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Franco Fortini 1989: Lettera agli ebrei italiani

5 febbraio 2009 3 commenti

 


di Franco Lattes Fortini

(Apparve in prima pagina de “il manifesto” il 24 maggio 1989.)

Ogni giorno siamo informati della repressione israeliana contro la popolazione palestinese. E ogni giorno più distratti dal suo significato, come vuole chi la guida. Cresce ogni giorno un assedio che insieme alle vite, alla cultura, le abitazioni, le piantagioni e la memoria di quel popolo – nel medesimo tempo – distrugge o deforma l’onore di Israele. In uno spazio che è quello di una nostra regione, alla centinaia di uccisi, migliaia di feriti, decine di migliaia di imprigionati – e al quotidiano sfruttamento della forza-lavoro palestinese, settanta o centomila uomini – corrispondono decine di migliaia di giovani militari e coloni israeliani che per tutta la loro vita, notte dopo giorno, con mogli, i figli e amici, dovranno rimuovere quanto hanno fatto o lasciato fare. Anzi saranno indotti a giustificarlo. E potranno farlo solo in nome di qualche cinismo real-politico e di qualche delirio nazionale o mistico, diverso da quelli che hanno coperto di ossari e monumenti l’Europa solo perché è dispiegato nei luoghi della vita d’ogni giorno e con la manifesta complicità dei più. Per ogni donna palestinese arrestata, ragazzo ucciso o padre percosso e umiliato, ci sono una donna, un ragazzo, un padre israeliano che dovranno dire di non aver saputo oppure, come già fanno, chiedere con abominevole augurio che quel sangue ricada sui propri discendenti. Mangiano e bevono fin d’ora un cibo contaminato e fingono di non saperlo. Su questo, nei libri dei loro e nostri profeti stanno scritte parole che non sta a me ricordare.
Quell’assedio può vincere. Anche le legioni di Tito vinsero. Quando dalle mani dei palestinesi le pietre cadessero e – come auspicano i ‘falchi’ di Israele – fra provocazione e disperazione, i palestinesi avversari della politica di distensione dell’Olp, prendessero le armi, allora la strapotenza militare israeliana si dispiegherebbe fra gli applausi di una parte della opinione internazionale e il silenzio impotente di odio di un’altra parte, tanto più grande. Il popolo della memoria non dovrebbe disprezzare gli altri popoli fino a crederli incapaci di ricordare per sempre.boycott-israel-free-palestine
Gli ebrei della Diaspora sanno e sentono che un nuovo e bestiale antisemitismo è cresciuto e va rafforzandosi di giorno in giorno fra coloro che dalla violenza della politica israeliana (unita alla potente macchina ideologica della sua propaganda, che la Diaspora amplifica) si sentono stoltamente autorizzati a deridere i sentimenti di eguaglianza e le persuasioni di fraternità. Per i nuovi antisemiti gli ebrei della Diaspora non sono che agenti dello Stato di Israele. E questo è anche l’esito di un ventennio di politica israeliana.
L’uso che questa ha fatto della Diaspora ha rovesciato, almeno in Italia, il rapporto fra sostenitori e avversari di tale politica, in confronto al 1967. Credevano di essere più protetti e sono più esposti alla diffidenza e alla ostilità.
Onoriamo dunque chi resiste nella ragione e continua a distinguere fra politica israeliana ed ebraismo. Va detto anzi che proprio la tradizione della sinistra italiana (da alcuni filoisraeliani sconsideratamente accusata di fomentare sentimenti razzisti) è quella che nei nostri anni ha più aiutato, quella distinzione, a mantenerla. Sono molti a saper distinguere e anch’io ero di quelli. Ma ogni giorno di più mi chiedo: come sono possibili tanto silenzio o non poche parole equivoche fra gli ebrei italiani e fra gli amici degli ebrei italiani? Coloro che, ebrei o amici degli ebrei – pochi o molti, noti o oscuri, non importa – credono che la coscienza e la verità siano più importanti della fedeltà e della tradizione, anzi che queste senza di quelle imputridiscano, ebbene parlino finché sono in tempo, parlino con chiarezza, scelgano una parte, portino un segno. Abbiano il coraggio di bagnare lo stipite delle loro porte col sangue dei palestinesi, sperando che nella notte l’Angelo non lo riconosca; o invece trovino la forza di rifiutare complicità a chi quotidianamente ne bagna la terra, che contro di lui grida. Né smentiscano a se stessi, come fanno, parificando le stragi del terrorismo a quelle di un esercito inquadrato e disciplinato. I loro figli sapranno e giudicheranno.
E se ora mi si chiedesse con quale diritto e in nome di quale mandato mi permetto di rivolgere queste domande, non risponderò che lo faccio per rendere testimonianza della mia esistenza o del cognome di mio padre e della sua discendenza da ebrei. Perché credo che il significato e il valore degli uomini stia in quello che essi fanno di sé medesimi a partire dal proprio codice genetico e storico non in quel che con esso hanno ricevuto in destino. Mai come su questo punto – che rifiuta ogni ‘voce del sangue’ e ogni valore al passato ove non siano fatti, prima, spirito e presente; sì che a partire da questi siano giudicati – pal_buldozzercredo di sentirmi lontano da un punto capitale dell’ebraismo o da quel che pare esserne manifestazione corrente.
In modo affatto diverso da quello di tanti recenti, e magari improvvisati, amici degli ebrei e dell’ebraismo, scrivo queste parole a una estremità di sconforto e speranza perché sono persuaso che il conflitto di Israele e di Palestina sembra solo, ma non è, identificabile a quei tanti conflitti per l’indipendenza e la libertà nazionali che il nostro secolo conosce fin troppo bene. Sembra che Israele sia e agisca oggi come una nazione o come il braccio armato di una nazione, come la Francia agì in Algeria, gli Stati Uniti in Vietnam o l’Unione Sovietica in Ungheria o in Afghanistan. Ma, come la Francia era pur stata, per il nostro teatro interiore, il popolo di Valmy e gli americani quelli del 1775 e i sovietici quelli del 1917, così gli ebrei, ben prima che soldati di Sharon, erano i latori di una parte dei nostri vasi sacri, una parte angosciosa e ardente della nostra intelligenza, delle nostre parole e volontà. Non rammento quale sionista si era augurato che quella eccezionalità scomparisse e lo Stato di Israele avesse, come ogni altro, i suoi ladri e le sue prostitute. Ora li ha e sono affari suoi. Ma il suo Libro è da sempre anche il nostro, e così gli innumerevoli vivi e morti libri che ne sono discesi. È solo paradossale retorica dire che ogni bandiera israeliana da nuovi occupanti innalzata a ingiuria e trionfo sui tetti di un edificio da cui abbiano, con moneta o minaccia, sloggiato arabi o palestinesi della città vecchia di Gerusalemme, tocca alla interpretazione e alla vita di un verso di Dante o al senso di una cadenza di Brahms?
La distinzione fra ebraismo e stato d’Israele, che fino a ieri ci era potuta parere una preziosa acquisizione contro i fanatismi, è stata rimessa in forse proprio dall’assenso o dal silenzio della Diaspora. E ci ha permesso di vedere meglio perché non sia possibile considerare quel che avviene alle porte di Gerusalemme come qualcosa che rientra solo nella sfera dei conflitti politico-militari e dello scontro di interessi e di poteri. Per una sua parte almeno, quel conflitto mette a repentaglio qualcosa che è dentro di noi.
Ogni casa che gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e sapienza che, nella e per la cultura d’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande donna ebrea cristiana, Simone Weil, ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere. Ogni giorno di guerra contro i palestinesi, ossia di falsa coscienza per gli israeliani, a sparire o a umiliarsi inavvertiti sono un edificio, una memoria, una pergamena, un sentimento, un verso, una modanatura della nostra vita e patria. Un poeta ha parlato del proscritto e del suo sguardo «che danna un popolo intero intorno ad un patibolo»: ecco, intorno ai ghetti di Gaza e Cisgiordania ogni giorno Israele rischia una condanna ben più grave di quelle dell’Onu, un processo che si aprirà ma al suo interno, fra sé e sé, se non vorrà ubriacarsi come già fece Babilonia.
La nostra vita non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazione palestinesi; lo è, ripeto, dalla dissipazione che Israele viene facendo di un tesoro comune. Non c’è laggiù università o istituto di ricerca, non biblioteca o museo, non auditorio o luogo di studio e di preghiera capaci di compensare l’accumulo di mala coscienza e di colpe rimosse che la pratica della sopraffazione induce nella vita e nella educazione degli israeliani.
E anche in quella degli ebrei della Diaspora e dei loro amici. Uno dei quali sono io. Se ogni loro parola toglie una cartuccia dai mitra dei soldati dello Tsahal, un’altra ne toglie anche a quelli, ora celati, dei palestinesi. Parlino, dunque.

A Fabrizio De Andrè…

11 gennaio 2009 7 commenti

Fabrizio De Andrè

Fabrizio De Andrè

Non si può non scrivere nulla, ma nemmeno scrivere qualcosa.
Perchè tutta la rete, tutta la televisione e la radio, tutti sono impegnati ad omaggiare De Andrè ed io non me la sento di scrivere nulla.
Nulla su di lui, nulla su quello che c’ha donato, con la sua combattiva umiltà, con il suo modo di stare sempre in direzione ostinata e contraria.
Non saprei nemmeno scegliere una canzone per ringraziarlo, perchè mi scoppierebbe un mal di testa infinito, perchè per ogni testo scelto mi si spezzerebbe il cuore per quelli accantonati.
Perchè non c’è una “Coda di Lupo” senza “Rimini”, perchè senza “Ho visto Nina Volare” le giornate non sono belle, perchè non si può non camminare per i vicoli de “La città vecchia”, perchè “Storia di un impiegato” è legata ad ogni globulo rosso che passa nelle mie vene.
Quindi, Fabrizio, io non scrivo e non scelgo nulla.
Ti dedico tutto, mi tengo tutto stretto stretto come un sogno, come una promessa, come la libertà…che forse giusto nelle tue parole sarò in grado di trovare.
A dieci anni dalla tua scomparsa, da quel maledetto giorno che a me, 16enne, mi spezzò il cuore come fossi uno di casa, sangue mio.fabrizio_de_andre_concerto_2
A dieci anni da quel giorno metto solo il tuo viso, per una volta nemmeno una parola tua, perchè le voglio tutte, perchè sono la mia eredità, perchè sono parte di quel poco che salverei dal grande rogo che farei di questo paese…perchè sei quel padre che ho sempre cercato, quel padre che non m’ha mai abbandonato e mai lo farà.

il mio Buon Anno…HAPPY NEW FEAR

30 dicembre 2008 9 commenti

 

Foto di Valentina Perniciaro _Happy new fear_

Foto di Valentina Perniciaro _Happy new fear_

Buon anno a chi non ha la libertà di muovere più di 10 passi dentro ad una cella, 
Buon anno a chi non ha niente da perdere e un mondo da voler conquistare,
Buon anno ai migranti, a quelli che non affogano nei mari che son di tutti,
Buon anno ai senza diritti, ai senza futuro, a chi però ha la memoria del proprio passato collettivo
Buon anno a chi rischia tutti i giorni la vita sul posto di lavoro, 
Buon anno a chi non ha visto tornare il proprio figlio o amore da una giornata di lavoro, 
Buon anno a chi non vuole morire per meno di 50 euro al giorno, 
Buon anno a chi ancora crede in qualcosa, 
Buon anno agli amanti della libertà, ai sognatori, ai rivoluzionari, 
Buon anno a chi non ha i soldi per brindare, a chi è solo, a chi vorrebbe esserlo, 
Buon anno a chi non si rassegna, a chi cammina a testa alta, 
Buon anno a quelli che non si pentono, non si dissociano, non vendono il proprio passato, 
Buon anno a chi fa l’amore con chi vuole, come vuole, quando vuole, 
Buon anno a chi decide di far figli non avendo nulla di certo da offrirgli se non l’amore, 
Buon anno a chi occupa una casa perchè vuole una casa, 
Buon anno a chi occupa una scuola perchè vuole un’altra scuola, 
Buon anno a chi incendia una città perchè gli hanno ammazzato un fratello, un compagno, uno di loro
Buon anno a chi non spreca, a chi non contribuisce allo schifo di questo mondo, 
Buon anno a chi non dorme da giorni per quel che accade a Gaza, 
Buon anno a chi non si arrende, non si rassegna, a chi comunque sorride,
Buon anno a chi si rifiuta di arruolarsi per guerre assassine, 
Buon anno a chi non scende a compromessi, a chi non si vende, 
Buon anno a chi odia lo Stato e i suoi servi, le guerre e i suoi mercenari,
Buon anno a chi odia la Chiesa, i padroni, lo sfruttamento, 
Buon anno a chi odia i fascisti, la galera, i tribunali,
Buon anno ai comunisti, agli anarchici, agli omosessuali, alle lesbiche, ai trans, a tutte le donne picchiate e violentate.
 

 

e poi… un buon anno a chi passa di qui da molto lontano, a chi ha superato uno due tre dieci oceani per scappare da se stesso
Buon anno ai vigliacchi, che scappano da quello che hanno costruito senza avere il coraggio nemmeno di distruggerlo,
Buon anno a chi poi spia la vita da lontano, buon anno a chi probabilmente non dorme sonni tranquilli
Buon anno a chi fugge senza che nessuno lo sta inseguendo.
Buon anno a chi ha dimenticato i volti dei propri figli…buona fortuna.
Buon anno ad un bimbo lasciato solo, che ora è uno splendido uomo.

ODIO IL CARCERE… capodanno sotto Rebibbia

30 dicembre 2008 1 commento

Inizia lo sciopero della fame contro l’ergastolo!

1 dicembre 2008 Lascia un commento

 

PER DIRE BASTA PARTE LO SCIOPERO DELLA FAME
*di Paolo Persichetti, Queer 30 novembre 2008 


Al 30 giugno 2008, secondo i dati presenti sul sito del ministero della Giustizia, le persone condannate all’ergastolo in via definitiva erano 1415 (1390 uomini e 25 donne). sbarrecptlampedusa1
La stragrande maggioranza di loro, oltre 500, sono sottoposte al regime del 41 bis, il cosiddetto “carcere duro”, recentemente oggetto di ulteriori misure restrittive. Circa il 4,5% dell’intera popolazione reclusa. Una percentuale diluitasi negli ultimi tempi a causa dell’esplosione degli ingressi carcerari che hanno portato il numero delle persone detenute a 58.462. Con un impressionante entra-esci di 170 mila persone che non restano più di 10 giorni (rilevamento del 25 novembre), perché le infrazioni contestate non giustificano la custodia in carcere senza una condanna definitiva o non hanno retto al vaglio della magistratura. Cifre ormai prossime alla soglia d’implosione (quota 63 mila) che verrà raggiunta, secondo le proiezioni avanzate dagli stessi uffici statistici del ministero, nel prossimo mese di marzo.
I detenuti rinchiusi da oltre 20 anni sono 1648, tra questi 56 hanno superato i 26 anni e 37 sono andati oltre i 30. Il record riguarda un detenuto rinchiuso nel carcere di Frosinone con ben 39 anni di reclusione sulle spalle. Quelli che hanno già superato i 10 anni arrivano a 3446. Oltre 23 mila sono i reclusi che scontano pene che vanno da pochi mesi ad un tetto di 10 anni. 1 detenuto su 5 subisce una sanzione superiore a 10 anni, quelle che normalmente vengono definite “lunghe pene”. L’unica industria che non risente della crisi, che non rischia licenziamenti, cassintegrazioni o mancati rinnovi di contratti a termine, è quella del carcere. La fabbrica della penalità va a gonfie vele. E già gli avvoltoi della speculazione edilizia si sfregano le mani all’idea che verranno costruite nuove carceri e dismesse quelle in centro città. La riqualificazione di aree centro-urbane, ottenute in cambio della costruzione di scadenti penitenziari costruiti nello sprofondo di periferie dimenticate anche da dio, poi rivendute sul mercato a prezzi stellari al metro quadro, è lo scambio indecente promesso dal governo alle grandi imprese private che si occupano di lavori pubblici.
Fatta eccezione per l’immediato dopoguerra, nella storia dell’Italia repubblicana non c’è mai stato un numero così alto di “fine pena mai” come quello attuale. Nel 1952 il loro numero si attesta a 1127 per scendere progressivamente fino a toccare i minimi storici nel corso degli anni 70, dove anche il numero dei reclusi in termini assoluti precipita a circa 35 mila. La stagione delle lotte carcerarie, i progressi civili e sociali del decennio che ha più dato libertà, fanno precipitare i tassi d’incarcerazione senza che il paese fosse afflitto da sindromi ansiogene. Le lotte sono sempre state il migliore viatico per curare le isterie sociali e impedire al potere di fare uso della demagogia della paura. Nel 1982 si tocca la cifra più bassa dal dopoguerra, appena 207. Ma durerà poco, molto poco. In quegli anni la giustizia d’eccezione gira a pieno regime e di lì a poco tempo cominceranno a fioccare centinaia di ergastoli sfornati nel corso dei maxi processi dell’emergenza antiterrorista. 336 sono quelli erogati fino al 1989 nei processi per fatti di lotta armata di sinistra. A partire dal 1983 la curva torna ad inalzarsi. Siamo negli anni della svolta reganiana, quelli della “rivoluzione passiva” del neoliberismo, della deregolazione economica che prevede come suo corollario l’intruppamento e l’ingabbiamento dei corpi, elaborato con la disciplina della tolleranza zero. Il tasso d’incarcerazione comincia a salire per esplodere a partire dal decennio 90, con tangentopoli che apre il varco al populismo penale. Nel corso degli ultimi 25 anni il numero degli ergastolani è passato da 226 agli oltre 1400 attuali.
In molti paesi europei l’ergastolo è stato abolito: è il caso di Spagna, Portogallo, Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Albania, Polonia e Ungheria. Nei paesi dove invece è ancora formalmente presente, di fatto è disapplicato da normative che introducono tetti massimi di detenzione e la possibilità di modulare la pena accedendo in tempi ragionevoli alla liberazione condizionale.pallaecatena In Grecia è ammessa la liberazione condizionale dopo 20 anni; in Austria, Germania, Svizzera e Francia dopo 15 anni, salvo che in sede di condanna il tribunale non stabilisca per ragioni di gravità del reato contestato un periodo incomprimibile superiore. In Olanda è possibile avanzare richiesta dopo 14 anni; in Norvegia 12; in Belgio dopo 1/3 della pena e in Danimarca dopo 12 anni. A Cipro dopo 10 anni, in Irlanda dopo 7 anni. L’Italia prevede la possibilità di avanzare richiesta di liberazione condizionale solo una volta maturati 26 anni di reclusione. Uno dei tetti più alti d’Europa ed anche una delle soglie più difficili da superare. In realtà le nuove normative in vigore hanno reso l’ipotesi di una scarcerazione sotto condizione puramente virtuale. Con la pena dell’ergastolo vengono puniti una serie di reati contro la persona fisica e la personalità dello Stato, in sostanza omicidi, reati di natura politica o a legati all’attività della criminalità organizzata, sottoposti al regime del 4 bis e 41 bis della legge penitenziaria. Normative che introducono come requisito per l’accesso ai benefici l’obbligo della “collaborazione”, rendendo lettera morta il dettato costituzionale e tutta la retorica riabilitativa e risocializzante prevista nell’ordinamento. L’ergastolo è dunque più che mai una pena eliminativa.
Il primo dicembre i detenuti delle carceri italiane torneranno a far sentire la loro voce sul modello di quanto è accaduto poche settimane fa nelle carceri greche, quando un massiccio movimento ha costretto il governo a negoziare. Uno sciopero della fame nazionale darà l’avvio ad una staffetta che si suddividerà nelle settimane successive regione per regione fino al 16 marzo 2009. Convegni, assemblee e attività di sostegno alla lotta degli ergastolani si terranno nelle città coinvolte dallo sciopero. Una battaglia difficile di questi tempi, ma necessaria. Chi si ferma è perduto. 

Il calendario della campagna si trova sul sito: http://www.informacarcere.it/campagna_ergastolo.php

PERCHE’ DI CARCERE NON SI MUOIA MA NEMMENO SI VIVA.
PER DIRE BASTA ALLA BARBARIE DEL CARCERE A VITA. 
   

“Cosa fosse davvero il carcere non lo capivo”

1 dicembre 2008 4 commenti

Avevo quattro anni_di Martina_
(brano tratto da
Scarceranda, l’agenda di Radio Onda Rossa)

Avevo quattro anni, ma anche cinque e anche tre, perché mio papà mica c’è stato un anno solo in carcere. Mia mamma mi aveva insegnato a saperlo, ma anche a non dirlo, reati politici. E lo andavo a trovare con sua la nuova fidanzata, andavamo in macchina, ma io mi ricordo di più di quando andavamo in treno. Cassino. Quella parola mi è ancora odiosa, come guardie, polizia, fascisti.
Vi ricordate com’erano i treni prima? Avevano la gomma nera con i pallini sul pavimento, e dei disegni strani sulle pareti, tipo cerchi dentro rombi, o cose simili. Mi ricordo anche che avevano un odore dolciastro, di sporco, sudore e viaggi. Tutta la campagna correva fuori dal finestrino, lei leggeva il giornale in modo scomposto, nel senso che non riusciva a tenere insieme le pagine man mano che le sfogliava, e il giornale diventava sempre più grande, occupava sempre più spazio. Poi una volta il treno si ferma, e fuori dalla porta c’è un campo arato. Lei si mette a ridere forte, quella risata che fanno i grandi quando non è che si stanno divertendo. Quella risata che uno pensa, meno male che ride, invece di prendersela con me. Perché i grandi quando sono nervosi a volte se la prendono con noi, ma mica perché sono cattivi, è che con qualcuno se la devono prendere.
Come quella volta che stavo sdraiata sul bancone che divideva noi che eravamo andati a fare il colloquio (il colloquio è da aggiungere alla lista delle parole brutte) e sotto questo bancone c’era una grandissima
gomma da masticare tipo big bubble rosa, spiaccicata da qualcuno e lasciata lì. Io lo so che le gomme diventano dure dopo un po’, allora uno ha voglia di buttarle. So pure che non si appiccicano in giro, bisogna metterle dentro un pezzo di carta e buttarle nel cestino. Poi so anche che non bisogna toccare le gomme lasciate in giro dagli altri. Tutte queste cose che so, ve le dico per farvi capire che io sono una
bambina abbastanza brava. Però certi posti ti fanno fare cose che in genere non fai, allora io stavo lì sdraiata, ho visto questa enorme gomma appiccicata e l’ho toccata. E mi è rimasta appiccicata sul dito. Intanto loro parlavano, mio papà e la sua fidanzata, e poi mio papà se n’è accorto di quello che avevo fatto, allora mi ha dato un pizzico sulla guancia che ancora me lo ricordo. Quanto mi sono mortificata! Era la prima volta! Poteva mettersi a ridere, invece se l’è un po’ presa con me, capito che intendo?
Vabbè, quella volta sul treno che abbiamo sbagliato fermata, e invece della stazione di Cassino c’era il campo arato, poi siamo tornate indietro (o siamo andate avanti, non lo so), e tutto è andato bene. 
Mi ricordo che fuori dal carcere c’era una specie di giardinetto, con le panchine. Poi si entrava in questa stanza, ma che stanza, un enorme corridoio. Allora, funziona così: c’è questo bancone che separa in due la stanza. In alto a sinistra una gabbia di vetro gigante, con dentro una guardia enorme! Mi sono sempre chiesta come facesse quella scatola di cristallo a non rompersi con quel cristone dentro! Al di là del bancone, in fondo a destra, c’è una porta di ferro. Avete presente la porta della radio, quella rossa di ferro con i buchini che i grandi ci possono guardare attraverso? Ecco così. Da quei buchini si vedeva mio papà pronto per venire al colloquio con noi. Io volevo sempre fargli lo scherzetto, e stare nascosta fino a quando non usciva, ma non riuscivo mai a resistere, e fissavo quei buchini (o forse era un quadratino di vetro) per vedere la capoccetta riccia di papà.
Allora io gli davo tanti bacetti, perché ero proprio contenta quando veniva fuori, però con la coda dell’occhio controllavo la guardia gigante. A volte leggeva il giornale, allora i bacetti a papà glieli davo più volentieri.

La fidanzata di mio padre non sapeva cucinare neanche un uovo fritto, però sua mamma era bravissima. Allora una volta abbiamo portato la lasagna a papà. Quando siamo entrate per quella porticina dove ti controllavano quello che portavi, ce l’hanno tutta rotta! Che rabbia! Stavano lì che la rivoltavano, ma insomma è la lasagna della mamma della fidanzata di mio padre! Un po’ di rispetto! Ho pensato, povero papà, vabbé, tanto basta il pensiero.
Cosa fosse davvero il carcere non lo capivo. Sapevo solo che per lo stato mio padre era cattivo, ma che lo stato era cattivo per mio padre. Io chiaramente, mi fidavo di più del giudizio di mio padre. Poi ho scoperto che lo stato non era proprio sicuro che mio padre fosse cattivo, ma intanto che si decideva, era meglio che se ne stesse lì, a Cassino. Poi lo stato ha pensato che poteva pure stare a casa, ma non poteva uscire.
Ho imparato che quello si dice “arresti domiciliari”, o semplicemente “domiciliari”.
Solo dopo qualche anno, quando ho scoperto la parola “domicilio”, ho capito cosa volesse dire. Cioè, ho imparato prima la parola “domiciliari” che la parola “domicilio”. Come se uno impara prima a dire “sfratto” e poi “affitto” (cosa che peraltro mi sa che mi è pure capitata! Ma questa è un’altra storia).

Ora che ci penso, tutto mi sembrava enorme. E di fatto lo era. Da bambini, è vero, tutto ti sembra grande, ma Cassino lo era ancora di più. Non riuscivo a comprendere pienamente la situazione, ma la sensazione che fosse qualcosa di enormemente mostruoso, inumano, come una macchina enorme quasi impossibile da combattere, quella era chiara nella mia testa.
Poi mio padre è stato assolto. Al processo mia madre c’è andata, ma me lo ha detto dopo. Uffa, pure io volevo andare al processo! Comunque, io andavo a scuola, e anche se non avrei dovuto parlarne tanto, io dicevo a tutti: mio padre è stato assolto! Mi sembrava una notizia così bella e importante! Ma i miei compagni mica mi capivano tanto…
Non è stata per me un’esperienza terribile, ero piccola e non capivo la gravità della cosa. Io andavo lì, salutavo mio padre, e me ne tornavo a casa con una strana sensazione. Tutto qui. Ma perché poi quando ci ripenso mi vengono le lacrime agli occhi?
Cassino, colloquio, domiciliari. Mia nonna che mi diceva che c’erano le scritte sui muri, dei compagni che dicevano mio papà libero. Evviva, mio padre è famoso.
Cassino, colloquio, domiciliari, libero. Pure “libero” mi dà un po’ i brividi, perché quando è scritto accanto a un nome, vuol dire che c’è una bambina, come io ero più di vent’anni fa, che tra vent’anni ricorderà quando suo padre stava al di là di una porta dove però chi sta fuori non può entrare.

Dentro quel carcere ci stavo un po’ anche io, eppure, come tutti quelli che ci stavano dentro, ero innocente.

E’ uscita SCARCERANDA 2009!

28 novembre 2008 Lascia un commento

 

È uscita Scarceranda 2009, l’agenda autoprodotta da Radio Onda Rossa, contro ogni carcere giorno dopo giorno, perché di carcere non si muoia più ma neanche di carcere si viva. Quest’anno Scarceranda celebra la sua decima edizione! Per questo l’abbiamo chiamata Scarceranda X.
È BELLISSIMA!Vedi l’indice dei materiali presenti in questa edizione dell’agenda.
Scarceranda (agenda annuale + libro) è in vendita a 12 euro presso Radio Onda Rossa e negli infoshop, centri di documentazione, librerie.
Scarceranda può essere pagata tramite conto corrente postale e richiesta in spedizione direttamente a Radio Onda Rossa

Valerio Bindi / Sciattovia dei volsci 56 00185 Roma
Tel 06491750   ondarossa@ondarossa.it

Il versamento di 12 euro a copia va effettuato sul ccp 61804001 intestato a Radio Onda Rossa indicando in maniera leggibile nominativo e indirizzo cui si vuole venga spedita l’agenda. Per chi utilizza il versamento online tramite Bancoposta il versamento va intestato a Cooperativa Culturale Laboratorio 2001 (se si effettua il bonifico l’IBAN è IT15 D076 0103 2000 0006 1804 001).

Scarceranda viene donata alle persone detenute che ne facciano richiesta o segnalate alla Radio. Se avete conoscenti in carcere cui volete far giungere la Scarceranda potete comunicare a Radio Onda Rossa il nominativo e il carcere in cui si trovano.

Se inoltre vi interessa organizzare iniziative di presentazione, prendervene più copie per distribuirla tra compagn@, conoscenti, amici/che… contattate la radio per metterci d’accordo.

Iniziative Scarceranda

  • 29 novembre 2008: CSOA Forte Prenestino, via Delpino, Roma
     

TREMATE TREMATE!!!

23 novembre 2008 Lascia un commento

 

Foto di Valentina Perniciaro _Le streghe_

Foto di Valentina Perniciaro _Le streghe_

INDECOROSE E LIBERE era lo slogan che chiamava a questa piazza, un anno dopo quell’enorme corteo di donne che aveva colorato in modo determinato e sorprendente la città.

Eravamo molte meno quest’anno, ma è stato un bel corteo, con un’atmosfera di bell’autodeterminazione,
di capacità di camminare con le proprie gambe…autorganizzate.
Un corteo separato, che ha sfilato in un percorso lungo, allegro, determinato e compatto.
Un corteo di donne, di femministe, di lesbiche..
Un corteo di compagne come ce ne dovrebbero essere tanti.
Contro la violenza maschile sui nostri corpi, contro la violenza che si manifesta in molti modi, che è anche nel letto della proprio relazione.
Per l’autodeterminazione, per la libertà di essere come si vuole, di muoversi nel mondo come si vuole, per la libertà di essere donne con tutto quello che significa, di essere tante, di essere forti e belle.
Con i nostri corpi, con le nostre menti, con la bellezza dei nostri sorrisi. Grazie compagne…
una gran bella piazza.

Foto di Valentina Perniciaro _piccole e autodifese_

Foto di Valentina Perniciaro _piccole e autodifese_

Foto di Valentina Perniciaro _Libere e Indecorose_

Foto di Valentina Perniciaro _Libere e Indecorose_

fabbricante di libertà…

30 settembre 2008 1 commento

“Nella nostra casa di Damasco nel quartiere di Mi’dhanat al-Shahm si convocavano riunioni politiche a porte chiuse e si progettavano scioperi, manifestazioni e atti di resistenza. Dentro le porte comunicavamo con

Foto di Valentina Perniciaro _Suq di Damasco_

Foto di Valentina Perniciaro _Suq di Damasco_

sussurri che facevamo fatica a capire. La mia immaginazione da piccolo non era in grado di cogliere le cose con chiarezza ma quando vidi i militari senegalesi entrare in casa nostra alle prime ore dell’alba con fucili e baionette per portare via mio padre in un’auto blindata verso un campo di concentramento nel deserto, seppi che mio padre esercitava un altro lavoro oltre
alla fabbricazione di dolci. Era fabbricante di libertà.”

“Non so scrivere su Damasco senza che si intrecci il gelsomino sulle mie dita
Non so pronunciare il suo nome senza che sulla mia bocca si addensi il nettare dell’albicocca, del melograno, della mora e del cotogno
Non so ricordarla senza che si posino su un muretto della memoria mille colombe… e mille colombe volano.”

_NIZAR QABBANI_

Il peggiore dei massacri, Sabra e Chatila

16 settembre 2008 17 commenti

Liberazione di oggi, pagina 20

Liberazione di oggi, pagina 20

 DIARIO DI UN MASSACRO, di Valentina Perniciaro
LIBERAZIONE, 16 SETTEMBRE 2008, retrocopertina (rm1609-att01-202)

«Il problema che ci poniamo: come iniziare, stuprando o uccidendo? Se i palestinesi hanno un po’ di buonsenso, devono cercare di lasciare Beirut. Voi non avete idea della carneficina che toccherà ai palestinesi, civili o terroristi, che resteranno in città. Il loro tentativo di confondersi con la popolazione sarà inutile. La spada e il fucile dei combattenti cristiani li seguirà dappertutto e li sterminerà, una volta per tutte». Il settimanale Bamaneh , organo ufficiale dell’esercito israeliano, due settimane prima del massacro di Sabra e Chatila, riporta le parole di un ufficiale delle Falangi cristiano-maronite.
Ma proseguiamo con ordine.

Martedì 14 settembre ’82
Un’esplosione devasta la sede di Kataeb (partito delle Falangi cristiane) durante una riunione di quadri. Tra i 24 corpi anche quello di Bashir Gemayel, presidente della Repubblica libanese da appena tre settimane. E’ un colpo pesante per Israele: muore il nemico numero uno dei palestinesi in Libano, l’uomo che li aveva definiti «il popolo di troppo», ricordato come «il presidente sostenuto dalle baionette israeliane». La sua elezione era la prima grande vittoria di Sharon: le sue milizie erano state aiutate militarmente, addestrate in campi speciali, garantite di servizi di intelligence e organizzazione. Il generale Eytan, capo di stato maggiore israeliano, poco dopo l’attentato dichiarerà: «Era uno dei nostri».
Il giorno prima, il 13 settembre, gli ultimi 850 paracadutisti e fanti della forza di pace internazionale (per lo più francesi, italiani e americani) lasciano il paese. Non sono nemmeno le 18 quando parte l’operazione “Cervello di Ferro”: inizia un fitto ponte aereo israeliano, uomini e carri armati arrivano all’aereoporto internazionale di Beirut e il generale Eytan dichiara: «Stiamo per ripulire Beirut-Ovest, raccogliere tutte le armi, arrestare i terroristi, esattamente come abbiamo fatto a Sidone e a Tiro e dappertutto in Libano. Ritroveremo tutti i terroristi e i loro capi. Ciò che c’è da distruggere lo distruggeremo».

Mercoledì 15 settembre
Prima dell’alba si tiene una riunione decisiva al quartier generale delle milizie unificate della destra cristiana: per Israele sono presenti i generali Eytan e Druri, per le milizie falangiste il comandante in capo Efram e il responsabile dei servizi di informazione Hobeika. Si discute un piano d’entrata delle falangi nei campi profughi palestinesi di Beirut; un capo militare alla fine della riunione dichiarerà: «Da anni aspettiamo questo momento». Durante tutto il giorno le strade che vanno verso i campi vengono riempite con la vernice di enormi frecce che indicano la direttrice di penetrazione, Sabra e Chatila devono essere facilmente raggiungibili da chi non conosce la città. Dalle 5 in poi lo Tsahal (l’esercito israeliano ndr ) avanza su cinque direttrici, circondando completamente Beirut-Ovest: Sharon arriva sul posto a dirigere le operazioni alle 9 del mattino, sul tetto di un enorme edificio, al settimo piano, da dove può osservare benissimo i campi. Il primo ministro Menahim Begin dirà poche ore dopo che il loro «ingresso in città è solamente per mantenere l’ordine ed evitare dei possibili pogrom, dopo la situazione creatasi con l’assassinio di Gemayel».
Dalle 12 i campi di Sabra e Chatila sono circondati dai tank israeliani: la popolazione si chiude in casa. Tutti i combattenti sono partiti pochi giorni prima, nelle viuzze strette sono rimasti solamente bambini, donne e anziani.

Giovedì 16 settembre 
Bastano 30 ore per completare la missione: è la prima volta che Israele conquista una capitale araba. Per tutta la mattinata è un formicaio di bande armate, munite anche di asce e coltelli, che percorrono le strade a bordo di jeep dello Tsahal; alle 15 il generale Druri chiama Sharon: « I nostri amici avanzano nei campi. Abbiamo coordinato la loro entrata». La risposta è secca: «Felicitazioni».
Il tempo a Sabra e Chatila si fermerà alle 17 per ricominciare a scorrere 40 ore più tardi, alle 10 del sabato successivo. Gli israeliani seguono le operazioni dal tetto del loro quartier generale, forniscono in aiuto razzi illuminanti sparati con una frequenza di due al minuto: non calerà mai la notte sopra i campi. Le falangi cristiano-maronite non si limitano a sterminare la popolazione; il loro accanimento, soprattutto verso i bambini, ha pochi precedenti nella storia, la loro crudeltà supera ogni aspettativa. Sfondano le porte delle case e liquidano intere famiglie ancora nei letti o a tavola, tagliano le membra delle loro vittime prima di ucciderle, stuprano ripetutamente donne e bambine, evirano, assassinano a colpi d’ascia. Solitamente lasciano viva una bimba per famiglia che, dopo ripetuti stupri, ha il solo compito di raccontare e far scappare chi resiste. Una donna al nono mese di gravidanza verrà ritrovata con il ventre aperto, uccisa con il feto messogli tra le braccia. Le teste dei neonati vengono schiacciate sulle pareti. I miliziani saccheggiano tutto: si troveranno molte mani di donne tagliate ai polsi per impadronirsi dei gioielli.

Venerdì 17 settembre
Il venerdì nero. Il tenente Avi Grabowski dirà davanti alla commissione d’inchiesta «Ho visto falangisti uccidere civili…Uno di loro mi ha detto: dalle donne incinte nasceranno dei terroristi». Ma i soldati israeliani ricevono ancora l’ordine di non intervenire su ciò che sta accadendo, di non entrare nei campi; il loro compito rimane quello di sorvegliare gli accessi per rispedire dentro chi prova a fuggire e illuminare l’area, al calar della notte. Sono le milizie di Haddad quelle che incutono più terrore, quelle che legano i feriti alle jeep e li trascinano fino alla morte, quelle intente a torturare e a non lasciare nessuno in vita; i metodi si fanno più rapidi rispetto all’inizio del massacro, ora si spara a bruciapelo e spesso si incide una croce sul petto dei cadaveri. Più di 1500 persone spariranno salendo sui loro camion: non si è più saputo niente di loro. Entrano anche nell’ospedale di Akka e di Gaza, medici e infermieri palestinesi sono giustiziati, così come i feriti. Al confine del campo gli uomini delle milizie cristiane sono euforiche, non si vergognano di urlare in faccia ai giornalisti che iniziano ad arrivare: «Andiamo ad ammazzarli, ci inculeremo le loro madri e le loro sorelle». Sharon è l’unico invece che continua a dichiarare, mentre sovrasta il massacro, «l’entrata di Tsahal a Beirut porta pace e sicurezza ed impedisce un massacro della popolazioni palestinesi. Stiamo impedendo una catastrofe».

Sabato 18 settembre 
Il massacro continua; la puzza di cadaveri, sotto il caldo sole di Beirut, inizia a superare i confini dei campi palestinesi. E’ il momento dell’ultima trappola: le milizie dalle 6 del mattino girano sulle jeep urlando alla popolazione di arrendersi, di uscire di casa. Più di un migliaio saranno uccisi sulla strada Abu Hassan Salmeh, principale arteria di Chatila. Chi viene arrestato e portato nello stadio sarà ritrovato morto ancora ammanettato, spesso buttato in piscina. Gli ultimi abitanti vengono portati via sui camion.
Alle 10 cala il silenzio su Sabra e Chatila. Le milizie sono uscite; non si scorge anima viva nel fetore di quelle strade. Solo qualche ora dopo i sopravvissuti inizieranno ad uscire dai rifugi, e il dolore si trasformerà in grida, mentre osservano più di 2000 cadaveri mutilati, dilaniati, stuprati, lasciati marcire al sole. I riconoscimenti avverranno solo in parte, visto che molti erano stati già gettati in fosse comuni. C’è una donna che urla… ha intorno a se i cadaveri dei suoi 7 bambini, tiene tra le braccia il corpo dilaniato della più piccola, di soli 4 mesi. Si tira la terra in testa, urla, «E ora? Dove andrò? E ora?».
Sulle mura delle poche case rimaste in piedi si leggono gli slogan della Falange “Kataeb”: «Dio, Patria, Famiglia».
«Quali assassinii di donne? Si fa una storia per niente. Da anni uccido palestinesi e non ho ancora finito. Li odio. Non mi considero affatto un assassino. Ne verranno ancora assassinati migliaia, ed altri creperanno di fame», le parole di Hobeika saranno difficili da dimenticare. Neanche per il popolo israeliano è facile accettare l’idea di essere corresponsabili di una simile azione, l’indignazione popolare è profonda. Un corteo di 400mila persone invaderà Tel Aviv con slogan diretti contro il governo e Sharon.
Il 20 settembre, Amos Kennan sulla più importante testata israeliana, Yedioth Ahronot , scriverà: «In un sol colpo, signor Begin, lei ha perduto il milione di bambini ebrei che costituivano tutto il suo bene sulla terra. Il milione di bambini di Auschwitz non è più suo. Li ha venduti senza utile».
Oggi ci sarà ancora una commemorazione, sulla piazza della fossa comune, all’ingresso di Chatila. La popolazione dei campi andrà a salutare, a portare avanti il ricordo di quei giorni neri in cui si è cercato casa per casa il più innocente per trucidarlo, in cui si è perpetrato uno sterminio scientifico e atteso da molto tempo. Il giorno più bello per le falangi cristiano-maronite, l’ennesima nakba (tragedia) per i palestinesi che malgrado tutto continuano a lottare, a sperare in un ritorno, ad esistere.
Come diceva Mahmud Darwish, grande poeta palestinese da poco scomparso, «Il mio popolo ha sette vite. Ogni volta che muore rinasce più giovane e bello». Basta passeggiare per le vie dei campi profughi del medioriente per capire che grande verità è questa.
Nel 2002, il tribunale dell’Aja prova ad accusare Sharon di crimini contro l’umanità per le evidenti responsabilità durante il massacro. Il processo nasceva dalle accuse del comandante Hobeika, che aveva deciso di far luce sui fatti. Avrebbe dovuto farlo i primi di febbraio,testimoniando in aula. Ma non ha fatto in tempo: è saltato in aria il 24 gennaio 2002.
La verità su Sabra e Chatila, comunque, non ha bisogno di tribunali per essere sancita. E’ chiara, scritta, visibile ancora oggi ad occhio nudo.

Tutte le citazioni sono tratte dal libro “Sabra e Chatila Inchiesta su un massacro” di Amnon Kapeliouk (Editions du Seuil, 1982)

Foto di Valentina Perniciaro -Il mercato di Sabra-

Foto di Valentina Perniciaro -Il mercato di Sabra-

” ‘na dissenteria di bombe”

19 agosto 2008 2 commenti

L’estate del ’43 gli eserciti spediti sulla neve di Russia, 
nella sabbia di Egitto, sbandavano all’indietro.
La guerra dei fascismi andava alla malora,
ma una pace: lontana. “Finché non bombardano Roma”,
“Finché non bombardano Roma”, la frase girava a bassa voce,
pericoloso dirla per intero, la milizia aveva cento orecchie,
qualcuna di meno ultimamente, che la guerra falliva.

Finché non bombardano Roma, non finisce.
Strano vaccino per l’epidemia, che razza di siero antiguerra.
Si era ficcato in testa per le città d’Italia
bombardate a martello, prima solo di notte,
poi pure a mezzogiorno, e a Roma niente. 
“Ce sta ‘o papa, nun ponno mena’ bbombe ‘ncopp’ o papa”.
A Napoli spiegavano così la malasorte,
la più bersagliata dall’alto dei cieli, e Roma niente.
“‘O papa, ce sta ‘o papa, nun le ponno fa’ niente, sta San Pietro.”

Nel luglio del ’43 il cielo sopra Napoli era un campo di croci con le ali,
altissime passavano e sganciavano,
sopra obiettivo libero, a terra senza allarme,
senza sirena in mezzo alla città.
Sono più avvelenate di terrore le bombe a mezzogiorno.
Di notte è già normale correre al rifugio,m dentro il buio
a ripararsi, ma di giorno è peggio. “Quanno fernesce? Mai?
E il caldo, ‘o calore, d’o mese ‘e luglio d’o ’43”.

 Mia madre teneva diciottanni, legati stretti
per non farseli scippare, passava per la piazza
della posta centrale dopo una delle scariche,
e s’accorse che non c’erano le mosche,
erano morte pure quelle per lo spostamento dell’aria.
“Sui corpi scamazzati, scarognati, nun ce steva ‘na mosca.
Nun era manco nu bumbardamento,
ma ‘na dissenteria di bombe, ci cacavano ‘n capa.
E a Roma c’era il cinema, la guerra la sentivano per radio,
la gente la sera usciva, ieva a teatro,
nun le mancava niente. Tenevo diciottanni,
due fratelli nascosti,
i tedeschi fucilavano i guagliuni che non si presentavano”.

“No, ma’, questo è successo dopo, nel settembre,
quando gli americani ancora non entravano
e i tedeschi mettevano le mine in mezzo al golfo.
Stavamo ricordando ‘o mese ‘e luglio”.
“Senza pute’ durmi’ manco ‘na notte,
a sirena sonava doie, tre vote,
andavamo a durmi’ coi panni ‘ncuollo,
manco le scarpe mi toglievo, pronta pe’ n’ ata corsa,
giù per le scale, ‘a sirena int’e rrecchie
che m’afferrava i nervi, spìcciati, presto, curre,
le posate d’argento nella borsa, la ricchezza nostra,
mammà che mi sttrillava dietro: “Piglia i posti buoni”.
C’erano i posti buoni e quelli malamente, comm’a teatro”.

“Finché nun bumbardano Roma, ‘sta guerra fetente nun fernesce.
La milizia mo’ sente e fa finta ‘e nun senti’,
o’ ssape che è fernuta ‘a zezzenella
(lo sa che è finita la pacchia).
‘O fascismo per me è stato ‘a guerra. Tenevo quindicianni,
‘a meglio età, quanno ‘o fascismo s’affacciaie ‘o balcone:
vincere e vinceremo. Se credeva di fa’ ‘na guapparia,
quattro mosse dietro ai tedeschi e subito vinceva.
In capo a qualche giorno a Napoli sentéttemo  ‘a sirena,
‘a primma sirena d’allarme. Ancora me la sogno la sirena.
Dentro ai sogni nun m’arricordo ‘e bbombe, ma ‘a sirena.
Tenevo quindicianni all’inizio d’a guerra, ‘a meglio età.
‘O fascismo me l’ha inguaiata fino a diciottanni.

Niente sapevo, niente m’importava, d’a politica,
io vulevo fa’ ammore, uscire colle amiche mie,
ballare, andare al mare. Si m’o ffaceva fa’,
si ‘ o fascismo me faceva campa’, bene per lui e bene pure a me.
Invece niente, s’è arrubbat’a giuventù,
ha mandato a muri’ ‘i meglio guagliuni pe’ na guerra fetente,
se ne futteva ‘e me, ‘e Napule, ‘e l’Italia. Stava a Roma
arriparato sotto ‘a tonaca d’o papa,
a Roma non gli succedeva niente.”

“E com’è stato lo strillo, la voce che hai sentito
all’uscita del ricovero, quel giorno?”
“Sarà stato mezzogiorno, o primo pomeriggio,
nun saccio di’, ce stava ‘o sole, da due ore
schiattavamo ‘e calore int’o ricovero.
Sunaie ‘a sirena di cessato allarme, ascèttemo all’aperto,
tossivo per la polvere alzata dalle bombe,
m’abbruciavano gli occhi per la luce potente dopo il buio,
mezzo stordita m’arrivaie ‘nu strillo: “Roma!
Hanno colpito Roma! Hanno menato ‘e bbombe
             ‘ncopp’ o papa”.
E doppo ‘ o strillo ne venette n’ato: “E’ ‘m mumento,
fernesce ‘a guerra, mo’ fernesce ‘a guerra”.
La gente usciva dai ricoveri scunfusa, stupetiata,
e tutt’insieme dietro a quello strillo
s’abbracciava, chiagneva, alzava ‘e manne ‘o cielo.
“Fernesce ‘a guerra” e : “Roma bombardata” erano ‘o stesso strillo.
E a me, che manco me pareva overo che puteva fini’,
si gelò il sangue a vedere quella festa
perché Roma era stata bombardata.
Noi che sapevamo che malora era,
ce mettevamo a fa’ chell’ammuìna?
Che t’aggia di’, ‘a guerra è ‘na carogna
e ‘o fascismo ci aveva incarogniti.
Poi uscì la milizia e tutti quanti ce ne tornammo a casa
a senti’ ‘a radio: Roma era stata bombardata
la mattina, da ‘e pparti d’a stazione, no a san Pietro.

E così fu che cadett’ o fascismo.
o’ rre fece arrestare Mussolini
e ‘a ggente se credeva che ferneva tutte cose,
‘a guerra, ‘a carestia, tornava il pane bianco, veneva ‘a libbertà.
Fuie ‘na fantasia, nun era tiempo.
A Napoli finì due mesi dopo, a fine settembre,
‘o popolo s’arrevutaie isso sulo contro i tedeschi,
quattro giorni e tre nottate sane,
al buio in mezzo agli spari, pieni di volontà,
quattro giornate per levarsi gli schiaffi dalla faccia.
Finché non se ne uscirono i tedeschi,
entrarono i guagliuni americani, figli ‘e napoletani d’oltremare.
Cominciò quel po’ di gioventù che mi avanzava.
Mi so’ sposata nel ’46, perciò la gioventù durò tre anni.

E di tutto il fascismo mi rimane il peggio di quell’ora
di festa per Roma bombardata.
Anche se in quella polvere di luglio, ‘ calore, ‘o sudore,
non mi sono abbracciata con nessuno,
è per la gente mia che mi dispiace.
Allora fu normale, perciò chist’è ‘o fascismo pe’ mme,
la fetenzia che ci ha portato a quello, di applaudire.
Ti parlo de ‘sti ccose addolorate pecché tu saie senti’,
ma nun pozzo permettere a nisciuno di voi venuti dopo
di giudicare Napoli in quell’ora, 
pecché ‘o fascismo vuie nun ‘o ssapite”.

                             L’Estate del ’43.   ERRI DE LUCA, “L’ospite incallito”  -Einaudi Editore-

Haret Hreik_Beirut_settembre 2006

Beirut, Libano. Quartiere sciita di Haret Hreik, dopo i bombardamenti israeliani Settembre 2006. Foto di Valentina Perniciaro

Napoli, primavera 2006 Foto di Valentina Perniciaro

Napoli, passeggiando nei vicoli del centro. Foto di Valentina Perniciaro

L’altra metà dell’arancia

12 agosto 2008 2 commenti

ORA MAHMOUD DARWISH PUO’ TORNARE ALLA SUA TERRA

di Valentina Perniciaro
DA LIBERAZIONE DI OGGI, 12 AGOSTO 2008
Mahmud Darwish, il poeta della resistenza palestinese, è morto sabato scorso a Houston, negli Stati Uniti. Aveva 67 anni e il suo cuore non ha retto all’ultimo delicato intervento subìto.
La sua vita è il manifesto della sua terra, storia marcata dalla Nakba , il dramma che colpì la Palestina nel 1948, anno della fuga e dell’esilio mai terminati.
Nasce nel 1941 ad al-Barweh, un villaggio della Galilea poche miglia a est di Acri, in quel momento sotto mandato britannico. E’ lui stesso a raccontare la notte in cui la sua vita smise di essere quella di un bambino, quando fu costretto a fuggire sotto braccio alla sua famiglia verso il confine libanese.
«A 7 anni smisi di giocare e ricordo bene come e perché: in una notte d’estate, quando si usava dormire sui tetti a terrazza delle case, fui improvvisamente svegliato da mia madre e mi trovai a correre con centinaia di contadini in mezzo ai boschi, inseguito dalle pallottole. Quella notte ho messo fine alla mia infanzia. Non chiedevo più nulla, ero diventato improvvisamente adulto[…]. In Libano ho imparato – mai lo dimenticherò – che cosa significa la parola “patria”. Là ho imparato parole nuove che hanno aperto davanti a me una finestra su un mondo nuovo: guerra, notizie dalla patria, profughi, esercito, confini, TERRA».
Non ha mai tralasciato un dettaglio nel racconto di quei giorni e di quell’anno passato nei campi profughi gestiti dall’Unrwa; con la sua penna ha permesso al mondo di capire la rabbia di un bambino di 7 anni in fila per la sua razione di cibo, l’odiata fetta di formaggio giallo. Dopo solo un anno la sua famiglia tenta il ritorno; della notte prima della partenza lui ricorderà:
«Tornare a casa significava per me la fine del formaggio giallo, la fine della provocazione continua dei ragazzi libanesi che mi insultavano con l’epiteto “profugo”». Pensava di tornare a casa mentre superava il confine con il petto che strisciava a terra, ma il villaggio dov’era nato non c’era più: come altri 600 era stato fatto saltare in aria e tutto era stato confiscato dalle autorità del nuovo Stato. La loro identità volatilizzata, così come la terra e il diritto di cittadinanza. «Non capivo nulla. Non capivo come avesse potuto essere distrutto un villaggio intero. Non capivo come fosse accaduto che l’intero mio mondo fosse sparito, né chi fossero quelli che lo avevano annientato».
Si stabilirono poco lontano, nel villaggio di Der al-Asad e lui iniziò a crescere come un “profugo nella sua patria”, destino comune a tutti coloro che non erano scappati o che erano riusciti a rientrare in Israele. Così, al suo vocabolario esistenziale imparato da piccolo profugo, si aggiunsero altre parole: iniziò a frequentare la seconda elementare da “infiltrato”. Il direttore infatti, lo chiudeva in uno sgabuzzino ogni volta che passavano i controlli dell’ispettore.
«Anche a casa ogni tanto mi dovevano nascondere. Mi era proibito vivere nel mio proprio paese e per ottenere la carta d’identità israeliana imparai a dire che ero vissuto con le tribù beduine a nord del paese, e non in Libano».
Iniziò a scrivere liriche che era appena un ragazzo, a cantare la sua identità legata in modo viscerale alla terra, ad un luogo unico e costante che nei suoi testi rimane sempre astratto ed espresso solamente attraverso alcuni, ripetuti, simboli come l’ulivo, le arance, il gelsomino, il timo, il pozzo. Dalle sue prime poesie il filo conduttore è sempre quel legame indissolubile, quella nostalgia eterna, quell’orgoglio di resistente che coltiva quotidianamente la memoria e l’amore per le radici estirpate.
Dal 1961 la sua voce inizia ad infastidire, per questo viene continuamente controllato, imprigionato cinque volte con la sola accusa di scrivere poesie e muoversi senza permesso all’interno dello stato d’Israele. Motivo per il quale non riuscirà nemmeno a conseguire la laurea. Dopo l’ennesimo periodo di detenzione decide per l’esilio volontario, partendo alla volta del Cairo dove inizia a collaborare con il prestigioso quotidiano al-Ahram . Partirà poi per raggiungere l’Olp a Beirut e lavorare al Centro di ricerca palestinese fino al 1982 quando, con migliaia di altri militanti approda a Tunisi. La sua firma appare tra i redattori del testo della Dichiarazione d’Indipendenza dello Stato Palestinese, documento promulgato nel 1988 e riconosciuto da diversi stati. Il suo esilio durerà 26 anni quando, nel 1996, riceverà un permesso per poter visitare i suoi famigliari in Israele.
La sua casa ormai era a Ramallah, finchè la malattia che da sempre tormentava il suo cuore non l’ha costretto a partire per gli Stati Uniti, dove è deceduto.
La sua patria non era altro che la sua poesia, la sua terra era fatta di parole e profumo di gelsomino, la sua vita era un’arancia spaccata a metà che non è mai riuscita a ritrovare il sapore dell’altra parte. Edward Said, altro grande intellettuale palestinese da poco scomparso e anche lui figlio della Nakba , diceva che la poesia di Darwish «non era un rifugio lontano dall’esistenza consueta, ma una battaglia tra la poesia stessa e la memoria collettiva, dove una preme sull’altra». Fin dal suo esordio nel panorama della poesia araba, amava assimilare il testo ad una “partitura musicale” che lui molto spesso recitava pubblicamente. La sua voce carismatica e le sue parole sono state un ripetuto appuntamento che ha richiamato migliaia di persone in tutto il Medioriente e non solo.
«Quando l’uomo perde tutto, proprio tutto, persino l’esilio in cui annientarsi, resta il canto che si ripeterà e s’innalzerà fino agli abissi dei mari. E’ un altro miracolo nel racconto a episodi della storia del popolo palestinese. Niente esilio, niente patria. Ma c’è una cosa di cui nessuno mi può privare: la poesia e il canto».
La sua bibliografia è composta da quindici spessi volumi di poesie e cinque di opere in prosa scritti quasi completamente in lingua araba e tradotti ormai in 20 lingue. Purtroppo i lettori italiani non sono così fortunati. Sono solamente tre i libri disponibili nelle nostre librerie: Oltre l’ultimo cielo (Edizioni Epoché, 2007, 14€), Una memoria per l’oblio (Edizioni Jouvance, Roma 2002, 15€) e Perché hai lasciato il cavallo alla sua solitudine? (Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova 2001, 18€). Fortunatamente molte sue poesie e prose sono state tradotte e inserite nelle più importanti antologie di letteratura araba palestinese.
Mahmoud Darwish scriveva per dimostrare la sua esistenza, per urlarla in faccia ad un nemico che voleva privarlo proprio di quella. Era il cantore della libertà e delle catene spezzate, del pane preparato dalle mani materne, dell’ulivo e dei frutti della sua infanzia. La Palestina piange il suo più dolce poeta. Che il suolo della sua terra gli sia lieve come una carezza.

12/08/2008

Mamma montagna

3 agosto 2008 1 commento

Se ne imparano di cose in montagna. Si impara nel provare a salirla e, nel nostro caso, si impara ancora di più nella discesa. Facilmente ci si innamora..di quel senso di libertà, di quella solitudine intorno, di quella vita pullulante ad ogni passo. E poi della fatica, del sudore, della sfida, dell’acido lattico che si fa sentire appena iniziato il cammino.
E noi che pensavamo, per una volta, di poter scegliere i tempi…invece è stata sempre lei a deciderli, a decidere sul nostro corpo, sul nostro orientamento, sullo stupore di tanto spazio intorno.
 


I paesaggi più belli li porto con me. Li tengo per me. I paesaggi più belli erano quegli occhi brillanti.
Era quel sorriso. E’ quello che sto imparando accanto a te.
Ringrazio quella montagna, perchè ha contribuito a legare, intrecciare, a crear fiducia.. ha regalato sorrisi e armonia, combattività e tenerezza.


                              
“Farei con te quello che la primavera fa con i ciliegi” P. NERUDA

W la France! Oggi si!

23 giugno 2008 Lascia un commento

BELLE NOTIZIE DALLA FRANCIA.
BELLE COME UN CARCERE CHE BRUCIA. 

Un incendio doloso ha quasi completamente distrutto ieri il centro di detenzione di Vincennes, uno dei più grandi di Francia, dove erano detenuti 273 stranieri senza permesso di soggiorno in attesa di espulsione. 
L’incendio è stato appiccato alle 15.45 del pomeriggio, in due distinte sezioni della struttura, e nonostante l’intervento rapido dei pompieri i danni sono stati ingenti. Nessun ferito grave, ma venti persone sono state ricoverate per intossicazione dovuta al fumo.

Una cinquantina di detenuti hanno approfittato del caos per fuggire. 
Secondo uno degli stranieri detenuti, l’incendio è legato alla rivolta scoppiata nel centro dopo la morte, sabato, di un tunisino per arresto cardiaco. Alcuni detenuti avrebbero dato fuoco ai materassi mentre all’esterno si svolgeva una manifestazione di solidarietà. L’incendio è cominciato venti minuti dopo l’inizio della manifestazione.

Corteo per i diritti, per la casa, per la libertà. Roma, 14 giugno 2008. Foto di Valentina Perniciaro

se non quelli che moriranno con me

9 giugno 2008 1 commento

“Faccio la prova del dolore. Come se il medico punge un arto per verificare se è insensibile, così io pungo la memoria. Prima che moriamo, può darsi che muoia il dolore. Se così fosse, questo sarebbe da raccontare, ma a chi? QUI NESSUNO, SE NON QUELLI CHE MORIRANNO CON ME, PARLA LA MIA LINGUA”
                             -Christa Wolf- 

 

Sono appena nata.
Non parlo, non cammino, non mi sposto nel tempo,
non so neanche cosa sia domani.
Mi muovo nel buio della coscienza.
Sono puro sentire.
So l’essenziale per vivere e il resto non mi riguarda,
lasciato nel beneficio buio dell’imperscrutabile e dell’immotivato.
Non mi interessa capire, prevedere, programmare.
Solo vivere.
Vivere si.
Adesso. 
Confusa nel tutto.

-Tratto da “Compagna Luna” , Barbara Balzerani, Feltrinelli 1998 

Foto di Baruda: Genova, 17 Novembre 2007
Quella gran bella cosa che sono i CORDONI, quasi perduta nell'oblio. 

sei la mia patria

5 giugno 2008 3 commenti

Mi sento felice.
Non ci sto capendo nulla del mio presente.
Se non che son felice, si, proprio felice.

 
Sei la mia schiavitù sei la mia libertà 
Sei la mia carne che brucia 
come la nuda carne delle notti d’estate 
sei la mia patria 
tu, coi riflessi verdi dei tuoi occhi 
tu, alta e vittoriosa 
sei la mia nostalgia 
di saperti inaccessibile 
nel momento stesso 
in cui ti afferro 
—Nazim Hikmet, Poesie dal carcere—

GGGGIOIA!!

31 Maggio 2008 1 commento

Deprivazione tattile

27 Maggio 2008 Lascia un commento

“Sottratto al sociale, il corpo del recluso non ha modo di ricevere e cercare stimoli sensoriali. E, fra tutte le privazioni, quella della tattilità è forse la più grave e devastante. Così devastante che un bambino ne può anche morire.

Quando sul finire dell’800 la puericultura americana introdusse il “lettino con le sbarre”, soppiantando la tradizione della culla, cominciarono a verificarsi morti inspiegabili di bambini perfettamente sani. L’evento è passato alla storia come “morte da lettino” o “sindrome mortale infantile subitanea”. L’esperienza umana insegna che il cullamento è un moto di accarezzamento dell’intero corpo in ogni sua funzione.Una condizione essenziale di benessere che viene preclusa al “bambino fra le sbarre”.

Come la deprivazione tattile può far morire, così il toccamento può far rinascere.Il con-tatto umano è infatti una possibile cura in caso di coma irreversibile o per creature con lesioni cerebrali e handicap psicomotori. E’ il caso di quel centinaio di volontari che, a turno, andavano a casa di una bambina perchè potesse avere 24 su 24 l’unica medicina in grado di farla star meglio: il contatto umano: l’incontro e il toccamento di persone di ogni sesso, età, professione, cultura, che l’aiutavano negli esercizi di riabilitazione. La stimolazione è taumaturgica. L’assenza di tatto, invece, è dolorosa.

Tolgo dalle braccia -sotto pelle- frammenti di posate di plastica: le sole che si possono usare. Punte spezzate di forchette di plastica. Bastano piccoli taglietti e questi frammenti entrano sottopelle. Da quegli stessi taglietti, spingendo, tiro fuori le punte di forchette. Non c’è sangue, non c’è una goccia di sangue! Più ne tiro fuori e più, toccando, ne sento! Con un senso di fastidio, ma pazientemente, sto lì a tirar fuori questa plastica. Mi sveglio con un senso di angoscia. Quanta materia inerte ho assorbito in tutti questi anni attraverso i pori della pelle?

Penso al ferro, al cemento, alla plastica che tocco. Ed ai segni devitalizzati che mi invadono.E poi non c’è sangue! Senza che me ne accorgessi la morte mi è entrata dentro impossessandosi del sangue. Scrivo o racconto il sogno a chi posso , per lanciare un allarme. Bisogna avvisare, far presto, prima che l’inerte ci invada totalmente!”

tratto da “IL BOSCO DI BISTORCO”. Renato Curcio, Stefano Petrelli, Nicola Valentino. Edizioni Sensibili alle Foglie

Questo blog, inevitabilmente, parlerà spesso di reclusione, di privazione, di isolamento.
Si parlerà del carcere, dei meccanismi punitivi, di tortura fisica e psicologica, di ospedali psichiatrici giudiziari, di centri di detenzione temporanea per migranti…dei reietti. Di quelli che per lo stato devono marcire da reietti
Del diritto alla libertà, di quanto si può imparare dagli occhi di chi si è visto togliere tutto.
Col vento di questa sera non posso non pensare a chi è chiuso in una cella..con questo fischiare libero del vento, con questo piacere della pelle nel farsi attraversare da tanta forza.

CONTRO OGNI CARCERE, CONTRO OGNI GALERA.
GIORNO DOPO GIORNO!

BASTA!

21 Maggio 2008 Lascia un commento

Smog il drago e la bambola azzurra

18 Maggio 2008 1 commento

“Smog il drago amava i sogni, ma soprattutto amava le bambole di porcellana che riempivano i suoi sogni, le bambole di colori trasparenti o concreti, colori tenui e dolci o salati come il mare.

Ma Smog il drago amava soprattutto la bambola di porcellana che spesso, quasi sempre, compariva fiera e carica di stelle e soli, spargendo fiori profumati, cibo e acqua fresca. Allora dimenticava di essere nato per custodire il Tesoro, dimenticava il guadagno e la perdita, dimenticava i flutti profondi del mare, come se il vero tesoro fossero i suoi sogni.
Pensava alla bambola azzurra che appariva o che scompariva, sempre per poco. Ma era un poco che era troppo, un troppo poco, dal momento che non avrebbe più voluto risvegliarsi.
Non si accorgeva ormai della sua caverna tanto era occupato a pensare quali meravigliosi ornamenti avrebbe potuto ordire per le …Lei che, forse, non era soltanto un sogno perchè da qualche parte, era sicuro, i sogni si realizzano, per sempre… Sogni che sognano altri sogni in mondi di sogni che si ripetono senza alcuna stanchezza o trasparenza, dove la bambola azzurra passeggia in mezzo alle serre traboccanti di fiori e api che ronzano spezzando la fragranza, dove i cervi giocano con gli alberi, e dove il ciliegio cresce rosso rivolto verso il tramonto.
Pensava, Smog il drago, in quel paese di deporre le sue fiamme e di raccogliere al loro posto collane di perle di pioggia per parlare, finalmente, a lungo alla bambola azzurra. Voleva raccontarle tutti i suoi sogni di un tempo, le sue visioni di colori. Ascoltarsi parlare di sogni, i suoi sogni.

Obey ...Angela Davis

Verso sera nel ventre del vulcano il buio si faceva intollerabile, picchiava sugli occhi colla sua tintura di nero, anche l’oro cessava di brillare e al buio tutto acquistava un sapore di niente. Cercava di afferrare qualche suono lontano, magari un piccolo brandello, un mormorio, un bisbiglio, ma neppure il vento osava sostare vicino al tesoro quando il cielo spariva inghiottito da qualche lupo vorace.
Solitudine, forse, paura di non riprendere il sogno interrotto, di non incontrare più la bambola azzurra, di non sparire in un buio ancora più buio che potesse annullare quel buio. E l’azzurro era ancora un colore che Smog, il drago, poteva vedere anche di giorno, e nel buio nero, ogni tanto, si illudeva di vederne un bagliore.
Un giorno la bambola azzurra sembrò guardarlo e ora un pensiero continua a turbarlo, un pensiero che gli ha restituito la speranza … gli sembrò che fissandolo, ad un tratto, la bambola parlasse dicendogli: “Anche tu hai il colore del cielo.”

——FAVOLA DI CAPODANNO—— Giuliano Naria

Giuliano Naria, operaio genovese, era un militante delle Brigate Rosse. Accusato dell’azione che porta alla morte di Coco, passa diversi anni nelle carceri speciali (kampi) di Fossombrone, Cuneo, Asinara… Gli arresti domiciliari per gravi motivi di salute vengono concessi a Giuliano solo nell’estate del 1985. L’anno dopo viene assolto dall’accusa di avere ucciso Coco e la sua scorta. Negli anni successivi viene assolto anche dalle altre accuse, ma il suo fisico è ormai gravemente debilitato. Nel 1995 gli viene diagnosticato un tumore e muore nel 1997. Ha scontato 9 anni e 16 giorni per poi essere dichiarato innocente.

Le sue favole sono un percorso dolce e colorato di evasione. Le sue favole hanno la capacità di svicolare, di scivolare dalle mani dei carcerieri, di volare libere.

 


								

cambierà nome pure l’universo!

16 Maggio 2008 3 commenti

“Quando saremo due saremo veglia e sonno,

affonderemo nella stessa polpa

come il dente di latte e il suo secondo,

saremo due come sono le acque, le dolci e le salate,

come i cieli, del giorno e della notte,

due come sono i piedi, gli occhi, i reni,

come i tempi del battito,

i colpi del respiro.

Quando saremo due non avremo metà

saremo un due che non si può dividere con niente.

Quando saremo due, nessuno sarà uno,

uno sarà l’uguale di nessuno

e l’unità consisterà nel due.

Quando saremo due

cambierà nome pure l’universo

diventerà diverso”

____ERRI DE LUCA____

Pitigliano,, marzo 2006

Foto di valentina perniciaro
Una scala in salita, decisamente.
Ma tutta questa paura non sembra mettere. Ci hanno insegnato ad andare avanti, a salire, ad arrampicarsi, a seppellire la mostruosità con i nostri sorrisi, con il rosso vivo delle nostre bandiere.
Alla libertà, musa eterna.

Tutt@ liber@

11 Maggio 2008 Lascia un commento