchina enorme quasi impossibile da combattere, quella era chiara nella mia testa.
Poi mio padre è stato assolto. Al processo mia madre c’è andata, ma me lo ha detto dopo. Uffa, pure io volevo andare al processo! Comunque, io andavo a scuola, e anche se non avrei dovuto parlarne tanto, io dicevo a tutti: mio padre è stato assolto! Mi sembrava una notizia così bella e importante! Ma i miei compagni mica mi capivano tanto…
Non è stata per me un’esperienza terribile, ero piccola e non capivo la gravità della cosa. Io andavo lì, salutavo mio padre, e me ne tornavo a casa con una strana sensazione. Tutto qui. Ma perché poi quando ci ripenso mi vengono le lacrime agli occhi?
Cassino, colloquio, domiciliari. Mia nonna che mi diceva che c’erano le scritte sui muri, dei compagni che dicevano mio papà libero. Evviva, mio padre è famoso.
Cassino, colloquio, domiciliari, libero. Pure “libero” mi dà un po’ i brividi, perché quando è scritto accanto a un nome, vuol dire che c’è una bambina, come io ero più di vent’anni fa, che tra vent’anni ricorderà quando suo padre stava al di là di una porta dove però chi sta fuori non può entrare.

Dentro quel carcere ci stavo un po’ anche io, eppure, come tutti quelli che ci stavano dentro, ero innocente.

Contro la “carta di Parma”

24 novembre 2008 Lascia un commento

Un anno dall’assassinio di Aldo Bianzino!

14 ottobre 2008 Lascia un commento

 

E si, lo hanno detto in tanti, la memoria e’ un ingranaggio collettivo.
Che va lubrificato, animato, fatto girare.

 

Foto di Valentina Perniciaro _Carcere di Rebibbia_

Foto di Valentina Perniciaro _Carcere di Rebibbia_

Aldo Bianzino è stato arrestato il 12 ottobre 2008 e condotto nel carcere Capanne di Perugia
La mattina del 14 è stato trovato morto nella cella in cui era stato rinchiuso.
E’ passato un anno dalla morte “misteriosa” di Aldo.
Un anno di solidarietà concreta, di appelli, presidi, volantinaggi, iniziative di informazione, dibattiti , concerti di sostegno, a Perugia e nel resto d’Italia.
Ma anche un anno di inchieste, insabbiamenti, reticenze, richieste di archiviazione.
C’e’ chi vuole dimenticare e chi si ostina a reclamare la verità.
Per questo riprendiamo un percoso di mobilitazione, consapevoli che ora più che mai è necessario fare sentire la nostra voce, perchè la morte di Aldo non passi sotto silenzio:  

 

Martedi 14 ottobre 2008 ore 11, presso la sala della Vaccara a Perugia: Conferenza Stampa dei familiari di Bianzino e del Comitato “Verità per Aldo”.

Venerdi 17 ottobre ore 10, via XIV settembre (Palazzina ex enel): presidio e volantinaggio presso il tribunale dove si trova l’aula del gup, in cui si svolgerà la prima udienza di opposizione all’archiviazione.

Sabato 18 ottobre presso il Centro Sociale ExMattatoio: concerto benefit ore 22

Perchè di carcere non si può morire!
Perchè in carcere per qualche pianta d’erba non si deve finire!

Comitato verità per Aldo http://veritaperaldo.noblogs.org

ODIO IL CARCERE!

Aboliamo l’ergastolo!

9 settembre 2008 11 commenti

Quando un Tribunale condanna un recluso ad una pena temporale, anche elevata, gli riconosce comunque il diritto alla libertà. Se invece condanna una persona all’ergastolo gli toglie questo diritto e, per il malcapitato, la libertà diventa una concessione.

Dopo 6 anni l’ergastolo mi è stato tolto e tramutato in trent’anni di carcere.
Mi sono raddrizzato. Da curvo che ero, con quel macigno sul collo.

Il suo compagno di cella insisteva.
-L’ergastolo di fatto non esiste più, al massimo dopo vent’anni si esce.
Quella sera stizzito rispose:
-Ma tu…ti sei mai addormentato con l’ergastolo?

 336 ergastoli, tanti ne sono stati erogati tra il 1969 e il 1989 in processi contro le Brigate Rosse ed altre organizzazioni di sinistra per fatti di lotta armata. 
L’art. 1 della legge antiterrorismo, varata tra il dicembre del 1979 ed il febbraio 1980, introducendo un’aggravante particolare per i reati commessi con finalità eversiva, rendeva certo ed automatico l’ergastolo per tutti quei delitti che lo prevedevano. L’impennata nelle condanne all’ergastolo si ha proprio negli anni successivi all’entrata in vigore di quella legge approvata dal parlamento in un periodo di acutizzazione dello scontro. Basti ricordare che nella primavera del 1978 avvennero il sequestro e l’omicidio dell’onorevole Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. 
Con le leggi emergenziali per la lotta al terrorismo il Parlamento ha legittimato, per la prima volta in Italia, un uso massivo ed abnorme dell’ergastolo. Delle centinaia di ergastoli una parte sono stati sicuramente erogati per responsabilità materiale diretta al reato, molti però, per semplice concorso morale o per la partecipazione solo marginale alle attività preparatorie di un delitto. 

Terrorista: persona senza inflessioni dialettali. Sradicata da qualunque contesto sociale. Alieno. Manovrato da forze occulte, o paesi stranieri. Infatuato da ideologie deliranti. Senza alcun seguito di massa. Assalta la democrazia. Semina il terrore nella comunità.
Questo, a grandi linee, potrebbe essere lo stereotipo del terrorista che è stato impropriamente applicato alle persone e al fenomeno della lotta armata degli anni ’70.
Terrorista può tradursi anche in ergastolano. Terrorista – ergastolano. Due termini che legano bene. L’ergastolo sembra infatti la sanzione più ovvia e naturale per un terrorista, perché non fa che espellere a vita dal consorzio umano un corpo che gli è stato giudicato estraneo.

-TRATTO DA “ERGASTOLO” di Nicola Valentino- 

 

PER L’ABOLIZIONE DELL’ERGASTOLO.
FUORI I DETENUTI POLITICI, AMNISTIAMO GLI ANNI ’70
CONTRO IL CARCERE, GIORNO DOPO GIORNO