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Francesco Lorusso, come ogni anno

11 marzo 2011 3 commenti

I famigliari, gli amici e i compagni di Francesco Lorusso la mattina dell’11 marzo, come ogni anno, si ritrovano in via Mascarella, davanti alla lapide che ricorda l’assassinio di Francesco, nell’anniversario della sua uccisione avvenuta l’11 marzo 1977.
L’appuntamento è alle 10,15 in via Mascarella dove saranno deposti fiori e dove ci sarà un momento di ricordo. Alle 11,15 ci si sposterà al monumento di Francesco, al Giardino Francesco Lorusso (entrata da via Berti 2/2).
Si tratta di cerimonie molto informali che, però, nel corso di questi anni sono state fondamentali per trasmettere elementi di memoria storica che in tanti hanno provato a cancellare, senza riuscirci.
Per quelli più giovani che nel ’77 non erano ancora nati o erano piccolisimi mettiamo a disposizione la testimonianza di Gabriele, compagno e amico fraterno di Francesco (era stata pubblicata nel 1997 sul giornale bolognese Zero in condotta), insieme a due piccoli resoconti tratti dal libro “Marzo 77: fatti nostri”.
11 MARZO 1977
Di quel giorno ricordo anche le nuvole e il colore del cielo. Verso mezzogiorno andai in piazza Verdi per pagare la quota necessaria a partecipare alla manifestazione nazionale prevista a Roma per il giorno successivo. C’era un banchetto e una bandiera rossa, si chiacchierava tra pochi, data l’ora.
Da Porta Zamboni giunsero le detonazioni tipiche del lancio di candelotti e il primo pensiero che mi colse fu quello di assistere in diretta ad una vera e propria “invasione di territorio”, dato che fino a quel momento nessuna iniziativa repressiva aveva riguardato la cittadella universitaria.
D’istinto mi coprii il volto con un lembo della bandiera e corsi verso la zona degli scontri, incontro al fumo denso che si allargava.
Qualcuno mi disse che era inutile tentare di avvicinarsi da quella parte e si decise di provare a passare per via Bertoloni.
Mi bastò affacciarmi per capire che non era aria neppure lì: sul muro, all’altezza dei cavi della corrente elettrica, vidi distintamente le scintille prodotte da colpi di arma da fuoco. Già questo fatto costituiva una “prima volta”, un innalzamento del livello di scontro.
Poi non ricordo perché, procedendo verso gli sbocchi successivi, si decise di non risalire via Centotrecento.
Ci trovammo infine in un piccolo gruppo – cinque, sei persone – a procedere per via Mascarella.
Qui, per una ragione che non so spiegare neppure ora (forse per rendermi più utile, forse per l’inesperienza a situazioni del genere essendo sempre stato “esonerato” dalla partecipazione a scontri con la Polizia in ragione del fatto che mi trovavo in regime di buona condotta per due sentenze definitive, forse per una strana forma di coraggio o…. di paura) decisi di fare corsa solitaria e parallela sotto il portico di sinistra.
Correndo, vedevo gli altri procedere verso via Irnerio. Uno di loro, portatosi in mezzo alla strada, tirò un sasso verso un gruppetto di carabinieri ma sbagliò clamorosamente la mira scheggiando il palazzo d’angolo.
Una sciocchezza, se non fosse che, dopo, quel segno diventò la “prova” che qualcuno aveva sparato anche da via Mascarella e alimentò l’assurda insinuazione che Francesco poteva essersi trovato al centro di un tiro incrociato e dunque poteva essere stato colpito dai suoi stessi compagni. Giunto a poco più di dieci metri dallo sbocco su via Irnerio vidi, in prossimità dell’incrocio un camion, del tipo di quelli dell’esercito, ed alcuni carabinieri: tutto sommato pochi, come pochi si era dalla parte di qua.
Poi non vidi più, per effetto di una prospettiva troppo obliqua, ma sentii i rimbombi secchi di otto – nove colpi almeno di arma da fuoco, in rapida successione.
Feci retromarcia immediatamente, così come facevano gli altri, parallelamente a me. Solo che loro portavano, ognuno per un arto, il peso di un corpo senza energia. Ci ricongiungemmo e ci fermammo davanti all’uscita posteriore di un cinema.
Francesco morì lì, tra sguardi sbigottiti, mentre gli rivolgevo parole vane.
Fermammo una macchina per tentare di raggiungere l’ospedale più vicino. Nel frattempo giunse un’ambulanza e caricò il corpo di Francesco, ma le facce degli infermieri non lasciavano speranze.
Andai comunque al S. Orsola per sentirmi dire quello che ormai era già tragicamente palese.
Seppi subito dopo che contro i carabinieri era stata lanciata una molotov, che Francesco aveva avuto il tempo di dire “mi hanno beccato” e di fare con le sue gambe circa dieci metri, fino al punto in cui cadde, dove poi fu posta la lapide.
Seppi anche che ad originare tutto era stato un diverbio e una scaramuccia tra qualche decina di compagni ed esponenti di Comunione e Liberazione riuniti in assemblea. Roba che in altri tempi si sarebbe risolta con due parolacce, qualche spintone e poco più.
Da quel momento fu chiaro ad ognuno che tutto sarebbe stato diverso.
Già nel primo pomeriggio, Piazza Verdi era piena di gente, ma il tono delle voci era sommesso. Si fece una rapida assemblea tra l’odore pungente della benzina: si decise di dirigere il corteo verso la sede della Democrazia Cristiana, l’Ufficio di rappresentanza del Resto del Carlino e la Stazione. Nessuno parlò di vetrine, nessuno fece niente per impedire che andassero distrutte. Certo, era inquietante il rumore dei tonfi dei vetri che andavano in frantumi ai lati del corteo: cascate di ghiaccio attorno a noi, che portavano nell’animo un gelo ben più grande.
Personalmente trovai offensivo che il servizio d’ordine del PCI presidiasse il Sacrario dei Caduti della Resistenza e trovai di gusto discutibile il saccheggio conclusivo del Ristorante “Al Cantunzein”. Ma erano pensieri silenziosi: io non avevo fame.
Il giorno dopo, dal primo pomeriggio cominciarono gli scontri all’università. In mattinata venne rifiutata la parola ad un esponente del Movimento alla manifestazione sindacale: il cerchio di ferro si chiudeva. Per otto ore si resistette: sulle barricate verso sera suonava un pianoforte. Poi qualcuno decise e praticò l’esproprio dell’armeria Grandi: in tutta risposta arrivò una raffica di mitra ad altezza d’uomo. Per me la misura era colma.
Il giorno dopo ci svegliammo coi blindati in città e i tiratori speciali sui tetti. Cominciarono gli arresti di chiunque per strada formasse gruppi superiori a cinque persone e rifiutasse di disperdersi: così finirono dentro decine di tifosi del Bologna, venuti in centro in modo organizzato e circa 260 compagni. La detenzione di limoni era considerata sufficiente a dimostrare una volontà di resistenza. Radio Alice era chiusa. (Gabriele G.)
DOMENICA 13 MARZO: ARRIVANO I CARRARMATI
Domenica, all’alba, circa 3.000 fra carabinieri e poliziotti, con mezzi blindati, diedero inizio all’occupazione della zona universitaria, dove non trovarono assolutamente nessuno; sfondarono, fra l’altro, la porta della sede centrale e devastarono il CPS (Collettivo Politico Studentesco) dove, all’apertura dell’università, erano state trovate scritte fasciste.
Verso le 10, la situazione era apparentemente tranquilla e in Piazza Maggiore c’erano parecchie decine di persone tra studenti e cittadini. A questo punto, la polizia, uscita con tre camions dalla questura, si fermò all’angolo tra Via Rizzoli e Piazza Re Enzo, e cominciò a sparare lacrimogeni e caricare la gente che fuggiva senza capire. Queste cariche continuarono per tutta la mattina senza che fosse accaduto nulla, tranne alcuni slogans gridati dai compagni che si tenevano a distanza.
Poi la polizia si ritirò verso la Questura, mentre tra gli studenti si sparse la voce di un concentramento nel pomeriggio in S. Donato per tenere un’assemblea. Sempre in mattinata ripresero le trasmissioni a Radio Alice, sotto il nome di «Collettivo 12 marzo», ma vennero disturbate da qualcuno che trasmetteva un fischio sulla stessa frequenza.
Nel pomeriggio si tenne la prevista assemblea dove si decide di mandare una delegazione in Comune e alla Camera del Lavoro per chiedere le dimissioni del rettore e la smilitarizzazione della città.
In serata la polizia continuò a mantenere il clima di tensione sparando lacrimogeni contro chiunque si riunisse, anche in gruppi di 5 o 6 persone, nella zona del centro.
Nel pomeriggio intanto era stata chiusa Radio «Collettivo 12 marzo»; veniva tolta la luce a mezzo quartiere, poi, quando la radio riprese a trasmettere con delle batterie su una frequenza leggermente allontanata dal fischio, ci fu l’arrivo della polizia, che trovò la porta sbarrata. I compagni, questa volta, avevano fatto in tempo di fuggire. 

LUNEDÌ 14 MARZO: I FUNERALI ALLA CILENA
I funerali del compagno Francesco Lorusso furono stabiliti alle ore 10. L’ordinanza del prefetto che vietava ogni tipo di manifestazione nel centro storico impedì l’allestimento di una camera ardente nel centro della città; il funerale si tenne alla periferia della città, in Piazza della Pace. Per quanto riguarda i partiti: il PCI aderì ufficialmente, il PSI mandò una delegazione. Il sindacato indisse un’ora di sciopero con assemblee in fabbrica, proprio in coincidenza con l’orario del funerale… Gli studenti inviarono delegazioni nelle più grosse fabbriche, per spiegare l’accaduto e richiedere un prolungamento dello sciopero. Nonostante tutto vi fu una forte partecipazione da parte di operai, cittadini e studenti.

DOPO MARZO……
Seguì lo stato d’assedio e il divieto assoluto di manifestazione. Seguì la teoria del “complotto” imbastita dal PCI per estirpare dalla sua città-simbolo il corpo estraneo di un movimento che aveva il difetto di essere nato in contemporanea con la strategia del “compromesso storico” e di risultare indecifrabile e ingombrante per i criteri statici della loro lettura politica.
Nelle assemblee che seguirono si prese atto che quel processo straordinariamente innovativo che permetteva di tenere insieme differenze, devianze, soggetti diversi, in una convivenza certo non sempre idilliaca ma sostanzialmente tollerante, doveva omologarsi all’emergenza, far quadrato per difendere la propria identità senza degenerare.
Solo allora si diedero le condizioni perché qualcuno potesse definirsi con qualche approssimazione leader rappresentativo dell’intero Movimento, ma non si ricorda nessuno a fare gomitate per questo.

Commissione internazionale di inchiesta sulla morte di Ulrike Meinhof: 3° parte

3 marzo 2011 3 commenti

Questo blog ha dedicato spesso dello spazio ad Ulrike Meinhof e alla storia della RAF.
Da secoli dovevo proseguire con il rendere fruibile alla rete, le altre parti del Rapporto della Commissione internazionale di Inchiesta sulla morte di Ulrike Meinhof, così maledettamente identica a quella dei suoi compagni.
Vi lascio i link delle precedenti pagine, comunicandovi che proseguiremo con l’analisi degli accessi al piano delle celle e dei reparti presenti nell’Istituto di pena in quella nottata…
PRIMA PARTE COMMISSIONE INCHIESTA con riferimento alle condizioni di detenzione
SECONDA PARTE COMMISSIONE INCHIESTA e perizie mediche

Inchiesta criminologica

Le perizie mediche, conseguenti all’autopsia del corpo di Ulrike Meinhof, dimostrano che gli elementi a disposizione assolutamente non provano -come pretende la tesi ufficiale- che si tratti di un suicidio per tipica impiccagione. L’ipotesi del suicidio, al contrario, rivela contraddizioni insolubili che si ripetono anche nell’inchiesta criminologica e che il governo e la giustizia, da parte loro, non sono evidentemente in grado di spiegare.
Proprio queste contraddizioni rafforzano il sospetto dell’intervento di terzi.
Oltre alle contraddizioni riscontrate dal dott. Meyer nei suoi accertamenti e confermate dai detenuti di Stammheim (posizione del cadavere, genere dell’oggetto servito allo strangolamento etc..), debbono essere inclusi nell’inchiesta i seguenti dati:

A. L’ASCIUGAMANO E L’OGGETTO TAGLIENTE

La striscia ritagliata da un asciugamano, adoperato per lo strangolamento, non poteva essere fissata alla rete della finestra senza un adeguato strumento ausiliare. “La rete metallica ha quadrati di mm 9×9: senza uno strumento adeguato -una piccola pinza, ad esempio- è impossibile far passare una striscia tale nella maglia della rete e reintrodurla in un’altra maglia tirandola verso l’interno. Una pinza del genere non è stata trovata. Ogni altro mezzo (cucchiaio, forchetta…) è inutilizzabile per una simile operazione poiché le maglie sono troppo piccole” ( dichiarazione dei detenuti di Stammheim)  […]

B. SEDIA / MATERASSO

Per quanto riguarda la posizione del corpo, esistono versioni che si escludono reciprocamente.

  • Scheritmuller (funzionario della prigione): “Non c’era sgabello. Non ho visto sedie”
  • Henck (medico della prigione) : “I piedi erano a 20 cm dal suolo”
  • I funzionari di polizia non citano mai sedia o materasso
  • La sedia appare per la prima volta in Rauschke, nel suo rapporto di medicina legale e nel rapporto della polizia criminale. Rauschke parla di un materasso; la polizia criminale di un materasso e parecchie coperte. Nel rapporto destinato a Jansenn, Rauschke non parla del materasso; in tal modo Jansenn è costretto a partire da indicazioni inesatte
  • “Una sedia posta su una base così instabile si sarebbe immediatamente rovesciata per gli sgambettamenti – di cui si è parlato- che sarebbero stati così forti da provocare le ferite, numerose e profonde, che sono state accertate alle gambe” (dichiarazione dei prigionieri)

C. COPERTA

“Ulrike Meinhof ha sempre dormito con una coperta di pelo di cammello che portava, ricamato, il nome di Andreas Baader. Questa coperta mancava al momento in cui furono consegnati gli effetti personali all’esecutore testamentario. La coperta era ancora nel carcere poco tempo prima. Non è citata nella lista di oggetti presi in consegna dai funzionari della Sicurezza di Stato. Dal registro dell’Istituto di pena risulta che la coperta è stata registrata e quando. Una coperta non poteva lasciare la prigione” [documenti dell’IVK]

D. LAMPADINA ELETTRICA

“Ho aperto ieri sera, alle 22, secondo il regolamento vigente nell’istituto di pena di Stammheim, la cella della signora Ensslin e quella della signora Meinhof, per farmi consegnare, come ogni sera, i tubi al neon e le lampadine elettriche delle celle”. Ecco quanto dichiarava una guardiana ausiliaria, la signora Frede, nel corso del primo interrogatorio della polizia criminale il 9 maggio 1976.
Tuttavia, nel corso dell’inventario ufficiale, il 10 maggio, una lampadina elettrica che recava impronte digitali e che si trovava nella lampada da scrittoio è stata requisita e inviata all’istituto tecnico di criminologia dell’Ufficio federale della polizia criminale. L’istituto rende noti i risultati della perizia dattiloscopica: “Le tracce dattiloscopiche che si trovavano sulla parte esterna della lampadina, rese già visibili dalla polvere nera, sono state fotografate, qui, più di una volta. In ogni caso, si tratta di frammenti di impronte digitali che sono inutilizzabili a scopo di identificazione. Il confronto di questi frammenti con le impronte di Ulrike Meinhof, nata a Oldenburg il 7.10.34, non ha permesso di rilevare alcuna somiglianza.

E. VESTITI

Scaturisce dai verbali, come dalle dichiarazioni di Gudrun Ensslin, che Ulrike indossava la sera dell’8 maggio un jeans slavato e una camicetta rossa. Alla scoperta del cadavere, portava un pantalone di velluto nero e una camicetta di cotone grigia a maniche lunghe. Rimangono dunque due interrogativi: 1. Perchè qualcuno che vuole impiccarsi si cambia d’abito? 2. Perchè la polizia criminale e la Procura non hanno chiesto dove si trovavano i vestiti indossati dalla Meinhof la sera dell’8 maggio? [ Jurgen Saupe, settembre ’76]

F. CONTRADDIZIONI NELLE DEPOSIZIONI Di RENATE FREDE

Durante la sua prima deposizione dinanzi alla Polizia criminale, la guardiana ausiliaria Frede dichiara di aver aperto la porta della cella della Meinhof per farsi consegnare le lampadine elettriche. Senza darne spiegazione, la procura l’ascolta una seconda volta l’11 maggio. La Frede dichiara: “Nel corso della mia prima deposizione, ho dichiarato per errore che avevo aperto la porta della cella della Meinhof; non è del tutto esatto. Non ho aperto la porta della cella, ma lo sportello attraverso il quale vengono passati i pasti. In quel momento, anche i funzionari Walz e Egenberger erano presenti. Lo sportello è chiuso da un catenaccio”.

 

 

    ROBERTO SCIALABBA. “C’hanno insegnato a non farci trovare morti”

    28 febbraio 2011 1 commento

    Sono passati 33 anni dall’assassinio di Roberto Scialabba per mano dei fascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari.
    Ucciso dai fratelli Fioravanti e Franco Anselmi nei giardinetti di Cinecittà, per non aver fatto NULLA.
    Roberto era lì a chiacchierare e fumare tra amici, ma il gruppo di fuoco neofascista, che era andato a Cinecittà con lo scopo di sparare a qualche comunista (girava una voce che gli autori di Acca Larentia fossero di una casa occupata di quella zona; non trovandola spararono a caso contro un gruppo di ragazzi che si trovava sulle panchine).
    Roberto è stato ucciso a freddo, con due colpi alla nuca dopo esser stato ferito.
    I fascisti hanno sparato a casaccio, ma hanno lasciato a terra un compagno vicino all’Autonomia Operaia.
    La sua lapide in Piazza Don Bosco a Roma recita queste parole:
    ROBERTO SCIALABBA
    23 ANNI COMPAGNO RIVOLUZIONARIO ASSASSINATO IN QUESTA PIAZZA IL 28-2-78 DAI FASCISTI SERVI DEL REGIME.
    LA NOSTRA LOTTA NON SI FERMERA I COMPAGNI CADUTI CI HANNO INSEGNATO A NON FARCI TROVARE MORTI
    Roberto era per le strade a lottare contro i padroni e i loro servi,
    Roberto era per le strade per sovvertire questo paese,
    Roberto era uno di noi e vive nelle nostre lotte.

    28 FEBBRAIO 2011, ORE 17.
    PRESIDIO IN PIAZZA DON BOSCO.
    UN FIORE PER ROBERTO SCIALABBA

    Hiroko Nagata, leader dell’Armata Rossa Unita, è morta dopo 29 anni di braccio della morte

    8 febbraio 2011 4 commenti

    Muore in carcere Hiroko Nagata, leader dell’Armata Rossa Unita 40 di detenzione, 29 nel braccio della morte

    Dopo 40 anni di detenzione, di cui 29 nel braccio della morte, distrutta nella mente e nel corpo, è morta sabato notte in carcere, a Tokyo, Hiroko Nagata. Domani avrebbe compiuto 66 anni.

    Negli anni ’70 dopo aver fatto parte del movimento studentesco  fondò assieme a Tsuneo Mori, morto suicida in carcere dopo appena un anno di detenzione, l’Armata Rossa Unita, piccolo ed  efferato gruppo di estrema sinistra che si proponeva di provocare la rivoluzione armata in Giappone. Dopo aver ordinato l’esecuzione di due compagni “traditori”, la Nagata e Mori misero insieme un gruppo di “rivoluzionari” e, finanziandosi con rapine, si diedero alla clandestinità. Nella ricerca di ottenere massima consapevolezza e dedizione alla causa, Mori e la Nagata condussero feroci sedute di autocritica, finendo per provocare, direttamente o indirettamente, la morte di 14 compagni. Vicende che, non senza polemiche, sono state narrate nel controverso film di Koji Wakamatsu, “United REd Army”, presentato a Berlino nel 2008.

    Arrestati nel 1972, furono entrambi condannati a morte. Mori riuscì a suicidarsi in cella dopo appena un anno, evento che provocò da parte delle autorità giapponesi un ulteriore inasprimento delle condizioni di detenzione, già particolaremente pesanti e crudeli, di Hiroko Nagata. Ammalata di cancro, Nagata era stata operata per la prima volta nel 1986, molto in ritardo, e le sue condizioni erano ulteriormente peggiorate nel 2003, quando fu colpito da un ictus. Da allora è rimasta, praticamemte senza cure e senza diritto di visita, fino a ieri.

     

    Oggi si sono svolti,  in forma assolutamente privata, i funerali. Alla cerimonia, svoltasi nel crematorio pubblico di Shinagawa, a Tokyo, erano presenti solo 10 persone, tra i quali il marito, che l’aveva sposata in carcere subito dopo la condanna, e alcuni compagni dell’epoca, tornati  a piede libero dopo oltre 20 anni di reclusione. In Giappone la condanna a morte, una volta passata in giudicato, non può essere commutata, non può essere oggetto di grazia e impone condizioni  di detenzione durissime. E l’esecuzione, che avviene per impiccagione, viene comunicata al detenuto appena poche ore prima. Hiroko Nagata ha aspettato, inutilmente, 29 anni di essere “liberata” dal peso dei delitti di cui si era resa responsabili, senza peraltro mai pentirsene. “Ho provato un senso di profonda tristezza. E di paura. Non mi era mai successo” ci ha detto, visibilmente commosso, Kim Kwanji, uno dei pochi membri dell’Armata Rossa ad aver evitato il carcere. Per 15 anni, periodo dopo il quale scatta la prescrizione, è riuscito a vivere in clandestinità, senza peraltro mai rifugiarsi all’estero, elemento questo che , nella legge giapponese, sospende la prescrizione

    preso da Dal Giappone col furore

    [Isabelle Sommier, nel suo libro La violenza rivoluzionaria. L’esperienza armata in Francia, Germania, Giappone , Italia e Usa parla molto della nascita e delle azioni dei gruppi armati giapponesi e dell’Armata Rossa Unita. E’ chiara ed esplicita nel raccontare il modo in cui “purificavano” la loro organizzazione. Prima del loro primo omicidio politico, ai danni per altro della moglie di un poliziotto, avevano giustiziato due compagni che volevano abbandonare l’organizzazione. Alla fine della loro storia si conteranno 14 militanti “che perdono la vita in circostanze particolarmente infami”.]

     

    I funerali di Franca Salerno

    5 febbraio 2011 15 commenti

    Il mio corpo non aveva mai sostenuto quello di un corpo morto.

    Baruda _I funerali di Franca Salerno_

    Le mie spalle non avevano mai sorretto una bara prima di ieri pomeriggio… e ringrazio tutte di avermi coinvolto inaspettatamente.
    Portare Franca sulla mia spalla è stata una grande emozione,
    il suo peso sulle mie spalle è stato piacevole, il suo peso e quello della sua storia in questo modo sono entrate ancora di più nel mio corpo. Noi donne, a portare il tuo corpo.
    Siamo donne Franca mia, e la rivoluzione -quando decidiamo di farla, che ci sia o no- passa sempre su di noi,  ci lacera la carne, ci entra dentro
    Tu lo sai bene, sorella e compagna, madre e combattente: lo sai bene perchè la tua strada non ha avuto mai pace, mai una passeggiata che non fosse una faticosa salita.
    Perchè il tuo corpo ha sempre pagato, perché hai messo al mondo una meraviglia che c’ha lasciato troppo troppo presto, perché da quando eri poco più di una bimbetta hanno cercato di spezzare il tuo volo e alla fine, comunque, non ci sono mai riusciti del tutto.
    Portava i tuoi occhi quel dolce Antonio che tutti noi abbiamo amato, portava i tuoi occhi, occhi liberi!

    Baruda _I funerali di Franca Salerno_

    Ed ora tu libera lo sei sul serio…ora non ci sarà cemento né sbarre a fermare il tuo cammino e il tuo sguardo. E’ finito il dolore, ora sei libera come quel sorriso che c’hai donato-
    Ora sei evasa sul serio da quella galera, come già aveva fatto il tuo corpo combattente e troppo libero per sottostare alla follia e alla tortura del carcere, del carcere speciale, dell’isolamento.
    Non so come trovare le parole per salutarti, voglio solo dirti che la tua storia è la mia storia.
    Che per me sei TUTTA da ricordare: la Franca della sua adolescenza in fuga, della sua militanza, della scelta delle armi, del carcere, delle evasioni, dei pestaggi sul pancione, dei primi anni di tuo figlio in isolamento con te in un carcere speciale sardo, della sua morte poi dopo che finalmente eravate tornati insieme, e poi la tua malattia e il modo in cui l’hai combattuta.
    Ciao Franca, grazie

    LINK:
    Una vecchia intervista con Franca Salerno
    Ciao Anto’
    L’evasione di Franca Salerno e Maria Pia Vianale
    Ciao Franca, cuore nostro
    La copertina con la stella

    Baruda _ciao Franca, cuore e sangue nostro_

    L’evasione di Franca Salerno e Maria Pia Vianale

    4 febbraio 2011 16 commenti

    Prendo da Infoaut questo racconto dell’evasione di Franca e Maria Pia.
    Proprio oggi, proprio ora, appena rientrata dai funerali di Franca Salerno. Funerali di cui ancora non riesco a scrivere…
    CIAO FRANCA

    I primi mesi del 1977 furono caratterizzati, in tutta Italia, da numerose rivolte all’interno delle carceri e da un consistente numero di evasioni da parte di militanti politici. Tra queste si annovera quella di Franca Salerno e Maria Pia Vianale, militanti dei Nuclei Armati Proletari, avvenuta nella notte tra il 22 e il 23 Gennaio; grazie ad un’azione coordinata tra l’interno e l’esterno dell’edificio, le due militanti riuscirono infatti ad evadere dal carcere femminile di Pozzuoli in cui erano rinchiuse in attesa del processo. Il progetto di fuga comprendeva inizialmente anche la terza compagna di cella delle due Nappiste, Rosaria Sansica, la quale decise però di rinunciare perché aveva ottenuto qualche tempo prima la libertà provvisoria per motivi di salute.

    Oggi, l'ultimo saluto a Franca

    Oggi, l’ultimo saluto a Franca

    In quel periodo l’azione dei NAP era rivolta soprattutto alla liberazione dei militanti arrestati e a far sì che i processi in cui erano coinvolti non potessero aprirsi (obiettivo che veniva perseguito creando difficoltà a formare la giuria popolare e tramite una serie di proclami e ricusazioni volti a vanificare l’intero procedimento processuale), motivo per cui l’evasione fu programmata in concomitanza con il primo processo ai NAP che si stava svolgendo a Napoli, in cui erano imputate anche Franca Salerno e Maria Pia Vianale. Questa linea d’azione venne tra l’altro ribadita nel comunicato diffuso dall’organizzazione subito dopo la fuga dal carcere di Pozzuoli, in cui si legge: “La nostra libertà come è dovere di ogni rivoluzionario ce la riprenderemo da soli evadendo. Dalle carceri dai ghetti dove ci costringe la società borghese usciremo con le nostre forze. L’evasione è un momento della nostra lotta alla repressione di Stato”. Il ciclo di evasioni e rivolte mise in difficoltà le autorità carcerarie che, nel caso di Pozzuoli, licenziarono il Direttore del carcere nel tentativo di ricondurre a una negligenza della direzione quella che in realtà era un’azione politica su scala nazionale che non poteva non destare preoccupazione in chi quotidianamente si affannava a garantire un ordine ormai ampiamente compromesso.

    Ai funerali di Franca Salerno, ex militante dei NAP, mamma del nostro Antonio [Foto Baruda

    Il 24 Gennaio, in sede processuale, la fuga delle due Nappiste venne rivendicata tramite la lettura del seguente comunicato:“Sabato 22 Gennaio, alle ore 4, l’organizzazione comunista combattente NAP ha attaccato il carcere-lager di Pozzuoli. L’azione tendente alla liberazione delle compagne Franca Salerno e Maria Pia Vianale, militanti dell’organizzazione, si è sviluppata con un attacco coordinato interno-esterno ed ha raggiunto in pieno l’obiettivo fissato…il terreno reale dello scontro si sviluppa ora totalmente all’esterno dell’aula…è solo sulla parola d’ordine “portare attacco al cuore dello Stato” che si supera la parzialità delle esperienze di lotta armata e si ricompone l’unità della classe delle sue avanguardie armate nel partito combattente”.
    Il processo si protrasse fino al 16 Febbraio, data nella quale la Corte inflisse 289 anni e 11 mesi di carcere a 22 nappisti (nonostante molti degli imputati si fossero dichiarati non appartenenti all’organizzazione).
    Al dato delle condanne va però affiancato il percepibile clima di sfiducia nei confronti delle istituzioni che permeò l’aula per l’intera istruttoria: l’evasione di Franca Salerno e Maria Pia Vianale, infatti, non aveva certo contribuito a ristabilire la certezza dell’ordine e della legge. Le due militanti, sfuggite alle condanne di Febbraio, furono però nuovamente catturate il 1 Luglio, a Roma, assieme ad Antonio Lo Muscio, che rimase ucciso durante l’arresto in seguito ad una pallottola sparata a bruciapelo dalla polizia che lo raggiunse alla testa mentre si trovava già a terra.

    Il clima di tensione, di “caccia all’uomo” e di violenza gratuita da parte degli agenti che caratterizzò le circostanze del loro arresto (nonché altri episodi) è ben descritto in un’intervista rilasciata da Franca Salerno alcuni anni dopo: “Sì, loro ti cercano, ti pedinano e quando ti catturano ti massacrano di botte. Per quei tempi era normale. Gridavano: “Ammazziamole, facciamole fuori”. Se non ci fosse stata la gente a guardare dalle finestre sarebbe stata un’esecuzione. A Pia hanno sparato perché si era mossa. Ricordo i loro occhi, dentro c’era rabbia e eccitazione; erano fuori di sè perché eravamo donne. Averci prese, per loro, era una vittoria anche dal punto di vista maschile“.

    Una vecchia intervista con Franca Salerno
    Ciao Anto’
    Ciao Franca, cuore nostro
    I funerali di Franca Salerno
    La copertina con la stella

     

    E’ morta Franca Salerno, storica militante dei Nap (via Insorgenze)

    4 febbraio 2011 1 commento

    Importante questo articolo, importante i racconti che ci regala, i piccoli pezzi di vita di Franca che ci fa ascoltare.
    Le parole di Nicola e poi di Sante, il racconto di quell’urlo a Badu e Carros che diceva che il cucciolo della compagna detenuta nel braccio di fronte di quel maledetto carcere stava male…
    insomma, un articolo importante che ci racconta piccoli pezzi di quella piccolissima grande donna che è stata Franca Salerno, militante dei Nap, madre del nostro Antonio.
    Ciao Franca

    E' morta Franca Salerno, storica militante dei Nap Impegnata nelle lotte contro le istituzioni totali. Domani si terrà una cerimonia civile presso il centro socilae Acrobax a Roma dalle 13 alle 16. Paolo Persichetti Liberazione 4 febbraio 2011 Franca Salerno, militante dei Nap durante gli anni 70, sedici anni di carcere duro sulle spalle, un figlio nato in prigione poco dopo l’arresto, si è spenta ieri a Roma dopo aver resistito a lungo contro la malattia. Quel bambino, Antonio, che aveva tenuto … Read More

    via Insorgenze

    Mario Libero, Tutti/e Liber@: Presidio a piazzale Clodio

    19 gennaio 2011 Lascia un commento

    Il 23 dicembre 2010 si è tenuta la prima udienza del processo a Mario e gli altri e le altre compagne arrestati\e durante la rivolta precaria e studentesca di Piazza del Popolo dello scorso 14 dicembre 2010. Il processo è stato rinviato al 24 gennaio per dare la possibilità alla difesa di acquisire ulteriori prove testimoniali , videoregistrazioni e fotografie; al contempo i giudici hanno respinto la libertà provvisoria a Mario, motivando capziosamente la permanenza in Italia – indicando in particolare la giornata di lotta a Palermo e Milano – di un “ clima di tensione sociale”, onde per cui Mario rimane agli arresti intanto fino al 24 gennaio.
    I giudici per fortuna hanno però deciso di respingere l’assurda richiesta avanzata da ALEMAGNO per la costituzione di parte civile del Comune di Roma , in quanto a Mario non è addossata nessuna “lesione dell’arredo urbano”.
    Ai numerosi compagni/e presenti – studenti, lavoratori, amici degli imputati – l’atteggiamento dei giudici non è apparso né sereno, né
    imparziale , costoro sono sembrati partecipi e schierati con il clima fazioso e colpevolista voluto dal governo da subito e all’indomani del 14
    dicembre. All’oggi – dopo una settimana di prove documentali e testimoniali ripetutamente apparse in TV , sui quotidiani e periodici – è ormai noto alla cittadinanza che gli arrestati sono stati rastrellati a caso, con il titolo abusivo e generico del reato di “ resistenza in concorso”.
    Per il resto , è fallito anche il tentativo di dividere i manifestanti in “ buoni e cattivi” sia per la compattezza del movimento , sia per la
    consapevolezza di larga parte della società di riconoscere alla protesta e alla condizione diffusa della precarietà motivazioni valide e concrete, che vanno ascoltate e avviate a soluzione, piuttosto che ignorate e/o represse.
    L’accanimento giudiziario non ha ragion d’essere, men che mai l’assunzione sussidiata della politica: il trasformarsi in arbitri del conflitto non compete alla magistratura , tantomeno far pendere l’ago della bilancia dalla parte dei forcaioli, trasformando in capri espiatori gli arrestati del movimento solo per soddisfare i propositi di vendetta di una classe politica inadempiente e corrotte.
    Tenere ulteriormente agli arresti domiciliari Mario è un abuso, una iniqua punizione, una pena affligente ancor prima della sentenza: è l’ennesima l’amara constazione di quanto dispotismo alberghi ancora nelle istituzioni, soprattutto tra coloro che dimentichi del dettato
    costituzionale e della dichiarazione dei diritti dell’uomo, abusano del codice penale per perseguitare il conflitto e i suoi protagonisti.
    Vogliamo Mario libero ! Vogliamo che il Movimento tutto si schieri a sua difesa e non solo le poche decine di compagne e compagni presenti ai precedenti presidi svolti a piazzale Clodio.
    Mario è uno di noi, lo rivendichiamo come un nostro compagno e non può e non deve pagare per tutte e tutti: a Piazza del Popolo eravamo in decine di migliaia a difenderci dalla violenza delle Forze del Disordine !

    PER L’AUTORGANIZZAZIONE SOCIALE
    PER L’AUTOGESTIONE DELLE LOTTE

    LUNEDI 24 GENNAIO ORE 9.30
    PRESIDIO A PIAZZALE CLODIO

    CSOA “MACCHIA ROSSA” MAGLIANA

    A questo LINK una corrispondenza di questa mattina dai microfoni di Radio Onda Rossa

    Mario Miliucci rimane agli arresti: processo rinviato al 24 gennaio

    23 dicembre 2010 Lascia un commento

    Mario Miliucci rimane agli arresti, il processo è rinviato al 24 gennaio

    Nel primo pomeriggio di oggi si è conclusa l’udienza per 13 dei 43 compagni/e rastrellati il 14 dicembre , tutte/i erano a piede libero  tranne Mario Miliucci agli arresti domiciliari.
    Il processo è stato rinviato al 24 gennaio per dare la possibilità alla difesa di acquisire ulteriori prove testimoniali , videoregistrazioni e fotografie; al contempo i giudici hanno respinto la libertà provvisoria a Mario , motivando capziosamente la permanenza in Italia – indicando in particolare la giornata di ieri a Palermo e Milano – di un “ clima di tensione sociale”, onde per cui Mario rimane agli arresti intanto  fino al 24 gennaio.
    I giudici hanno anche deciso di respingere la “costituzione di parte civile “ del Comune di Roma , in quanto a Mario non è addossata alcuna “ lesione dell’arredo urbano”.
    Ai numerosi compagni/e  presenti – studenti, lavoratori, amici degli imputati – ( un folto presidio stazionava all’ingresso del Tribunale)l’atteggiamento dei giudici non è apparso ne sereno, ne imparziale , costoro sono sembrati partecipi e schierati con il clima fazioso e colpevolista voluto dal governo da subito e all’indomani del 14 dicembre.
    All’oggi – dopo una settimana di prove documentali e testimoniali ripetutamente apparse in TV , sui quotidiani e periodici – è ormai noto alla cittadinanza che gli arrestati sono stati rastrellati a caso , con il titolo abusivo e generico del reato di “ resistenza in concorso”.
    Per il resto , è fallito anche il tentativo di dividere i manifestanti in “ buoni e cattivi” sia per la compattezza del movimento , sia per la consapevolezza di larga parte della società di riconoscere alla protesta e alla condizione diffusa della precarietà motivazioni valide e concrete, che vanno ascoltate e avviate a soluzione, piuttosto che ignorate e/o represse.
    L’accanimento giudiziario non ha ragion d’essere, men che mai l’assunzione sussidiata della politica : il trasformarsi in arbitri del conflitto non compete alla magistratura , tantomeno far pendere l’ago della bilancia dalla parte dei forcaioli, trasformando in capri espiatori gli arrestati del movimento solo per soddisfare i propositi di vendetta di una classe politica inadempiente e corrotte.
    Tenere ulteriormente agli arresti  Mario è un abuso, una iniqua punizione, una pena affligente ancor prima della sentenza : è l’amara con stazione di quanto dispotismo alberghi ancora nelle istituzioni, sopratutto tra coloro che dimentichi del dettato costituzionale e della dichiarazione dei diritti dell’uomo, abusano del codice penale per perseguitare il conflitto e i suoi protagonisti

    Ovunque,comunque , Tutti Liberi !

    Vincenzo Miliucci,che ricambia con affetto le migliaia di comunicazioni ricevute per Mario e che augura un buon 2011 , a voi tutte/i e alle presenti generazioni di compagne/i perché avviino il percorso comune per affrontare l’urgenza dell’alternativa di società.

     

    Comunicato di Vincenzo Miliucci, il “volscevico”!

    19 dicembre 2010 13 commenti

    Giù la maschera , fascisti in doppiopetto !

    Negli anni ’70, nella pienezza dei movimenti di partecipazione democratica per la trasformazione egualitaria della società, i fascisti La Russa e Gasparri erano dalla parte della strategia della tensione che auspicava un regime autoritario a suon di bombe , stragi e complotti.
    La mia generazione ha speso la propria gioventù per salvare l’Italia dal golpismo e stragismo : le contrade e le città italiane sono piene di lapidi che ricordano il sacrificio di centinaia di nostri coetanei , i “ nuovi partigiani”.

    FOTO DI VALENTINA PERNICIARO: Vincenzo e il totem contro le morti sul lavoro _25 aprile 2008_

    Così come ha combattuto nei luoghi di lavoro e nel paese per conquistare la dignità del lavoro e un parziale stato sociale , negato da potenti corporazioni e dal padronato.
    E allo stesso tempo per scrollarci di dosso il soverchiante fardello di istituzioni,ordinamenti e uomini del ventennio fascista.
    Nel mentre che i fascisti La Russa e Gasparri erano parte di quel MSI sedizioso e squadrista al servizio della borghesia e che tanti lutti ha procurato tra i lavoratori, gli studenti, gli antifascisti.
    L’indulgenza togliattiana e democratica Costituzione hanno permesso a questi scherani di autoalimentarsi e di fare ulteriori malefatte, ma il disprezzante giudizio storico su di loro – sul loro focoso reiterare l’appartenenza fascista – è un sentimento comune degli italiani : è scritto nelle migliaia di epigrafi che ricordano l’olocausto partigiano e le vittime delle decine di stragi impunite.
    Solo il troiaio berlusconiano – la perdita di senso e valori della democrazia costituzionale repubblicana – permette a costoro di occupare posti altezzosi e di sputare quotidiane-bavose-provocatorie sentenze.
    La storia non è finita ! Non moriremo Berlusconiani !!
    Non è detto che costoro non tornino nei luoghi di origine, le fogne !
    I Gasparri,Alemanno,Storace, si portano ancora appresso l’incubo dei calci in culo presi ripetutamente negli anni ’70 dagli antifascisti autonomi di “ via dei Volsci”. Il Presidente della Corte Costituzionale dell’epoca, Giuseppe Branca , ebbe modo di ringraziare pubblicamente gli autonomi, per l’operazione di nettezza urbana esercitata a Roma nei confronti del rigurgito dei rifiuti fascisti.

    Sono orgoglioso di mio figlio Mario : equilibrato,serio,responsabile, già uomo europeo e lungimirante, nonostante il fosco avvenire che si prospetta per la sua generazione.
    Mario è stato educato alla tolleranza e la rispetto soprattutto dei più deboli, alla solidarietà e alla partecipazione sociale. Il 14/12 era a manifestare , consapevole di quali e quante sfide sono addossate alla “ generazione precaria “ .

    E’ stato rastrellato a caso insieme ad altre decine di giovani, a cui è stato fatto assaggiare il sadismo di celle di sicurezza gelide e sudice,il cui unico giaciglio era il pavimento lercio, lasciati senza cibo. fatti oggetto di scherno , vessazioni psicologiche e minacce “ genovesi”, di ritornelli inneggianti il nazifascismo . Il ministro Maroni se non vuole diventare l’emulo di Kossiga, prima di scagliare gli strali contro il movimento , si guardi in casa propria ! Veda e sanzioni il comportamento illegale dei corpi di polizia. Bonifichi ed espella le numerose “ mele marce” , che a Napoli e Genova nel 2001 torturarono e ferirono nelle caserme e nelle piazze , che uccisero Aldrovandi e altri ancora, che ogni anno aggiornano la statistica dei danni procurati a migliaia di giovani,diversi e immigrati. Provveda innanzi tutto alla rieducazione e alla formazione costituzionale dei “ servitori dell’ordine” , che tuttora vedono nel manifestante , nel cittadino, un essere inferiore, su cui si può infierire,vituperare,produrre prove false , “ sicuri dell’impunità”. Su Mario Miliucci pende un disegno persecutorio,quello di utilizzarlo come capro espiatorio e monito nei confronti della rivolta della “ generazione precaria” alla spudoratezza della classe politica dominante.
    In quanto manifestante è reo di “ resistenza alle nefandezze del governo” , un reato a cui si sentono accomunati almeno 40 milioni di italiani !

    Mario porta un cognome specchiato, integerrimo e rispettato ( anche dagli avversari e financo dai funzionari di polizia) : luoghi comuni, banalità, meschinerie e falsità possono servire solo ad influenzare coscienze tiepide e magistrati asserviti.
    Mario va liberato e prosciolto, la “ generazione precaria” è un bene prezioso per la democrazia e per garantire un avvenire a questo paese.

    Il “ volscevico “ Vincenzo Miliucci

    MARIO LIBERO!
    TUTTI E TUTTE LIBERI!

    APPUNTAMENTO GIOVEDI 23 A PIAZZALE CLODIO, PER IL PROCESSO A MARIO MILIUCCI

    Ciao, Wilma Monaco (via Insorgenze)

    12 dicembre 2010 2 commenti

    Ciao, Wilma Monaco Wilma Monaco è nata a Roma il 28 ottobre 1958. Si diploma nel luglio 1976 in lingue e milita prima nei movimenti, poi nel Movimento proletario di resistenza offensivo e infine nelle Brigate Rosse – Unione dei Comunisti Combattenti. Wilma, nome di battaglia “Roberta, muore a Roma, il 21 febbraio 1986, nel corso di un’azione contro Antonio Da Empoli (consigliere economico della Presidenza del Consiglio del Governo Craxi) [caption id=”attachment_676 … Read More

    via Insorgenze

    Intervista a Ferrara…ecco come il PC convinceva i giurati del primo processo BR

    12 novembre 2010 1 commento

    Rivelazioni – Giuliano Ferarra: «Li convincemmo noi. Cossiga, Pecchioli, Berlinguer, Caselli e Violante sapevano»

    In questa intervista Giuliano Ferrara, oggi direttore del Foglio ma all’epoca importante dirigente della federazione torinese del Pci, riempie dei tasselli importanti che consentono di ricostruire il sistema della giustizia d’eccezione messa in piedi a parire dalla fine degli anni 70 per combattere l’azione delle formazioni della sinistra rivoluzionaria che conducevano la loro offensiva armata nelle fabbriche e nei quartieri delle periferie urbane. Oltre ad aver incontrato i giurati popolari sorteggiati per comporre la giuria, egli afferma anche di avere fatto delle riunioni politiche, sempre nelle sedi del Pci, con il magistrato Giancarlo Caselli che aveva condotto l’inchiesta contro le Brigate rosse, per concordare una comune strategia antiterrorismo.Una circostanza che trova conferma in una precedente intervista rilasciata da Saverio Vertone sul Corriere della sera dell’11 dicembre 1994: «I rapporti di Caselli con il Pci erano strettissimi, fino a divenire più avanti nel tempo, statuari, organizzativi. Partecipava alle riunioni dei comitati federali. Forse, ma non ne sono certo, prendeva anche la parola alle riunioni di segreteria: discuteva di politica, naturalmente. Però non dimentichiamoci che allora discutere di politica significava affrontare il problema dell’emergenza terrorismo. Caselli era il rappresentante dell’ “intransigenza democratica”, teorizzava la supplenza della magistratura d’inanzi al cedimento degli organismi pubblici. Io e Ferrara concordavamo con lui sulla necessità di mantenere una linea dura»

    di Paolo Persichetti
    Questa intervista è apparsa in versione ridotta su Il Riformista del 10 novembre 2010 e in versione integrale su Gli Altri del 12 novembre 2010


    Dopo due anni costellati da rinvii, il 9 marzo 1978 si apre a Torino il processo al cosiddetto “nucleo storico delle Brigate rosse”. 46 imputati di cui 11 detenuti. Alla prima udienza – racconta Adelaide Aglietta, allora segretaria del partito radicale, nel suo, Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate rosse, Milano libri edizioni 1979 – «scopro con mio enorme stupore che un giurato depone una rivoltella: accerterò nei mesi seguenti che anche altri girano costantemente armati». Il quotidiano torinese La Stampa descrive minuziosamente le imponenti misure di sicurezza: 4 mila uomini in assetto di guerra, teste di cuoio, tiratori scelti sui tetti intorno alla caserma Lamarmora trasformata in aula Bunker, novecento uomini addetti alle scorte. Nell’aula – ricorda sempre Aglietta – «la regia è perfetta: due persone su tre sono agenti in borghese camuffati per mimare l’intera scala sociale, dall’imbianchino all’impiegato, al signore borghese con loden e Repubblica sotto il braccio, al giovane finto estremista». Sarà il primo dei maxi-processi contro la lotta armata, dopo una maxi-inchiesta condotta dal giudice istruttore torinese Giancarlo Caselli che aveva accorpato, suscitando polemiche e accuse di forzatura, tre differenti filoni d’indagine svolti in città diverse. Il primo rinvio (maggio 1976) c’era stato perché gli imputati con un gesto a sorpresa avevano revocato i difensori. Ribaltando i ruoli nel processo da accusati si erano proclamati accusatori dello “Stato imperialista delle multinazionali” e innovando la tradizione del “processo rottura” annunciavano l’inizio del processo guerriglia, gettando così nello scompiglio l’intera macchina processuale. Il secondo rinvio è dell’anno successivo, dopo l’uccisione, il 28 aprile 1977, del presidente dell’ordine degli avvocati di Torino Fulvio Croce che aveva assunto la difesa d’ufficio nonostante la volontà contraria degli imputati. Il 3 maggio 1977 solo 4 degli 8 giudici popolari avevano accettato la nomina. Per arrivare a comporre l’intera giuria ci vollero ancora un anno e 40 estrazioni. 210 furono i rifiuti tra gli avvocati per le nomine d’ufficio. Il sorteggio, la fiction sceneggiata da Giovanni Fasanella (a proprosito: quando verranno chiamati dei veri storici a fornire consulenze invece dei soliti imprenditori della dietrologia giornalistica?) andata in onda su Raiuno non racconta però la storia di questi giurati embedded. Per saperne qualcosa di più ho incontrato Giuliano Ferrara, oggi direttore del Foglio ma all’epoca attivissimo responsabile delle fabbriche per la federazione torinese del Pci. In un libro di Maurizio Caprara, Lavoro riservato. I cassetti segreti del Pci, Feltrinelli 1997, aveva rivelato che tra i suoi incarichi di allora c’erano state anche «alcune riunioni con giurati del maxiprocesso contro i brigatisti per convincerli a non rinunciare all’incarico».

    Ferrara, davvero il Pci ti ha dato un incarico del genere?
    Bisogna ricostruire il contesto, il clima che si viveva a Torino. Parliamo di anni in cui ogni settimana c’era un omicidio, una gambizzazione, un incendio in una fabbrica, un arresto, la scoperta di un covo. Insomma una situazione molto drammatica, intensa, spettacolare. Era una sorte di guerra civile dispiegata. Io mi occupavo delle fabbriche, della Fiat, di operai, del sindacato, poi ero nella segreteria della Federazione. La società torinese era intrisa di questo problema. Allora quando ci fu la questione del processo alle Br la città si bloccò, nel senso che tutto il processo si bloccò intorno al fatto che non si trovavano i giurati per la paura. Era una cosa devastante per noi. Voleva dire proprio che c’era una resa e allora ci muovemmo per trovare questi giurati.

    Come?
    Beh, quando venivamo a sapere che c’era qualcuno scelto ma che non voleva, allora intervenivamo. Nella società operaia ci sono delle relazioni parentali, amicali. Il partito era molto ramificato, era molto presente, ci veniva detto ed io andavo come responsabile dell’antiterrorismo.

    La legge dice che i giurati non possono essere influenzati.
    Certo che era una forzatura, una cosa totalmente non garantista, da emergenzialismo devastante. Per questo era un lavoro che facevamo segretamente, riservatamente. Però sentivo che avevo una forte giustificazione etica. D’altra parte facemmo anche il questionario antiterrorismo con la domanda numero 5 che invitava alla delazione. Insomma c’era una crisi dello Stato evidente che poi diventò parossistica durante il processo Moro, tra l’altro le date coincidono. Lo Stato era debole e flebile il progetto del compromesso storico. Però non ci fu nessuna germanizzazione, come si diceva all’epoca. Non c’è mai stata alcuna Stammheim. L’unica cosa è stata via Fracchia, l’eccidio della direzione della colonna genovese delle Br.

    Ma così difendevate la legalità con l’illegalità?
    Noi eravamo una specie di controterrorismo. Un giorno mio padre me lo disse, “ma tu sei un controterrorista”. Contrariamente a quanti consideravano il terrorismo un fenomeno isolato, minoritario, totalmente avulso dalle lotte sociali, che era poi la versione di comodo di una parte del Pci, ritenevo già allora il terrorismo una cosa molto seria. Un partito armato con un progetto socialmente sostenuto da ragioni forti, da movimenti di massa, da situazioni nuove nella fabbrica, da una dottrina. La fabbrica non era più solo un luogo dello sfruttamento, che è un rapporto matematico, era il luogo dell’oppressione. La volontà di impedire quel processo di oppressione ha creato Il fenomeno del terrorismo politico di matrice marxista in tutta Europa, Raf e Brigate rosse. Se tu riconosci questo allora capisci le ragioni di quell’atto. Se fossero stati soltanto delle pattuglie scollegate dalla società non ce ne sarebbe stato bisogno.

    Ma se la lotta armata nasceva dall’oppressione non sarebbe stata più opportuna una risposta politica? Le vostre scelte sembrano confermare invece quanto dicevano i prigionieri delle Br: “il processo messo in scena non è giustizia ma un atto di guerra”.
    Sì, ma lo Stato di diritto doveva essere salvato. Io sono marxista, dietro l’involucro formale dello Stato di diritto c’è la sostanza, cioè la forza.

    Più che Marx mi sembra il discorso di Carl Schmitt.
    Ovviamente non nego il formalismo giuridico di cui c’è bisogno, dico che è un involucro, poi dentro c’è un contenuto, una sostanza, i rapporti sociali.

    Caselli nel rinvio a giudizio aveva definito le Br una nuova forma di criminalità sprovvista di contenuti politici.
    Questa idea del terrorismo come di una pattuglia di persone separate dal contesto sociale italiano è sbagliatissima. Sei mesi prima di via Fracchia, quelli che dormivano lì e che erano nella direzione strategica delle Br, erano avanguardie operaie di fabbrica. Il terrorismo non era criminalità organizzata. Era azione politica che andava al cuore dello Stato, quindi se ti identificavi, se ti immedesimavi con lo Stato, a differenza di Sciascia che se la passava bene dicendo che non stava né con gli uni né con gli altri, non potevi agire altrimenti. Noi ci identificavamo e facevamo quello che consideravamo il nostro dovere. Certo ci voleva anche una certa dose di fanatismo allora per fare cose di questo genere.

    Ma le Br non hanno mai fatto minacce dirette ai giurati popolari. Lo testimonia Adelaide Aglietta e le inchieste successive non hanno mai fornito una sola prova che ci fosse stata anche solo l’idea di colpire un giurato.
    La percezione era che chi combatteva una battaglia legale contro le Brigate rosse rischiava. Era evidente che c’era un conflitto condotto con argomentazioni molto suggestive, perché le Br dicevano: “mica spariamo a voi, noi spariamo alla vostra funzione”. Quindi alla funzione del secondino, alla funzione dell’avvocato Croce, a tutte le tutele corporative, al capo reparto. Chiunque dovesse svolgere un certo ruolo era minacciato, a prescindere da minacce effettive.

    Dove avvenivano questi incontri?
    Nelle sedi del partito. Mi ricordo una riunione a Lingotto. Adesso sembra chissà che cosa, ma tutto era fatto con una certa eleganza, mica dicevamo “dovete entrare a far parte della giuria e dargli l’ergastolo”. Facevamo un’opera di persuasione. Una specie di antidoto contro la paura. Spiegavamo che partecipare ad una giuria è un dovere civico, che se non si arrivava a costituire questa giuria la città e un pezzo importante dell’Italia sarebbero cadute in uno stato di ripiegamento di fronte ad una offensiva violenta che semina lutti, che crea problemi. Davamo il nostro suggerimento e poi naturalmente offrivamo una mano, al di là della mano che dava lo Stato. Lo Stato offriva una sua protezione, noi potevamo aggiungere anche la nostra.

    Che tipo di protezione?
    Per esempio case. Chiedevamo: “Dicci quali sono i tuoi problemi, se hai paura. Sappi che noi ci siamo”.

    Fornivate anche armi?
    No, non mi risulta. Può essere che questo consiglio sia venuto dalle forze di polizia. Il ministero dell’Interno suggeriva spesso di armarsi. Lo disse anche a me ed io comprai una rivoltella, presi il porto d’armi.

    Tra le persone incontrate c’è stato qualcuno che alla fine ha detto no?
    Sì, moltissime persone. Anzi ricordo più sconfitte che risultati.

    Si trattava di una iniziativa autonoma della federazione di Torino oppure c’era stata una indicazione dalla sezione problemi dello Stato diretta da Pecchioli?
    Certo la direzione era informata. Ma era una iniziativa nostra. In quel clima non c’era niente di più ovvio che fare questo.

    Il rapporto con Pecchioli come era?
    Pecchioli era torinese, era stato partigiano, era legatissimo a tutte le forze reali del partito. Veniva spesso, si fermava. In federazione c’era ancora la generazione della Resistenza divisa in due: quelli che tifavano per i terroristi, che pure c’erano, non dico quelli come Lazagna, ma quelli che dicevano “lasciateli fare i giovani, è inutile fare appelli accorati, hanno ragione loro”. Quando cacciarono Lama dall’università erano tutti contenti, alla camera del lavoro e alla Fiom. E poi c’era l’altra generazione resistenziale, quella più dottrinale, quella più ortodossa, che invece diceva “No, questi sono un pericolo”, gli amendoliani, insomma quelli più legati ad una tradizionale posizione d’apparato.

    E le istituzioni? Il presidente della corte d’Assise Barbaro era al corrente di questa vostra attività?
    Non te lo so dire.

    Giancarlo Caselli?
    Penso che lo sapesse. Caselli e Violante facevano le riunioni con noi.

    Il ministro degli Interni Francesco Cossiga era informato?
    Sì, Cossiga era in stretto rapporto con Pecchioli, dunque sapeva. Almeno sette-otto persone, da Berlinguer in giù, avevano sicuramente notizia che il Pci a Torino si era attivato per cercare di comporre questa giuria.

    Oggi, a distanza di oltre trent’anni, dopo tutto quello che è successo, rifaresti la stessa cosa?
    E’ passato tanto tempo, ho un’altra età, ho appreso un sacco di lezioni. La storia ha replicato quindi non voglio fare il gradasso dicendo che rifarei tutto. Spero però che ci sia sempre un giovane, come me allora, capace di rifare la stessa cosa

     

    Ergastoli, condizionali e perdoni: è il turno di Gallinari!

    15 ottobre 2010 Lascia un commento

    Posto un’articolo uscito oggi sulla Gazzetta di Reggio. Ancora una volta parliamo di richiesta di libertà condizionale dopo i 26 anni di carcere scontati : questa volta l’istanza di cui si parla è quella presentata da Prospero Gallinari, ergastolano ex appartenente alle Brigare Rosse.
    L’intervistatore chiede proprio a lui cosa ne pensa del perdono e delle strumentali richieste dei tribunali di sorveglianza

    «Chiedere perdono? Sarei ipocrita».
    L’ex Br Gallinari vuole la libertà condizionale: «E’ un mio diritto» di Tiziano Soresina

    Prospero Gallinari, l’ex brigatista carceriere di Aldo Moro, ha chiesto la liberazione condizionale. Ha sulle spalle diversi ergastoli, ma ha già scontato i 26 anni di reclusione necessari per l’istanza. La legge richiede il «sicuro ravvedimento», ma il Tribunale di sorveglianza di Bologna avrebbe chiesto ai familiari delle vittime delle Br se sono disposti a perdonare. Partiamo dalla clausola di legge… 
    «Il mio ravvedimento? Sono 22 anni – spiega con calma Gallinari – che la storia delle Br è chiusa, cioè quando in otto brigatisti firmammo il documento in cui si sottolineava che la lotta armata contro lo Stato era finita. Le cose fatte per esprimere un processo rivoluzionario si erano concluse. Mi sono assunto la totale responsabilità di quegli eventi e all’interno di questa assunzione di responsabilità è iniziato il mio nuovo cammino».
    Di cos’è composto il suo percorso rieducativo?
    «Vivo con la mia compagna, ho una famiglia, lavoro da 13 anni in una tipografia in cui ho tanti amici e sono rispettato da tutti, mi sono reinserito socialmente».
    Ma lei la scriverebbe una lettera ai familiari delle sue vittime chiedendo loro perdono?
    «Sono sincero, la riterrei un’offesa per i familiari stessi andare a porre questo problema umano. La sofferenza dei familiari non nasce con la mia dissociazione, ma quando le cose sono avvenute. Una lettera di quel tipo la riterrei una grande ipocrisia. Che cosa dovrei scrivere? Che soffro per quelle cose? E’ un problema intimo. Sul piano etico il nodo lo sciolsi nel momento in cui decisi di lottare anche con le armi per la rivoluzione. Se fai queste scelte, la politica sta al centro di tutto. L’aspetto politico e quello umano vanno separati».
    Ma altri suoi ex compagni di lotta armata hanno compiuto questo passo…
    «E’ vero, hanno fatto questa mossa per uscire da determinate situazioni processuali, ma non è il mio modo di muovermi. Lo riterrei offensivo verso le famiglie, una cosa falsa, una recita».
    Si è mai trovato a tu per tu con chi ha tanto sofferto per la scia di sangue lasciata dalle Br?
    «Solo una volta, alla presentazione del mio primo libro. Contestò il mio ruolo, una discussione in chiave politica, dai toni normali».
    La figlia di Rossa e la moglie di D’Antona hanno detto chiaramente che i magistrati devono assumersi le proprie responsabilità, perché non è compito dei familiari delle vittime decidere sulla liberazione dei brigatisti…
    «Sono al corrente, ho apprezzato quelle parole».
    Perché si è deciso a chiedere la liberazione condizionale?
    «E’ un mio diritto. Così potrei muovermi con più libertà e non solo nelle tre ore pomeridiane previste dall’attuale detenzione domiciliare. Sarebbe importante per i miei problemi di salute (conseguenza di crisi cardiache, ndr) potermi allontanare da Reggio e svernare per un periodo in un luogo più adatto».
    S’aspettava tanto clamore, le polemiche che tornano a fioccare sugli ex brigatisti?
    «Sapevo che la notizia della mia richiesta di liberazione condizionale sarebbe prima o poi uscita. Ammetto lo stress che sto patendo per le polemiche innescatesi».

    Le “donne” dei prigionieri e la storia rimossa, la nostra storia

    1 settembre 2010 20 commenti

    AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
    IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
    LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI

    Quest’articolo lo lessi che ero poco più di una bambina, a tredici anni, riportato tra le note di un libro che cambiò la mia vita (regalatomi da una mano completamente inconsapevole):
    Dall’altra parte”  – l’odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici- di Prospero Gallinari e Linda Santilli.
    Un articolo, un “reportage”, una testimonianza scossa di una giornata passata con le “donne dei detenuti” br e non, reclusi nel carcere speciale di Trani dopo appena un mese dalla rivolta. Le compagne di uomini fatti a pezzettini dai GIS, uomini con dita denti schiene e costole spezzate: detenuti politici che avevano messo a ferro e fuoco un carcere e che ora scontavano sulla loro pelle e quella dei loro cari la repressione dello stato.
    Uno stato che doveva dimostrare la sua forza: uno stato che aveva mandato i GIS a sedare la rivolta …e c’era riuscito, ovvio!, peccato che al rientro dell’operazione – nei festeggiamenti per il capodanno- il generale che aveva guidato il masssacro è stato ucciso sul pianerottolo di casa.
    Quest’articolo racconta il mai raccontato, quello vissuto da chi ha avuto la vita sventrata dal carcere, dalle leggi speciali, dall’ergastolo solo perchè madre, figlio, amore di un compagno prigioniero.

    La tradotta di Trani ferma a Barletta. Per Trani si cambia.
    Sul marciapiede, alle sette di mattina si riversano i familiari. Perlopiù sono donne, madri, compagne, sorelle. Nei venti minuti d’attesa prima che arrivi il Roma-Bari che bisognerà prendere al volo, di corsa dal giornalaio a raccattare quotidiani, di corsa al gabinetto, di corsa al bar a buttar giù un caffè; poi dieci minuti ancora , questa volta in piedi contro gli sportelli del treno, e giù di nuovo su un altro marciapiede, quello della stazione di Trani.
    Qui il femminismo non avrebbe ragione d’esistere.
    Le donne dei prigionieri sono forti, gestiscono le loro azioni con autorevolezza, a tratti perfino con allegria. Di fronte al procuratore capo De Marinis, ogni sabato, da quando c’è stata la rivolta, la dignità la chiarezza la determinazione sono loro […].
    Il primo sabato: le visite e i pacchi sono sospesi. Il secondo, ancora niente visite e niente pacchi.  Le donne si organizzano, attuano il blocco dei cancelli, aspettano dieci ore, circondate dai carabinieri minacciosi, e commettono un peccato d’onestà: credono all’ufficiale che promette un colloquio con il direttore se il blocco viene tolto. Naturalmente l’ufficiale non rispetta la parola. Però i pacchi passano.
    Il terzo sabato, ancora visite distanziate, ancora il ritrovarsi davanti al secondo cancello. Per ogni nome chiamato passa un’ora. I colloqui dovranno essere con i vetri. NO, prigionieri e donne dicono no. […]

    Si decide di nuovo il blocco dei cancelli. […]
    Da tutte le parti piovono autoblindo, e carabinieri, a nugoli come le mosche. Arriva anche un funzionario in borghese, forse Digos. Dice che le manifestazioni sono proibite, dice che bisogna sgombrare se no ci pensa lui, e infatti ci pensa.
    I carabinieri si schierano a pochi passi dalle donne, faccia a faccia. Rigidi e neri che sembrano lì come per un film. Comparse che non conoscono tutta la trama, ma solo il povero ruolo che le riguarda. E caricano duro.
    Piovono le botte e gli spintoni, ma il funzionario capisce che la loro è solo forza fisica.[…]
    Le notizie che filtrano dall’interno sono come sassi in faccia e perdono ordine e priorità, trasformandosi in una sorta di onda d’urto che spinge le donne ad agire. Guardie incappucciate, da Ku Klux Klan, chiamano per nome i detenuti, e a mano a mano che uno viene crocifisso dalla luce dei fari, giù botte. Quindici prigionieri vengono trascinati sul tetto: le guardie che li tengono chiedono alle altre, in basso, se ci sono morti o feriti tra i loro colleghi. Sono pronte, a una risposta affermativa, a buttar giù i detenuti.
    Il policlinico di Bari si lascia portari via dai carabinieri i feriti gravi. Ma questo è avvenuto subito dopo la rivolta. Le donne si sono già battute per organizzare una fitta rete di controinformazione, ma tranne le trasmissioni di poche radio libere e qualche stralcio di notizia censurata dagli stessi giornalisti che la passano, all’opinione pubblica non arriva niente.
    Altre notizie, sassi in faccia. I prigionieri sono ammassati in cameroni e come unica forma di protesta possibile attuano la “guerra batteriologica”, buttano escrementi e immondizie nei corridoi e dalle finestre. I feriti curati alla bell’e meglio subito dopo la rivolta peggiorano. I punti vanno in suppurazione, alcuni hanno la febbre alta e non si reggono in piedi, altri hanno le ossa rotte, le mani le caviglie, le costole.
    Falco il medico della prigione, che nome meglio di così non poteva avere, non si fa vivo. Neanche il Giudice di sorveglianza. […]
    Quando vengono concessi i colloqui, le donne e i prigionieri li rifiutano: si vorrebbe ancora farli parlare attraverso vetri e citofoni. Vengono pestati e trascinati all’isolamento, ma non si illudano i carcerieri che questo possa spingere i detenuti o i loro familiari alla rinuncia della propria dignità umana. Le donne stendono una denuncia. La firmano nominalmente, la portano alla procura, la presentano come legge vuole,  anche se si immaginano che finirà in un cassetto. Trasmettono altri comunicati attraverso l’Ansa, ma anche su questi cala la nebbia.
    Notte e nebbia. Nacht und Nebel sulle carceri speciali.
    Notte e nebbia sulle coscienze. Nel paese delle interrogazioni parlamentari non si alza una sola voce, fosse anche semplicemente per chiedere. Ma di quello che accade o che potrebbe accadere nei lager di questa repubblica qualcuno dovrà pur rispondere.

    Laura Grimaldi
    Il Manifesto

    29 Gennaio 1981

    [A mamma Clara, a suo figlio Bruno]

    I LINK SULLA TORTURA
    breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
    Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
    Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
    Arresto del giornalista Buffa
    Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
    Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
    Il pene della Repubblica
    Ma chi è il professor “De Tormentis”?
    Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
    De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
    Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
    Le torture su Alberto Buonoconto
    La sentenza esistente
    Le torture su Sandro Padula
    Intervista a Pier Vittorio Buffa
    Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis

    Piperno: «Cossiga, architetto dell’emergenza giudiziaria era convinto che con l’amnistia si sarebbero chiusi gli aspetti più orripilanti di quegli anni» (via Insorgenze)

    26 agosto 2010 Lascia un commento

    UN’INTERVISTA DA LEGGERE!

    Ostaggio e succube al tempo stesso del Pci. Era affascinato dalla cultura statolatrica di quel partito con cui mise in piedi un patto di ferro per combattere la rivolta sociale degli anni 70. Una intervista di Franco Piperno offre un ritratto assai diverso dalle commemorazioni ufficiali e dalla vulgata che circola in quel che rimane della sinistra estrema Iaia Vantaggiato il manifesto 19 Agosto 2010 Nel 1978, nei 55 giorni più lunghi e più tragic … Read More

    via Insorgenze

    “Costituzione” e “democrazia” non sono valori che m’appartengono

    22 aprile 2010 3 commenti

    La Costituzione??
    La Democrazia??
    Ma perchè? Perchè siamo diventati così?
    Sarà dura per me stare in piazza questo 25 aprile: volevo portare il mio bambino al suo primo corteo di LIBERAZIONE ma non credo riuscirò a farlo.
    Sono comunista, sono antifascista…ma quest’ antifascismo non mi piace, quest’antifascismo non m’appartiene.
    Non riesco a vedere “compagni miei”, SANGUE MIO, invocare democrazia e Costituzione…
    Non potete chiedermi di difendere la Costituzione…non la potete trattare come una cosa intoccabile, detentrice di valori eterni ed inviolabili.
    Ma di cosa stiamo parlando?
    Ma da quando amiamo la nostra Costituzione? La democrazia? Una costituzione che parla di “famiglia”, di “proprietà privata”?
    La stessa democrazia che tiene i compagni in carcere da trent’anni, la stessa democrazia che ha regalato ergastoli e leggi speciali,
    la stessa democrazia che sgombera le case, che carica i lavoratori e l’ha sempre fatto.
    Quanti proletari sono stati ammazzati dalla nostra Costituzione???

    Ieri ad Ostia c’è stata l’ennesima aggressione di Casa Pound: c’era un compagno solo ad attacchinare che s’è salvato per un pelo:
    Volevo mettere il comunicato e non ne sono stata capace: si invocano le “forze sinceramente democratiche”… sul mio blog, scusate, non riesco a mettervi!

    Non riesco a condividere strade e piazze nemmeno più con la retorica partigiana di personaggi come Bentivegna che poi hanno avallato ergastoli a go-go.
    Basta, invece di capire questo, di superare quella retorica in modo antagonista e rivoluzionario facciamo addirittura passi indietro,
    la peggioriamo, la rendiamo ancora più “democratica e populista”.  Non ne posso più!
    Vorrei contenuti di altro genere, vorrei parole nostre…non vorrei appellarmi solo al lessico borghese, alle Costituzioni borghesi e ai loro tribunali.

    Questo 25 aprile mi sento molto sola, e non per i tanti fascisti in giro, ma per il modo in cui tentiamo di combatterli!

    Intervista a Sonja Suder e Christian Gauger, a rischio estradizione!

    5 aprile 2010 3 commenti

    La buca delle lettere di Sonja e Christian

    Dal blog DamnatioMemoriae non posso non prendere (GRAZIE!!!) la traduzione di quest’intervista pubblicata sull’edizione domenicale della Tageszeitung (TAZ, quotidiano berlinese di sinistra) del 21.3.2010, agli esuli tedeschi in Francia Sonja e Christian,  di cui ho già parlato in questo blog.[Archivio]
    Revolutionäre Zellen
    Sfuggiti per 22 anni ai cacciatori di terroristi. Sonja Suder e Christian Gauger sulla vita in clandestinità e su ciò che si prova quando si viene scoperti
    “Guardi sempre se c’è qualcuno dietro di te”

    di Andreas Fanizadeh

    taz: Signora Suder, signor Gauger, quando vi siete accorti per la prima volta di essere osservati?
    Sonja Suder: Era l’estate 1978. Eravamo appena tornati a Francoforte da una gita nel sud della Francia. Alle 6 di mattina ci siamo mossi per montare il nostro stand al mercato delle pulci all’Eisernen Steg sul Mainufer.
    E li avete notato che qualcuno vi seguiva?
    Suder: Alle sei di mattina è evidente se qualcuno ti sta dietro dalla porta di casa fino al mercato, dove poi non monta un suo stand. Al pomeriggio l’abbiamo comprovato ed era chiaro: eravamo osservati. Era un clado giorno d’estate a Francoforte, credo in agosto. E dovemmo prendere una decisione.
    Perché?
    Eh, erano tempi duri, era l’anno dopo il sequestro Schleyer e i morti di Stammheim. Decidemmo di andarcene via.

    1978.
    Chi si ricorda del 1978, l’anno in cui Sonja Suder e Christian Gauger scomparvero dalla scena, per restare introvabili nei successivi 22 anni? L’anno in cui l’Argentina visse i mondiali di calcio. O in cui nacque Katja Kipping, oggi vice capo del Partito Die Linke (La Sinistra). C’era ancora la RDT (Germania dell’Est) e l’Europa occidentale era nella fase finale del movimento del ’68. In Nicaragua i Sandinisti attaccarono il Palazzo Nazionale, in Italia le Brigate Rosse uccisero il democristiano Aldo Moro.

    Quando l’esplosivo scoppiò all’improvviso
    E nella Repubblica Federale Tedesca, nel giugno del 1978, un conoscente -secondo la Procura penale- di Sonja Suder e Christian Gauger si preparò a piazzare una bomba al Consolato argentino di Monaco. Si chiamava Herrmann Feiling ed avrebbe agito, come Sonja Suder e Christian Gauger, nell’ambito delle cosiddette Cellule Rivoluzionarie (RZ). Le RZ erano per gli apparati di difesa dello Stato difficili da valutare, poiché dalla loro spaccatura del 1976/77 agivano senza una direzione riconoscibile. Il gruppo propagava attacchi con danni materiali e tentava, diversamente dalla RAF, di non fare vittime. Suder e Gauger avrebbero partecipato, dice oggi la Procura, a due attacchi contro imprese che lucravano sull’uranio con il Sudafrica, nel 1977, e ad un incendio al castello di Heidelberg, nel 1978. Perciò il 15 settembre 1978 un giudice istruttore federale emise un mandato d’arresto contro i due.Se Gauger, Suder e Feiling si conoscevano veramente, come ritiene la Procura, potevano senz’altro, nel 1978, considerare l’Argentina come uno Stato di non-diritto. Là i militari avevano fatto nel 1976 un colpo di stato con un seguito di 30’000 omicidi. In quel paese e in condizioni scandalose si giocarono i campionati mondiali di calcio. E la coalizione social-liberale di Bonn tollerava gli affari delle imprese tedesche con la dittatura argentina, mentre aiutava solo con molte esitazioni i cittadini germanici incarcerati e torturati in Argentina. V’erano insomma serie inconvenienti , anche se solo pochi come Herman Feiling tentarono di bucare con una bomba il muro del Consolato argentino. Ma l’attentato al Consolato non ebbe luogo. Per Hermann Feiling, il presunto conoscente di Suder e Gauger, la preparazione ebbe un esito fatale. L’esplosivo scoppiò il 23 giugno prima del previsto ad Heidelberg, e Feiling perse entrambe le gambe e gli occhi.
    Il ferito grave venne palesemente interrogato dagli inquirenti già nella clinica universitaria di Heidelberg. Per settimane e mesi, dicono amici ed avvocati, gli inquirenti isolarono Feiling, per cercare di ottenere informazioni sulla struttura organizzative delle Cellule Rivoluzionarie. Gli inquirenti verbalizzarono ciò che Feiling avrebbe detto loro sotto l’effetto dei medicamenti e senza l’assistenza di un legale liberamente scelto, cose che poi egli ritrattò.
    Poche settimane dopo l’incidente di Feiling, Suder e Gauger notarono la squadra di osservazione a Francoforte e si eclissarono. Da allora avrebbero vissuto da qualche parte all’estero senza più essere attivi -come lo erano in precedenza- in rapporto alle RZ.
    Il sospetto contro Suder e Gauger “si appoggia in sostanza sulle dichiarazioni del testimone Feling nel 1978” conferma oggi, su richiesta, la Procura di Francoforte. Solo nel 1999 si aggiunse secondo le autorità un ulteriore sospetto contro Sonja Suder. Accusa: partecipazione all’attacco contro l’OPEP a Vienna nel 1975 e complicità in omicidio. I termini di prescrizione per gli attentati originariamente imputati a Suder e Gauger è di 20 anni. Sarebbero quindi prescritti dal 1998. Ma, sostiene la Procura pubblica, la prescrizione è stata “interrotta più volte” e può andare “al massimo fino al doppio del tempo previsto, dunque a 40 anni”. Un attacco incendiario del 1978 (prescrizione: 10 anni) può essere trasformato in un attacco incendiario con messa in pericolo della vita altrui (prescrizione: 20 anni) e così allungare la prescrizione a 40 anni.
    È del 2000 la spettacolare scoperta con immediato arresto dei due “pensionati delle RZ”, come vennero definiti, a Parigi. Da allora le autorità francesi e tedesche si affannano su Suder e Gauger. Nel 2001 la Francia respinse una domanda di estradizione della Germania. Ora la pagina potrebbe voltarsi, grazie al nuovo mandato di cattura europeo, contro i due militanti della sinistra degli anni settanta. Il caso pende al momento presso la Corte costituzionale francese. Si ignora se la Francia estraderà.

    2010.
    Parigi, Saint Denis, vicino all’Università 8. Su piccolissimi appezzamenti di terreno sorgono piccole case, in lontananza si scorgono i profili di alcuni grattacieli. Non c’è nessuno per strada, è una giornata fredda e umida. In una delle casine, o meglio in una parte minuscola di una di quelle casine, vivono da quando vennero scoperti ed arrestati Sonja Suder e Christian Gauger. Sonja Suder ha compiuto nel frattempo 77 anni, Christian Gauger ne ha 68. Erano una coppia già prima della fuga nel 1978. È la prima volta che parlano con la stampa tedesca. Il colloquio è accompagnato da thé e torte. La loro cucina non arriva a 16 metri quadrati.

    In clandestinità poco prima della laurea
    Com’è, essere trovati e presi decine di anni dopo aver attaccato delle imprese tedesche per i loro affari con il Sudafrica dell’apartheid, dopo essere scomparsi ed aver vissuto una vita clandestina in Francia? Suder e Gauger sorridono. Su quei temi non parlano. Entrambi vogliono parlare con la TAZ a condizione di non dover rispondere a domande che possano avere un rilievo giuridico nel loro processo. Non dicono se, e se sì, per cosa, portano responsabilità.

    taz: Da quando vive in esilio?
    Sonja Suder: Dal 1978.
    Prima viveva a Francoforte?
    Suder: Si, studiavo medicina. Quando siamo partiti, avevo quasi finito.
    Quanti anni aveva, allora?
    Suder: Dovevo averne 45.
    E lei, signor Gauger?
    Christian Gauger: Anch’io vivevo a Francoforte. Avevo un diploma in psicologia e lavoravo con la pedagogia speciale all’Università.
    Come collaboratore scientifico?
    Gauger: No, come ‘servitore’ scientifico. Così si chiamava allora.

    Gauger squadra il giornalista. Beve un po’ dalla sua tazza -thé d’erbe come quello di Suder- ed è calmo e concentrato. I suoi capelli bianchi li ha raccolti in una treccia, il viso è incorniciato da una barba sale e pepe tagliata corta. Con la sua camicia a fiori ed il leggero dialetto della regione dell’Hess potrebbe essere uscito direttamente da un negozio di antiquariato del quartiere Bockenheim a Francoforte. Sonja Suder dirige il dialogo. I suoi 77 anni non si notano. Una personalità agile, vivace e spontanea, con una voce decisa, è vestita sportivamente in nero, con capelli corti e scuri.
    La camera a Saint Denis è arredata con mobili usati, comoda e pratica, come se ne vedono nelle comuni della scena alternativa. L’anticonsumismo sembra un’ideologia pratica per la vita spartana della clandestinità, senza pensione né entrate stabili. Tra i libri sugli scaffali si notano molti reggiposate. I reggiposate vengono volentieri usati in Francia per appoggiarvi le posate tra una portata e l’altra, per non sporcare il tavolo. Sono di porcellana, di diversi metalli nobili, rifiniti in modo semplice o artistico. Ogni uomo ha un hobby, e collezionare reggiposate è quello di Christian Gauger. Lui racconta lentamente, è quasi floscio. Nel 1997 ha subito un infarto ed ha dovuto essere riportato in vita.

    Taz: Com’era la situazione, quando veniste arrestati nel 2000?
    Suder: Eravamo arrivati da poco a Parigi e siamo usciti dall’albergo. Andò tutto molto in fretta: mani in alto! Poi volto e braccia contro il muro.
    Polizia francese?
    Suder: Sì, polizia francese.
    Nessun tedesco assieme a loro?
    Suder: No, solo più tardi, al distretto degli sbirri, lì c’erano anche dei tedeschi. Non si sono lasciati vedere, ma potevi sentire come parlavano tra di loro.
    È importante per voi che si parli di ‘sbirri’?
    Suder [ride]: No, possiamo anche dire polizia.
    Ve l’aspettavate, di essere presi nel 2000?
    Suder: No. Non in quel particolare momento, anche se rispetto alla tua vita sai che potrebbe accadere in qualsiasi momento. Non si sa mai cosa stia effettivamente succedendo. In questo senso essenzialmente te lo aspetti.
    Insomma non avevate nessun concreto indizio?
    Suder: No. E questo benché ci stessero sicuramente già addosso da un pezzo.
    Sapete come vi hanno ritrovati dopo 22 anni?
    Suder: Non è chiaro. Avevamo avuto in incontro con un parente. Forse gli si sono appiccicati.
    Intende dire che per tutto l’anno un commando di catturatori vi è stato addosso?
    Suder: Non credo. Fino alle dichiarazioni di Hans-Joachim Klein nel 1998/99 non eravamo neppure sempre indicati nelle ricerche per la cattura in Europa. La cosa deve essere cambiata dopo.
    Hans-Joachim Klein partecipò nel 1975 all’attacco contro l’OPEP a Vienna. Si allontanò in seguito dal terrorismo ma venne preso solo nel 1998 in Francia. Dopo il suo arresto sostenne per la prima volta nel 1999 che Sonja Suder aveva potuto partecipare alla logistica dell’attacco all’OPEP. Fino al 1999 non c’era un ordine di arresto internazionale?
    Suder: No, secondo i nostri avvocati. È probabilmente per questo che prima abbiamo avuto abbastanza tranquillità.
    Signor Gauger, si trattiene? Non vorrebbe partecipare alla nostra conversazione?
    Gauger: Di molte cose non ho più ricordi. Ho avuto un infarto e sono entrato in coma.
    Quando è successo?
    Suder: 1997.
    Gauger: Il cuore mi si fermò. Ero praticamente morto. Sonja mi ha riportato in vita. [Arresto cardiaco e infarto, con i conseguenti pregiudizi sul cervello e sulla capacità di memoria sono attestati da perizie mediche francesi].
    Le vostre false identità erano così ben fatte che potevate chiedere delle cure mediche?
    Suder: Dovevamo! Già solo per il controllo e le medicine. La riabilitazione l’ho poi fatta io con lui. Era davvero una situazione assurda.
    E non vi hanno scoperti?
    Suder: No. A volte abbiamo dovuto trattenere il respiro, ma la nostra età fa sì che la gente non sia tanto malfidata.
    Gauger: Io avevo integralmente perduto la memoria.
    Ma Sonja Suder l’ha riconosciuta?
    Suder: Fatto che mi stupì, devo dire.
    Gauger: Ma prima non sapevo neppure che esistesse, l’ho conosciuta solo quando è ritornata nella camera.
    Che sentimento si prova, quando ci si è dimenticati tutto, si vive in clandestinità e ci si deve fidare di una persona che ci insegna chi si è?
    Gauger: Prima o poi viene la paura: cazzo, che succede se rimango stupido? Quando mi è venuto questo timore era però anche il momento in cui ho notato che potevo pensare da solo. La cosa è durata per un po’.
    Sonja Suder le ha anche dovuto raccontare perché viveva in clandestinità?
    Gauger: Sì. Ma naturalmente non so se mi ha raccontato tutto. Semplicemente non lo so.
    Suder: Questo neppure si può. Non puoi raccontare un’intera vita. Se qualcuno lo chiede e se si lavora con certi testi di riabilitazione, si può ri-raccontare qualcosa, ma non si può sovraccaricare una cervello. La cosa funziona pezzetto per pezzetto.
    1997 e 2000 – tra arresto cardiaco e incarcerazione non passò molto tempo.
    Suder: Sì, ma si era già stabilizzato. Il punto di cui prima parlava fu dopo un mezzo anno di riabilitazione. Ma ancora oggi Christian mi chiede cose sul suo passato, ed in pratica continuiamo ancora la riabilitazione.
    Dopo l’incarcerazione siete stati immediatamente separati?
    Suder: Sì, subito.
    Avete ancora famiglia in Germania?
    Suder: Sì, abbiamo contatto con le nostre rispettive sorelle.
    Signor Gauger, allora adesso può verificare autonomamente se ciò che le ha raccontato la signora Suder è vero?
    Gauger: Sì, questo è almeno divenuto più facile.
    Che atteggiamento avete avuto nei confronti dell’interrogatorio dopo l’arresto?
    Suder: Se prima hai concordato “se succede qualcosa, nessuna parola, niente dichiarazioni”, hai allora un buon sentimento di sicurezza.
    Quanto siete rimasti in carcere preventivo nella prima procedura del 2000/2001?
    Suder: Meno di tre mesi. Christian era detenuto a Parigi, il carcere femminile era fuori.
    È stata la vostra prima volta in carcere?
    Suder: Sì, io ero alla fine dei miei 60 anni, Christian all’inizio dei suoi.
    Com’era in carcere?
    Suder: Si dice che le prigioni francesi siano le peggiori del mondo. Io però non posso affermarlo. Sono stata messa in cella e avevo la normale ora d’aria nel cortile. Ho incontrato subito due donne basche. Da quel momento mi è stato organizzato tutto ciò di cui avevo bisogno, in modo naturale e ovviamente sottobanco. Insomma ero quasi un po’ privilegiata. Quella solidarietà era affascinante.
    Qual’era la cosa più noiosa in carcere?
    Suder: Di fatto, il baccano. Ad ogni passaggio ci sono porte d’acciaio, che vengono in permanenza aperte e sbattute rumorosamente. Sono dei botti continui. Un baccano incredibile. L’essere rinchiusa non era per me così brutto, per quello ti prepari un po’ prima. Devi subito vedere di fare qualcosa, come esercizi sportivi e letture.
    Signor Gauger, come fu per lei?
    Gauger: Al passeggio, è venuto subito uno da me. Sapeva già. Così poi sono stato sempre con lui e con un altro al passeggio. In cella eravamo in tre. I letti a castello erano scomodi; sul terzo, sopra, si è ben in alto, ti possono venire le vertigini. Altrimenti: topi e scarafaggi, che sono però animali domestici. Meglio che una cella singola tutta bianca, dove non vedi né senti nessuno.
    Che si pensa, quando si è arrestati dopo 20 anni di esilio?
    Suder: Adesso ci hanno proprio beccati.
    Gauger: E io ho pensato: questo non è necessario.
    Sapete ciò che concretamente vi viene rimproverato?
    Suder: Tre attentati, due contro il programma atomico dell’allora regime dell’apartheid sudafricano, ed un attacco contro la ristrutturazione della città di Heidelberg. A me, inoltre, Vienna. Questa storia dell’OPEP. E con essa l’accusa: complicità in omicidio. In Francia questo sarebbe già prescritto. Le sole cose che qui non vanno in prescrizione sono i crimini contro l’Umanità.
    L’accusa di partecipazione all’attacco contro l’OPEP l’ha sorpresa?
    Suder: Sì.

    1975. L’arresto di Klein nel 1998 fu un fulmine a ciel sereno, proprio come la sua affermazione della partecipazione di Suder. Klein aveva fatto parte nel 1975 di un commando diretto da Ilich Ramirez Sanchez, detto ‘Carlos’, e che si rese responsabile della morte di tre persone. A Klein, ferito durante l’azione, riuscì di partire con gli altri membri del commando e con i ministri dell’OPEP in ostaggio. Poi nel 1976 un commando tedesco-palestinese dirottò un aereo dell’Air France su Entebbe; in quell’occasione morirono Wilfried Böse e Brigitte Kühlmann, considerati dirigenti delle prime RZ. In seguito le RZ si rifondarono, distanziandosi da gruppi e formazioni del vicino oriente come quella di Carlos. Criticarono l’antiamericanismo e l’antisionismo della ‘sinistra antiimperialista’ e propagarono forme di attacco che non producessero morti.
    Su richiesta, la Procura pubblica di Francoforte conferma oggi che, fino al 1999 ed a parte le affermazioni di Klein, non v’è mai stato il minimo indizio che Suder sia stata coinvolta nella prima fase delle RZ fino al 1976. Klein, la cui credibilità viene spesso paragonata con l’ex-membro della RAF e raccontatore di storie Peter-Jürgen Boock, accusò dei militanti delle RZ ed altre persone di aver partecipato all’attacco contro l’OPEP. Rudolf Schindler venne per questo processato dal tribunale di Francoforte. E venne assolto dall’accusa di complicità nell’attaco all’OPEP, smentendo l’accusa di Klein. La corte dubitò della sua “certezza di identificazione nel riconoscimento fotografico del 2.9.1999”. In quell’occasione accusò assieme a Schindler anche Suder, “benché in precedenza non avesse mai accennato ad un’altra donna”, affermò il tribunale già 2001. A parte la dichiarazione di Klein, ancora oggi la procura penale non ha null’altro in mano contro Suder per l’attacco all’OPEP.

    TAZ: Quanto presenti sono state per voi in questi anni le accuse dei ’70, di una fase sempre più lontana delle vostre vite? Avete potuto avere una vita normale?
    Suder: All’inizio no. Ti guardi sempre dietro per vedere se c’è qualcuno. Se parla tedesco.
    Gauger: Il meno possibile contatti con dei tedeschi, questo è molto importante.
    Signora Suder, signor Gauger, non vi è mai venuto in mente in tutti quegli anni: la storia è così vecchia, che senso ha, vogliamo ritornare e affrontiamo il passato?
    Suder: Insomma, a me no. E a te, Christian?
    Gauger: Certo, se avessero revocato i mandati di cattura.
    Suder: Molto divertente. Ora è però chiaro: se la Francia ci estrada, saremo processati in Germania.
    Il gruppo al quale avreste appartenuto si è sciolto definitivamente all’inizio degli anni novanta. Questo ha qualche influenza sul processo?
    Suder: Giuridicamente nessuna. Dopo l’entrata in vigore degli accordi penali europei, siamo stati arrestati una seconda volta nel 2007. Christian per quattordici giorni ed io per un mese. E dal 2009 dobbiamo contare ogni giorno sull’eventualità di un’estradizione, benché il tribunale francese avesse già negato l’estradizione nel 2001
    Dopo la vostra scoperta nell’anno 2000 e il rifiuto della domanda di estradizione avete vissuto a Parigi per la prima volta di nuovo legalmente. Com’è stato per voi?
    Suder: Quando vivi sempre con una leggenda, non ti puoi costruire delle vere amicizie. Abbiamo vissuto tutti quegli anni molto ritirati. A Parigi in un primo tempo non avevamo nessun contatto. La nostra avvocatessa ci ha trovato dei compagni italiani, così da avere almeno un indirizzo da indicare per poter essere scarcerati. Poi una bravissima donna ci ha ospitati. Credo che in Germania sarebbe stato più difficile. Ma la cultura repubblicana ha in Francia una ricca e secolare tradizione di offrire rifugio agli esuli. Persone che non conoscevamo ci hanno lasciato la loro casa per mezzo anno, sono andati ad abitare nel sud della Francia permettendoci così di cercarci una nostra abitazione a Parigi. Praticamente non conoscevano né noi né la nostra storia, e ci hanno semplicemente aiutati. Ci siamo poi integrati in fretta nell’ambiente, abbastanza grande, degli esuli italiani, i militanti degli anni ’70 qui rifugiati, con le loro discussioni e le loro feste. Sono molto solidali. Abbiamo avuto fortuna.

    Da Francoforte a Parigi
    1. Clandestini: Nell’estate 1978 a Francoforte Sonja Suder e Christian Gauger si accorsero di essere spiati. Partirono all’estero ed assunsero false identità. Probabilmente vissero in Francia, a Lille. Nel 1997 Gauger subì un colpo apoplettico e perse la sua memoria -della falsa come della vera identità.
    2. Scoperti: Nel 2000 vennero scoperti ed arrestati davanti ad un albergo a Parigi. Separati, passarono alcuni mesi in carcere preventivo. Da allora Suder, 77 anni, e Gauger, 68, vivono a Parigi. La Germania ne chiede alla Francia l’estradizione -fin’ora invano.
    3. Incolpati: La Procura di Francoforte sul Meno accusa oggi la coppia di aver partecipato ad attentati contro imprese nel 1977 e contro il castello di Heidelberg nel 1978. Suder è inoltre accusata di complicità in omicidio: per l’attacco alla conferenza dei ministri dell’OPEP a Vienna nel 1975, dove tre persone persero la vita. Questa accusa è basata soltanto sulle dichiarazioni dell’ex-terrorista Hans-Joachim Klein.

    A Valerio Verbano. Alla sua mamma.

    20 febbraio 2010 2 commenti

    VALERIO VERBANO

    Cancelletto…pochi passi e poi quel portone che non avevo mai varcato.
    Faticosissimo farlo, malgrado il piacere immenso di portare il mio piccolo cucciolo a conoscere Carla.
    Ogni passo immaginavo quei tre, i silenziatori, i passamontagna ancora da calare, il nervosismo che gli avrà fatto tremare le gambe … e poi penso a loro che escono, che nascondono i passamontagna, che ripercorrono quel tratto dal portone e il cancello che Valerio è ancora vivo, per qualche secondo ancora, tra le braccia dei suoi genitori.
    Non ho suonato alla porta, non ne sarei stata capace … la mano che l’ha fatto c’è abituata, anche se credo non ci si possa abituare a mettere mano su quel campanello…penso che i polpastrelli ne soffrano, ne sentano inevitabilmente il peso incredibile.
    Tutti questi pensieri m’hanno riempito la testa e il cuore prima di varcare la porta.
    Il mio bimbo dormiva profondamente, lui non ha sentito quell’invasione di brividi che hanno riempito il corpo della sua mamma nel metter piede nell’ingresso … lui, davanti al manifesto con la Volante Rossa, davanti a quei folti capelli mossi in quella grande foto davanti a noi, non avrà provato nulla di nuovo.
    Io … bhè niente di definibile “nuovo” perchè i lineamenti di Valerio son quelli di un fratello, quelli di un viso che è sempre stato a casa, uno di quelli con cui hai chiacchierato tante volte, con cui ti sei immaginato di cordonarti in piazza, gomito a gomito in una stretta forte e orgogliosa.
    Ma è stato un’overdose di sensazioni che non so descrivere molto bene … tutte quelle foto, quei manifesti, i disegni e le poesie… poi quegli occhi belli, in una cornice di capelli grigi, in un piccolo corpo di una forza sovrumana. Valerio è ovunque in quella casa, attaccato ad ogni muro, abbracciato allo sguardo di sua madre.
    E’ stato un pomeriggio emozionante per me …
    tante volte in questi anni avevo abbracciato quella piccola grande donna: la prima volta non avevo ancora compiuto 14 anni e non la dimenticherò mai.
    Ma ieri è stato un Chinotto neri e una pastarella con calma, un po’ di chiacchiere e di sorrisi tra pochi intimi.
    Ieri è stato diverso stringere Carla, nella sua casa, nella casa dove Valerio è stato ammazzato, nella stanza dove Valerio è stato ammazzato,
    stretta agli occhi di chi se l’è visto morire davanti.
    E quindi, visto che la nostra splendida ottantenne è ormai donna di rete e di blog, di profili facebook e di dibattiti on-line, volevo scriverlo anche qui oltre che sui miei fogli stropicciati o in un Moleskine che si accumula agli altri su uno scaffale.
    Volevo scriverlo qui, in modo che anche tu, Carla, puoi vedere quanto bene fai con la tua lucidità e il tuo sorriso, con la tua forza indescrivibile, che lascia stupiti, meravigliati e innamorati.
    Grazie di questo pomeriggio che il mio bimbo non porterà nella memoria ma che gli racconterò …
    grazie, perchè da ieri ti sento più vicina ancora, malgrado tu lo sia sempre stata.

    Ed ora quella strada si starà riempiendo di compagne e compagni, ora le bandiere rosse invaderanno Via Monte Bianco e le strade vicino.
    Dopo 30 anni.
    Per ricordare un ragazzo ammazzato in casa sua, un giovane uomo, un rivoluzionario.
    ORE 16, CONCENTRAMENTO IN VIA MONTE BIANCO. CORTEO FINO A PIAZZA SEMPIONE, CON CONCERTO A SEGUIRE.

    LUNEDI 22 FEBBRAIO 2010, SEMPRE ALLE 16, L’APPUNTAMENTO E’ ANCORA UNA VOLTA DAVANTI A QUELLA LAPIDE, IN VIA MONTE BIANCO. LUNEDI’ SARANNO 30 ANNI E CI SAREMO, A PORTARE UN FIORE ROSSO AD UN RIVOLUZIONARIO UCCISO,
    A PORTARE UN FIORE ROSSO E UN ABBRACCIO ALLA SUA SPLENDIDA MAMMA.

    “Prima di morire vorrei che l’assassino suonasse ancora alla mia porta. Vorrei che, prima ancora di dirmi buongiorno, mi dicesse: “Io sono l’uomo che ha ucciso suo figlio”. Lo farei entrare e gli parlerei. Prima di morire vorrei capire. Adesso ho quasi 86 anni e vorrei conoscere tutto di quell’esecuzione.
    […]
    Quasi ogni notte sogno di essere in strada con Valerio, in un viale alberato: mezzogiorno, estate, una giornata caldissima.
    C’è una fontanella e lui s’avvicina. Alcune volte è più altro della fontanella, altre più basso. Ma sempre, per arrivare all’acqua si sporge e poco dopo si scioglie, Valerio, diventa liquido e scompare giù, nella bocca della fontanella.
    Quando mi sveglio, ogni mattina da trent’anni, voglio solo una cosa: scendere nella bocca della fontanella.”

    parole tratte da “Sia folgorante la fine” di Carla Verbano con Alessandro Capponi, Rizzoli 2010

    Erri De Luca: prendiamo congedo dall’emergenza contro i rivoluzionari del ‘900

    8 febbraio 2010 6 commenti

    Prescrizione per i governanti
    di Erri De Luca
    Le Monde 8 février 2010

    Il secolo ventesimo è stato quello delle rivoluzioni, la prima in Russia nel 1905, le ultime nell’Europa orientale dopo il collasso del patto di Varsavia. Con le rivoluzioni sono stati rovesciati i rapporti di forza e di oppressione,emancipando immense masse umane nel 1900, dall’Asia alle Americhe. E’ andata così nel mio tempo, sono stato militante rivoluzionario nell’Italia degli anni ‘70, non per estro di gioventù ma in obbedienza all’ordine del giorno del mondo.
    Sono ancora in vita gli ultimi rivoluzionari del 1900. Alcuni sono diventati capi di stato e di governo, per loro si suonano gli inni nazionali. Altri restano dietro sbarre, in esili senza fine, oppure in frastornata libertà dopo decenni scontati in prigione. Queste ultime vite andrebbero protette, perchè sono la reliquia politica del secolo delle rivoluzioni, il grandioso 1900. Per esempio andrebbero protette le vite della signora Sonia Suder e del signor Christian Gauger (accusati di aver appartenuto alla Cellule rivoluzionarie tedesche, formazione politica degli anni 70) che stanno per essere estradati dalla Francia e consegnati alle prigioni tedesche. Spedire al giorno 1 di pena, alla casella di partenza, dei rivoluzionari del 1900, colpevoli secondo l’accusa di reati politici di trenta e più anni fa (otto olimpiadi): non è solo triste, è pure antico. Ribadisce che il ventesimo è secolo ancora in corso, alla faccia del miope che l’ha intravisto breve.
    E’ invece tempo di prendere congedo dal secolo delle rivoluzioni, lasciando gli spiccioli di vita degli ultimi rivoluzionari al loro corso, togliendoli dal piccolo martirio delle ultime serrature.
    Le polizie devono attenersi a mandati anche se abbondantemente scaduti. Ma esiste la misura e la saggezza politica per correggere distorsioni e stabilire in propria autonomia il tempo di chiudere e quello di aprire.
    Le vite di Sonia Suder e Christian Gauger vanno protette non per clemenza, ma per evidenza di tempi scaduti, per diritto politico di chiudere il registro di classe del 1900. Si smette così di suddividere i rivoluzionari in vincitori da accogliere con cerimonia ufficiale, e vinti da estradare. Non perchè sono anziani, l’età, che condivido con loro, non è una attenuante. Attenua, sì, molte cose, ma non la responsabilità di essere stati dei rivoluzionari al tempo necessario.
    E’ tempo di dichiarare prescritto il 1900 delle rivoluzioni, per pura igiene fisica e mentale. I nomi di Sonia Suder e Christian Gauger, siano consegnati all’archivio politico e non alla cronaca giudiziaria. E’ una buona occasione per stabilire il primato e la sovranità della politica sulle vite umane.

    Prescription pour les gouvernants
    di Erri De Luca Le Monde 8 février 2010

    Le XXe siècle a été le siècle des révolutions, la première en Russie en 1905, les dernières en Europe de l’Est après l’effondrement du pacte de Varsovie. Les rapports de force et d’oppression se sont inversés avec les révolutions, en émancipant d’énormes masses humaines dans les années 1900, de l’Asie aux Amériques. C’est ce qui s’est passé à mon époque, j’ai été un militant révolutionnaire dans l’Italie des années 1970, non par caprice de jeunesse, mais par obéissance à l’ordre du jour du monde.
    Les derniers révolutionnaires du XXe siècle sont encore en vie. Certains sont devenus des chefs d’Etat et de gouvernement, on joue pour eux les hymnes nationaux. D’autres restent derrière les barreaux, dans des exils sans fin, ou bien dans une liberté désorientée après des dizaines d’années purgées en prison. On devrait protéger ces dernières vies, car elles sont les reliques politiques du siècle des révolutions, le grandiose XXe siècle.
    Il faudrait protéger par exemple les vies de Sonja Suder et de Christian Gauger (soupçonnés d’avoir fait partie des “cellules révolutionnaires” allemandes), qui sont sur le point d’être extradés de France et remis aux autorités allemandes. Renvoyer au jour numéro un de leur peine, à la case départ, des révolutionnaires du XXe siècle, accusés de crimes politiques vieux de trente ans ou plus (huit olympiades)Pre: c’est non seulement triste, mais dépassé. C’est réaffirmer que le XXe siècle est encore là, en dépit des myopes qui l’ont vu bref.
    Il est temps au contraire de prendre congé du siècle des révolutions, en laissant les miettes de vie des derniers révolutionnaires suivre leur cours, en les délivrant du petit martyre des dernières clôtures. Les polices doivent s’en tenir à des mandats d’arrêt, même largement expirés. Mais il existe la mesure et la sagesse politique pour corriger des distorsions et décider en toute autonomie du temps de fermer et de celui d’ouvrir.
    Les vies de Sonja Suder et de Christian Gauger doivent être protégées non par clémence, mais par évidence de temps expirés, par droit politique de fermer le cahier de classe du XXe siècle. On cessera ainsi de diviser les révolutionnaires en vainqueurs à recevoir avec des cérémonies officielles, et en vaincus à extrader. Non pas parce qu’ils sont vieux, l’âge, que je partage avec eux, n’est pas une circonstance atténuante. Oui, elle atténue beaucoup de choses, mais pas la responsabilité d’avoir été révolutionnaires au moment nécessaire.
    Il est temps de déclarer prescrit le XXe siècle des révolutions, par pure hygiène physique et mentale. Que les noms de Sonja Suder et de Christian Gauger soient consignés dans les archives politiques et non pas dans la chronique judiciaire. C’est une bonne occasion pour établir la suprématie et la souveraineté de la politique sur les vies humaines.

    Traduit de l’italien par Danièle Valin

    Questo blog aveva già parlato della vicenda di Sonja e Christian

    Martino Zicchitella

    20 dicembre 2009 2 commenti

    Prosegue la sezione di questo sito dedicata ai compagni uccisi durante azioni armate, tutti quelli che normalmente vengono rimossi dalla memoria collettiva, tutti gli “scomodi”.
    Molti in questo ultimo periodo li ho saltati. Per problemi di tempo, ma non per dimenticanza, quindi il danno verrà riparato al più presto e tutti coloro che sembravano essere stati dimenticati dalle pagine di questo blog verranno ricordati.
    Non ci si dimentica del proprio sangue.
    Il tutto è tratto dal Progetto Memoria, Edizioni Sensibili alle Foglie 

    MARTINO ZICCHITELLA

    – Nasce a Marsala il 26 aprile 1936
    – pochi anni dopo si trasferisce a Torino
    – svolge attività extra-legali e viene arrestato per rapina del ‘66
    – evade dal carcere di Firenze
    – riarrestato milita nel movimento di rivolta dentro alle carceri
    – milita nei Nuclei Armati Proletari
    – resta ucciso a Roma, durante un’azione armata dei N.A.P. il 14 dicembre 1976

    Scritture di Martino Zicchitella
    – “Memoriale redatto da Zicchitella; Anarchismo n.10 – 11, Catania 1976
    “Prima del mio arrivo nella Casa di reclusione di Lecce, mi era stato accennato come fosse usuale in questo luogo, conosciuto come il “lager del Salento”, percuotere i nuovi arrivati. Già il compagno S. N. in un memoriale presentato alla magistratura alcuni mesi fa, descriveva fatti avvenuti e metodi usati di violenza da restare sgomenti; egli si riferiva al caso di un detenuto che dopo essersi aperto il ventre dalla disperazione con un’arma da taglio, fu oggetto di un pestaggio da parte degli agenti di custodia, che lo ridussero in fin di vita a colpi di manganello e calci. Lo stesso poi (il suo nome era Caradonna), fu abbandonato in una cella sotterranea senza che gli fossero state apprestate le cure necessarie.
    Trasferito in questo stabilimento, ebbi modi di constatare, e subire, i metodi che venivano messi in atto: un trattamento riservato quasi sempre ai compagni o simpatizzanti di sinistra.
    Il 30 giugno 1975 faceva il mio ingresso nella menzionata casa penale proveniente da Rebibbia, dove fui trattato secondo il regolamento. Alla villa Bobò di Lecce invece, appena preso in consegna dal corpo di guardia del carcere, mi venne rivolta da un brigadiere degli agenti di custodia, questa frase: “E adesso che cosa avanzi?”
    Certo non potevo immaginare cosa mi sarebbe accaduto nei seguenti 80 giorni. Dopo essere stato portato in un ufficio adiacente a quello del maresciallo comandante, fui perquisito da cima a fondo, senza rispetto alcuno della personalità umana, con accurate esplorazioni anali, poi introdotto in una sezioncina detta “Reparto isolamento”: qui fui rinchiuso in una cella che non aveva alcun arredo, solo mura, porte e inferriate di ferro. Qui ci rimasi circa mezzora, dopo di che fui invitato ad uscire in un corridoio dove c’erano ad attendermi un numero considerevole di guardie (una quindicina ).
    Mi fecero percorrere il corridoio della sezione e a spintoni mi condussero in un passaggio che immetteva in un sotterraneo dello “la campana”. Si trattava di tre anguste celle lunghe due metri e trenta per uno e cinquanta. Appena scesi gli scalini e spinto in una delle tre cellette (la seconda), venni aggredito da alcune guardie che erano nel corridoio precedentemente, agli ordini di un appuntato.
    Queste mi furono addosso in un baleno e mi percossero selvaggiamente per mezzora con calci e pugni, tanto da farmi svenire e procurarmi lesioni e dolori che accusai per oltre un mese. Dopo il primo pestaggio, chiusero la porta della cella e quella della sezione andandosene. Il locale maleodorante e sudicio era umidissimo, l’unica suppellettile era un bugliolo senza coperchio nel quale c’erano ancora escrementi umani.
    Di lì a poco tempo con un rumore assordante di chiavi e ferri sbattuti, arrivarono altre guardie, era una seconda squadretta per il secondo pestaggio, l’appuntato era sempre lo stesso, aprirono la mia cella e mi si avventarono nuovamente addosso, dicendomene di tutti i colori, frasi come bastardo, fottuto, delinquente.
    Mi strapparono da dosso la camicia e i pantaloni e questa volta ricevetti anche dei colpi con un bastone. Insomma avevo le ossa e il corpo in stato pietoso, era blu per le ecchimosi, il sangue mi fuoriusciva dal naso, dalla bocca, dalle abrasioni alle braccia e al corpo. Prima che se ne andassero gettarono nella cella due secchi d’acqua allagando l’angusto locale; in queste condizioni rimasi ben 24 giorni, cioè nudo con acqua sul pavimento e con scarso cibo, per i primi tre giorni non mi dettero nulla e per un mese non vidi un raggio di luce, e non presi una boccata d’aria all’esterno.
    Nello stesso periodo ebbi modo di conoscere altri compagni che avevano subito o subirono vessazioni e pestaggi.
    Il trattamento fu pressappoco analogo per tutti: il B.D.S. fu addirittura messo in un reparto denominato “il forno”, locale strettissimo e privo di finestre, nel buio più totale, per diversi giorni. Altri due mesi, poi me li fecero trascorrere in una cella di un piano superiore, dove c’era un pancaccio e un gabinetto alla turca. Alla “campana” per tutta la durata dei 24 giorni non mi fu data né una branda né un materasso. Dormivo a terra con una coperta sudicia che subito si inzuppava d’acqua, che mi veniva consegnata la sera alle 21 e ritirata la mattina alle 8.
    Continue furono le istigazioni al suicidio e durante la notte mi costringevano ad alzarmi per il controllo della ronda, la luce era accesa giorno e notte, naturalmente per tutto il tempo che rimasi in quel buco, non potei acquistare cibo, né scrivere a mia madre, la quale dopo il mio trasferimento da Roma non sapeva dove fossi stato mandato. […]

    – Martino Zicchitella, “Assassinio di un uomo”, Porto Azzurro, in: Autori Vari, Liberare tutti i dannati della terra, Roma 1972, Edizioni Lotta Continua
    “Questa è la giustizia del nostro paese, condanne assurde, senza troppo andare per il sottile, labili indizi per ciò che concerne la colpevolezza, prove ed alibi di innocenza non tenuti in considerazione. Perché? Si tratta di un pregiudicato, pregiudicato divenuto per protesta di una società che fa schifo, democrazia di capitalisti, uomini che sfruttano milioni di altri uomini, salariandoli con molliche di pane, briciole lasciate cascare dalla loro sontuosa mensa, briciole che non sfamano, gocce che tengono in vita un moribondo.
    Pregiudicato è colui che, stanco dei soprusi, stanco di essere sfruttato, stanco del massacrante turno di lavoro, dice al padrone: basta, ladro, restituiscimi ciò che mi hai rubato prima.
    Stenti e fame alle dipendenze del padrone.
    Stenti e fame durante l’espiazione della pena.
    Stenti e fame dopo l’espiazione, scacciato e insultato.
    Pregiudicato e operaio da noi, negro in America non sono che forme di preconcetti razziali del capitalismo, dei padroni che ci trattano come servi della gleba, quei padroni che vivono senza sapere che vuol dire un’esistenza squallida, nella miseria, senza sapere cosa significa desiderare pane e mortadella, di non aver avuto da bambino il piacere di possedere un giocattolo costoso, a volte il calore e l’affetto di una famiglia, del focolare.
    L’orfanotrofio, il correzionale, il carcere, ecco sfornato il pregiudicato. Ed ora? … marcisca in una patria galera … rieducarlo ora? macché, carne da macello, taluni gridano pena di morte, altri no! Fatelo vivere, fatelo vegetare, l’organizzata industria della giustizia deve avere la sua materia prima.
    Polizia, carabinieri, parte di una florida industria che produce … pregiudicati, e criminali, il carcere è l’università ove si laurea, la scuola per delinquere, il giovane che vi è rinchiuso oggi per un furtarello, sarà il rapinatore o l’assassino di domani, non importa, l’industria non deve fallire.
    Le carceri magazzini di carne umana sono zeppe, si raggiunge ormai, in ogni stabilimento penale o giudiziario, la saturazione, uno sull’altro come animali, l’esempio più classico dei tre compagni arsi vivi a San Vittore in un’angusta cella, dico tre persone … tre giovani vite stroncate nel fiore dell’età per una assurda condizione carceraria, per il sadismo edilizio che costringe tre giovani a stare rinchiusi in due metri quadrati di spazio.
    Nel carcere di Torino sono stato compagno di cella con Bobbio, Viale, Bosio, Mochi Sismondi, compagni e seguaci di Lotta Continua, al loro fianco ho compreso veramente il valore di ciò che significhi lotta per la libertà, lotta al capitalismo: ed a tutte le sue strutture borghesi, con profonde radici fasciste.
    Con loro ho vissuto momenti di vera fratellanza, fummo commensali, discutemmo sulle occupazioni delle fabbriche, delle università, la Fiat, Palazzo Campana. Su queste basi capeggiai nell’estate ’68 una rivolta passiva. Un sit-in alla Bertrand Russel a protesta e a richiesta che si facesse di più per i detenuti, che si riformassero i codici, che si varasse l’ordinamento carcerario, fui prelevato di peso, attaccato dalla Stampa per il mio gesto e trasferito in casa di rigore. Ancora una volta dovetti subire la repressione da parte della polizia e voluta dai capitalisti.
    Dovrò ancora scontare oltre 15 anni di carcere per dei reati che non ho commesso, con ingiustizie e provocazioni: uscirò … debbo uscire per scendere ancora in piazza e alzare la destra, serrare il pugno, dovrò contestare, dovrò combattere la polizia mia acerrima nemica, il capitalismo dovrà essere sconfitto, e con loro i servi e i fascisti, dovrò uscire per raggiungere i miei compagni e marciare al loro fianco verso un nuovo orizzonte.”

    Documenti prodotti da organizzazioni armate per la persone o per l’evento in cui ha incontrato la morte
    – Nuclei Armati Proletari, “Onore al compagno Zicchitella”, Roma 1976
    “Il compagno Martino Zicchitella nacque a Marsala il 26-4-1936 ma fin da piccolo ha vissuto a Torino, la città della borghesia savoiarda, degli ex-repubblichini, la citta dei Valletta, la città in cui la sperequazione capitalistica è più evidente e più umiliante. La città metropoli in cui, già negli anni del boom, la vita sociale è pianificata, controllata e manipolata; dove ogni attività è finalizzata alla produzione di plusvalore e consenso, attraverso l’utilizzazione dei più rudimentali mass-media del tardo capitalismo.
    Dai casermoni di Via Verdi ai portici di Via Roma lastricati di marmo, alla Barriera di Milano, alla Crocetta, i salariati di Torino si battono tra centinaia di contraddizioni giornaliere, simili a quelle di qualsiasi altro paese capitalista, ma tutte riconducibili a una sola: quella della propria appartenenza di classe, del proprio potere di acquisto dal quale dipende la gradazione della propria identità umana e sociale. Qui l’acquisizione e l’interiorizzazione dei valori legati all’ideologia borghese non sono scelta, sono induzione violenta, costante, asfissiante.
    Martino sceglie la strada dell’appropriazione violenta ed individuale del benessere padronale: quella della rapina, per cui viene arrestato nel ’66.
    Durante l’alluvione di Firenze, Martino evade, vive ancora contraddittoriamente la sua realtà di proletario detenuto; salverà invece alcuni giovani dalla melma dell’Arno.
    Il carcere e lo scontro che in esso si vive collettivamente gli fanno acquisire i primi elementi di coscienza rivoluzionaria e lo portano nel ’68 alla testa, come direzione ed avanguardia riconosciuta, delle prime dimostrazioni pacifiche nelle carceri “Nuove” di Torino, alle quali il potere risponde brutalmente, come sempre.
    Nel ’70 Martino ha pienamente chiarificato la sua identità, ha identificato lo Stato anche nelle sue appendici carcerarie e riesce ad evadere da Alessandria.
    Rimane fuori poche ore con le gambe spezzate per il salto dal muro di cinta. Ripreso viene massacrato dalle guardie e rimarrà claudicante.
    Nel ’71 è alla testa della rivolta delle “Nuove”. Con lui altri compagni che in quelle lotte e da quelle lotte hanno con sequenzialmente maturato la scelta della lotta armata; all’interno della quale rappresentano le avanguardie più alte e più coscienti del proletariato detenuto, al quale la loro prassi fornisce le più chiare indicazioni: l’evasione e l’organizzazione combattente.
    Il ’71 è l’anno di Attica per i proletari che si ribellano in USA; quello di Porto Azzurro per i compagni come Martino. Le successive rivolte ad Alghero, Noto, Enna, lo vedono farsi carico, nella gestione delle lotte, degli interessi di sopravvivenza dei proletari prigionieri, della loro necessità di organizzarsi e combattere.
    Nel ’74 a Viterbo inizia un confronto con altre avanguardie espresse dalle lotte dei detenuti sulla costituzione in organizzazione politico-militare all’esterno di alcune avanguardie rivoluzionarie.
    Con la presenza a Viterbo di un militante dei NAP, il confronto prosegue e si sviluppa interno-esterno, sul piano politico quanto su quello organizzativo-militare.
    Partecipa così alla costruzione e alla realizzazione della operazione coordinata con l’attacco armato interno-esterno del maggio ’75 che vede al primo posto la parola d’ordine della liberazione dei combattenti comunisti prigionieri.
    L’attacco interno non coglie l’obiettivo della liberazione ma, per effetto dell’attacco esterno che vede imprigionato il boia Di Gennaro, è comunque un momento di enorme crescita politico-militare che Martino fa suo patrimonio all’interno dell’organizzazione dei NAP.
    Trasferito a Lecce per rappresaglia subisce per mesi torture fisiche e psicologiche ma non cessa di porsi come direzione dello scontro organizzando e realizzando con un altro militante dei NAP l’azione armata dell’agosto ’76 che porta alla liberazione di 11 prigionieri.
    La sua morte nello scontro di Roma caratterizza e definisce la sua vita e la sua coerenza di combattente comunista.”

    Martino Zicchitella

    Aggressione a Berlusconi: è guerra civile borghese, non c’entrano nulla gli anni 70

    14 dicembre 2009 2 commenti

     

    L’aggressore è uno squilibrato e in piazza a contestare il leader del Pdl non c’erano i centri sociali ma giovani che sventolavano Il Fatto,quotidiano portavoce del giustizialismo populista più fazioso, «destra d’opposizione» qualunquista, reazionaria, ultralegittimista, borghese e forcaiola

    di Paolo Persichetti, Liberazione 14 dicembre 2009

    “Tutta colpa degli anni 70, madama la marchesa!”. Gli stessi che oggi ripetono come un ritornello questa frase, negli anni 70 se la prendevano con gli scioperi e i sindacati.

    Facce d’Italia: Silvio Berlusconi

    Domenica sera, Silvio Berlusconi era stato appena colpito mentre salutava la folla alla fine del suo comizio che subito sulle televisioni e nei commenti a caldo dei politici venivano evocati gli anni 70, anzi il loro spettro. Prim’ancora che fosse reso noto il nome dell’aggressore, si era già scatenata la caccia al suo possibile identikit politico-culturale. Sospettati numero uno: gli «antagonisti» (che poi con gli anni 70 non c’entrano nulla). Sembrava proprio che dovesse essere uno di loro, anzi non poteva che essere un «militante dei centri sociali». Gli speaker trasmettevano ai telespettatori l’ansia spasmodica per una conferma del genere. Il leader della lega, Umberto Bossi, non aveva dubbi: il lancio di un souvenir acquistato su una bancarella limitrofa al luogo del misfatto altro non era che un «atto di terrorismo».

    Vedrete che fra un po’ ne vieteranno l’acquisto. Quando il nome del quarantaduenne Massimo Tartaglia è arrivato sulle agenzie, la giornalista di Canale 5, lasciando trapelare un certo rammarico, precisava che l’individuo era sconosciuto alla digos e non risultavano segnalazioni o precedenti penali a suo carico.

    Facce d’Italia: Federico Aldovrandi

    Non era il tanto atteso «militante dei centri sociali» e nemmeno uno che aveva frequentato le galere per motivi politici. Niente di tutto questo. Si trattava soltanto di un anonimo cittadino senza militanza politica alle spalle, certo fomentato dall’antiberlusconismo dell’ultimo periodo ma con una decennale storia clinica legata ad uno squilibro mentale  emerso, a quanto sembra, quando era diciottenne, tanto che la psicologa che lo aveva in cura è stata convocata in questura per assistere all’interrogatorio. L’uomo, infatti, è subito apparso agli inquirenti in stato confusionale, incapace di tenere discorsi coerenti. Se così stanno le cose, che c’entra allora il clima da anni 70 chiamato in causa anche il giorno successivo sui giornali? La domanda è più che mai opportuna perché rinvia alla giusta comprensione di quel che sta accadendo in Italia negli ultimi tempi. In piazza a contestare il comizio del presidente del consiglio non c’erano i centri sociali e nessun altra componente della galassia antagonista, ma alcune centinaia di giovani che sventolavano Il Fatto quotidiano portavoce del giustizialismo populista più fazioso e la cui ferocità è speculare solo ai discorsi dei leghisti e di alcuni esponenti del Pdl.
    Un pezzo delle molteplici anime che compongono il popolo viola, sicuramente il peggiore, certamente un settore che, nella caotica e instabile geografia dalle fragili identità culturali attuali, può essere classificato come una «destra d’opposizione»: qualunquista, reazionaria, ultralegittimista, forcaiola. Espressione dell’indignazione di ceti sociali medioborghesi che si abbeverano sui testi di Travaglio e Saviano, che guardano in tv Anno zero, ascoltano i discorsi di Di Pietro, leggono D’Avanzo e Bonini su Repubblica. Di nuovo la domanda: perché evocare gli anni 70?

    Marcello Lonzi

    Un’epoca intrisa di marxismo dove gli attori in movimento erano altri e la società veniva letta utilizzando paradigmi meno semplificatori, legati ai conflitti e alle interazioni tra blocchi sociali e senza quella delirante contraddizione in termini presente oggi in chi assalta palchi in nome della legalità e della magistratura. Sorge il sospetto che alla fine gli anni 70 siano solo un comodo capro espiatorio verso il quale indirizzare la vendetta. In primis per quella guerra civile simulata, e tutta borghese, che Berlusconi in persona conduce con grande abilità. «Guerra civile legale» o «guerra civile fredda», sono solo alcune delle definizioni coniate dagli studiosi per descrivere situazioni di conflitto simili a quelle che si vivono in Italia oggi. Uno scontro molto duro divide verticalmente la borghesia italiana. L’ala condotta da Berlusconi fronteggia l’asse storico dei potentati economici italiani, capeggiati dal gruppo editoriale Repubblica-Espresso guidato da De Benedetti. Tanto più speculari sono le parti in conflitto, tanto più lacerante è il livello dell’inimicizia espressa.

    Facce d’Italia: al g-8 di Genova

    Il ceto politico ricalca questa divisione, diversamente da quanto accadeva durante la prima repubblica quando dietro le quinte anche Berlinguer e Almirante arrivavano a parlarsi, sia pur mimando in pubblico una reciproca distanza ostile. Uno scontro agitato da metafore buone per una popolazione ridotta a spettatrice sugli spalti delle arene giudiziarie. Le metafore sono quelle dei mafiosi da una parte e dei comunisti dall’altra con cui le due opposte fazioni si etichettano. La personalizzazione della politica, tanto efficacemente interpretata da Berlusconi, figlia del presidenzialismo virtuale che la costituzione materiale ha di fatto imposto a quella legale, attira come una calamita sul corpo del premier consenso e dissenso, venerazione e odio delle folle. Negli Usa 4 presidenti e un candidato sono stati uccisi, altri 10 hanno subito attentati. Stessa sorte per i capi di Stato francesi, compresi i due colpi di carabina esplosi contro Jacques Chirac il 14 luglio 2002. Verrebbe da dire: è il presidenzialismo, bellezza!

    Sonja e Christian: altre 2 estradizioni annunciate

    21 novembre 2009 4 commenti

    Quando la memoria si fa vendetta
    dal blog Damnatio Memoriae  prendo questo lungo articolo. Finalmente del materiale in italiano -OTTIMO- su questi due compagni rifugiati in Francia. 

    Ancora due estradizioni

    Fatta a pezzi la dottrina Mitterrand, la Francia non si vergogna più di tradire la parola data, di rinnegare l’ospitalità concessa.
    Stavolta sono due ex-militanti tedeschi degli anni ’70 a subire la vendetta di Stato.
    La loro storia ripropone le assurdità di quella di Paolo Persichetti, Cesare Battisti e Marina Petrella.
    Come i militanti italiani, anche Sonja Suder (oggi 76 anni) e Christian Gauger (68) si erano rifugiati in Francia, dopo aver militato nelle Revolutionäre Zellen (RZ), organizzazione autonoma di cui s’è parlato nel post sulla strage di Bologna.
    Sonja e Christian arrivano in Francia nel 1978 e vivono a Lille, una cittadina di provincia, dove campano da ‘brocante’ con pochi soldi, recuperando, riparando e rivendendo oggetti al mercato delle pulci.

     Nel 2000, vengono arrestati su mandato estradizionale della Repubblica Federale Tedesca, che rimprovera loro la partecipazione a tre azioni incruente : nell’agosto 1977 le esplosioni contro la ditta MAN di Norimberga e la ditta KSB di Frankenthal, e nel maggio 1978 l’incendio al castello di Heidelberg.
    Gli attacchi furono rivendicati dalle Revolutionäre Zellen (RZ), che accusavano le due imprese di produrre compressori e pompe per il nucleare, esportandole tra l’altro verso il Sud Africa, dove vigeva l’apartheid razzista (siamo al tempo del massacro del ghetto di Soweto, con Nelson Mandela incarcerato come terrorista), ed il sindaco di Heidelberg della politica di distruzione di quartieri cittadini per farne delle zone destinate ai ricchi. [‘Gentrificazione’, dall’inglese gentry, nobile, è il neologismo che oggi si usa per indicare questi processi di modificazione classista del territorio urbano.]

    Ulteriore accusa contro Sonja, era di aver contribuito al reclutamento nelle RZ di Hans-Joachim Klein e all’organizzazione logistica dell’attacco alla sede dell’OPEP a Vienna nel 1975. Tre mesi dopo quel primo arresto sono messi in libertà provvisoria su cauzione ed in seguito la corte parigina emette un ‘avviso sfavorevole’ all’estradizione. La possibilità di perseguire i due viene negata alla Germania poiché i reati sono, secondo il diritto francese, prescritti per i molti anni passati dagli avvenimenti.

    Sonja e Christian, il cui rifugio in Francia sembra solidamente garantito da una sentenza definitiva, riprendono così una vita ‘normale’ da esiliati, per la prima volta alla luce del sole. Per la prima volta dopo 22 anni, possono allacciare rapporti sociali apertamente, senza nascondersi, ed entrare in contatto anche con altri esiliati, tra cui gli italiani, che offrono loro appoggio solidale.
    Per Christian la ritrovata condizione di legalità è inoltre particolarmente importante, poiché gli permette di accedere alle cure mediche di cui ha urgente bisogno, per i gravi problemi cardiaci di cui soffre.Ciò che invece sta proprio in quegli anni cominciando a cambiare, è la politica di asilo del governo.

    Dall’elezione del socialista François Mitterrand alla Presidenza della Repubblica, nel 1981, la Francia aveva preferito non estradare gli ex-militanti rifugiatisi sul suo territorio. Il principio seguito era quello dell’ospitalità verso chi, esiliandosi apertamente e quindi rispettando le leggi del paese che li accoglie, avesse rinunciato alla lotta armata.
    Quali che fossero le sentenze nelle procedure d’estradizione verso l’Italia, e cioè anche in caso di “parere favorevole all’estradizione”, la Francia non rimpatriava i rifugiati politici di fatto. Indifferenti a tentativi e proteste delle autorità italiane, tutti i governi francesi continuarono a seguire questo principio, che aveva del resto un aspetto utilitario di un certo rilievo, almeno nei primi anni: evitare la clandestinità sul proprio territorio di centinaia di ex-militanti, ed evitare così di spingerli di nuovo all’illegalità.

    Dopo i famosi attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti, tutto cambia: ora il principio si chiama ‘tolleranza zero’. Il 25 agosto 2002 viene eseguita nel giro di poche ore l’estradizione di Paolo Persichetti, che da 8 anni era stato lasciato lavorare e studiare alla luce del sole. 
    Seguirà Cesare Battisti, anche lui ‘legalizzato’ con un permesso di soggiorno, dopo aver subito, 13 anni prima, un processo estradizionale risoltosi con un “parere sfavorevole”, che è ri-arrestato nel 2004 e ri-processato fino ad ottenere un “parere favorevole” (per gli stessi reati del precedente “parere sfavorevole”).
    Nel 2007 è di nuovo la volta di Sonja e Christian.
    Vanno in farmacia a prendere delle medicine e vengono catturati: “un agguato puro, come nel caso di Paolo”, commentano.
    E come nel caso di Cesare, di nuovo un processo estradizionale per le stesse accuse, fino ad ottenere un “parere favorevole”, che arriva nel febbraio 2009.
    Questa volta, per cappottare la prima sentenza, i giudici dicono che i termini di prescrizione applicabili sono quelli tedeschi.
    E subito, nel luglio 2009, il Primo ministro François Fillon firma il decreto d’estradizione, che viene comunicato a fine ottobre.

    Accuse senza atti

    Sonja e Christian, difesi dall’avvocato Irène Terrel, hanno ancora un ricorso aperto al Consiglio di Stato. Il loro pessimismo è purtroppo legittimo.
    “Se ci estradano, finiamo in prigione a Hessen. Gli avvocati tenteranno ovviamente di tirarci fuori, ma chissà quando tempo occorrerà per il processo. Sarà messo in cantiere quando saremo nel paese. Anche gli atti non li si riceve prima, e così non si può neppure preparare una strategia difensiva.”
    Ciò che si sa, è che il loro coinvolgimento nei procedimenti penali contro le RZ (sui gruppi Revolutionäre Zellen e Rote Zora si è detto nel post sul caso Thomas Kram), è dovuto alle dichiarazioni del 1978 di un altro militante, Hermann Feiling.
    Hermann Feiling, all’epoca studente di 26 anni, venne colpito dall’esplosione di una bomba che era destinata al consolato argentino di Monaco per protesta contro la feroce repressione scatenata dalla dittatura militare. Quel 23 giugno 1978, l’esplosivo, che avrebbe al più rotto qualche mattone del muro consolare, lo ridusse in fin di vita. Il suo ‘interrogatorio’ cominciò meno di 24 ore dopo le operazioni chirurgiche d’urgenza che dovette subire. Le autorità volevano approfittare della situazione per “penetrare nelle Cellule Rivoluzionarie” -come dichiarò il Procuratore federale Kurt Rebmann in una conferenza stampa il 4 luglio- di cui conoscevano poco o niente. Ti è esplosa una bomba sulle ginocchia: hai perso le gambe (amputazioni sopra la coscia), e gli occhi (estrazione dei bulbi oculari). Sei rintronato, letteralmente (epilessia post-traumatica), e i tuoi sensi sono alterati (lesioni cerebrali alla funzione della memoria).
    Un essere umano in queste condizioni ha bisogno di aiuto, di cure, di protezione. Negargliele per intero, esercitando un potere assoluto sulle sue condizioni, è un trattamento inumano.Nel buio in cui hai paura di essere abbandonato, qualcuno ti fa capire di volerti aiutare, di essere dalla tua parte. Sei circondato solo da investigatori, procuratori, guardiani e personale medico, ma hai sentito un nome che credi sia del tuo avvocato, e quelli sono tutto il ‘tuo’ ambiente sociale che ti ‘sostiene’, l’unico contatto che ti racconta il mondo che non vedi più. Hai un male cane, ti riempiono di medicine (Dipidolor, a base di morfina, Valium a siringate) che ti rendono ancora più strano, ma ti alleviano il dolore, e loro ti parlano, ti chiedono.
    Così è stato ‘sentito’ Heiling, a cominciare dalla clinica universitaria in cui venne ricoverato d’urgenza, isolato per quattro mesi da ogni contatto con familiari, amici e difensori; questa misura di ‘Kontaktsperre’, usata nei regimi di reclusione più duri per i ‘terroristi’, non era neppure basata su un ordine di arresto, e addirittura ‘Der Spiegel’, il settimanale del gruppo Springer nemico giurato dei terroristi, se ne mostrò sorpreso.

     L’articolo che lo Spiegel pubblicò a commento del processo, nel novembre 1980, si chiedeva: Un uomo senza gambe né occhi sul banco degli accusati. Combattere i terroristi a qualsiasi prezzo? 

    Nella sua dichiarazione al processo, Hermann Feiling ebbe a dire: La mia condizione di pericolo di vita, il traumatismo dopo l’accecamento, il mio assoluto disorientamento, la mia totale impotenza capitarono al momento giusto per investigatori, dopo anni di frustrazioni. Le 1330 pagine di verbali, che proverrebbero da me, sono il frutto di quella situazione. Lì ci sono anche persone del mio fantastico mondo dei sogni di allora che vengono chiamate in causa in relazione alle RZ, o vengono accusate persone che io non ho mai conosciuto.Un paio di luminari della contro-guerriglia media attesteranno che Hermann era in perfette condizioni per rispondere coscientemente agli interrogatori, magari non da subito, ma quasi. (vedi le perizie del Prof. Mentzos e del Prof. Jacob)

    Dell’uso della malattia come strumento di indagine, di cui s’è parlato recentemente in Italia (per il suicidio di Diana Blefari Melazzi) c’è un altro episodio che sembra ricalcare quello di Hermann Feiling.

     Nel 2002, in Grecia, il pittore di icone Savvas Xiros ebbe pure lui un incidente con una bomba, che gli costò tra l’altro le mani.
    E pure lì la polizia brancolava nel buio da anni e saltò sull’occasione. L’organizzazione clandestina cui davano la caccia si chiamava 17 Novembre, e nessuno dei suoi membri era stato mai identificato. Con le ‘interviste’ ad un uomo in brandelli riuscirono a prenderne i militanti e ad irrorarli di ergastoli. Giustificarono poi i metodi da ‘Guantanamo greca’ dicendo che Savvas non era in stato di arresto, e tutti quegli incappucciati che lo circondavano erano li ‘per proteggerlo’.

    Le ragioni dell’accusa
     

    Le narrazioni di Hermann Feiling sono dunque il primo pilastro dell’accusa, che vorrebbe fare a Sonja e Christian un ennesimo ‘ultimo processo alle RZ’. Ennesimo, perché già il processo conclusosi il 19 febbraio 2009 a Stammheim era stato chiamato così dalla stampa (vedi Il processo a Thomas K., anche per alcuni tratti storici e politici delle RZ).
    Il secondo pilastro dell’accusa è costituito dalle dichiarazioni di un pentito, Hans-Joachim Klein, che ha raccontato che Sonja lo avrebbe messo in contatto, nel 1975, con il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina ‘External Operations’(PFLP-EO) per organizzare l’attacco alla sede dell’OPEP di Vienna.
    Klein fece da ‘testimone della corona’ (Kronzeuge, delatore premiato) in quel processo e ne ottenne in cambio la libertà (fece 3 degli 8 anni di condanna, anziché tre ergastoli).
    Il tribunale di Francoforte assolse però Rudolph Schindler, altro ex-militante delle RZ accusato degli stessi fatti rimproverati ancora oggi a Sonja, perché ritenne Hans-Joachim Klein completamente inattendibile.Anche questo secondo ‘pilastro’ è di sabbia, tanto che ci si chiede che senso abbia mantenere un mandato di cattura internazionale, perché spingere tanto una procedura d’estradizione, per accuse così fragili e dopo 34 anni dai fatti? “Mancanza di pentimento e di disponibilità a cooperare vanno punite, altrimenti non non si faranno più accordi e nemmeno paura. Quando dei militanti della sinstra se la cavano, è una piccola, ma fondamentale trasgressione della ragion di Stato.” Così commenta Analyse&Kritik (‘Non perdonare nulla, non dimenticare nulla’ Nr. 538/17.4.2009), e che ci sia voglia di esemplarità in è l’unica spiegazione sensata di questo caso. La vedono anche Sonja e Christian: “… si crede, con un processo come questo, di poter dimostrare alla nascente resistenza che nessuno se la cava.”

    La memoria giudiziaria

    Da parte sua, il Ministero pubblico di Francoforte si nasconde dietro il dito della legalità: “Noi dobbiamo perseguire fino alla prescrizione”, dice la sua portavoce Doris Möller-Scheu “e da noi l’omicidio non va in prescrizione.” Omicidio? Allude alle vittime dell’attacco all’OPEP, cui Sonja non ha partecipato, non ve ne sono altre possibili perché la violenza praticata dalle RZ escludeva il ricorso all’assassinio politico.

     Ciò che è in realtà successo, è che la seconda richiesta di estradizione si è basata soprattutto su una nuova, grande disponibilità francese a collaborare nella repressione a tolleranza zero, ed ha approfittato di un nuovo accordo bilaterale che consente di tenere conto dei termini di prescrizione non del paese richiesto, come è stato sino ad ora in tutte le Convenzioni d’estradizione, ma del paese richiedente. E in Germania i termini di prescrizione per reati con uso di esplosivo sono stati aumentati a 40 anni, mentre in Francia, come si è visto, tutti i reati di cui sono accusati Sonja e Christian sono ormai prescritti. Con l’istituto della prescrizione lo Stato sancisce un termine temporale oltre il quale esso rinuncia a perseguire e punire un reato. Il trascorrere del tempo assume dunque il ruolo di recidere definitivamente il legame tra reato e pena. Tra le ragioni che fondano la memoria giudiziaria come limitata nel tempo -e inevitabilmente seguita dall’oblio giudiziario- spiccano due orientamenti: uno è di prospettiva garantista, che vede la prescrizione come una forma di tutela del cittadino dall’ingerenza dello Stato (senza necessariamente esplicitare un diritto soggettivo alla prescrizione); un altro è di ordine utilitaristico, che vede nel lungo trascorrere del tempo la perdita dell’interesse dello Stato a punire, stante che non può più invocare la necessità di integrare l’ordine pubblico turbato dal reato.
    Sul piano che il diritto chiama di ‘prevenzione speciale’, si considera che il tempo, incidendo anche sulla natura psichica della persona, la trasformi, sicché la pena che arrivi tardi, quando il legame tra autore e fatto è ormai dissolto, colpirà un individuo ormai diverso, sul quale non avrà alcun effetto rieducativo. Una punizione tardiva rispetto al reato, priva d’una ragione di essere, non può che apparire una vendetta.
    Salvo che la concezione della pena come controllo sociale non necessiti di un ‘esempio’, del monito ‘puniremo sempre e comunque ogni atto di ribellione sociale’: una scelta integralmente politica che non ha più nulla a che vedere con considerazioni giuridiche.
    La prescrizione, che costituisce una rinuncia preventiva al potere repressivo dello Stato, non esiste nei paesi anglosassoni ordinati secondo la ‘common law’. La loro memoria giudiziaria è in questo senso assoluta e senza fine. L’oblio lì interviene prima, poiché essi conoscono la discrezionalità dell’azione penale, che pure permette la rinuncia preventiva alla repressione. Gli USA hanno così chiesto ed ottenuto l’arresto estradizionale, in Svizzera, del regista franco-polacco Roman Polanski, per il reato di rapporti sessuali illeciti con una minorenne.Per l’ordinamento svizzero, il reato è largamente prescritto, ma la Confederazione si è pecorescamente sottomessa ad un accordo bilaterale con gli Stati Uniti che fa prevalere la legge statunitense, e dovrà estradarlo.
    Che c’entra, è presto detto.

    Il Presidente francese Nicolas Sarkozy, che deve autorizzare la consegna di Sonja e Christian, ha pubblicamente protestato contro l’arresto estradizionale di Polanski, scandalizzandosi del fatto che il giudizio venga dopo 32 anni, quando ormai l’interessato ne ha 76. Ne ha parlato in un’intervista a Le Figaro il 15.10.09, poi Le Monde del 27.10.09 ha messo in relazione la su affermazione con il caso di Sonja Suder e Christian Gauger. L’articolo di Le Monde sul caso ripete però un luogo comune che non corrisponde alla realtà storica, poiché dice che le Cellule Rivoluzionarie erano “un’organizzazione vicina alla Rote Armee Fraktion”, mentre in realtà le due formazioni non avevano legami, né organizzativi né politici. Ma erano senz’altro assai poco conosciute fuori dalla Germania. In un riquadro, Le Monde segnalava ancora che era in preparazione una lettera a Sarkozy. Ora è stata fatta e gli è stata inviata. Eccola.

    Lettera aperta indirizzata al Presidente della Repubblica da alcune persone senza qualità né titoli particolari

    Signor Presidente della Repubblica,
    Lei ha affermato, a proposito dell’affare Polanski: “Pronunciarsi trentadue anni dopo i fatti, ora che l’interessato ha settantasei anni, non è buona amministrazione della giustizia” (Le Figaro del 16.10.2009). In questo enunciato Lei non ha espresso una semplice opinione, ma ha invece richiamato un principio fondamentale del diritto, evocando la necessità imperativa di limiti temporali all’esercizio della giustizia penale, principio affermato ‘in dottrina, norma e giurisprudenza’. Senza il quale, una giustizia che si pretendesse ‘infinita’ diverrebbe una teologia della vendetta.
    Sul caso che è all’origine della Sua essenziale messa a punto, è stato scritto, Signor Presidente: “esiste un solo argomento a favore di Polanski, ma decisivo: il tempo…”.
    Già il diritto romano considerava che il trascorrere dei decenni estingue progressivamente la turbativa provocata dall’atto originario, “e ciò traduce, in tutte le culture, un più alto principio di civiltà”. Se ci si attiene a questo principio, nessun privilegio quindi, per chicchessia, soltanto ‘una difesa logica, generale, uguale per tutti’.
    Converrà, Signor Presidente che evocarlo in un caso per derogarne in seguito l’applicazione in un altro caso sarebbe peggio ancora che ignorarlo.
    Orbene, nel momento stesso in cui Lei rilasciava questa dichiarazione, due cittadini tedeschi, Sonja Suder e Christian Gauger, rispettivamente di settantasei e sessantotto anni di età, si vedevano notificare un decreto di estradizione in forza di accuse risalenti a più di trent’anni e riguardanti fatti a carattere politico, sopravvenuti nel contesto dei movimenti sociali radicali degli anni settanta in Germania.

    ScrivendoLe, signor Presidente, ci siamo fatti divieto di far valere come argomenti i nostri affetti e i nostri specifici giudizi di valore sui contesti storici e sociali e a fortiori sulle persone: ci siamo imposti di attenerci qui alla sola lettera del diritto.
    Con questa decisione che spetta esclusivamente all’esecutivo, lo Stato di cui Lei è il primo magistrato, potrebbe a termine consegnare alla giustizia tedesca due persone in vista di un processo che si svolgerebbe ben al di là dei ‘termini ragionevoli’ richiesti per un ‘processo equo’.
    L’estradizione di Sonja Suder e Christian Gauger significherebbe comunque consegnarli a una lunga detenzione preventiva, dal momento che in forza delle disposizioni in vigore in Germania, rimangono pur sempre degli imputati in attesa di giudizio. Ci sembra inoltre importante ricordare che quest’uomo e questa donna hanno già sofferto di questa ‘giustizia che non rinuncia mai’.
    Nel 2001 infatti, la Sezione istruttoria della Corte d’Appello di Parigi li ha dichiarati non estradabili poiché la Germania imputava loro fatti prescritti in diritto francese. Ciononostante, questa stessa sezione li ha giudicati estradabili per gli stessi fatti, sulla base della Convenzione di Dublino, appena introdotta, secondo la quale i dispositivi di prescrizione che governano l’estradizione sono ormai quelli del paese richiedente. Orbene, l’applicazione di questa convenzione al caso di Sonja Suder e Christian Gauger calpesta due principi essenziali dei diritto: ‘l’autorità della cosa giudicata’ e il carattere non retroattivo dei testi repressivi allorché essi aggravano la situazione degli imputati.
    Non possiamo credere, signor Presidente, che Lei non applicherà a queste due persone il criterio che ha pubblicamente difeso. Tanto più che esse rientrano pienamente nella ‘clausola umanitaria’ prevista dai testi internazionali. Non fosse che per questi due motivi, s’impone l’annullamento dei decreti di estradizione nei confronti di Sonja Suder e Christian Gauger.
    Ci sembra inoltre signor Presidente che da questo principio di ‘civiltà giuridica’ che la Francia rivendica, derivi inoltre la decisione di non procedere a nessuna estradizione per fatti risalenti a più di un quarto di secolo.
    Ecco quello che volevamo dirLe signor Presidente, noi che siamo oggi inquieti per le minacce che pesano sulla vita di Sonia Suder e Christian Gauger.
    La ringraziamo dell’attenzione che vorrà riservare al nostro appello.

    Parigi, 5 novembre 2009
    Jean-Michel Arberet
    Emmannuelle Bastid
    Jean-Pierre Bastid
    Claire Blain-Cramer
    Gilles Berard
    François Chouquet
    Guido Cuccolo
    Claudio Di Giambattista
    Aitor Fernández-Pacheco
    Claudio Ielmini
    Mouloud Kaced
    Janie Lacoste
    Ezio La Penna
    Lucia Martini-Scalzone
    Elda Necchi
    Isabelle Parion
    Claudine Romeo
    Luigi Rosati-Elongui
    May Sanchez
    Oreste Scalzone
    Gianni Stefan
    Hanlor Tardieu …


    L’indirizzo email per sottoscrivere la lettera è: contact[at]stopextraditions.info
    Sito per Sonja e Christian 

    L’odio per gli anni ’70 e la retorica dei “calli”

    15 novembre 2009 4 commenti

    C’è una categoria di questo blog a cui tengo molto.
    E’ quella dedicata ai
    compagni uccisi, una sezione aggiornata costantemente (purtroppo la lista è lunga ed io sono lenta) con pagine di ricordo che hanno come fonte principale gli “Sguardi Ritrovati”, secondo volume del Progetto Memoria (Ed. Sensibili alle Foglie), dedicato a tutti i compagni che hanno perso la vita durante azioni armate.
    Io amo ricordare anche loro. Tra i miei morti, quelli che sento parte della mia storia, c’è tutta quella generazione di operai e di sfruttati, di studenti e proletari che scelsero di provarci con le armi a sovvertire questo paese.
    Una di queste pagine è dedicata a
    Margherita Cagol, tra le fondatrici delle Brigate Rosse, uccisa dai carabinieri di Dalla Chiesa in uno scontro a fuoco durante il sequestro Gancia, in una cascina delle langhe piemontesi.

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    Margherita Cagol, durante una manifestazione

    Pochi giorni fa il signor Piep Piper, così si è firmato, m’ha lasciato un commento che m’ha particolarmente irritato…
    commento che per un po’ ho lasciato a marcire, in sospeso. Il tono è di quelli da vecchio comunista del P.C.I., di quelli che denunciavano gli operai dentro le fabbriche; in più mi accusa della mia età, divertentissimo!
    Ora l’ho approvato ed è stato decorato meravigliosamente da una risposta a firma di Paolo Persichetti che sento di sottoscrivere in tono e con sommo piacere … quindi vi riposto qui questo allegro dibattito…
    Se volete, i microfoni sono aperti: questo il
    link del vecchio post.

    Piep Piper: ” Vedo con raccapriccio che la demenza ideologica mascherata da poesia libertaria fa ancora proseliti, anche tra chi, essendo nata nel 1982, di quello che sono stati i sanguinosi anni 70′, probabilmente ha solo leggiucchiato in piena era già berlusconiana. Si vergogni, la Cagol era solo una potenziale assassina, allo stesso livello di quelli che diceva di combattere. Noi comunisti veri, coi calli sulle mani, ce ne abbiamo le palle piene di voi, poeti borghesi della libertà col mitra in mano. Chi spara non ha mai ragione, si rilegga (se mai l’ha letto) Socrate, Gandhi, Pasolini e anche Paperino.”

    Paolo Persichetti:

    Commendator Piep Piper,
    Di sicuro gli unici calli che lei conosce sono quelli che crescono tra l’indice e il medio, notoriamente i calli della spia, come quelle che negli anni 70 denunciavano gli operai insubordinati, i quadri di lotta più combattivi, i militanti che nei quartieri portavano avanti le battaglie sociali e che davano fastidio al suo Pci coinvolto nella politica di solidarietà nazionale, nel compromesso storico, nella strategia dell’austerità che chiedeva alla classe operaia di lavorare di più e rinunciare agli aumenti salariali. Eravate i maggiordomi della Fiat, gli informatori delle questure, stilavate liste di sospetti che poi portavate a Dalla Chiesa e ai vostri magistrati, come Caselli.

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    Il modo in cui operavano i carabinieri del generale Dalla Chiesa

    Voi siete quelli del muro di Berlino, di una concezione del socialismo che pensava di organizzare la società come una caserma. Quel tipo di socialismo che irrideva Brecht quando ricordava il discorso del segretario dei comunisti di Berlino, che davanti ad una piazza di operai in protesta non chiedeva le dimissioni del comitato centrale ma quelle del popolo. Lei è della stessa pasta dei Severino Galante, dei Luciano Violante. Uomini dell’ordine statale, legalitari, amate le toghe non le tute blu. Pensate che la società debba essere un tribunale.
    Nei posti di lavoro e nei quartieri avete preso il posto delle Digos e dimenticato persino l’azione sindacale. La lotta di classe non la praticavate più da tempo con la vostra ideologia del patto tra produttori. Da classe operaia dentro lo Stato, siete diventati un pezzo di Stato dentro la classe operaia.
    Grazie ai “sanguinosi anni 70”, come lei li chiama con consumata prosa berlusconiana-girotondina (rovesci della stessa medaglia), abbiamo avuto per un paio di decenni la scuola di massa, il diritto allo studio per tutti, l’accesso alle università senza più criteri di classe (così i figli di operai e dei contadini sono potuti diventare avvocati o medici), il divorzio, l’aborto, il nuovo diritto di famiglia, la chiusura dei manicomi, la riforma carceraria, il diritto all’assistenza sanitaria, il miglioramento e l’estensione delle pensioni, il punto unico di scala mobile, conquiste salariali e normative sul diritto del lavoro, un abbozzo di Stato sociale prima inesistente, e altro ancora.
    Tutte cose smantellate a partire dagli anni 80, grazie a gente come lei. Per quelli come la Cagol, era ancora troppo poco. Ma senza gente come lei tutto questo non ci sarebbe stato.
    Quello che lei scrive mi fa pensare ad una frase di Socrate: “Più gente conosco, e più apprezzo il mio cane.”
    Forse farebbe bene a seguire anche il consiglio che Gandhi dava quando incontrava tipi come lei: “Dobbiamo fare il miglior uso possibile del tempo libero”, aggiungo, invece di scrivere stronzate a commento dei post altrui che non gradisce.
    Pasolini se lo tenga pure. Lei è di quelli che ama di certo la poesia in cui si sbrodolava per i poliziotti del 68. Criticava la modernità capitalista perché era un nostalgico dell’evo rurale. Ha scritto anche cose giuste, come spesso accade ai più lucidi reazionari.
    Paperino? Certo che adoriamo Paperino.
    Lei invece è di quelli che si identificano con Topolino, e forse ancora di più con Gastone.alanford_1_big Viva il papero proletario che rifiuta il lavoro, che non vuole morire in fabbrica e cerca di strappare qualche dollaro a quel taccagno di suo zio. Nella paperopli degli anni 70, lei invece sarebbe stato uno di quelli arruolati in difesa del suo forziere. Oggi invece è con quelli che concepiscono la politica unicamente come uno scontro tra Rockerduck-Berlusconi e Debenedetti-Paperon de Paperoni.
    Si vede che ha letto per troppo tempo Tex Willer e Zagor. Un po’ di Gruppo Tnt e di Mafalda le avrebbe allargato il cervello.
    È dai fumetti che uno legge da bambino che si vede poi cosa diventerà da grande.

    A Claudio Pallone, ucciso dalla polizia

    14 novembre 2009 Lascia un commento

    CLAUDIO PALLONE

    – Claudio Ernesto Pallone nasce in Argentina, il 2 novembre 1954
    – Frequenta le scuole a Roma, si iscrive all’università
    – Lavora come correttore di bozze
    – Viene arrestato nel maggio 1977 ed esce dopo alcuni mesi
    – milita nel Movimento Comunista Rivoluzionario
    – Viene ucciso dalla polizia a San Donato Val Comino (FR), il 13 novembre 1980, insieme ad Arnaldo Genoino, ferito mortalmente, che morirà in ospedale

    – Archivio Progetto Memoria, Note sul percorso politicoOBEY _Guns and roses_
    “Claudio Ernesto Pallone cresce alla Garbatella, con i collettivi Politici Studenteschi del suo liceo. Fra le sue prime esperienze di militanza nel Gruppo Comunista della Garbatella, formazione di quartiere che, nei primi anni ’70, confluisce nel Gruppo Gramsci. Con lo scioglimento del Gramsci (1973) milita nell’area dell’autonomia romana; partecipa alla vita del foglio trasversale Zut; si iscrive, in quanto disoccupato, alla lista di collocamento per entrare al Policlinico ed è presente a tutte le manifestazioni, partecipando molto attivamente al movimento dell’autonomia. Nel marzo 1977 partecipa alla manifestazione dell’università che culmina con la cacciata di Lama. Nel maggio 1977 viene arrestato, in seguito ad un attentato conto una caserma PS nel quartiere Garbatella, dopo gli scontri con le forze dell’ordine seguite alla morte di Giorgiana Masi. La sua carcerazione dura qualche mese.
    Durante il 1978, con altri militanti, da vita ad esperienze armate diffuse sul territorio e variamente denominate. Nel 1979 partecipa al dibattito che da vita al MCR, esperienza entro cui è collocato l’evento che porta alla sua morte.”

    Testimonianze al Progetto Memoria
    – Vincenzo Sparagna, Roma 1995
    “Claudio me lo ricordo come un ragazzo giovane, alto ma non altissimo, magro ma non magrissimo, con una bella cornice di capelli mi pare più rossi che castani, più amaranto che biondi. Aveva due occhi dolci e gentili, di quelli che sanno sorridere con discrezione, facendoti partecipe di un’ironia senza invaderti l’anima, di quelli che sanno annuire o dissentire, ma conservandoti l’affetto anche nel dissenso, come una carezza. 
    Lavorava, quando lo conobbi, come correttore di bozze al Male. […] Veniva una mattina alla settimana in tipografia (la mattina della chiusura del numero) e correggeva le bozze che si preparavano nella tipografia “15 giugno” su delle antiquate Linotypes. C’era l’odore del piombo fuso, il ticchettio delle macchine e Claudio stava ore, chino sulle bozze, mentre magari io e altri lavoravamo con Franco Circosta, l’indimenticabile aut‘roccia’,  al montaggio delle pagine… fino a notte fonda, talvolta le quattro del mattino del giorno dopo.

    Talvolta Claudio andava via dopo aver visto le ultime bozze, talvolta restava a guardarci lavorare e dare una mano fino a tardi, quasi in silenzio sempre, ma anche presente, premuroso, gentile.
    Poi, una mattina, Claudio non venne. C’era il sole, erano già le undici, poi le dodici, mi trovavo ad aspettarlo dalle dieci. Ormai ero arrabbiato, mi toccava correggere tutte le bozze, ricorreggere le pagine, tutto procedeva più lentamente. “Che cavolo combina Claudio?” La giornata finì e il numero venne montato. Di Claudio nessuna notizia.
    Solo il giorno dopo venimmo a sapere che era morto, ucciso sul ciglio di una strada, dopo un tentativo di rapina, militante clandestino di qualcosa, le “Brigate Rosse”, le “Unità Combattenti”, i “Proletari contro il destino” poco importava.
    Mi restava questo vuoto nello stomaco, questa angoscia in cuore, l’impossibile, eppur realissimo, collage tra il silenzioso Claudio dai capelli rossi, il gentile, mite, attento e puntuale correttore di bozze, forse studente, forse lavoratore autodidatta e il suo “doppio” drammatico, armato di determinazione, nel rischio consapevole e praticamente quotidiano della morte.
    Forse un “inutile” simbolo in più del dramma della nostra generazione di fronte all’abisso della fine della storia. Oppure solo un giovane dagli occhi dolci, troppo caro agli Dèi”.

     Tratto da “Sguardi Ritrovati”, vol. 2 del Progetto Memoria. Edizione Sensibili alle Foglie

    Battisti, Genro: L’italia è stata arrogante e autoritaria

    14 novembre 2009 Lascia un commento

    Intervista al ministro della Giustizia brasiliano
    di Paolo Persichetti, Liberazione 14 Novembre 2009

    Il supremo tribunale brasiliano si è spaccato in due come un cocomero. Quattro giudici hanno ritenuto l’asilo politico concesso a Cesare Battisti dal ministro della Giustizia, Tarso Genro, <corretta sotto il profilo costituzionale>.
    Tarso GenroHanno poi respinto la richiesta di estradizione avanzata dall’Italia perché i reati contestati «hanno una natura politica» che cade sotto la protezione della legge brasiliana e dei trattati internazionali ratificati dal loro Paese. Altri quattro giudici, con argomenti esattamente opposti, si sono pronunciati per il via libera alla estradizione. Questa cristallizzazione, come da più parti si è osservato, palesa in modo eclatante uno scontro istituzionale molto duro. In ballo c’è l’interpretazione della costituzione brasiliana e soprattutto quale debba essere la gerarchia dei poteri in materia estradizionale. Decide e prevale, in ultima istanza, il potere politico, dunque l’Esecutivo, come accade in tutti i Paesi del mondo, compresa l’Italia, oppure deve essere il Giudiziario a dire l’ultima parola?
    Attorno alla battaglia giuridico-politica che si è tenuta fino ad ora nelle aule di giustizia brasiliane, la destra – oggi all’opposizione – alleata con una parte significativa della magistratura, sta tentando un assalto al potere politico legittimamente eletto, rappresentato dal presidente della repubblica Ignazio Lula da Silva. Uno scenario esattamente rovesciato rispetto a quello italiano. Il nostro governo, che per voce del suo premier raglia contro i «magistrati comunisti», non esita oltre oceano a costruire trame di corridoio con pezzi di magistratura per strappare con ogni mezzo l’estradizione di Battisti, dando una mano ai suoi amici della destra brasiliana per fare fuori Lula.
    Degli scenari che si aprono dopo la situazione di stallo, venuta a crearsi tra i giudici della Supremo tribunale federale di Brasilia, abbiamo parlato con il ministro della Giustizia brasiliana, Tarso Genro.battisti01g

    Ministro, cosa accadrà ora? Il presidente del Stf, Gilmar Mendes, voterà oppure come accaduto in altre occasioni, rispetterà il principio dell’habeas corpus?
    Ha dichiarato che voterà.

    Ha idea di come si pronuncerà?
    È un’incognita perché ad oggi non ha ancora avuto l’opportunità di presentare pubblicamente la sua posizione.

    È vero, come alcuni quotidiani hanno scritto, che se il Presidente Lula non ratificherà l’eventuale voto favorevole alla estradizione di Battisti, si potrebbe aprire una procedura di impeachment contro di lui?
    Impossibile. Dietro questo scenario c’è una concezione completamente distorta della costituzione brasiliana. Le decisioni del Supremo tribunale sulla concessione dell’asilo non hanno forza di legge. Sono pareri privi di effetto vincolante. La decisione finale è riservata dalla costituzione al Presidente della repubblica. Se il voto finale del Supremo tribunale dovesse pendere per l’estradizione, la decisione passerà nelle mani del Presidente della repubblica. Decisione che comunque si farebbe attendere perché sul capo del signor Battisti pesa un procedimento penale per possesso e falsificazione di documenti d’identità. Per questo, quale che sia il risultato finale del voto, non vi può essere nessuna immediatezza della estradizione prima che non sia concluso il processo.

    Eppure, in una dichiarazione il Presidente del Stf, ha evocato chiaramente il rischio di un impeachment (procedura di rimozione) contro Lula, se questi non si atterrà all’esito della decisione della Suprema corte.
    Questa dichiarazione non l’ho mai letta da nessuna parte, mi è stata solo riferita. Se fosse vera, sarebbe espressione di una concezione profondamente sbagliata del sistema legale, dell’equilibrio e della divisione che presiede alle diverse competenze tra potere esecutivo e giudiziario.

    Ministro, secondo lei perché Toffoli (il giudice nominato in sostituzione di un suo collega scomparso Ndr) non ha votato?
    Non lo so. Ha parlato di un problema di coscienza, ma non saprei dire esattamente quale sia la ragione personale che gli ha impedito di esprimere il voto.

    Forse perché ci sono state pressioni da parte italiana?
    Pressioni da parte dell’Italia ci sono state fin dall’inizio.

    Secondo lei si è andati ben oltre la legittima difesa dei propri interessi, fino alla vera e propria ingerenza negli affari interni?
    Sì, da parte di persone appartenenti al governo italiano. Pressioni totalmente inaccetabili dal punto di vista politico e giuridico. In questa vicenda l’Italia ha dimostrato di avere una visione autoritaria e arrogante, inaccettabile per un paese democratico.

    Un film su Prima Linea

    13 novembre 2009 Lascia un commento

    Anche qui passo direttamente al ritrasmettere qualcosa di non mio.
    Prendo dal blog
    Insorgenze (tanto pe’ cambià) un pezzo sul film appena uscito tratto dal libro di Segio (“Miccia Corta”).
    Poi, una serie di link su questo personaggio, sempre provenienti dallo stesso blog

    Una storia di Prima linea
    Il film girato da Nicola De Maria di cui non avevamo bisogno
    Ora Sergio Segio si dissocia (come sempre nel suo stile) dal film che ha ispirato col suo libro, vendendo i diritti d’autore

    micciaCon uno stile che a tratti cerca di imitare la moda gauchiste del noir, Segio narra in forma d’epopea l’evasione organizzata, il 3 gennaio 1982, dal carcere di Rovigo. In realtà il testo è un pastiche di generi diversi: si apre con una lunga introduzione “precauzionale” (non sia mai che il magistrato di sorveglianza si arrabbi), nella quale si avverte il lettore che i fatti raccontati non implicano il tragitto successivo del protagonista, ravvedutosi ampiamente delle sue gesta precedenti.
    Dopo aver recitato la penitenza iniziale, l’autore finalmente si avventura nel racconto dell’assalto portato alle mura del carcere. Episodio narrato, almeno nelle intenzioni iniziali, col punto di vista di chi vorrebbe riprodurre parole, sentimenti, emozioni dell’epoca; quelle integrali e genuine, non quelle filtrate e deformate dalla memoria. In realtà, l’artificio letterario ricercato non riesce. La sequenza della giornata è intercalata da lunghi e noiosi intermezzi che diventano veri e propri excursus sulla nascita e la storia di Prima Linea, proposti dall’io narrante insieme ad altre riflessioni e considerazioni che svariano nel tempo, celando malamente il senno (?!) del poi spacciato per l’avvedutezza del prima.
    Ove mai nel frattempo qualcuno avesse frainteso le intenzioni di un racconto fin troppo compiaciuto sull’evasione, o l’incedere minuzioso di lunghi passaggi sulle armamento, i vari calibri ben oliati, le loro caratteristiche, gli usi possibili e consigliabili (che disvelano il fanatismo ultramilitarista e stalinoide del personaggio che non mancò di processare e uccidere un suo compagno, William Vaccher, accusato di aver fato alcune ammissioni davanti ai carabinieri), nonché i riferimenti alle marche di champagne e ristoranti alla moda che sembrano anticipare gli anni della Milano de bere, il volume si conclude con un apparato di lettere e articoli che descrivono il percorso politico successivo alla cattura, per ricordare l’esperienza carceraria che condusse alla creazione delle «aree omogenee», al mutato giudizio sul passato, a quell’autocritica degli altri che prese il nome di «dissociazione della lotta armata».
    Nonostante, in quel 1982, Segio avesse maturato la convinzione del fallimento della lotta armata, egli si racconta avvinto da un ineluttabile destino: «non c’è salvezza possibile per chi ha sognato di cambiare il mondo». Inanellando una serie impressionate di goffe citazioni scapigliate, fa torto a quella generazione che gli fu accanto nel lottare e che trascina nel «novero dei destinati alla sconfitta, che non scelgono l’esilio ma di andare sino in fondo, pagando quel che bisogna pagare al sogno a lungo coltivato».

     

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    Prima Linea a processo: Segio e Ronconi

    Come immerso nella recita di un consunto copione dannunziano, raffigura se stesso e i suoi compagni avvolti in un’atmosfera d’estetismo combattente, «anime capaci di tenerezza» che sceglievano «di morire non nella lenta emorragia della vita ma di fretta, senza risparmio, come candele accese dai due lati[…] non per malattia del corpo ma per quella della coerenza, per un’inguaribile infezione dell’anima». Poeti armati, esercito scapigliato, tribù del “mucchio selvaggio”, novelli sturm und drang del settantasette nostrano, sognatori impazienti, adepti del carpe diem. «I nostri attimi sono eterni e ci ripagano di tutto», quelli del nonostante tutto, fiori appassiti più che fiori del male, maledetti mancati ma redenti riusciti.
    Le parole incedono al rimirar la poesia del gesto, la metrica dell’intenzione che conduceva ad un eroico «andar incontro alla bella morte» di saloina memoria. A metà tra l’imitazione di Marinetti e quella del Vittoriale, non manca persino il lieto fine holliwoodiano che condanna i protagonisti a vivere finalmente ravveduti e contenti.  Al di là di tutto, il libro una sua utilità la conserva comunque, poiché consente di comprendere meglio l’intimità corrotta della dissociazione e dei suoi personaggi di maggiore spicco, i suoi aspetti reconditi, un certo malanimo, la molta falsa coscienza.
    Esemplare il risentimento schiumoso verso quei militanti che hanno sempre criticato il modello dissociativo. Forse è la prima volta che uno dei maggiori esponenti di quel movimento-istituzione, che fu appunto la dissociazione della lotta armata, affronta apertamente un tentativo di ricostruzione di quel percorso.
    Il tentativo c’è stato. La ricostruzione un po’ meno. La storia può attendere. Il film fa schifo

     

    Link
    L’esportazione della colpa (1)
    Sergio Segio: “Scalzone e i parigini condannino la lotta armata” (2)
    Segio ha dimostrato solo di avere ancora molte cambiali da pagare per la sua libertà” (3)
    “Monsieur de la calomnie” (4)
    Scalzone: “Caro Segio, non c’ è nulla da cui mi devo dissociare” (5)
    Sergio Segio, ovvero chi frequenta l’infamia (6)
    Segio e la reinvenzione del passato (7)

    Caso Battisti: altra udienza sospesa

    12 novembre 2009 Lascia un commento

    Udienza per l’estradizione di Battisti: sospesa dopo un 4 a 4 nelle votazioni
    di Paolo Persichetti, Liberazione 13 novembre 2009

    Colpo di scena all’apertura dell’udienza del Supremo tribunale federale brasiliano che ieri doveva pronunciarsi sulla estradizione di Cesare Battisti, condannato in Italia a due ergastoli per una serie di attentati mortali commessi sul finire degli anni 70 dai Pac.
    Il presidente della corte, Gilmar Mendes, ha reso noto il contenuto di una lettera inviata da Dias Toffoli, il giudice insediatosi tra le polemiche lo scorso 23 ottobre al posto di Menezes Direito, deceduto il primo settembre. Toffoli, che in qualità di avvocato generale dell’Unione era già intervenuto nel procedimento, chiamato a fornire un parere sull’eccezione di incostituzionalità sollevata contro la concessione dell’asilo politico a Battisti, aveva difeso la correttezza della decisione presa dal ministro della Giustizia, Tarso Genro.

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    Il Supremo tribunal federal di Brasilia

    Per evitare conflitti d’interesse ha preferito appellarsi alla clausola di coscienza e non prendere parte al voto. Un gesto che smentisce clamorosamente tutti quelli che avevano accusato Lula di averlo designato per far pendere gli equilibri del Tribunale a favore di Battisti. Nei giorni scorsi era persino circolata l’intensione del governo italiano di presentare ricorso contro la sua nomina. Voce che ha provocato la ferma reazione del ministro Genro contro l’atteggiamento irrispettoso della sovranità interna brasiliana. Fin dall’inizio l’Italia ha interferito in modo pesante sulla giustizia brasiliana. Un proconsole del governo, il procuratore Italo Ormanni, è stato inviato sul posto per manovrare nei corridoi del Tribunale e influenzare l’esito finale del voto. In realtà Toffoli avrebbe potuto votare. Non esistevano ostacoli giuridici, anzi i giuristi avevano elencato diversi precedenti. Soprattutto avrebbe potuto esprimersi sulla procedura di estradizione, nella quale non era mai intervenuto. Il Tribunale, infatti, con una scelta senza precedenti, e che molti hanno considerato quanto mai barocca, ha deciso di accorpare le due procedure: quella sulla costituzionalità della legge che attribuisce al ministro della Giustizia il potere di concedere lo status di rifugiato; e l’altra, sulla richiesta di estradizione avanzata dall’Italia. Il presidente Gilmar Mendes ha manovrato l’intera vicenda procedurale fornendo prova di notevole fantasia e creatività, al punto che nei manuali di diritto verrà ricordato come il fondatore del surrealismo giuridico brasiliano.
    Venuto meno il voto di Toffoli, che avrebbe potuto subito chiudere la questione dando la maggioranza ai contrari alla estradizione, restano ancora aperti diversi scenari. Marco Aurelio Mello, il magistrato che all’ultima udienza aveva chiesto una sospensione, ha sciolto la riserva e si è detto contrario alla estradizione perché «il Tribunale supremo non può sostituirsi all’esecutivo». Di fronte ad una situazione di perfetta parità, 4 contro 4, la corte ha sospeso l’udienza. Al momento in cui questo giornale va in tipografia, non siamo in grado di dirvi quando riprenderà. Per sciogliere questa situazione di stallo, il presidente Mendes potrebbe essere chiamato ad esprimere un voto dirimente.

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    Il carcere di Papuda, dove è rinchiuso Battisti

    Decisione per nulla scontata. I contrari all’estradizione porranno, infatti, la questione dell’habeas corpus, ovvero il rispetto del principio del favor rei. Già in passato Mendes si era astenuto dal votare in situazione simile. Se prevalesse questa soluzione, la vicenda verrebbe archiviata e Battisti, scontata la pena per i documenti falsi, liberato. Una seconda incognita riguarda l’ipotesi che uno dei giudici chieda di rivedere la propria posizione. Nei giorni scorsi su alcuni quotidiani si era ventilata l’ipotesi di un ripensamento di Carlos Britto, che inizialmente si era detto favorevole all’estradizione. Anche in questo caso Battisti tornerebbe libero. Esiste anche l’eventualità che uno dei votanti chieda una ulteriore pausa di riflessione.
    Se dovesse invece prevalere la volontà di far votare il presidente Mendes, da sempre favorevole all’estradizione, legato da stretti rapporti con gli ambienti del centrodestra italiano, e che della vicenda Battisti ha fatto un trampolino di lancio per le sue ambizioni politiche, allora la partita davanti al Tribunale si chiuderebbe con un voto a maggioranza favorevole alla estradizione. A quel punto la palla dovrebbe passare nelle mani di Lula, ma anche qui c’è chi è intenzionato a porre un problema di legittimità che aprirebbe uno scontro di poteri tra esecutivo e giudiziario. L’Italia, infine, dovrebbe comunque accedere alla condizione posta dal Tribunale perché l’estradizione possa esser possibile: commutare la pena dell’ergastolo a 30 anni di reclusione.

    Cesare Battisti: ultima udienza in corso…

    12 novembre 2009 Lascia un commento

    reginacoeli-ballatoiDias Toffoli, giudice appena nominato al Supremo Tribunal Federal di Brasilia, ha formalmente annunciato che non prenderà parte alle votazioni che si terranno oggi e che decideranno se estradare o no Cesare Battisti. Come avvocato generale di stato si era espresso a favore della concessione di status di rifugiato politico concesso dal governo brasiliano; per questo precedente non voterà.
    Senza il suo voto, il pronostico non è certo favorevole per l’ex militante dei PAC che in Italia dovrebbe scontare l’ergastolo.

    L’udienza è in corso da meno di un’ora; l’intenzione di alcuni membri del tribunale è di bypassare completamente il presidente brasiliano Lula, che dovrebbe comunque avere l’ultima parola.Durante l’udienza il ministro giudice Cezar Peluso, ha dichiarato che Lula dovrebbe automaticamente inviare l’imputato verso le prigioni italiane.
    Il procuratore generale Roberto Gurgel, tra i tanti, sostiene invece che Lula come capo di stato e del governo, responsabile delle relazioni internazionali in Brasile e garante della Costituzione, abbia il diritto di decidere se estradare o no Cesare Battisti in Italia.

    Tra poco si saprà qualcosa…

    Intervista a Tarso Genro sull’asilo politico a Cesare Battisti

    11 ottobre 2009 Lascia un commento

    «Anni 70 in Italia, giustizia d’eccezione non fascismo»
    di Paolo Persichetti, Liberazione 11 ottobre 2009

    tarsogenro1Quando nel gennaio scorso il ministro della Giustizia brasiliana, Tarso Genro, concesse l’asilo politico a Cesare Battisti, una reazione carica di astio coprì la sua decisione. Dai vertici istituzionali, sui media, dalla magistratura, senza mai veramente controargomentare vennero risposte spesso fuori dalle righe. Addirittura nel corso di una cerimonia, il ministro della Difesa Ignazio La Russa, rivolto carabinieri, disse: «se ci potesse essere un gruppetto che vuole andare in Brasile…». Oggi, per la prima volta, il guardasigilli brasiliano si spiega su un quotidiano italiano. Lo fa estesamente e con molta pacatezza. Evita le riposte polemiche. Tempo fa, Armando Spataro, il pm milanese che condusse l’inchiesta contro i Pac, noto per essere uno dei cuori di pietra dell’emergenza, domandò ai giudici brasiliani di «decidere col cuore». In Brasile, a leggere questa intervista, pare che continuino a preferire il Diritto, la Filosofia, la Storia.

    Quali sono le fonti giuridiche della sua decisione di concedere l’asilo a Cesare Battisti?

    Il Brasile ha sottoscritto la convenzione sullo Statuto dei rifugiati del 1951 e il Protocollo del 1967, che amplia la possibilità di riconoscimento dello status di rifugiato anche per fatti diversi da quelli accaduti fino al 1951, e legati alla seconda guerra mondiale.
    Nella legislazione brasiliana, la mia decisione trova sostegno nella Legge n. 9.474 del 1997, che disciplina il riconoscimento della condizione di rifugiato. Questa legge riconosce l’asilo ad ogni persona che, a causa di fondati timori di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, gruppo sociale od opinioni politiche, si trovi fuori dal suo paese di origine e non possa o non voglia avvalersi della protezione di tale paese. Sempre secondo questa legge, il ministro della Giustizia è l’istanza di ricorso nella concessioni dell’asilo e la sua decisione è inappellabile.
    Inoltre, considerando che la carta delle Nazioni unite e la Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo affermano il principio secondo il quale gli esseri umani senza distinzione alcuna debbano godere dei diritti e delle libertà fondamentali, e che gli stessi principi sono riconosciuti dalla Costituzione brasiliana, ritengo che la mia decisione sia ampiamente fondata.

    Nel testo in cui lei concede l’asilo politico cita importanti autori nel campo della filosofia politica e del dirittocesare-copycostituzionale, come Norberto Bobbio, Carl Schmitt, Jurgen Habermas, il sociologo Laurent Mucchielli. Si dilunga con un’analisi molto dettagliata sulla particolare natura dello stato d’eccezione che è venuto a crearsi. Una disamina che assomiglia, per taluni aspetti, alle analisi condotte dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga nel 1991, quando avviò la procedura di grazia (poi bloccata) a Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate rosse. Gran parte delle obiezioni che si sono levate contro le sue argomentazioni riguardano i passaggi sui «poteri occulti», citazione di Norberto Bobbio. I suoi argomenti, tutt’altro che grossolani e affrettati, sono stati stravolti fino ad accusarla di aver definito l’Italia degli anni 70 una dittatura fascista. Può spiegare meglio cosa intendeva?

    Non ho mai definito l’Italia degli anni 70 un regime dittatoriale o fascista. I fatti da me richiamati sono pubblici e ampiamente argomentati dagli autori sopracitati. Ho sostenuto invece la legittimità della reazione dello Stato di diritto italiano di fronte ad una situazione storica di rivolta sociale. Quella reazione venneportata avanti applicando le norme giuridiche in vigore all’epoca. Tuttavia è impossibile negare che avvenne anche ricorrendo alla creazione di un regime di eccezioni che ha ridotto le prerogative di difesa degli accusati di sovversione o di azioni violente. L’introduzione del “pentitismo remunerato” è un esempio di queste eccezioni restrittive del diritto di difesa, e, nel caso in questione, fu la base principale della condanna di Cesare Battisti. Inoltre è notorio che i meccanismi di funzionamento dell’eccezione operarono, a quell’epoca, anche fuori dalle regole della stessa eccezionalità prevista dalla legge. Circostanza che suscitò ripercussioni in diversi paesi, anche fuori dall’Europa, che per questo concessero asilo politico ad attivisti italiani, e che spinse organismi internazionali che si occupano dei diritti umani, come Amnesty International e il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti, a elaborare dei rapporti su quanto accadeva.

    La decisione del presidente Lula di nominare il giurista José Antonio Dias Toffoli nuovo giudice del Supremo tribunal federal al posto di Carlos Alberto Menezes Direito, deceduto il primo settembre, ha suscitato polemiche perché considerato vicino al Pt (partito del presidente ndr). Secondo i critici, questa nomina modificherebbe gli equilibri interni al tribunale a ridosso di un voto controverso, come quello sul caso Battisti. E’ vero?

    L’indicazione di un nome per ricoprire l’incarico nel Stf suscita sempre polemiche. E’ impossibile che un nome sia gradito a tutti i settori politici. E’ però una prerogativa attribuita dalla Costituzione al Presidente della Repubblica. Lo stesso presidente del Stf, Gilmar Mendes, ha dichiarato che Toffoli è una persona “qualificata” per divenire componente della Corte, e che ha “un buon dialogo nel tribunale”. L’indicazione attuale non provocherà cambiamenti significativi nell’equilibrio interno della corte. Il Presidente Lula ha già designato in passato 8 ministri del Tribunale, il che non significa che ciò gli permetta una qualsiasi ingerenza nel lavoro del Stf. Perché mai la designazione di Toffoli dovrebbe avere conseguenze diverse dalle precedenti? Anche Menezes Direito era stato designato dal Presidente Lula, eppure allora nessuno sollevava critiche.

    Battisti_arrestofurgoneLa stampa di destra, riprendendo un’opinione del presidente del Tribunale Gilmar Mendes, ha sostenuto che Toffoli difficilmente potrà votare sul caso Battisti perché non ha assistito fin dall’inizio alla discussione. Cosa dice la legge in proposito?

    Fino alla nomina al Stf Toffoli ha esercitato il ruolo di avvocato generale dell’Unione. Vi potrà essere un impedimento a votare solo sull’eccezione di incostituzionalità, poiché l’Avvocatura generale si è espressa in proposito. Ma nel processo di estradizione non esiste nessun ostacolo alla sua partecipazione.

    In caso di parità tra i voti dei Ministri all’interno del Tsf, cosa succede?

    Sarà il presidente della corte ad esprimere il voto decisivo.

    Secondo il presidente del Tsf, Gilmar Mendes, è il Tribunale e non l’Esecutivo che deve dire l’ultima parola sulla procedura di estradizione. A suo avviso è corretta questa interpretazione? E’ in corso un conflitto istituzionale?

    In concreto, l’estradizione rappresenta la proiezione del diritto di punire di uno Stato sul territorio di un altro Stato. Proprio per questo suo costituire un atto di disposizione sulla propria sovranità, si tratta di un fatto politico, e dunque di competenza del capo del potere esecutivo, che è il legittimo rappresentante del paese negli affari internazionali. Ciò non è una novità nel Diritto: né di quello brasiliano, né di quello straniero. Anche l’Italia possiede un sistema simile. Il procedimento esaminato dal Tsf è diviso in due fasi distinte. Una giudiziaria, dove il Tribunale funziona come garante dei diritti individuali della persona richiesta per l’estradizione, e verifica la possibilità giuridica di mandare avanti la procedura di estradizione. E’ una fase di autorizzazione, in cui la decisione è senza dubbio di competenza del tribunale. La decisione finale, invece, è di competenza dell’autorità amministrativa. Conseguenza del potere politico conferito dal voto al suo rappresentante, eletto anche per rappresentare il paese nelle sue relazioni esterne.

    Il procuratore generale Antonio Fernando De Souza, che pure nell’aprile 2008 si era detto favorevole all’estradizione di Battisti, a patto che l’Italia commutasse la pena dell’ergastolo a 30 anni, aveva riconosciuto che la concessione dell’asilo estingueva la procedura d’estradizione. Il presidente del Tsf, Gilmar Mendes, ha ritenuto il contrario. Esiste una diversità di vedute anche all’interno del mondo giudiziario?brasile_bandiera

    Nel mondo giuridico ci saranno sempre divergenze interpretative. Tuttavia la posizione del Procuratore generale non è una interpretazione isolata.Corrisponde al giudizio dei più capaci giuristi del nostro paese e fa parte della tradizione giuridica del nostro paese. Ciò che sorprende. in questo caso, è l’incompatibilità tra questa decisione e la giurisprudenza precedente del Stf. Ad esempio, nel caso Medina (esponente delle Farc), dove la richiesta di estradizione da parte del governo colombiano venne estinta dalla concessione dell’asilo.

    Se, come ha detto il relatore Cesar Peluso nella sua requisitoria, la legge del 1997, che attribuisce al potere politico il compito di concedere l’asilo politico, è corretta, perché la corte pretende di sindacare nel merito della singola concessione?

    La verifica di merito da parte di un altro potere costituisce senz’altro un danno al regime costituzionale della separazione dei poteri.

    In Brasile, la vicenda Battisti non corre il rischio di favorire un’offensiva del potere giudiziario contro quello politico-elettivo? In Italia, la supplenza giudiziaria concessa dal potere politico alla magistratura sul finire degli anni 70, per combattere la sovversione politica della sinistra armata, si è poi trasformata in una “interferenza” teorizzata dagli stessi giudici, autoinvestitisi “nuovo soggetto” politico negli anni 90, fino a paventare scenari di «democrazia giudiziaria», di «repubblica penale», per dirla con Antoine Garapon. C’è il rischio che in Brasile si arrivi ad uno scenario simile?

    La Costituzione del 1988 garantisce un ampio ricorso al potere giudiziario. La giudiziarizzazione è un fenomeno interessante perché promuove un ampio dibattito pubblico su temi importanti. Ovviamente c’è sempre il rischio di cadere in una giudiziarizzazione della politica, cosa che non sarebbe salutare. Però non credo che questo processo sia in corso. Il Brasile è una democrazia recente, e ancora in fase di maturazione, ma avanziamo rapidamente nel consolidamento delle nostre istituzioni.

    Caso Battisti: ora l’Italia si inventa l’ergastolo “virtuale”

    11 settembre 2009 Lascia un commento

    Dopo otto mesi di stallo il “caso Battisti” è approdato nelle aule del Supremo tribunale federale brasiliano, equivalente alla nostre Corte Costituzionale. Su richiesta del governo italiano, nove magistrati dovranno pronunciarsi per decidere se sospendere o meno l’asilo politico concesso a gennaio a Cesare Battisti, ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo condannato in contumacia all’ergastolo per quattro omicidi, dal ministro della giustizia brasiliano Tarso Gendro. Il dibattimento non ha portato alla sentenza come ci si aspettava, ma ad una richiesta di sospensione che dia il tempo di esaminare ulteriormente le carte. A data da destinarsi, quindi.battisti_processo
    Cesare Battisti non era presente in aula, al contrario del rappresentante del ministero di Grazia e Giustizia Italo Ormanni e dell’ambasciatore italiano in Brasile.
    Dovessimo prender per buone le parole e l’enfasi della stampa italiana, immagineremmo già Cesare Battisti su un volo per l’Italia, con solide manette ai polsi. Urlano tutti giulivi, starnazzano ad un’estradizione praticamente ottenuta quando la realtà è chiaramente diversa e rivela una partita aperta, ancora tutta da giocare. Degli undici membri originari del Supremo tribunale federale saranno solamente nove quelli a votare: Meneses Direito è infatti scomparso da pochi giorni mentre Cesar de Melo ha deciso di astenersi su questo specifico caso. Dei nove magistrati sono stati otto ad essersi già pronunciati .Quattro a favore della richiesta italiana tra cui il giudice relatore Cezar Peluso, ed altri quattro hanno difeso la concessione dello status di rifugiato politico. Marco Aurelio de Mello, l’ultimo a dichiararsi pro-asilo politico ha fatto richiesta di sospendere il processo.

    amnistiaQuello che la stampa italiana tende a non sottolineare e quasi ad occultare completamente è che anche i giudici che hanno votato per l’estradizione, hanno posto delle clausole che non saranno molto facili da gestire per il governo italiano. L’Italia fino a questo momento ha recitato la parte dello spettatore rumoroso ed arrogante; senza dover muovere alcun passo è stata a guardare con polemiche dai toni medievali e dagli atteggiamenti spesso razzisti a cui ormai stanno tentando di abituarci. Ma se l’Italia dovesse vincere questa prima battaglia si troverebbe comunque non poco in difficoltà per riuscire a sottostare alle leggi internazionali.
    Cezar Peluso, giudice relatore, quello che con più enfasi ha dichiarato di esser favorevole a veder tornare Battisti in Italia ha però posto come requisito minimo che l’ergastolo venga commutato ad una pena non superiore ai trent’anni, visto che in Brasile è stato abolito.

    Ieri il ministro degli Esteri Franco Frattini è riuscito a dichiarare: “Spero che la decisione tenga conto del fatto che l’Europa è la culla dei diritti fondamentali e che se accadesse che un cittadino europeo fosse ritenuto rifugiato fuori dall’Europa significherebbe smentire che l’Europa ha una Carta dei diritti fondamentali e che ovviamente nessuno qui può essere torturato, perseguitato, né trattato indegnamente.”
    Forse non è stato mai informato delle condizioni che vivono i detenuti in Italia, schiacciati da un sovraffollamento unico in Europa e dalle discriminazioni razziali ormai sancite con il nuovo pacchetto sicurezza, testo di legge che dovrebbe almeno farci stare silenziosi su come “trattiamo degnamente” le persone.

    C’è una differenza di fondo tra il Brasile e questo nostro starnazzante paese:brasile_bandiera
    nel rovesciare la dittatura , loro, hanno rivoluzionato anche il sistema penale, abolendo la pena di morte e l’ergastolo perché non rispettosi dei diritti umani fondamentali. E’ incostituzionale una condanna che porti scritto sopra “Fine Pena Mai”, è inconcepibile la ghigliottina legalizzata che nella nostra società appare così normale. Ma d’altronde siamo un paese che, nel rovesciare la propria dittatura, non ha sentito l’esigenza di cambiare anche il proprio codice penale: i nostri giudici sentenziano tuttora con il Codice Rocco tra le mani, non c’è altro da dire.

    Commutare l’ergastolo di Battisti con una pena inferiore ai trent’anni. Come faranno? Se riuscissero ad ottenere la sua estradizione si riaprirebbero le richieste anche per tutti gli altri militanti della lotta armata italiana rifugiati per la maggior parte in Francia, di cui molti ergastolani.
    Tolgono l’ergastolo a tutti?
    E chi, e non sono pochissimi, tra gli ex militanti delle Brigate Rosse sta ancora scontando la pena dopo 32 anni di carcerazione? Anche i loro di ergastoli cancelliamo o continueremo a non concedergli nemmeno la condizionale?
    Ministri e deputati, giudici e magistrati,  giornalisti e parolai che già cantano vittoria in attesa di brindare attorno al nuovo corpo in catene che rientra in patria, inizino a pensare come gestire questo cavillo non da poco posto dai colleghi sudamericani.

    di Valentina Perniciaro (malgrado sia stato scritto Valentina Baruda eheheeh), L’altro 11 settembre 2009

    Poche ore alla sentenza Battisti

    9 settembre 2009 Lascia un commento

    battisti_arrestoSi è aperto poche ore fa il dibattimento sul caso Cesare Battisti a Brasilia, di fronte al Supremo Tribunale del Brasile (STF) che dee pronunciarsi sul ricorso presentato dall’Italia contro la concessione dell’asilo politico all’ex militante dei PAC (proletari armati per il comunismo) per cui è stata invece chiesta l’estradizione. Cesare non è presente in aula, al contrario di un rappresentante del ministero di Grazia e Giustizia italiano, Italo Ormanni e l’ambasciatore italiano a Brasilia Gherardo La Francesca.
    Il ministro della giustizia  Tarso Gendro ha ribadito questa mattina la sua posizione a riguardo, augurandosi che sia mantenuta la giurisprudenza in vigore, sulla quale lui aveva basato la concessione dell’asilo politico.
    Cosa che ci auguriamo tutti… anche il Procuratore generale del Brasile, Roberto Gurgel, ha affermato che la decisione del ministro della Giustizia Genro di concedere l’asilo politico a Battisti «è fondata sulla Costituzione, le leggi e i trattati internazionali».
    IN BOCCA AL LUPO!

    Per amore della storia…

    11 agosto 2009 Lascia un commento

    Sono passati diversi giorni dall’editoriale di Magris sul Corriere della Sera e da alcune risposte comparse su altre testate. Volevo riportare questa di Marco Clementi, comparsa qualche giorno dopo sulle pagine de L’Altro. La libertà di parola, la libertà di fare storia va difesa a denti stretti!

    La storia è plurale. La memoria  vittimaria rientra nella sfera privata e sembra più vicina alla vendetta che alla giustizia, se usata come rivendicazione

    Marco Clementi  L’Altro 4 agosto 2009

    Un’intera generazione italiana, quella che ha fatto la lotta armata negli anni ‘70 e ‘80, scontate quasi tutte le pene dopo i secoli di carcere con i quali lo Stato l’ha punita, deve tacere. Questo, se non ho capito male, è il centro del discorso che sviluppa Claudio Magris sulle pagine del Corriere della Sera del 31 luglio. Lo studioso ammette che il brigatista può recuperare i pieni diritti civili e politici (anche se ciò, una volta scontata la pena, non avviene automaticamente ma bisogna attivare la procedura di “riabilitazione”), può esprimere la sua sulle piattole, se nel frattempo il carcere gli avesse fornito l’istruzione adeguata per farlo, ma non può dire una parola sul suo passato di combattente. bavaglioCerto, di fronte ad espressioni come quelle riportate nell’articolo e attribuite al militante di Prima Linea Sergio Segio – giustamente definite «pappa del cuore, vecchio vizio retorico italiano, posta sentimentale rosa vicina al rosso sangue versato» -, consiglierei al suo autore di tacere, ma non si vede perché tale raccomandazione debba essere estesa a tutti gli altri. In letteratura, come nel processo penale, la responsabilità è personale.
    E così, il brigatista è un brigatista, e non un SS, un mafioso, uno stragista impunito. A ognuno il suo, per cominciare. E di brigatisti e brigatismo si deve allora parlare visto l’elenco di alcune delle vittime che fa Magris (non tutte peraltro colpite dalle Brigare rosse) considerate «le figure dell’Italia migliore, quella più libera e aperta e democratica, che avrebbe potuto e dovuto essere diversa da quella di oggi». Come se il motivo per cui oggi siamo qui è perché in Italia c’è stata la lotta armata. Intanto mi sembra uno strano recupero dei diritti quello di chi, riabilitato, può andare a votare per il Parlamento italiano ma non deve dire una parola sugli anni in cui fu protagonista. Da sempre i reduci hanno raccontato della propria guerra. Ma c’è dell’altro.
    I brigatisti, primi e unici nella storia di questo paese, scelsero di rivendicare i propri delitti e di assumersene la responsabilità di fronte alla legge, indipendentemente dal loro coinvolgimento concreto. Al punto che molti sono stati condannati all’ergastolo per il sequestro Moro senza essere stati in via Fani, né in via Montalcini, né in via Caetani. Se avessero deciso di difendersi singolarmente, senza dichiararsi rei, la storia giudiziaria delle Br sarebbe andata molto diversamente e le condanne si sarebbero contate con numeri più piccoli. Che dire, poi, delle continue riforme del codice penale per adeguare la legge alla nuova situazione creata in Italia dalla presenza di questo gruppo armato? Tutto ciò induce a pensare che si trattò di una storia politica. Nessuno degli uccisori di allora lo fece per questioni personali; nessuno aveva un “conto aperto” da chiudere. Come ipotizza Magris, «pensava di costruire un’Italia migliore».
    E le vittime, mi si dirà? E i parenti delle vittime? Perché è questo, in fondo, il contesto all’interno del quale si chiede, ovvero si impone ai brigatisti di tacere. Ma a quali brigatisti ci si riferisce? Ai pentiti, ai dissociati o ai cosiddetti “irriducibili”?
    Le confessioni dei pentiti e quelle dei dissociati sono state qualitativamente differenti: i pentiti hanno offerto parole utili alle tesi dell’accusa in sede processuale (oltre che permesso in casi clamorosi l’arresto di decine di militanti), I dissociati hanno fornito ricostruzioni politiche della propria esperienza militante in linea con quella desiderata dello Stato. Lo hanno fatto molti anni dopo il loro arresto, contribuendo alla sconfitta politica della lotta armata, non a quella militare. A quanto risulta a chi scrive, i pochi ex-militanti della lotta armata che hanno partecipato in modo attivo alla memorialistica appartengono in maggioranza alla 112234652_de8dc17013schiera dei cosiddetti pentiti o dissociati. Per quanto concerne, invece, gli irriducibili, essi per lo più tacciono (e spesso i commentatori li accusano proprio per questo!) e anche quando parlano, come nel caso di Mario Moretti con un libro sulle Br per nulla apologetico, si sottolinea quello che non sarebbe stato ancora detto, perché è una verità predeterminata, quella che si vorrebbe ascoltare, non il pensiero di Moretti. Veniamo alla questione delle vittime e dei loro parenti. Il 9 maggio è il giorno della memoria delle vittime del terrorismo in Italia. Di tutte le vittime, senza distinzione di matrice, tipologia di attentato, obiettivo. Quest’anno, per l’occasione, la vedova Pinelli è stata invitata al Quirinale, dove ha incontrato la vedova Calabresi. L’iperbole è complessa, e va analizzata e spiegata. Da tempo ormai il calendario italiano si è riempito di giorni della memoria e del ricordo e si cerca di far passare l’idea che la memoria abbia una sorta di dignità parallela a quella della storia. Forse perché la memoria appartiene alle vittime, mentre la storia ai vincitori? In realtà non è così. La differenza è un’altra e ben più sostanziale. La memoria appartiene alla sfera privata, mentre la storia è pubblica. La memoria non si può verificare, laddove la storia attende un riscontro da parte della comunità scientifica. La memoria non sostituisce la storia, né si affianca ad essa; offre delle fonti, tutte da vagliare. Per questo, un incontro tra la vedova Pinelli e la vedova Calabresi può avere luogo solo nel giorno della memoria. Perché nella memoria si perdono i ruoli e Pinelli e Calabresi sono visti semplicemente come vittime. Nella storia, però, i ruoli sono attribuiti in un altro modo. L’assassinio di Pinelli è stato perpetrato all’interno di una struttura dello Stato nel corso di un’indagine sulla strage di piazza Fontana. Quello di Calabresi, in un contesto diverso e qualcuno che potrebbe spiegarcelo non vuole farlo. E, stranamente, a questi non si chiede di tacere. Ora, nel diritto moderno è lo Stato che regola il rapporto tra il reo e la giustizia, tanto che il pubblico ministero non difende i parenti delle vittime, ma sostiene l’accusa in nome del popolo italiano. La vittima, o i suoi parenti, si possono costituire parte civile, con un avvocato a rappresentarli. Il giudice, quindi, è terzo rispetto alle parti e non potrebbe essere altrimenti, da quando la dottrina giuridica e le costituzioni moderne hanno tolto alla famiglia il diritto di vendetta, sostituendolo con quello della giustizia. La memoria rientra nella sfera privata e sembra più vicina alla vendetta che alla giustizia, se usata come rivendicazione. Ovviamente i parenti di una vittima hanno tutto il diritto di scrivere, appellarsi e indignarsi. Non lo ha però lo Stato, che ha compiuto il proprio dovere arrestando i brigatisti e riuscendo a farli condannare, debellando il fenomeno. Dato però che lo Stato non dovrebbe vendicarsi, non può condannare nessuno né al silenzio, né all’oblio. Anzi, ne guadagnerebbe se, ora che la guerra è finita da tempo, si impegnasse per capire il motivo che ha indotto una generazione e una classe sociale a dire «mai più senza fucile», agendo di conseguenza. Gli ex lo possono spiegare, ed è interesse di tutta la comunità che lo facciano.

    Link
    Magris – Anni di piombo quei terroristi pentiti con la pappa nel cuore
    Miccia corta e cervello pure

    A Fabrizio Pelli, lasciato morire in carcere…30 anni fa

    8 agosto 2009 4 commenti

    FABRIZIO PELLI

    – Nasce a Reggio Emilia, l’11 luglio 1952
    – Lavora come cameriere
    – Milita nelle Brigate Rosse
    – Viene arrestato a Pavia nel dicembre 1975
    – Muore di leucemia nel carcere di San Vittore, Milano, l’8 agosto 1979


    Documenti prodotti da organizzazioni armate

    – Non ne sono stati prodotti, ma a Fabrizio Pelli vengono intitolate una Brigata e un’organizzazione armata a Salerno

    Documenti prodotti da gruppi sociali
    Comitato di lotta del Campo dell’Asinara, “Onore al compagno Fabrizio Pelli” in: Controinformazione 16, Milano 1979
    “Per ogni comunista la morte è un evento naturale e Fabrizio Pelli era comunista combattente.
    Anche il mare più incurabile per un rivoluzionario è occasione di lotta e Fabrizio, con il suo comportamento, lo ha dimostrato a tutta la sua classe e ai suoi  nemici, in quest’ultima, solitaria battaglia.

    Fabrizio Pelli _Questa foto aveva le sbarre, quelle che lo hanno tenuto costretto fino alla sua morte: sono state tolto, almeno così è LIBERO_

    Fabrizio Pelli _Questa foto aveva le sbarre, quelle che lo hanno tenuto costretto fino alla sua morte: sono state tolto, almeno così è LIBERO_

    Invano i corvi borghesi hanno atteso un suo cenno di debolezza per piegarlo, per ricondurlo al compromesso dentro l’ordine dell’oppressione. A nulla è servito tenerlo isolato fino all’ultimo istante, privato della posta e della vicinanza dei suoi compagni, negargli – come neppure il fascismo osava fare – di trascorrere le ultime ore di visita in compagnia dei suoi familiari, a casa sua.
    La speranza delle iene è andata delusa di fronte ad un comunista che aveva maturato a fondo un principio essenziale: uomini che si rifiutano di interrompere la loro lotta, o vincono o muoiono, invece di perdere o morire!
    Il Tribunale di Milano, così sollecito a concedere la libertà provvisoria per motivi di salute ai fascisti assassini di proletari come Braggion, non è che l’ultimo anello di una catena di infamie, cominciata proprio qui, all’Asinara, dove il medico Silvetti si guardò bene dal rilevare il reale stato di salute del compagno Fabrizio, quando nell’estate dello scorso anno cominciò ad accusare i sintomi della malattia.
    I Campi di Trani, Fossombrone e Milano sono altrettanti anelli del suo progressivo annientamento che medici e direttori hanno perseguito con lucida e spietata determinazione in occulta armonia con i funzionari del ministero di Grazia e Giustizia. E non vogliamo dimenticare, in questo elenco di canaglie ancora viventi, carabinieri e poliziotti che hanno sottoposto i familiari di Fabrizio alle perquisizioni più vili e che in ogni modo hanno tramato per interrompere il proseguimento delle cure.
    Noi proletari prigionieri del Campo dell’Asinara, che con Fabrizio abbiamo lottato e che, anche per il suo contributo, abbiamo rafforzato la nostra identità e la nostra organizzazione, oggi diciamo, senza alcuna retorica, che i suoi nemici sono anche i nostri, che i suoi assassini non resteranno impuniti!
    Onore al compagno Fabrizio Pelli!
    Onore a tutti i compagni caduti combattendo per il comunismo!”

    Testimonianza al Progetto Memoria
    – Renato Curcio, Roma 1994
    “Ho conosciuto Fabrizio, Bicio per gli amici, nel 1969.
    Aveva 17 anni ma, a Reggio Emilia, già da tempo aveva fatto parlare di sé. “Per un colpo di flobert indirizzato ai glutei di un politico del partito liberale”, mi dissero, tra l’ammirato e l’ironico i suoi compagni di allora.
    Non aveva ancora 18 anni quando venne a Milano con tutte le sue curiosità per la metropoli. Ma ciò che veramente lo spingeva, in verità era una cosa sola: l’impegno militante a fianco di studenti e operai, di chiunque in qualsiasi modo lottasse, per cambiare le cose.
    Si sentiva un po’ anarchico ma il fascino della rivoluzione bolscevica era su di lui così potente che trascorreva infinite notti a leggere, oltre ai testi canonici, qualsiasi saggio, opuscolo, libello che in qualche modo potesse arricchire le sue conoscenze. E se qualcuno per caso citava un’opera che gli era sfuggita, s’infuriava, non sembrandogli lì per lì possibile che quell’opera esistesse veramente. Se non era a volantinare, in qualche manifestazione o a organizzare qualche azione di lotta potevi star sicure che il suo tempo era speso in letture.
    Politiche, s’intende. Una dedizione totale, senza mezze misure. Senza concedere a se stesso nemmeno gli spazi dell’esplorazione della vita.
    Quando entrò nella lotta armata, nel 1971, se non era il più giovane certo si contendeva il primato. Proprio in relazione alla sua giovanissima età, con altri due compagni ci chiedemmo se fosse il caso di accoglierlo nella vita clandestina che, per ovvie ragioni, non è tra le più permissive. Ma a Bicio il carattere non faceva difetto e non ne volle sapere di tutti gli argomenti che gli mettevamo davanti per dissuaderlo.
    Era molto orgoglioso e un po’ testardo. Capitava così che non accettasse di buon grado che altri gli insegnassero qualcosa. Ricordo che una volta si infuriò con un militante: non ritenendolo adeguatamente colto in dottrina marxista, gli negava il diritto di insegnarli a guidare l’automobile. L’altro, naturalmente, lo mollò giù dalla macchina, in piena campagna, dicendogli “Beh, ora vado a studiare, tu raggiungimi a piedi!”
    Quando, nel 1975, dopo l’evasione da Casale, lo incontrai di nuovo, a Milano, Fabrizio si era innamorato. Nella sua vita era la prima volta. E  il calore di questa nuova e magnifica esperienza scioglieva tumultuosamente tutte le sue rigidezze. Della sua proverbiale rigorosità, in quei giorni non rimase traccia. A metà della riunione più delicata, lui si alzava e borbottava “Scusate…”, in pieno candore se ne andava a telefonare. Alla vita clandestina il suo stato di grazia causò qualche problema, ma alla sua vita personale certo fece un gran bene.
    Ho appreso la notizia del suo arresto alla radio, pochi giorni prima di essere a mia volta arrestato. L’ultimo nostro incontro, dunque, avvenne in carcere, all’Asinara. Alcune divergenze politiche che poco prima del suo arresto lo avevano portato a distaccarsi dalle Brigate Rosse non avevano in alcun modo intaccato il nostro affetto. I giorni trascorsi nella stessa cella, al bunker dell’isola, furono così pieni di confidenze sulla nostra vita privata. Giocammo a scacchi –costruiti con la mollica di pane – ridendocela a più non posso sul nostro incontro qualche anno prima, con quel gioco. Nel tempo della clandestinità, a Torino. Sull’onda del duello tra Carpov e Fisher Bicio aveva deciso di “sapere tutto” sugli scacchi, proprio come qualche anno prima aveva fatto con la rivoluzione bolscevica. S’era quindi comperato una scacchiera , tanti libri, riviste e s’era sprofondato nello studio. Venne finalmente il giorno della prima prova. Si sentiva pronto e col sorriso diceva: adesso ti faccio vedere… Ci provai col fatidico “scacco del barbiere”: scacco matto in pochissime mosse. E la sua inesperienza ebbe la peggio. Come al solito andò su tutte le furie e per un bel po’ di tempo di scacchi preferimmo non parlarne più.
    All’Asinara mi disse anche dei malori che poco dopo lo portarono, rapidamente, alla morte. Ma di cosa effettivamente si trattasse, in quel carcere senza alcuna servizio medico, non fu possibile stabilirlo. Non si lamentò mai delle mancate cure: per lui era scontato. E anche questo, ricordando Bicio, non può essere più dimenticato”.
    Cartello Fabrizio 1-1

    A Dario Bertagna

    17 luglio 2009 1 commento

    DARIO BERTAGNA

    – Nasce a Comerio (BG) l’8 luglio 1950
    – lavora come impiegato presso una ditta di produzione di vernici di Vimercate (MI)
    – milita nei Reparti Comunisti d’Attacco
    – viene arrestato a Milano il 23 giugno 1980
    – muore suicidia nel carcere di Busto Arsizio (VA) il 17 luglio 1988

    Scritture di Dario Bertagna
    – Dario Bertagna, lettera al Bollettino, 27-8-84, carcere di Fossano:

    “Come mai allora questo trasferimento improvviso al manicomio di Reggio Emilia? Le cose stanno così: la dottoressa psichiatra del carcere, dopo una sbrigativa visita, aveva diagnosticato che L.V. era schizofrenico. Ma vi rendete conto? censura-1Una persona legge quattro scartoffie riguardanti un carcerato, lo visita cinque minuti e lo giudica nientemeno che schizofrenico. Mi rendo conto che questa dottoressa probabilmente ha agito in buona fede e che ancora più facilmente le responsabilità maggiori stanno in qualche altro ingranaggio dell’apparato di potere. Sta di fatto che questi signori si rendono conto che non sono altro che dei meccanismi di una macchina mostruosa, ingranaggi più o meno determinanti, ma ciascuno facendo parte di un congegno degenerato che a sua volta genera le singole parti.
    Sia chiaro comunque che anche singoli proletari possono benissimo essere incorporati in questo brutale meccanismo e, anche se saranno rotelle di poco conto, si renderanno pur sempre funzionali al sistema. Mi riferisco tra l’altro specialmente ai vari dissociati, di nome o di fatto, o tutti e due. Certo lo Stato non manda costoro a Reggio Emilia e magari concede loro anche qualche zuccherino.
    Facciamo bene i contri e vedremo con chiarezza che schizofrenico è questo sistema e tutti i suoi ingranaggi e non certo il compagno L.V.”

    – I Compagni del movimento e i familiari dei detenuti, Volantino, 23 luglio 1988, Busto Arsizio
    “Domenica scorsa, 17 luglio, il compagno Dario Bertagna si è tolto la vita nel carcere di Busto Arsizio, dopo aver scontato 8 anni di galera per reati politici. Malgrado la marginalità delle responsabilità penali, nel processo che ha deciso la messa in collaborazione dei pentiti come Barbone e di altri imputati che hanno scelto la strada della collaborazione e l’abiura, Dario subì una condanna a 15 anni di carcere. E’ questa l’ennesima dimostrazione di come le leggi e le prassi giuridiche nate dall’emergenza abbiano legato l’entità della condanna all’identità politica e al comportamento degli imputati, malgrado le autorità e gli intellettuali più o meno di regime, insieme ai partiti, abbiano ripetuto fino alla noia che “tutto si è sempre svolto nella legalità e nel rispetto delle regole della democrazia.”
    88_11_26Dario non era né pentito né dissociato ed ha sempre lottato, con tutte le sue forze, per salvaguardare la propria dignità umana e la propria identità politica. Per 8 anni ha lottato contro la macchina di distruzione che è il carcere, in condizioni psicofisiche sempre più instabili, come i medici del carcere hanno avuto modo di constatare più volte. La sua morte, come tutte le morti avvenute in carcere, peserà come un macigno anche sui responsabili della disastrosa gestione dell’assistenza sanitaria, su quanti permettono che passino giorni e settimane prima di un ricovero, su chi tra la salute del detenuto e la sicurezza dell’istituzione sceglie sempre quest’ultima.
    Oltre a tutto ci preme ricordare che non più di un mese fa il Tribunale di sorveglianza di Torino aveva negato a Dario la semilibertà, nonostante gli 8 anni di galera scontati, le sue precarie condizioni di salute e l’ottenimento di un posto di lavoro in una fabbrica del suo territorio. In carcere non avevano pesato sul suo contro gravi rapporti disciplinari o denunce. (…)
    Con il suo ultimo gesto Dario ha gridato ancora una volta il suo rifiuto a piegarsi al patto infame che impone la svendita della propria dignità in cambio della scarcerazione.
    Noi siamo oggi davanti al carcere di Busto Arsizio e poi in piazza per ricordare alla gente che l’angolo di barbarie costruito negli anni dell’emergenza e nel quale sono già morti troppi detenuti non deve continuare la sua opera di distruzione.”

    – Giulio Petrilli, Testimonianza al Progetto Memoria, L’Aquila 1995
    “Ricordare Dario è ricordare un compagno col quale ho condiviso dei momenti, delle lotte, dei sogni, in una realtà particolare come il carcere di San Vittore, dal dicembre ’80 alla metà dell’83. Un momento di grandi lotte in uno dei carceri metropolitani più particolari, più complessi. Dario l’ho conosciuto esattamente il 6 gennaio 1981, in una cella del secondo raggio, la nostra cella per tanto tempo, poi i trasferimenti ci hanno diviso.
    Ricordo quel pomeriggio del 6 gennaio, dopo diversi giorni nelle celle d’isolamento fui fatto salire su in sezione, stavo un po’ sbandato tra arresto e isolamento, ma entrando in cella subito mi sentii a mio agio in un ambiente caldo; eravamo in cinque, un po’ stretti ma stavamo bene. E’ lì che conobbi Dario, mi sembrò subito così come poi l’ho conosciuto nel tempo: un ragazzo riservato ma estremamente dolce, il suo aspetto rispecchiava il suo carattere, con quel sorriso un po’ triste negli occhi azzurri. Ricordo mi offrì subito una birra, e preparò insieme agli altri una bella cenetta; e poi quelle birre che hanno accompagnato tanti nostri pomeriggi e tante serate. Ricordo che mi riempì di domande, sai appena arriva uno nuovo è un po’ d’abitudine in carcere sentire i racconti della vita fuori. Lui disse che era stato arrestato nel giugno precedente, e che da poco si trovava a San Vittore. In precedenza era stato a Fossano, un carcere penale e mi raccontò della vita lì, delle diversità con San Vittore anche perché poi lì al secondo raggio eravamo tutti politici, mentre lì, con i comuni c’era un’altra realtà, più da logica carceraria. Poi iniziò a raccontarmi della sua vita fuori; era tecnico di una piccola azienda di elettrodomestici, vicino a Milano; mi raccontò del paese vicino Varese, dove abitava e quando ne parlava si capiva che lui preferiva vivere lì e non in una grande città, anche perché da piccolo aveva vissuto in un paesino del bergamasco. Poi mi raccontò della sua esperienza politica a Milano, la sua politicizzazione passata attraverso la sindacalizzazione nella fabbrica dove lavorava, i contrati, le lotte, l’inasprimento del padronato, la coscienza sempre più approfondita che lui andava maturando, lo scontro con le logiche di totale mediazione, che lui chiamava “arrendevolezza del vertice del sindacato”, il suo travaglio e la rottura completa con il sindacato. La sua incredulità nel raccontare che molti dirigenti d’industria e capi reparto tra i più duri erano iscritti al PCI. PARAGUAY/Lui non se ne faceva capace che chi imponeva la produttività, il sacrificio, la logica di lottare, ma portando sempre il profitto all’azienda, erano quelle le persone che a parole si dicevano comuniste. Questa cosa per lui era totalmente inammissibile, da lì maturò la scelta della lotta armata. E questa sua scelta, maturata proprio partendo dall’avversione verso la cultura stalinista e produttivista del PCI, se l’è portata dietro sempre, con coerenza fino alla fine.
    Dario era chiuso, un po’ introverso ma estremamente determinato e lucido; io non concordavo alcune questioni del suo ragionamento ma in fondo ero con lui, soprattutto in quegli anni a San Vittore. Poi le nostre strade si sono divise, ci siamo scritti qualche lettera, lui non concordava la mia scelta critica al metodo della lotta armata che secondo me non si adattava più, ma c’è sempre stato dell’affetto.
    Poi siamo nati lo stesso giorno, l’8 luglio festeggiavamo i compleanni insieme, sognavamo insieme, io ci scherzavo un po’ su, sulla sua rigidità. Abbiamo studiato tanti libri, documenti, insieme, nelle lunghe e interminabili discussioni e passeggiate nel cortile, dove lui, tra una sigaretta e l’altra, si faceva chilometri a piedi, molto spesso da solo, assorto nel suo mondo. E io scherzavo dicendo: “Torna in terra, vieni a giocare a pallavolo, a correre”. Con l’ironia e lo scherzo molto spesso comunicavo con lui , con quel suo modo d’essere reticente nel parlare anche della sua vita privata, dei suoi amori. Con quel suo bene grande che voleva alla sorella, che spesso veniva a trovarlo, portandogli anche dei pacchi che consumavamo insieme.
    Poi, come spesso accade, ci siamo persi. E ci siamo ritrovati tanti anni dopo,  nel maggio dello scorso anno, sfogliando una pagina del libro La mappa perduta, ho letto il suo nome e l’ho rivisto nel cuore, in quel suo grande cuore che non voleva mai manifestare, che voleva quasi coprire, proteggere, con un po’ di scontrosità”.

    Un bell’articolo su Vincenzo Guagliardo e Nadia Ponti

    16 luglio 2009 1 commento

    TRANQUILLI! VINCENZO GUAGLIARDO DOPO 33 ANNI RESTA IN CARCERE
    di Mario Dellacqua
    “Il mondo di None” 6/7 GIUGNO-LUGLIO 2009
    Mensile di None TO

    Questa storia non mi da pace, non interessa quasi nessuno e non ci posso fare niente. Quando Vincenzo Guagliardo è sparito nella lotta armata, non me ne sono accorto. Ero distratto. Quando ne è uscito passando attraverso il carcere –ora sono una vita di 33 anni –  ero ancora più distratto e le sue foto sul giornale dietro le sbarre smuovevano al massimo la mia curiosità, ma finiva lì. Poi vennero i suoi libri. Li ho letti e ne ho parlato su queste ospitali colonne. Venne anche la dimessa lotta solitaria, sua e di sua moglie Nadia Ponti, per ottenere il diritto all’affettività in carcere, condotta con implacabile serenità, anche a costo di rinunciare ai benefici di una legislazione che premiava i detenuti a condizione che esprimessero atti di contrizione, esibizioni pubbliche di pentimento, richieste spettacolari di perdono. La giustizia italiana non concesse i benefici e neppure l’affettività, perché l’umanità del trattamento carcerario prescritta dalla Costituzione si accontenta di considerare i detenuti ancor meno di animali rinchiusi in uno zoo.stor_8048937_30030

    Vincenzo e Nadia continuarono a rivendicare la loro dignità di persone senza pretese e rifiutarono persino di tentare la via della spettacolarizzazione massmediatica del loro caso. Scelsero la via del silenzio che reputarono la forma di mediazione più consona alla tragedia della quale erano stati corresponsabili.

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    Vincenzo Guagliardo durante un processo

    Perciò i giudici del Tribunale di Sorveglianza di Roma respinsero nel settembre scorso la prima istanza di liberazione condizionale: Guagliardo era colpevole della “scelta consapevole di non prendere contatti con i familiari delle vittime”.
    Ma un incontro era avvenuto nel 2005, come Sabina Rossa ha testimoniato in un libro uscito ben prima che la figlia dell’operaio comunista ucciso a Genova nel 1979 diventasse parlamentare del PD.
    Semplicemente avvenne senza chiamare Bruno Vespa (senza la benedizione televisiva del quale anche i fatti accaduti sono revocati), perché Vincenzo e Nadia non volevano che un così drammatico faccia a faccia apparisse “merce strumentale a interessi individuali, simulazione e perciò ulteriore offesa.”
    L’onorevole Rossa, anzi, si rivolse spontaneamente al magistrato di sorveglianza, riferì dell’avvenuto colloquio, chiese la liberazione dei due detenuti e presentò addirittura una proposta di legge che non subordinava la concessione della condizionale alla imponderabile verifica pubblica della sfera interiore del detenuto come prova dell’autenticità del ravvedimento. Ma i giudici non si sono accontentati e ad aprile hanno respinto per la seconda volta la richiesta di Guagliardo. Non bastano più i contatti con le persone offese: ora si decide che essi assumono “valenza determinante” solo se “accompagnati dall’esternazione sincera e disinteressata”. Poco importa se Sabina Rossa, la figlia della vittima, ha chiesto la liberazione del condannato all’ergastolo dopo 33 anni di carcere: la sua è una “manifestazione isolata non rappresentativa delle persone offese”.
    Anche noi anarchici siamo tenuti a rispettare la giustizia e le sentenze di uno Stato che non amiamo, ma nessuno ci toglierà dalla testa che “il tema del perdono –come scrive il giornale comunista Liberazione del 15 aprile scorso – o meglio la mediazione riparatrice o riconciliatrice, attiene alla sfera privata, non a quella dello Stato.” Lo Stato democratico, se non vuole diventare Stato etico, non dovrebbe spoliticizzare il pubblico e politicizzare il privato: piuttosto dovrebbe, come stabilisce la Costituzione, misurare se le pene inflitte – che non devono essere contrarie al senso di umanità – hanno raggiunto l’obiettivo della rieducazione del condannato al quale devono sempre tendere (art. 27).

    La lotta di Nadia e Vincenzo continua con esemplare e magistrale serenità: essa non cancella l’inamovibile tormento, ma lo scioglie e lo distribuisce sotto forma di una domanda e di un’offerta di umanità che colpisce e turba anche i distratti come me, sempre impegnati in cose più importanti, che non so quanto siano effettivamente più importanti.