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12-3-2011: Tutt@ davanti al C.I.E. di Ponte Galeria
LIBERTA PER TUTTE E TUTTI! CON O SENZA DOCUMENTI
È trascorso quasi un anno dall’ultimo presidio fuori dal lager di Ponte Galeria a Roma e da allora per le condizioni dei reclusi e delle recluse nulla è cambiato. All’interno del lager romano la gestione dalla croce rossa è stata ereditata dalla cooperativa Mondo Auxilium, per il resto i principi di reclusione, oppressione, violenza, terrore e privazione sono rimasti gli stessi. La repressione contro chi lotta per la chiusura di queste strutture di annientamento prosegue senza sosta, ma ciò ci porta solo e unicamente a continuare unite/i nella lotta.
Una stagione di rabbia e conflitti sta investendo il Mediterraneo e non solo. È quanto più importante in questo momento manifestare, con ogni mezzo, la nostra solidarietà ai reclusi e alle recluse, la nostra complicità con chi si ribella ovunque, a tutte le persone rastrellate e deportate.
La lotta contro il controllo, la repressione e le istituzioni “totali”, come i Cie, deve affermarsi con energia. Ribadiamo il nostro appoggio solidale ai reclusi e alle recluse del Cie di Ponte Galeria, come di tutti i lager della democrazia.
Riprendersi le strade, le piazze, affinché le vie, i muri e i quartieri parlino di solidarietà tra sfruttate/i e di odio verso chi arresta, rinchiude, opprime e tortura ogni giorno. Perché il nostro odio non si è placato, vogliamo tornare a esprimerlo sotto quelle mura.
Il 12 marzo torneremo a farlo davanti al Cie di Ponte Galeria
Appuntamento alle ore 14.00 alla stazione Ostiense per prendere insieme il treno
dalle ore 15.00: tutte e tutti davanti alle mura del Cie di Ponte Galeria
fermata “Nuova Fiera di Roma” del trenino Roma-Fiumicino
PER UN MONDO SENZA GABBIE, NÈ FRONTIERE
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A Pedro, Pietro Maria Greco, ucciso dallo Stato
– Pietro Maria Walter Greco nasce a Mileto Porto (RC) il 4 marzo 1947
– si trasferisce in Veneto alla fine degli anni sessanta
– nel ’79 si trasferisce a Padova e si iscrive a statistica, dove si laurea
– lavora come insegnante di matematica in una scuola media di Padova
– viene inquisito e prosciolto per i Collettivi Politici Veneti nell’inchiesta contro l’autonomia veneta nella primavera ’80
– nel 1982 viene nuovamente inquisito
– va in esilio a Parigi
– viene ucciso dalla polizia a Trieste il 9 marzo 1985
[Pedro esce di casa, dall’appartamento al terzo piano; una volta giù decide di rientrare.
Appostati all’esterno ci sono 4 sicari dello Stato italiano. Sono Nunzio Maurizio Romano, agente del Sisde (che ha il compito di riconoscerlo); Giuseppe Guidi, viceispettore della Digos; Maurizio Bensa e Mario Passanisi, agenti della Digos di Trieste. Il Romano, il Guidi e il Passanisi entrano nello stabile e si mettono in agguato nel sottoscala.
Quando Pedro discende le scale il Romano gli si para davanti e spara due colpi calibro 38 a meno di mezzo metro di distanza che lo colpiscono ai polmoni. Immediato il fuoco incrociato degli altri due poliziotti killer che colpiscono Pedro con pallottole calibro 9 alla spalla e alla gamba. Nel piccolo atrio si conteranno successivamente i segni di almeno una dozzina di colpi.
Pedro fa appello per l’ultima volta alla sua straordinaria forza di volontà, uscendo in strada e impedendo così che tutto si svolga senza testimoni. Esce, ferito mortalmente, parecchi passanti lo sentono gridare “mi vogliono ammazzare mi vogliono ammazzare”. Il Bensa, rimasto all’esterno dello stabile, appena vede Pedro gli spara, alle spalle. Pedro si accascia sanguinante dopo pochi metri. Il Passanisi lo ammanetta.
Trasportato in ospedale con notevole ritardo, muore verso le 11.50] *non è tratta dal libro
Documenti prodotti da organizzazioni armate per la persone o per l’evento in cui ha incontrato la morte
– Franco Fortini, “A Mino Martinazzoli”, in Lettere da Lontano, L’Espresso 16 novembre 1986
“L’assoluzione -tale è la sentenza di Trieste- di chi ha ucciso Greco non è sorprendente; né l’indifferenza dei partiti politici, da quelli che difendono “la vita” a quelli non contrari al terrorismo in uniforme (tornava in Francia, emigrato politico; agenti in borghese vanno a prelevarlo; fugge, sparano, lo ammazzano. “Sembrava avere un’arma” dicono. Era disarmato. Due condanne a 8 mesi, condizionale e non iscrizione). Quando leggo di sentenze come quelle non penso ai criteri dei giudici ( lei, ex ministro di giustizia ne sa più di me). Prima di tutto perché dei fatti so solo quel che se ne lesse.
E poi perché ho paura e sto molto attento a non violare il Codice penale. (Quello della calunnia, non ho più l’età per temerlo).
Purtroppo o fortunatamente è vero però che i responsabili dei quali mi interesso – e dunque non delle uccisioni né della sentenza ma del loro significato – non sono coloro che hanno sparato né coloro che 2ne hanno benedette le mani con un sorriso”, come tanti anni fa ebbi a scrivere per l’uccisione di Serantini; sono i politici e i loro portavoce ossia i giornalisti e gli operatori della comunicazione che quei significati conferiscono o lasciano conferire. Lei, caro Martinazzoli, è di buone letture. Mi permetta di rammentarle due versi di Baudelaire. Il “tu” invocato è Satana ma, per un cristiano, potrebbe essere il Sommo Bene: “Tu che al proscritto dai lo sguardo calmo e nobile / che intorno a un patibolo danna un popolo intero”.
Non so se l’ucciso fosse colpevole alcunché; proscritto senza dubbia, se tornava da una sua emigrazione politica. Condannato a morte da alcuni specialisti fra dipendenti di due o tre ministri con i quali, fino a poco tempo fa, lei sedeva per il bene della Repubblica, Greco non era su un palco in attesa della lama o della corda.
Non aveva “le regarde calm et haut”. Gridava: “mi vogliono ammazzare, aiuto!”
Ma il popolo intero che la sua morte condanna e danna, quello sì, c’era. Mi basta scendere per la via per incontrarlo. E’ il nostro popolo, la gente che amiamo e stimiamo apparentemente inseparabile da quella che, forse insieme ai più, detesto, e , debbo pur dirlo, odio e vorrei veder ridotta non alla ragione (che è impossibile ormai) né al pentimento (che non è in mio potere) ma all’impotenza almeno. E’ il popolo che ascolta distratto o ignora cronache come quella di Trieste; e si danna così.
Non credo alla giustizia della storia, che è di invendicati. Né che l’accumulo di sopraffazioni, latrocini, corruttele, oppressioni dei deboli e beffe della giustizia, debba finire, prima o poi, col muovere le pietre e la gente. Tutt’altro. Chi non guarda più i telegiornali, se proprio non si trova sulla traiettoria dei proiettili della Digos, avrà altre cose cui pensare invece della intenzionale o preterintenzionale trasformazione, grazie a quei piombi, di un giovanotto in un fantoccio da obitorio.
Oggi, voglio dire, Nemesi sceglie vie invisibili, come nelle viscere del fall-out atomico. Il giusto ne è punito quanto il peccatore, a riprova che in ognuno dei due c’è una quota dell’altro. Lentamente, giorno dopo giorno, una impercettibile diminuzione dell’ossigeno morale annichilisce cellule, rabbercia circuiti vivari e precari. Come certe specie di anfibi adatti alle spelonche, che hanno ancora occhi ma senza uso o bisogno di vista, così intere generazioni possono convivere con una crescita di tossico storico negli alveoli. 
E’ quel che chiamiamo decadenza; di popolo o di continente: solo vera punizione attribuibile al Tribunale della Storia di cui parlò Hegel. Grazie a quest’ultimo, non dimentico che essa va di pari passo col suo contrario. Scopro, pieno di ammirazione, prove di vitalità, qualità, coraggio, severità di cui questa nazione è ricca e capace; e poi, quando tali forze positive siano, come oggi, offese e sprezzate, se ne cerchi allora al di là dei confini la amicizia vittoriosa… La “denuncia” di quella cosa che non oso neanche definire, dico la sentenza di Trieste, mi parrebbe stolta eloquenza senza seguito di azioni, foss’anche minime, com’è di scriverle questa lettera. Perché leri, caro Martinazzoli, ha poteri che io non ho. Mi creda, con ogni rispetto, suo Franco Fortini”.
(…) Cosa dire di un compagno per noi indispensabile?
Pedro lo ricordiamo sempre accanto a noi dalle lotte degli universitari, a partire dal ’68, alle lotte in mensa come lavoratore dell’Opera, a quelle dei precari della scuola. Per questo, per la sua internità alle istituzioni di movimento, a quelle stesse lotte che ci hanno unito e che tuttora ci uniscono, Pedro ha subito varie inquisizioni da parte di Kaloegero (inquisizioni suffragate solo dalle parole dei pentiti, puntualmente crollate).
Ancora una volta in prima fila, al primo posto, pronto a pagare di persona, duramente, con ulteriori anni di latitanza, sospensione dal lavoro, riduzione del proprio reddito strappato con le unghie a questa società di merda, per creare migliore qualità della vita.
Pedro, 38 anni, Pedro accanto ai giovani del centro sociale “Nuvola rossa”, accanto a quella che era la sua classe di appartenenza, quella degli sfruttati, dei senza-casa, dei senza reddito, di chi non si lascia sconfiggere, di chi continua comunque a lottare.
Lo ricordiamo durante le lotte del censimento con noi proletari disoccupati, con noi per la solidarietà, per internità, perché Pedro era così. E così lo vogliamo vivere, nelle nostre lotte, non come un ricordo ma come una presenza sempre viva, in mezzo a noi, indispensabile fino in fondo, ricordando anche il suo sforzo estremo.
Ci piace immaginarlo così: che corre fuori dall’atrio di quel condominio-tomba di via Giulia a denunciare con voce forte, ancora una volta, purtroppo l’ultima per lui, che lo Stato uccide ma che questa volta non sarà possibile mistificare, non sarà possibile creare la montatura, il “mostro” (…)
Grazie compagno Pedro per quello che ci hai saputo dare, grazie compagno per la forza che ancora ci tiene vivi, incazzati e mai arresi, insieme a te e adesso anche per te.
A pugno chiuso compagno nostro, col sangue agli occhi, tu ci mancherai molto perchè tu sei per noi tutti uno degli indispensabili”.
-Claudio Latino, carcere Due Palazzi, 13 marzo 1985
“Parlare di Pedro, della sua vita, della sua figura di compagno a questo punto è struggente. Molti lo hanno conosciuto e ancora di più ne avranno sentito parlare. Senza retorica si può dire che pochi hanno la sua capacità di comunicare e socializzare, la sua carica e la sua determinazione, la sua intelligenza e la sua coerenza”.
Tratto da “Sguardi Ritrovati”, vol. 2 del Progetto Memoria. Edizione Sensibili alle Foglie
Qui le altre pagine di ricordo ai compagni…
Rispunta il dossier Verbano!
Liberazione descrive le carte di Verbano riapparse da un archivio dei carabinieri. Si tratta di una parte del materiale sequestrato nell’abitazione di Valerio il 20 aprile di 31 anni fa. Prima scomparso dall’ufficio corpi di reato del tribunale di Roma, poi ritrasmesso in copia fotostatica dalla digos al giudice che indagava sul suo omicidio, infine definitivamente inviato al macero nel 1987. Quasi 400 pagine, tra cui l’agenda rossa del 1977 e la rubrica con i nomi dei militanti neofascisti. Il legale di Carla Verbano invoca trasparenza e chiede copia del dossier alla procura
di Giorgio Ferri e Nicola Macò , Liberazione 8 marzo 2011
Ci sono i voti del semestre appena concluso, l’orario delle lezioni, il testo della canzone di De André, Il bombarolo, e poi in stampatello sul frontespizio: «Portare l’attacco al cuore dello Stato», con una falce e martello e un mitra sovrapposti e sotto la sigla Ccr, collettivo comunista rivoluzionario quarta zona, composto dagli studenti del liceo scientifico Archimede. E’ la copia fotostatica dell’agenda rossa 1977, edita dalla Savelli, appartenente a Valerio Verbano, allora studente appena sedicenne, riemersa da un buio lungo 31 anni. Ai lati dei fogli la firma di Rina Zapelli, nome da ragazza di Carla Verbano, madre di Valerio, apposta al momento del sequestro la sera del 20 aprile 1979.
L’inchiesta sui fascisti
Tra le pagine che abbiamo potuto consultare, poco meno della metà dei 379 fogli che sembrano comporre quanto resta del “dossier Verbano”, ci sono anche 41 fogli di una rubrica nei quali sono riportati circa 900 nomi di attivisti di estrema destra corredati da indirizzi e in alcuni casi con numero di telefono. Redatti tutti con la grafia di Verbano. Altri 16 fogli, trascritti da più mani, riportano appunti, minute di schede, appartenenza politica, piantine e altre informazioni, come alcuni luoghi di ritrovo dell’estrema destra. Carla Verbano vi ha già riconosciuto quella di un amico di Valerio deceduto nel frattempo. Un accurato lavoro di mappatura delle diverse realtà del neofascismo romano dove lucide intuizioni e scoperte anzitempo si sommano anche ad imprecisioni e approssimazioni notevoli. Alcune schede collimano solo in parte con quelle riportate nel recente libro di Valerio Lazzaretti, Valerio Verbano, ucciso da chi, come e perché, Odradek 2011. Questa circostanza conferma quanto ricordato nei giorni scorsi da Carla Verbano sulla esistenza di più versioni del dossier, «realizzato da Valerio insieme ad altri sei o sette amici». La riprova sta proprio nel libro di Lazzaretti che riporta uno schedario con circa 1200 nomi aggiornato ad un periodo successivo alla morte di Verbano. Nel dossier “riapparso” in una scheda numerata “002” si legge che Pierluigi Bragaglia, ex militante del Fdg divenuto «gregario delle strutture collaterali dei Nar», ha 18 anni, mentre nel documento citato da Lazzaretti gli anni salgono a 20 e il testo della scheda, seppure quasi identico, vede l’ordine delle frasi spostato a conferma del fatto che le informazioni salienti contenute nel “dossier” erano patrimonio di un’area più larga che le ha conservate ed aggiornate nel tempo.
E’ azzardato trarre delle conclusioni sulla base di una visione troppo parziale della carte riemerse – secondo quanto sostenuto dal Corriere della sera – da un archivio dei carabinieri a cui la procura ha recentemente attribuito la delega per le nuove indagini sull’omicidio. L’avvocato Flavio Rossi Albertini, legale di Carla Verbano, si è già rivolto ai pm per avere copia del “dossier”. Le carte di Verbano rivestono ormai una valenza storica ancor prima che giudiziaria. Il buco nero che per lunghi decenni ha inghiottito le sue agende, rubriche e foto, consigliano oggi un dovere di trasparenza assoluta, tanto più che eventuali sviluppi dell’inchiesta si attendono dall’esame tecnico di altri reperti.

Gli elenchi distrutti
Quello che si legge nel verbale di sequestro del materiale trovato dalla digos nella stanza di Valerio Verbano è un lungo elenco: l’agenda rossa che fu il suo diario personale nel 1977, quaderni, decine di fogli sparsi, fotocopie, ritagli di giornali, fotografie e una pistola. In tutto, ben diciotto schedari pieni di documenti e altri sei di foto. Dopo il sequestro, cominciano le ‘stranezze’. Tutto il materiale – spiega Marco Capoccetti Boccia nel suo, Valerio Verbano, una ferita ancora aperta, Castelvecchi 2011 – sarà tenuto in custodia dalla digos per una settimana prima di essere consegnato all’ufficio corpi di reato del tribunale di Roma per essere repertato e messo a disposizione del fascicolo processuale «Verbano + 4». Pochi giorni dopo la morte di Valerio i legali della famiglia ne chiedono la restituzione. Si scopre così che l’originale del cosiddetto “dossier” non è più al suo posto; è praticamente sparito. Il 27 febbraio 1980 il giudice istruttore Claudio D’Angelo, che si occupa dell’omicidio di Valerio, constatata la scomparsa del dossier dall’ufficio corpi di reato riceve dalla digos una «copia fotostatica della documentazione sequestrata nell’abitazione di Verbano Valerio». Se ne evince che si tratta ancora di una copia integrale ma Carla Verbano, che all’epoca poté visionare le carte, sostiene che il materiale inviato dalla digos era «dimezzato» rispetto all’originale. Nell’ottobre 1980, il giudice istruttore nega alla famiglia la restituzione delle carte sequestrate, ormai presenti solo in copia, perché ancora sottoposte a segreto istruttorio. Quattro anni dopo, l’11 aprile 1984, la corte d’appello che aveva giudicato Valerio ordina la distruzione dei reperti, comprese le carte e le foto, nonostante queste fossero state nuovamente repertate nell’inchiesta aperta per il suo omicidio. In realtà, come documenta Capoccetti, l’effettiva distruzione della copia fotostatica inviata dalla digos avverrà solo il 7 luglio 1987. Da quel momento non c’è più traccia del dossier negli atti giudiziari. Per ritrovarne copia Capoccetti ha scritto anche alla digos, ricevendo lo scorso luglio un’evasiva risposta che tra le righe non smentisce affatto l’attuale possesso di copia del «materiale oggetto di sequestro». Documentazione che all’improvviso è riapparsa in mano ai carabinieri dopo la recente riapertura dell’inchiesta. Si è detto anche che il dossier sarebbe passato nelle mani del giudice Amato, ucciso mentre conduceva un’inchiesta contro Nar e Terza posizione, ma sempre secondo quanto accertato da Capoccetti non c’è alcuna traccia di protocollo che ne dia conferma. Questo trasmigrare, sparire e ricomparire, dimagrire, per infine esser distrutto e poi riapparire in copia fotostatica dove nessuno se lo aspetta, è senza dubbio una delle circostanze più sconcertanti di tutta la vicenda.
L’agenda rossa del 1977
Siamo entrati nelle pagine del diario di Valerio del 1977 con un sentimento di pudore. Ci sembrava di violare la sua intimità, i suoi segreti, quelli di un adolescente cresciuto in fretta. In quegli anni si diventava adulti presto travolti dalla forza di una corrente che insegnava come fosse possibile cambiare il mondo. Valerio surfava veloce su quell’onda di rivolta che non conosceva rassegnazione. Il suo era un coinvolgimento totale: almeno quattro riunioni politiche a settimana, tra collettivi, comitato e assemblee, non solo all’Archimede ma anche all’università. Annotava le manifestazioni e gli scontri del periodo, le ricorrenze, l’uccisione dei militanti di sinistra, da Francesco Lorusso ad Antonio Lo Muscio e Walter Rossi, insieme ai compiti in classe, i pomeriggi al muretto con gli amici, gli incontri con le ragazze e anche un «abbiamo giocato a nascondino» che fa sorridere. Tanti gli slogan, roventi come la temperatura al suolo dell’epoca, ma anche una battuta del tipo: «Atac: associazione telline aspiranti cozze». Meglio non prendersi troppo sul serio. Il 4 marzo annota: «Mancia ripassa a scuola».
Angelo Mancia, conosciuto come Manciokan, fattorino del Secolo d’Italia, era un noto picchiatore del quartiere. Venne ucciso per rappresaglia dalla Volante rossa poche settimane dopo la morte di Valerio, anche se con il suo assassinio non c’entrava nulla. Il 12 marzo sono appuntati gli scontri durante la manifestazione nazionale per l’uccisione da parte di un carabiniere di Francesco Lorusso e, qualche giorno dopo, il 15, la discussione nel collettivo «sui fatti di sabato e le baiaffe». Facevano discutere le pistole apparse durante il corteo e l’armeria presa d’assalto il sabato precedente. Il 22 settembre Valerio annota la partenza per Bologna dove partecipa, fino al 25, al convegno nazionale contro la repressione. Dormirà a casa di una zia accompagnato dalla madre, ci racconta Capoccetti. Il 15 novembre si legge «Vado all’Archimede, vengo aggredito». Quasi un presagio.
Tunisia: sciolta la polizia politica
Era una delle richieste da sempre e subito avanzata dal Fronte 14 gennaio, quello che dal primo giorno ha guidato -autorganizzandosi- le proteste tunisine che hanno portato alla caduta del regime di Ben Ali: sciogliere la polizia politica, che per anni ha abusato del suo potere tenendo sotto scacco tutti i militanti e gli attivisti del paese. Sciolta. Non esiste più.
Il premier del governo provvisorio instaurato in attesa delle elezioni previste per il 24 luglio prossimo, Beji Caied Essebsi ha fatto pronunciare al suo ministro dell’Interno un discorso più che chiaro che annuncia alcune misure che mirano alla “rottura definitiva con ogni forma di organizzazione simile alla polizia politica, sia a livello di struttura che di mandati e prassi.” Allo stesso modo è stato eliminata la direzione della sicurezza di Stato (!) e l’impegno del nuovo ministero è di rispettare la libertà e i diritti civili. «Queste misure – continua il comunicato del ministero dell’interno tunisino – sono in simbiosi con i valori della rivoluzione, nella preoccupazione di rispettare la legge, nel testo e nella pratica, e in ossequio al clima di fiducia e di trasparenza nei rapporti fra i servizi di sicurezza e il cittadino». Le misure – conclude la nota – «si iscrivono nella volontà di proseguire nell’azione già imbastita per contribuire alla realizzazione dei valori della democrazia, della dignità e della libertà».
Le emissione dell’Ilva di Taranto
E’ dalle immagini riprese dal noto ambientalista Fabio Matacchiera che abbiamo la conferma definitiva di quel che causa l’impianto industriale dell’Ilva di Taranto. Dalle pagine de Il Mattino la notizia ha avuto eco, ma il video su youtube era stato già lanciato da decine di utenti su facebook e i social network più usati. Il Gruppo Riva oltretutto, ha querelato Matacchiera per le parole usate durante le immagini (solo pochi mesi fa aveva pubblicato un altro video simile), ma lui non si dice preoccupato, visto la quantità di materiale raccolto sulla nocività delle polveri e dei fumi dell’Ilva.
«Sempre più operai mi riferiscono di storie vissute all’interno della fabbrica che riguardano problemi ambientali. Loro hanno a cuore il proprio lavoro, ma sentono un certo disagio e lo trasmettono. Perché hanno una forte sensibilità, ma è difficile ascoltare la loro voce. Ho ricevuto alcune segnalazioni dai lavoratori. Nella notte tra il 3 e il 4 marzo – spiega – è stato riattivata la linea “D” dell’agglomerato che sarebbe stata ferma alcuni giorni per manutenzione. Alle 23,30 mi sono appostato e grazie alla tecnologia ad infrarossi, con una speciale telecamera di tipologia militare, abbiamo ripreso l’a re a dall’esterno. Puntavamo a dimostrare che gli impianti di abbattimento fumi dell’Ilva di Taranto non sarebbero sufficienti a contenere le emissioni, specie durante la notte. Le segnalazioni arrivano. Gli operai, ripeto, vogliono difendere l’ambiente e la loro salute».
Il bello è che solo dieci giorni fa s’è riunito un tavolo tecnico presso il ministero dell’Ambiente proprio puntato alla sperimentazione e alla realizzazione di impianti capaci di ridurre drasticamente le emissioni di diossine dall’acciaieria di Taranto: soprattutto la garanzia di controlli continui.
Abbiamo visto
L’Egitto e le frustrazioni della stampa israeliana
Le frustrazioni accumulate dalla stampa israeliana in questi giorni sono innumerevoli e divertenti: l’editoriale uscito questa mattina su Hareetz, quotidiano di Tel Aviv a firma di Amira Hass è emblematico a riguardo e lo si legge con una certa “simpatia”.
Stiamo parlando di Amira Hass poi, residente a Ramallah da molti anni, inviata israeliana nei territori occupati che più di una volta -se non sempre- ha mosso penna contro l’esercito dalla stella di Davide, quello del suo paese. Ora Amira scrive, o tenta di farlo, dalle strade de Il Cairo protagoniste di una rivolta che ha accolto tutti i media internazionali, ma non lei a quanto pare.
Le risposte che riferisce nel suo editoriale sono emblematiche del rapporto che c’è tra il giovane popolo rivoluzionario di piazza Tahrir e l’ “entità sionista”, in qualunque forma si presenti: c’è chi ha rifiutato l’incontro a prescindere, ci racconta la giornalista, perchè incontrare un cittadino dello stato di Israele avrebbe significato riconoscerne l’esistenza, di quello Stato.
Ci racconta sconcertata della sua faticosa ricerca di un interlocutore e ci tiene a specificare che non sono stati gli appartenenti ai Fratelli Musulmani a rifiutare gli incontri, ma esponenti di diverse organizzazioni anche appena nate, che spesso rimanevano anche sorpresi della richiesta di un incontro [“scusi signora, niente di personale ma non tengo rapporti con l’entità sionista”].
Tra questi anche esponenti delle organizzazioni di lavoratori che hanno scioperato nei giorni della rivolta e non stanno smettendo di farlo.
Amira, con tutto l’infinito rispetto per il tuo lavoro…ma che t’aspettavi??
Dibattito pubblico: Libertà per tutti e tutte, con o senza documenti
R.A.P. gruppo inchiesta, Radio OndaRossa, Rete no-Cie e occupanti di Casale de Merode
invitano tutte e tutti coloro che vogliono un mondo senza gabbie né frontiere
a partecipare a un dibattito pubblico sui Cie
DOMENICA 6 MARZO 2011
all’occupazione abitativa di via del Casale de Merode, 8 (Tormarancia)
– dalle ore 17.00:
dibattito pubblico: libertà per tutte e tutti! con o senza documenti!
per scambiarci informazioni ed esperienze sulle lotte contro i Cie e le deportazioni forzate,
sulle strategie di resistenza e sulle forme di autorganizzazione
mostre fotografiche sui Cie e sulle insurrezioni in corso nel Maghreb, materiali informativi, Nella tua città c’è un lager (bollettino bisettimanale sulle vicende che si susseguono nei cie), Scarceranda (l’agenda di Radio OndaRossa contro ogni carcere, giorno dopo giorno)
– a seguire:
cena con tutti i sapori del mondo
il ricavato della cena servirà ad acquistare delle radioline portatili da consegnare alle recluse e ai reclusi durante il prossimo presidio solidale del 12 marzo davanti al Cie di Ponte Galeria perchè ascoltare una radio è un modo per mantenere un contatto con l’esterno
PORTA UNA RADIOLINA A PONTE GALERIA!
contribuisci anche tu a rompere il muro del silenzio e dell’isolamento!
>> VERSO IL 12 MARZO <<
per un mondo senza gabbie né frontiere! chiudere tutti i Cie!
>> ASCOLTA LO SPOT DELLE DUE INIZIATIVE <<
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Commissione internazionale di inchiesta sulla morte di Ulrike Meinhof: 3° parte
Questo blog ha dedicato spesso dello spazio ad Ulrike Meinhof e alla storia della RAF.
Da secoli dovevo proseguire con il rendere fruibile alla rete, le altre parti del Rapporto della Commissione internazionale di Inchiesta sulla morte di Ulrike Meinhof, così maledettamente identica a quella dei suoi compagni.
Vi lascio i link delle precedenti pagine, comunicandovi che proseguiremo con l’analisi degli accessi al piano delle celle e dei reparti presenti nell’Istituto di pena in quella nottata…
PRIMA PARTE COMMISSIONE INCHIESTA con riferimento alle condizioni di detenzione
SECONDA PARTE COMMISSIONE INCHIESTA e perizie mediche
Inchiesta criminologica
Le perizie mediche, conseguenti all’autopsia del corpo di Ulrike Meinhof, dimostrano che gli elementi a disposizione assolutamente non provano -come pretende la tesi ufficiale- che si tratti di un suicidio per tipica impiccagione. L’ipotesi del suicidio, al contrario, rivela contraddizioni insolubili che si ripetono anche nell’inchiesta criminologica e che il governo e la giustizia, da parte loro, non sono evidentemente in grado di spiegare.
Proprio queste contraddizioni rafforzano il sospetto dell’intervento di terzi.
Oltre alle contraddizioni riscontrate dal dott. Meyer nei suoi accertamenti e confermate dai detenuti di Stammheim (posizione del cadavere, genere dell’oggetto servito allo strangolamento etc..), debbono essere inclusi nell’inchiesta i seguenti dati:
A. L’ASCIUGAMANO E L’OGGETTO TAGLIENTE
La striscia ritagliata da un asciugamano, adoperato per lo strangolamento, non poteva essere fissata alla rete della finestra senza un adeguato strumento ausiliare. “La rete metallica ha quadrati di mm 9×9: senza uno strumento adeguato -una piccola pinza, ad esempio- è impossibile far passare una striscia tale nella maglia della rete e reintrodurla in un’altra maglia tirandola verso l’interno. Una pinza del genere non è stata trovata. Ogni altro mezzo (cucchiaio, forchetta…) è inutilizzabile per una simile operazione poiché le maglie sono troppo piccole” ( dichiarazione dei detenuti di Stammheim) […]
B. SEDIA / MATERASSO
Per quanto riguarda la posizione del corpo, esistono versioni che si escludono reciprocamente.
- Scheritmuller (funzionario della prigione): “Non c’era sgabello. Non ho visto sedie”

- Henck (medico della prigione) : “I piedi erano a 20 cm dal suolo”
- I funzionari di polizia non citano mai sedia o materasso
- La sedia appare per la prima volta in Rauschke, nel suo rapporto di medicina legale e nel rapporto della polizia criminale. Rauschke parla di un materasso; la polizia criminale di un materasso e parecchie coperte. Nel rapporto destinato a Jansenn, Rauschke non parla del materasso; in tal modo Jansenn è costretto a partire da indicazioni inesatte
- “Una sedia posta su una base così instabile si sarebbe immediatamente rovesciata per gli sgambettamenti – di cui si è parlato- che sarebbero stati così forti da provocare le ferite, numerose e profonde, che sono state accertate alle gambe” (dichiarazione dei prigionieri)
C. COPERTA
“Ulrike Meinhof ha sempre dormito con una coperta di pelo di cammello che portava, ricamato, il nome di Andreas Baader. Questa coperta mancava al momento in cui furono consegnati gli effetti personali all’esecutore testamentario. La coperta era ancora nel carcere poco tempo prima. Non è citata nella lista di oggetti presi in consegna dai funzionari della Sicurezza di Stato. Dal registro dell’Istituto di pena risulta che la coperta è stata registrata e quando. Una coperta non poteva lasciare la prigione” [documenti dell’IVK]
D. LAMPADINA ELETTRICA
“Ho aperto ieri sera, alle 22, secondo il regolamento vigente nell’istituto di pena di Stammheim, la cella della signora Ensslin e quella della signora Meinhof, per farmi consegnare, come ogni sera, i tubi al neon e le lampadine elettriche delle celle”. Ecco quanto dichiarava una guardiana ausiliaria, la signora Frede, nel corso del primo interrogatorio della polizia criminale il 9 maggio 1976.
Tuttavia, nel corso dell’inventario ufficiale, il 10 maggio, una lampadina elettrica che recava impronte digitali e che si trovava nella lampada da scrittoio è stata requisita e inviata all’istituto tecnico di criminologia dell’Ufficio federale della polizia criminale. L’istituto rende noti i risultati della perizia dattiloscopica: “Le tracce dattiloscopiche che si trovavano sulla parte esterna della lampadina, rese già visibili dalla polvere nera, sono state fotografate, qui, più di una volta. In ogni caso, si tratta di frammenti di impronte digitali che sono inutilizzabili a scopo di identificazione. Il confronto di questi frammenti con le impronte di Ulrike Meinhof, nata a Oldenburg il 7.10.34, non ha permesso di rilevare alcuna somiglianza.
E. VESTITI
Scaturisce dai verbali, come dalle dichiarazioni di Gudrun Ensslin, che Ulrike indossava la sera dell’8 maggio un jeans slavato e una camicetta rossa. Alla scoperta del cadavere, portava un pantalone di velluto nero e una camicetta di cotone grigia a maniche lunghe. Rimangono dunque due interrogativi: 1. Perchè qualcuno che vuole impiccarsi si cambia d’abito? 2. Perchè la polizia criminale e la Procura non hanno chiesto dove si trovavano i vestiti indossati dalla Meinhof la sera dell’8 maggio? [ Jurgen Saupe, settembre ’76]
F. CONTRADDIZIONI NELLE DEPOSIZIONI Di RENATE FREDE
Durante la sua prima deposizione dinanzi alla Polizia criminale, la guardiana ausiliaria Frede dichiara di aver aperto la porta della cella della Meinhof per farsi consegnare le lampadine elettriche. Senza darne spiegazione, la procura l’ascolta una seconda volta l’11 maggio. La Frede dichiara: “Nel corso della mia prima deposizione, ho dichiarato per errore che avevo aperto la porta della cella della Meinhof; non è del tutto esatto. Non ho aperto la porta della cella, ma lo sportello attraverso il quale vengono passati i pasti. In quel momento, anche i funzionari Walz e Egenberger erano presenti. Lo sportello è chiuso da un catenaccio”.
Al C.I.E. di Gradisca ora è vietato fumare

La situazione all'interno del C.I.E. di Gradisca dopo la rivolta dei giorni scorsi (Altre foto su http://fortresseurope.blogspot.com)
La conferma è arrivata direttamente da Federica Seganti, assessore alla Sicurezza del Friuli Venezia Giulia: i reclusi di Gradisca non potranno più fumare. Questo per “evitare nuove rivolte” e non dare più la possibilità ai prigionieri di dar fuoco ai materassi. Stanno fuori di testa.
Evitare nuove rivolte togliendo anche la possibilità di fumarsi una sigaretta?
DA MACERIE:
Dopo la rivolta dell’altra sera, i reclusi dell’area bianca di corso Brunelleschi a Torino sono entrati in sciopero della fame. Tutto ieri non hanno mangiato, e per protesta hanno messo le coperte e i materassi fuori dalle stanze. Anche oggi si sono rifiutati di toccare cibo. A loro si sono aggiunti anche i reclusi di un’altra sezione del Centro. Secondo i calcoli che provengono da dentro, ad attuare questa forma di protesta sarebbero una settantina. Dall’altra sera, poi, è sempre più difficile fumarsi una sigaretta dentro al Centro. Già, perché ora i militari di guardia si rifiutano di farli accendere e allora i reclusi sono costretti ad aspettare i crocerossini. Inutile dire quanto nervosismo crei questa ripicca dei militari. Mai quanto a Gradisca dove, dalle voci che arrivano, ai reclusi stipati negli stanzoni è semplicemente vietato fumare.













































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