La punizione collettiva: continua l’operazione Brother’s Keeper
Basta appena aprire gli occhi, quel minimo che permette alla luce e alle immagini di entrare,
basta quel minimo di fessura per capire che l’operazione Brother’s Keeper che Israele sta portando avanti in Cisgiordania e con i raid su Gaza,
è qualcosa di pianificato da tempo, e che il rapimento è solo una scusa.
Nell’intervista rilasciata al giornale ultra Ortodosso “Hadrei Haredim” (solo in lingua ebraica) da un ufficiale dell’IDF impiegato nella zona di Jenin, si parla di intenzionalità di alzare la tensione della popolazione provocando lanci di pietra, con cecchini pronti a sparare al primo lancio.
“C’era un gruppo di cecchini su un tetto, un intera unità si è mossa nella periferia di Jenin per crear problemi ed alzare la tensione. Questo è il principale obiettivo: provocarli per poi accusarli di aver causato i disordini.
L’IDF dichiara che l’operazione Brother’s Keeper ha due obiettivi: riportare a casa i tre coloni e infliggere un duro colpo ad Hamas in Cisgiordania; l’operazione durerà tutto il tempo che Israele lo riterrà necessario.
Una punizione collettiva, l’ennesima che il popolo palestinese si trova ad affrontare, non a subire, malgrado la sproporzione.
Lo ripeto, lo ripeterò fino alla nausea: un colono non è innocente.
Un colono deve sentirsi in pericolo ogni secondo della sua vita perché ha scelto di essere un corpo in guerra, occupante, stupratore di terra e cultura.
Un colono è un soldato, è il peggiore dei soldati,
un colono è un mercenario assetato di terra altrui e sangue.
Un colono non può essere considerato un civile, perché ha scelto di non esserlo.
E in Israele son 500.000, cinquecentomila persone che scelgono di vivere così (ogni tanto poi succede che ne pagano le conseguenze, ogni tanto)
Poi, anche non fossero coloni,
anche fossero i più pacifici cittadini del più pacifico dei popoli,
la proporzione qui non è nemmeno il 10 a 1 di Via Rasella, ma è molto più alta.
(non si può dire altrimenti siamo antisemiti nazisti blablablablablablablabla)
Ma sì, riempitevi la bocca: è la più grande democrazia del Medioriente.
5 morti, 410 arrestati durante i rastrellamenti casa per casa (38 nelle ultime ore), occupazione di interi villaggi col posizionamento dei cecchini,
coprifuoco, distruzione di case e infrastrutture…
Leggi: 3 rapiti, un popolo sotto assedio
Un intero popolo sotto assedio per 3 ragazzi dispersi : si chiama Apartheid (o Israele)
La verità è che ci son tre ragazzi scomparsi, probabilmente rapiti. La verità è che son coloni israeliani, giovani coloni israeliani: e questo comporta che siano degli occupanti per scelta. Comporta la decisione di vivere in un territorio occupato e in una guerra permanente da loro guerreggiata a cemento armato, insediamenti, muri e ovviamente piombo.
Essere coloni, ovviamente per scelta come tutti lo sono, comporta (dovrebbe comportare, se il mondo fosse più giusto e razionale) un elevato rischio quotidiano: d’altronde vivi in terra d’altri, bevi acqua d’altri, espropri case d’altri, seghi colline d’altri, sradichi alberi d’altri e così via,
fino al loro quotidiano tuffo in piscina. E’ l’abuso degli abusi, la violenza delle violenza: l’esser coloni israeliani.
Ma torniamo ai fatti: ci son 3 ragazzi scomparsi mentre facevano l’autostop.
C’è il precedente storico di Shalit, che però era un soldato, che rimase anni nelle mani dei suoi rapitori palestinesi, nella Striscia di Gaza.
Un ragazzo tornato a casa comunque, non ce lo dimentichiamo.
Dal momento in cui questi ragazzi son scomparsi la Cisgiordania è tornata ai tempi di Sharoniana memoria: sembra di essere nel 2002.
Le retate son costanti, gli arresti son ovunque: i campi profughi vivono continue scorribande e occupazioni dell’esercito israeliano.
I numeri parlano chiaro e fanno venire una grande impotente rabbia:
Ci sta Ammar Arafat (19 anni) del campo profughi di Jalazon (Ramallah) e poi c’è Mahmoud Jihad Muhammad Dudeen che di anni ne aveva 13 e che ieri è stato ucciso, colpito in pieno petto, nel villaggio di Dura (in questo caso vicino ad Hebron).
L’operazione “brother’s keeper” ha già fatto due giovanissimi morti e centinaia di arresti.
IL campo profughi di Dheishe ha visto l’irruzione anche nel centro culturale Ibdaa dove a decine son stati portati via incapucciati e da dove è stato sequestrato tutto il materiale tecnologico e l’archivio cartaceo. Hanno arrestato anche chi era stato appena liberato dopo 30 anni di detenzione, come Isa Abdel Rabbo, che fino a poco tempo fa aveva il triste record di esser il palestinese più anziano nelle mani degli israeliani. E’ stato rilasciato dopo un lungo interrogatorio.
Ovviamente nel frattempo siamo al quinto raid aereo su Gaza, che quelli non fanno mai male no?
Ci son tre ragazzi rapiti, tre coloni rapiti in pieno regime di Apartheid:
e c’è un intero popolo sotto scacco, con i cecchini fuori la porta, con la porta che salta con l’esplosivo, con arresti di massa senza senso, con devastazione di case, centri culturali e tutto quel che passa sotto i loro anfibi o cingoli. Sarà la solita storia per molti, ma noi non smettiamo di urlarvela in faccia,
che almeno la verità buchi le vostre orecchie.
FUORI TSAHAL DAI CAMPI, LIBERTA’ PER TUTTI I PRIGIONIERI.
LIBERTA’ IMMEDIATA PER I 196 BAMBINI PALESTINESI DETENUTI NELLE CARCERI ISRAELIANE
PALESTINA LIBERA!
Della scherma e del boicottaggio allo Stato d’Israele: Sarra Besbes
Sarra Besbes è una giovane donna tunisina, una delle migliori spadiste africane;
ieri in pedana ai mondiali di scherma di Catania contro un’ avversaria israeliana di nome Noam Mills.
Ha scelto di non gareggiare, ma non di ritirarsi.
Ha deciso volutamente di rimanere ferma e di subire le cinque stoccate che valgono per la sconfitta, perché certo di vittoria non si può parlare.
Una forma di boicottaggio allo stato di Israele, lo stesso che persevera scientificamente nella pulizia etnica della terra di Palestina e nel mantenimento di un regime di Apartheid all’interno dei suoi confini, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
Una forma di boicottaggio che deve essere costata molto ad una donna che ha costruito una vita per combattere su quella pedana, e che immobile ha deciso di lasciare la vittoria a chi, da più di 60 anni, è abituato a vivere in uno Stato che abitualmente infierisce su un corpo disarmato per poi chiamarla vittoria.
على راسي
Aggiornamenti dalle carceri israeliane: DIFFONDIAMOLI
Il 27 settembre è iniziato uno sciopero della fame dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, per chiedere la fine delle condizioni di detenzione che in migliaia vivono, per chiedere la fine dell’isolamento per Ahmad Sa’adat e la fine delle politiche repressive nei confronti dei familiari e dei visitatori dei prigionieri, costretti a subire costanti vessazioni che spesso rendono impossibile anche solo un’ora di colloquio al mese con i propri cari in regime di detenzione, nelle carceri di un paese occupante.
Chiedono la fine degli abusi durante le traduzioni da un carcere all’altro e molto altro, oltre che la solidarietà internazionale e la diffusione delle notizie sulla lotta che stanno portando avanti, sul proprio corpo, l’unica cosa a loro disposizione.
Ovviamente le autorità israeliane e i funzionari del dipartimento che gestisce le carceri nel paese dell’Apartheid hanno risposto aumentando la violenza psicologica e le condizioni dei detenuti: dal carcere di Nafha i detenuti politici palestinesi raccontano delle minaccie subite sulla negazione dei colloqui con i familiari. Per ogni giorno di partecipazione allo sciopero della fame ci sarà un mese di divieto di incontro con i propri cari. In molti sono stati trasferiti in altri carceri, di cui ancora non si riesce a conoscere il nome.
I membri del F.P.L.P hanno subito tutti il trasferimento in celle di isolamento e la confisca di tutti i loro beni personali, compresi i propri vestiti.
Durante una visita con le famiglia le autorità delle prigioni dell’occupante israeliano hanno sequestrato i documenti di identità di tutti i loro familiari dando come motivazione proprio la partecipazione allo sciopero della fame, che li precluderà per mesi a qualunque incontro, compreso quello con il proprio avvocato.
Nella prigione di Asqelan infatti è stato vietato l’accesso ad un’avvocato che doveva visitare i prigionieri Ahed Abu Ghoulmeh, Allam Al-Kaabi e Shadi Sharafa: gli è stato comunicato che in quanto partecipanti all aprotesta, non potranno incontrare i loro avvocati, non si sa fino a quando.
Oltre ai prigionieri militanti del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, che hanno iniziato questa mobilitazione in nome del loro rappresentante Ahmad Sa’adat (detenuto a Gerico) si stanno unendo molti altri prigionieri, come alcuni componenti di Fatah, tra cui quelli che hanno il triste primato di essere da più tempo in regime di detenzione: Fakhri Barghouti entrato nelle carceri israeliane 34 anni fa, ed Akram Mansour,malato di cancro, detenuto da 33 anni.
Anche molte donne prigioniere stanno partecipando alla lotta: Sumoud Kharajeh, Linan Abu Ghoulmeh, Duaa Jayyousi e Wuroud Kassem sono state trasferite in isolamento totale mentre Linan Abu Ghoulmeh è stata messa in regime di detenzione amministrativa in modo totalmente arbitrario.
PER SEGUIRE GLI AGGIORNAMENTI: The Campaign to Free Ahmad Sa’adat
DIFFONDIAMO QUESTA NOTIZIA, CREIAMO SOLIDARIETA’ ANCHE PER I PRIGIONIERI PALESTINESI, PROPRIO ALLA LUCE DELLE DISCUSSIONI SULLO STATO PALESTINESE.
NON PUO’ ESSERCI STATO SENZA LA LIBERAZIONE DI TUTTI I PRIGIONERI,
SENZA IL DIRITTO AL RITORNO DI TUTTI I PROFUGHI,
SENZA LA FINE TOTALE E DEFINITIVA DEL REGIME DI APARTHEID,
SENZA LA CANCELLAZIONE DELL’OCCUPAZIONE MILITARE E L’ABBATTIMENTO DEL MURO DI SEPARAZIONE E DEGLI INSEDIAMENTI.
PALESTINA LIBERA.
Esercito israeliano: magliette e foto ricordo di un genocidio
The New Abu Ghraib
Aprite questo link, ma apritelo con calma.
Sappiate che vedrete una pagina che fa male, dalla prima all’ultima foto.
In questo blog avevamo già parlato delle magliette ordinate e poi orgogliosamente indossate da un paio di reparti dell’Israel Defence Force ( il titolo del post parla da solo: “Una donna incinta? con un colpo DUE morti!“) , magliette che nemmeno le S.S. avrebbero ostentato con tanta soddisfazione.
Nel link che invece vi ho lanciato oggi, che in pochi secondi potrebbe rovinare la vostra domenica, ce ne sono delle altre: nuovi modelli, slogan simili.
Ma anche una collezione di immagini “ricordo” scattate dai soldati israeliani durante le loro incursioni nei Territori Occupati come a Gaza,
sono foto scattate dentro gli appartamenti rastrellati, sopra i cadaveri di persone e bestiame.
Dei massacri dei precedenti secoli non abbiamo immagini, lo Stato di Israele ci “dona” la possibilità di averle comunque davanti agli occhi.
E ogni tanto, per quanto male faccia, bisogna ricordarlo.
per le altre immagini potete andare sul link ad inizio pagina.
A me la rabbia e la nausea non mi permettono di più … però le metto anche come commento a tutti quelli che in rete dicono che l’assalto all’ambasciata israeliana al Cairo è stato un atto INCIVILE. Fatela finita, abbiate il buon gusto di non parlare di civiltà.
Nuove costruzioni a Gerusalemme Est, soliti uccisi a Gaza
E’ di questa mattina la notizia, passata alla radio israeliana, dell’autorizzazione data alla costruzione di ben 625 nuove unità abitative nell’insediamento di Pisgat Zèev, a Gerusalemme Est. Ci specificano che il ministero degli interni ha finalmente dato il via libera definitivo: che la danza del cemento e dell’occupazione abbia di nuovo inizio, senza che si sia mai fermata.
Tutto fermo, i negoziati iniziati il 2 settembre e miseramente falliti nemmeno tre settimane dopo, per non dire già prima di partire, si sono arenati proprio sulla richiesta di congelamento delle nuove costruzioni di colonie in Cisgiordania.
Cosa che Israele non può accettare.
Figuriamoci qualunque tipo di moratoria sulle costruzioni a Gerusalemme Est, impensabile!
Quella è la sua natura: demolire, distruggere, eliminare ogni traccia, occupare, cancellare.
Nel frattempo nella Striscia di Gaza sono stati uccisi due palestinesi dal fuoco dei soldati israeliani, mentre tentavano di infiltrarsi in Israele la comunicazione è arrivata dal sito di Hamas e poi è stata confermata anche da fonti militari israeliane che specificano di aver trovato sui corpi armi leggere e materiale esplosivo.
Diversi tank israeliani e mezzi blindati sostano nella zona del cimitero di al-Shuhada, ad est di Gaza.
Coloni israeliani assaltano e danno alle fiamme una scuola
Una di quelle notizie che non sai nemmeno come riportare, tanta è la rabbia. Sempre i “coloni”, maledettissimi coloni, che da decenni tentano di portare avanti il loro piano di terrore, un terrore che porti alla fuga, alla rassegnazione, alla fine del popolo palestinese. Oggi l’attenzione è focalizzata su un villaggio del distretto di Nablus, as-Sawiya. La notizia è riferita all’agenzia stampa Maan dallo stesso preside della scuola colpita: un gruppo di coloni israeliani ha fatto irruzione nella scuola femminile. La porta principale e quella del magazzino avevano la serratura rotta e tutto il contenuto all’interno era stato dato alle fiamme: molti mobili contenenti materiale didattico e tutta l’attrezzatura sportiva sono andati perduti. “Siamo stati fortunati, se non è andata a fuoco tutta la struttura è perchè il deposito d’acqua principale è proprio adiacente al magazzino e ha bloccato l’avanzata delle fiamme” dice Maysoon Sawalha, preside dell’istituto che è stato completamente cosparso di scritte xenofobe contro la popolazione araba, e con la firma “saluti dalle colline”. “Non è la prima volta che la nostra scuola viene attaccata; l’ultima di queste è avvenuta meno di un anno fa quando i coloni hanno assaltato le aule con lacrimogeni e spari.
Alcuni portavoce degli insediamenti vicini, intervistati da Maan, hanno risposto alle accuse dicendo che non c’erano prove per accusare i coloni e che se la tensione è alta nella zona è per la presenza di molti attivisti internazionali venuti ad aiutare i palestinesi per la raccolta delle olive. Nel frattempo un’associazione israeliana per i diritti umani fa sapere che il 90% delle denunce depositate contro i coloni per assalti contro persone e proprietà in Cisgiordania rimangono impunite. Lo scorso mercoledi, giorno dell’inizio della raccolta delle olive, sono stati incendiati molti ettari di terreni agricoli e due settimane fa una moschea è stata incendiata in un villaggio vicino a Betlemme.
Gli scontri si spostano sulla Spianata delle moschee
Di solito quando camionette e lacrimogeni si avvicinano ad Al-Aqsa c’è aria di Intifada, vuol dire che alla Palestina inizia a mancar la terra sotto i piedi, che il tutto sta per scoppiare definitivamente, ancora una volta. Pochi minuti fa sono entrati nella spianata delle moschee, a Gerusalemme… ma procediamo con ordine.
Stamattina un guardiano di un convoglio di coloni ha ucciso un ragazzo palestinese e ne ha feriti altri cinque nel quartiere di Silwan, già teatro di ripetuti scontri negli ultimi mesi. L’area di Silwan, quartiere arabo di Gerusalemme Est, dove risiedono più di 12000 palestinesi sarebbe destinata, nei progetti israeliani, ad un parco archeologico e naturalistico dedicato al re Salomone. Per questo motivo sono state destinate all’immediata demolizione 22 palazzine palestinesi. Per tutta la mattinata fitti lanci di pietre e ripetuti scontri ci son stati tra la popolazione palestinese e la polizia israeliana.
Alle 16, poco più di mezzora fa, le prime agenzie dicono che la giornata di scontri si sta allargando, ed ha appena sfiorato il punto più caldo del medioriente, simbolo dello scoppio dell’Intifada.
La polizia israeliana è entrata nella Spianata delle moschee: fino a questo momento i manifestanti sono rifugiati all’interno della moschea di Al-Aqsa dove la polizia non è entrata, almeno per ora. Si parla di una quindicina di feriti tra manifestanti e poliziotti.
Proviamo ad aggiornarci tra un po’.
Nakba e sangue: 15enne ucciso da un colono vicino Ramallah
Il “bollettino di guerra” più costante della storia dell’uomo è ormai quello proveniente dalla terra di Palestina, terra stuprata da un’occupazione militare di cui domani si “festeggia” l’anniversario.
La NAKBA, catastrofe del popolo arabo di palestina, catastrofe mai terminata dal 1948.
Quella di oggi è stata l’ennesima giornata insostenibile per quel popolo e quella terra: sono 60 anni di nomi di morti, di martiri bambini, di fanciulli falciati su una strada assolata.
Nemmeno 15 anni aveva Ayssar Yasser al-Zaben, residente nel villaggio di Mazra Ash-Sharquieh, a pochi kilometri da Ramallah, sulla maledetta statale numero 60.
Ucciso non dall’esercito e nemmeno dalla polizia israeliana: ucciso da un solo colpo che l’ha centrato al cuore, colpo partito dall’arma di un colono israeiano.
La sparatoria (se così si può chiamare l’uccisione con un colpo al cuore di un fanciullo di 15 anni, classe 1994) sembrerebbe partita dopo un lancio di sassi in direzione di una macchina con dentro due coloni israeliani. L’assassino, occupante integralista di quella porzione martoriata e ridicola che ormai è la West Bank, si è fermato sul ciglio della strada ed ha aperto il fuoco con la sua arma personale.
Normale amministrazione.
Normale amministrazione soprattutto da quando il governo israeliano è guidato da Bibi Netanyahu e dal ministro Avigdor Liebermann: la loro politica sugli insediamenti israeliani a Gerusalemme e in Cisgiordania è palese ed ha legittimato una pericolosa escalation di attentati contro proprietà arabe, moschee e campi coltivati.
Gerusalemme e la “collera”
Ieri non ho avuto modo di aggiornare il blog, quindi non ci sono mie righe di commento ai fatti di Gerusalemme e, nemmeno, alla decisione del premier israeliano di accordare la costruzione di nuovi insediamenti, in barba non solo a decine e decine di risoluzioni ONU, ma anche alle direttive statunitensi.
Momento di tensione eccellente quindi, come poche voltre in precedenza: i rapporti diplomatici e politici tra Israele e Stati Uniti hanno preso una bella sprangata sui denti dopo questa decisione unilaterale di Nethanyahu.
Così ieri la popolazione è scesa in piazza, soprattutto a Gerusalemme, in quella che è stata denominata la “giornata della collera”.
Ieri ci sono stati scontri e pestaggi, barricate e sassaiole per la città che non sto qui a raccontare visto anche lo spazio che hanno trovato nei media mainstream.
Scrivo in ritardo di un giorno quindi, solo per ribadire la mia totale vicinanza a quel popolo in lotta, in una lotta che anno dopo anno è sempre più massacrante, estenuante e contro un nemico che fa rimpiangere i “mulini a vento”.
Ieri, oltre alla giornata della collera e dell’ira era anche l’anniversario della morte, dell’assassinio di Rachel Corrie, schiacciata da un bulldozer dell’esercito israeliano mentre manifestava pacificamente contro le demolizioni di case palestinesi nella Striscia di Gaza.
Ciao Rachel, sorella di Palestina.
In questa pagina il ricordo che ho fatto lo scorso anno, con stralci delle sue lettere e un po’ di immagini!
Franco Fortini: Israele e “decenza democratica”
Quel che “succede” (violenze, arresti, assassinii) accade a pochi kilometri da qui, alla periferia; e tutti i giorni, da diciotto mesi.
Sul Jerusalem Post di oggi la notizia degli ultimi due morti ammazzati, quelli di ieri (vittima uno di un colono, l’altro dell’esercito è nascosta in due righe, all’interno di un articolo. Non è, in alcun senso, una notizia. “E più nessuno è colpevole”.
Tornato da pochi giorni a Milano ho udito con le mie orecchie un distinto e anziano giornalista politico dichiarare nel corso di una pubblica tavola rotonda che la insistenza della stampa di sinistra italiana sui ragazzi palestinese ammazzati nel corso dell’Intifada altro non era se non la ricomparsa del mito fanatico che agli ebrei attribuiva l’assassinio rituale di bambini cristiani.
Mi sono alzato, con una stretta allo stomaco, e sono uscito.
Ma i più dei presenti anche se di avviso difforme da quello dell’oratore avranno certamente pensato che si debbono rispettare tutte le opinioni.
Avranno educatamente applaudito la fine dell’intervento.
Hanno imparato la virtuosa decenza democratica.
_FRANCO FORTINI_ “Extrema Ratio” 1989
LUNEDI’ 4 MAGGIO, dalle ore 18, PRESIDIO A LARGO ARGENTINA CONTRO IL BOIA LIEBERMAN, MINISTRO DEGLI ESTERI ISRAELIANO, LEADER DEL PARTITO XENOFOBO “ISRAEL BEITENU”
OSPITE NON GRADITO: Lieberman tra qualche giorno è a Roma
OSPITE NON GRADITO
Il 4 maggio sarà a Roma il Ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman del nuovo governo guidato da Benjamin Netanyahu, leader del partito xenofobo di estrema destra Israel Beitenu.
C’è chi vuole un’altra guerra per la striscia di Gaza
Ieri sera, centinaia di coloni e di estremisti ebrei hanno manifestato a Sderot per chiedere all’esercito di occupazione israeliano di attaccare nuovamente la Striscia di Gaza. Il deputato del partito “Mifdal”, Jacopo Kets, parlando ai manifestanti, ha chiesto al governo di eseguire l’operazione “Piombo fuso 2” e di rioccupare un’altra volta Gaza riportandovi i coloni. Fonti israeliane hanno aggiunto che la polizia ha chiuso le strade che portano alla Striscia di Gaza per impedirne l’accesso ai manifestanti. I coloni hanno tentato di ritornare alle rovine delle ex colonie di “Gosh Qtef”. La polizia israeliana ha arrestato decine di coloni a seguito dei disordini scoppiati durante la protesta.
Calcolando i personaggi che compongono il nuovo governo israeliano, non ci sarà da stupirsi il giorno che la Striscia di Gaza verranno nuovamente massacrate dalla violenza di Israele, sempre più caratterizzata dall’uso meticoloso di armi assolutamente vietate dalle convenzioni internazionale, e dalla messa in atto di un genocidio costante. Sono passati pochi mesi dalla fine dell’Operazione Piombo Fuso …
con Netanyahu, Lieberman e personaggi simili, aspettiamoci il ritorno dell’inferno molto presto.
Anche due giorni fa un raid israeliano ha colpito un edificio, radendolo completamente al suolo, vicino al valico di Kissifum
INIZIA IL PROGETTO PER AMPLIARE MAALEH ADUMIN: LA CISGIORDANIA SI SPACCA IN DUE
Malgrado la aperta opposizione dell’Anp e anche degli Stati Uniti, il governo di Benyamin Netanyahu progetta di estendere in maniera significativa la città-colonia di Maaleh Adumim e di collegarla di fatto alla zona metropolitana della vicina Gerusalemme. Lo ha affermato oggi la radio militare secondo cui esiste in merito una intesa verbale fra il Likud e il partito di destra radicale Israel Beitenu di Avigdor Lieberman. In una intervista alla emittente il sindaco di Maaleh Adumim Beny Kashriel ha confermato di aver ricevuto da Lieberman l’impegno che nei prossimi anni saranno realizzati importanti progetti edili nel suo insediamento. In particolare, secondo la radio militare, è prevista la costruzione di 3.000 unità abitative nella zona E-1, fra Maaleh Adumim e Gerusalemme. Gli Stati Uniti hanno già chiarito da tempo che la realizzazione di quel progetto rischia di spaccare in due tronconi la Cisgiordania e di rendere impossibile la costituzione di uno stato palestinese dotato di continuità geografica
ANNIVERSARIO DELL’ASSASSINIO DI RACHEL CORRIE. NESSUN PERDONO, NESSUNA PACE
Rachel Corrie, 23 anni, attivista statunitense, è stata assassinata il 16 marzo 2003, schiacciata da una ruspa israeliana. Rachel tentava di evitare che la ruspa demolisse l’abitazione di un medico palestinese nella Striscia di Gaza.
Nelle sue ultime lettere racconta ai familiari la Palestina che ha conosciuto partecipando alle azioni dell’International Solidarity Movement.
Ciao amici e famiglia e tutti gli altri,
sono in Palestina da due settimane e un’ora e non ho ancora parole per descrivere ciò che vedo. È difficilissimo per me pensare a cosa sta succedendo qui quando mi siedo per scrivere alle persone care negli Stati Uniti. È come aprire una porta virtuale verso il lusso. Non so se molti bambini qui abbiano mai vissuto senza i buchi dei proiettili dei carri armati sui muri delle case e le torri di un esercito che occupa la città che li sorveglia costantemente da vicino. Penso, sebbene non ne sia del tutto sicura, che anche il più piccolo di questi bambini capisca che la vita non è così in ogni angolo del mondo. Un bambino di otto anni è stato colpito e ucciso da un carro armato israeliano due giorni prima che arrivassi qui e molti bambini mi sussurrano il suo nome – Alì – o indicano i manifesti che lo ritraggono sui muri.
I bambini amano anche farmi esercitare le poche conoscenze che ho di arabo chiedendomi “Kaif Sharon?” “Kaif Bush?” e ridono quando dico, “Bush Majnoon”, “Sharon Majnoon” nel poco arabo che conosco. (Come sta Sharon? Come sta Bush? Bush è pazzo. Sharon è pazzo.). Certo, questo non è esattamente quello che credo e alcuni degli adulti che sanno l’inglese mi correggono: “Bush mish Majnoon” … Bush è un uomo d’affari. Oggi ho tentato di imparare a dire “Bush è uno strumento” (Bush is a tool), ma non penso che si traduca facilmente. In ogni caso qui si trovano dei ragazzi di otto anni molto più consapevoli del funzionamento della struttura globale del potere di quanto lo fossi io solo pochi anni fa.
Tuttavia, nessuna lettura, conferenza, documentario o passaparola avrebbe potuto prepararmi alla realtà della situazione che ho trovato qui. Non si può immaginare a meno di vederlo, e anche allora si è sempre più consapevoli che l’esperienza stessa non corrisponde affatto alla realtà: pensate alle difficoltà che dovrebbe affrontare l’esercito israeliano se sparasse a un cittadino statunitense disarmato, o al fatto che io ho il denaro per acquistare l’acqua mentre l’esercito distrugge i pozzi e naturalmente al fatto che io posso scegliere di andarmene. Nessuno nella mia famiglia è stato colpito, mentre andava in macchina, da un missile sparato da una torre alla fine di una delle strade principali della mia città. Io ho una casa. Posso andare a vedere l’oceano. Quando vado a scuola o al lavoro posso essere relativamente certa che non ci sarà un soldato, pesantemente armato, che aspetta a metà strada tra Mud Bay e il centro di Olympia a un checkpoint, con il potere di decidere se posso andarmene per i fatti miei e se posso tornare a casa quando ho finito.
Dopo tutto questo peregrinare, mi trovo a Rafah: una città di circa 140.000 persone, il 60% di questi sono profughi, molti di loro due o tre volte profughi. Oggi, mentre camminavo sulle macerie, dove una volta sorgevano delle case, alcuni soldati egiziani mi hanno rivolto la parola dall’altro lato del confine. “Vai! Vai!” mi hanno gridato, perché si avvicinava un carro armato. E poi mi hanno salutata e mi hanno chiesto “come ti chiami?”. C’è qualcosa di preoccupante in questa curiosità amichevole. Mi ha fatto venire in mente in che misura noi, in qualche modo, siamo tutti bambini curiosi di altri bambini. Bambini egiziani che urlano a donne straniere che si avventurano sul percorso dei carri armati. Bambini palestinesi colpiti dai carri armati quando si sporgono dai muri per vedere cosa sta accadendo. Bambini di tutte le nazioni che stanno in piedi davanti ai carri armati con degli striscioni. Bambini israeliani che stanno in modo anonimo sui carri armati, di tanto in tanto urlano e a volte salutano con la mano, molti di loro costretti a stare qui, molti semplicemente aggressivi, sparano sulle case mentre noi ci allontaniamo.
Ho avuto difficoltà a trovare informazioni sul resto del mondo qui, ma sento dire che un’escalation nella guerra contro l’Iraq è inevitabile. Qui sono molto preoccupati della “rioccupazione di Gaza”. Gaza viene rioccupata ogni giorno in vari modi ma credo che la paura sia quella che i carri armati entrino in tutte le strade e rimangano qui invece di entrare in alcune delle strade e ritirarsi dopo alcune ore o dopo qualche giorno a osservare e sparare dai confini delle comunità. Se la gente non sta già pensando alle conseguenze di questa guerra per i popoli dell’intera regione, spero che almeno lo iniziate a fare voi.
Un saluto a tutti. Un saluto alla mia mamma. Un saluto a smooch. Un saluto a fg e a barnhair e a sesamees e alla Lincoln School. Un saluto a Olympia. Rachel
20 febbraio 2003
Mamma,
adesso l’esercito israeliano è arrivato al punto di distruggere con le ruspe la strada per Gaza, ed entrambi i checkpoint principali sono chiusi. Significa che se un palestinese vuole andare ad iscriversi all’università per il prossimo quadrimestre non può farlo. La gente non può andare al lavoro, mentre chi è rimasto intrappolato dall’altra parte non può tornare a casa; e gli internazionali, che domani dovrebbero essere ad una riunione delle loro organizzazioni in Cisgiordania, non potranno arrivarci in tempo. Probabilmente ce la faremmo a passare se facessimo davvero pesare il nostro privilegio di internazionali dalla pelle bianca, ma correremmo comunque un certo rischio di essere arrestati e deportati, anche se nessuno di noi ha fatto niente di illegale.
La striscia di Gaza è ora divisa in tre parti. C’è chi parla della “rioccupazione di Gaza”, ma dubito seriamente che stia per succedere questo, perché credo che in questo momento sarebbe una mossa geopoliticamente stupida da parte di Israele. Credo che dobbiamo aspettarci piuttosto un aumento delle piccole incursioni al di sotto del livello di attenzione dell’opinione pubblica internazionale, e forse il paventato “trasferimento di popolazione”. Per il momento non mi muovo da Rafah, non penso di partire per il nord. Mi sento ancora relativamente al sicuro e nell’eventualità di un’incursione più massiccia credo che, per quanto mi riguarda, il rischio più probabile sia l’arresto. Un’azione militare per rioccupare Gaza scatenerebbe una reazione molto più forte di quanto non facciano le strategie di Sharon basate sugli omicidi che interrompono i negoziati di pace e sull’arraffamento delle terre, strategie che al momento stanno servendo benissimo allo scopo di fondare colonie dappertutto, eliminando lentamente ma inesorabilmente ogni vera possibilità di autodeterminazione palestinese.
Sappi che un mucchio di palestinesi molto simpatici si sta prendendo cura di me. Mi sono presa una lieve influenza e per curarmi mi hanno dato dei beveroni al limone buonissimi. E poi la signora che ha le chiavi del pozzo dove ancora dormiamo mi chiede continuamente di te. Non sa una parola d’inglese ma riesce a chiedermi molto spesso della mia mamma – vuole essere sicura che ti chiami.
Un abbraccio a te, a papà, a Sara, a Chris e a tutti. Rachel
27 febbraio 2003 (alla madre)
Vi voglio bene. Mi mancate davvero. Ho degli incubi terribili, sogno i carri armati e i bulldozer fuori dalla nostra casa, con me e voi dentro. A volte, l’adrenalina funge da anestetico per settimane di seguito, poi improvvisamente la sera o la notte la cosa mi colpisce di nuovo: un po’ della realtà della situazione.
Ho proprio paura per la gente qui. Ieri ho visto un padre che portava fuori i suoi bambini piccoli, tenendoli per mano, alla vista dei carri armati e di una torre di cecchini e di bulldozer e di jeep, perché pensava che stessero per fargli saltare in aria la casa. In realtà, l’esercito israeliano in quel momento faceva detonare un esplosivo nel terreno vicino, un esplosivo piantato, a quanto pare, dalla resistenza palestinese. Questo è nella stessa zona in cui circa 150 uomini furono rastrellati la scorsa domenica e confinati fuori dall’insediamento mentre si sparava sopra le loro teste e attorno a loro, e mentre i carri armati e i bulldozer distruggevano 25 serre, che davano da vivere a 300 persone. L’esplosivo era proprio davanti alle serre, proprio nel punto in cui i carri armati sarebbero entrati, se fossero ritornati. Mi spaventava pensare che per quest’uomo, era meno rischioso camminare in piena vista dei carri armati che restare in casa. Avevo proprio paura che li avrebbero fucilati tutti, e ho cercato di mettermi in mezzo, tra loro e il carro armato. Questo succede tutti i giorni, ma proprio questo papà con i suoi due bambini così tristi, proprio lui ha colto la mia attenzione in quel particolare momento, forse perché pensavo che si fosse allontanato a causa dei nostri problemi di traduzione.
Ho pensato tanto a quello mi avete detto per telefono, di come la violenza dei palestinesi non migliora la situazione. Due anni fa, sessantamila operai di Rafah lavoravano in Israele. Oggi, appena 600 possono entrare in Israele per motivi di lavoro. Di questi 600, molti hanno cambiato casa, perché i tre checkpoint che ci sono tra qui e Ashkelon (la città israeliana più vicina) hanno trasformato quello che una volta era un viaggio di 40 minuti in macchina in un viaggio di almeno 12 ore, quando non impossibile. Inoltre, quelle che nel 1999 erano le potenziali fonti di crescita economica per Rafah sono oggi completamente distrutte: l’aeroporto internazionale di Gaza (le piste demolite, tutto chiuso); il confine per il commercio con l’Egitto (oggi con una gigantesca torre per cecchini israeliani al centro del punto di attraversamento); l’accesso al mare (tagliato completamento durante gli ultimi due anni da un checkpoint e dalla colonia di Gush Katif). Dall’inizio di questa intifada, sono state distrutte circa 600 case a Rafah, in gran parte di persone che non avevano alcun rapporto con la resistenza, ma vivevano lungo il confine.
Credo che Rafah oggi sia ufficialmente il posto più povero del mondo. Esisteva una classe media qui, una volta. Ci dicono anche che le spedizioni dei fiori da Gaza verso l’Europa venivano, a volte, ritardate per due settimane al valico di Erez per ispezioni di sicurezza. Potete immaginarvi quale fosse il valore di fiori tagliati due settimane prima sul mercato europeo, quindi il mercato si è chiuso. E poi sono arrivati i bulldozer, che distruggono gli orti e i giardini della gente. Cosa rimane per la gente da fare? Ditemi se riuscite a pensare a qualcosa. Io non ci riesco. Se la vita e il benessere di qualcuno di noi fossero completamente soffocati, se vivessimo con i nostri bambini in un posto che ogni giorno diventa più piccolo, sapendo, grazie alle nostre esperienze passate, che i soldati e i carri armati e i bulldozer ci possono attaccare in qualunque momento e distruggere tutte le serre che abbiamo coltivato da tanto tempo, e tutto questo mentre alcuni di noi vengono picchiati e tenuti prigionieri assieme a 149 altri per ore: non pensate che forse cercheremmo di usare dei mezzi un po’ violenti per proteggere i frammenti che ci restano? Ci penso soprattutto quando vedo distruggere gli orti e le serre e gli alberi da frutta: anni di cure e di coltivazione. Penso a voi, e a quanto tempo ci vuole per far crescere le cose e quanta fatica e quanto amore ci vuole. Penso che in una simile situazione, la maggior parte della gente cercherebbe di difendersi come può. Penso che lo farebbe lo zio Craig. Probabilmente la nonna la farebbe. E penso che lo farei anch’io.
Mi avete chiesto della resistenza non violenta. Quando l’esplosivo è saltato ieri, ha rotto tutte le finestre nella casa della famiglia. Mi stavano servendo del tè, mentre giocavo con i bambini. Adesso è un brutto momento per me. Mi viene la nausea a essere trattata sempre con tanta dolcezza da persone che vanno incontro alla catastrofe. So che visto dagli Stati Uniti, tutto questo sembra iperbole. Sinceramente, la grande gentilezza della gente qui, assieme ai tremendi segni di deliberata distruzione delle loro vite, mi fa sembrare tutto così irreale. Non riesco a credere che qualcosa di questo genere possa succedere nel mondo senza che ci siano più proteste. Mi colpisce davvero, di nuovo, come già mi era successo in passato, vedere come possiamo far diventare così orribile questo mondo. Dopo aver parlato con voi, mi sembrava che forse non riuscivate a credere completamente a quello che vi dicevo. Penso che sia meglio così, perché credo soprattutto all’importanza del pensiero critico e indipendente. E mi rendo anche conto che, quando parlo con voi, tendo a controllare le fonti di tutte le mie affermazioni in maniera molto meno precisa. In gran parte questo è perché so che fate anche le vostre ricerche.
Ma sono preoccupata per il lavoro che svolgo. Tutta la situazione che ho descritto, assieme a tante altre cose, costituisce un’eliminazione, a volte graduale, spesso mascherata, ma comunque massiccia, e una distruzione, delle possibilità di sopravvivenza di un particolare gruppo di persone. Ecco quello che vedo qui. Gli assassini, gli attacchi con i razzi e le fucilazioni dei bambini sono atrocità, ma ho tanta paura che se mi concentro su questi, finirò per perdere il contesto. La grande maggioranza della gente qui, anche se avesse i mezzi per fuggire altrove, anche se veramente volesse smetterla di resistere sulla loro terra e andarsene semplicemente (e questo sembra essere uno degli obiettivi meno nefandi di Sharon), non può andarsene. Perché non possono entrare in Israele per chiedere un visto e perché i paesi di destinazione non li farebbero entrare: parlo sia del nostro paese che di quelli arabi. Quindi penso che quando la gente viene rinchiusa in un ovile – Gaza – da cui non può uscire, e viene privata di tutti i mezzi di sussistenza, ecco, questo credo che si possa qualificare come genocidio. Anche se potessero uscire, credo che si potrebbe sempre qualificare come genocidio. Forse potreste cercare una definizione di genocidio secondo il diritto internazionale. Non me la ricordo in questo momento. Spero di riuscire con il tempo a esprimere meglio questi concetti. Non mi piace usare questi termini così carichi. Credo che mi conoscete sotto questo punto di vista: io do veramente molto valore alle parole. Cerco davvero di illustrare le situazioni e di permettere alle persone di tirare le proprie conclusioni. Comunque, mi sto perdendo in chiacchiere. Voglio solo scrivere alla mamma per dirle che sono testimone di questo genocidio cronico e insidioso, e che ho davvero paura, comincio a mettere in discussione la mia fede fondamentale nella bontà della natura umana.
Bisogna che finisca. Credo che sia una buona idea per tutti noi, mollare tutto e dedicare le nostre vite affinché ciò finisca. Non penso più che sia una cosa da estremisti. Voglio davvero andare a ballare al suono di Pat Benatar e avere dei ragazzi e disegnare fumetti per quelli che lavorano con me. Ma voglio anche che questo finisca. Quello che provo è incredulità mista a orrore. Delusione. Sono delusa, mi rendo conto che questa è la realtà di base del nostro mondo e che noi ne siamo in realtà partecipi. Non era questo che avevo chiesto quando sono entrata in questo mondo. Non era questo che la gente qui chiedeva quando è entrata nel mondo. Non è questo il mondo in cui tu e papà avete voluto che io entrassi, quando avete deciso di farmi nascere. Non era questo che intendevo, quando guardavo il lago Capital e dicevo, “questo è il vasto mondo e sto arrivando!” Non intendevo dire che stavo arrivando in un mondo in cui potevo vivere una vita comoda, senza alcuno sforzo, vivendo nella completa incoscienza della mia partecipazione a un genocidio. |
Sento altre forti esplosioni fuori, lontane, da qualche parte. Quando tornerò dalla Palestina, probabilmente soffrirò di incubi e mi sentirò in colpa per il fatto di non essere qui, ma posso incanalare tutto questo in altro lavoro. Venire qui è stata una delle cose migliori che io abbia mai fatto. E quindi, se sembro impazzita, o se l’esercito israeliano dovesse porre fine alla loro tradizione razzista di non far male ai bianchi, attribuite il motivo semplicemente al fatto che io mi trovo in mezzo a un genocidio che io anch’io sostengo in maniera indiretta, e del quale il mio governo è in larga misura responsabile. Voglio bene a te e a papà. Scusatemi il lungo papiro. OK, uno sconosciuto vicino a me mi ha appena dato dei piselli, devo mangiarli e ringraziarli. Rachel
28 febbraio 2003 (alla madre)
Grazie, mamma, per la tua risposta alla mia e-mail. Mi aiuta davvero ricevere le tue parole, e quelle di altri che mi vogliono bene.
Dopo averti scritto ho perso i contatti con il mio gruppo per circa dieci ore: le ho passate in compagnia di una famiglia che vive in prima linea a Hi Salam. Mi hanno offerto la cena, e hanno pure la televisione via cavo. Nella loro casa le due stanze che danno sulla facciata sono inutilizzabili perché i muri sono crivellati da colpi di arma da fuoco, perciò tutta la famiglia – padre, madre e tre bambini-dorme nella stanza dei genitori. Io ho dormito sul pavimento, accanto a Iman, la bimba più piccola, e tutti eravamo sotto le stesse coperte. Ho aiutato un po’ il figlio maschio con i compiti d’inglese e abbiamo guardato tutti insieme Pet Semetery, che è un film davvero terrificante. Penso che per loro sia stato un gran divertimento vedere come quasi non riuscivo a guardarlo. Da queste parti il giorno festivo è venerdì, e quando mi sono svegliata stavano guardando i Gummy Bears doppiati in arabo. Così ho fatto colazione con loro, e sono rimasta un po’ lì seduta così, a godermi la sensazione di stare in mezzo a quel groviglio di coperte, insieme alla famiglia che guardava quello che a me faceva l’effetto dei cartoni della domenica mattina.
Poi ho fatto un pezzo di strada a piedi fino a B’razil, che è dove vivono Nidal, Mansur, la Nonna, Rafat e tutto il resto della grande famiglia che mi ha letteralmente adottata a cuore aperto. (A proposito, l’altro giorno, la Nonna mi ha fatto una predica mimata in arabo: era tutto un gran soffiare e additare lo scialle nero. Sono riuscita a farle dire da Nidal che mia madre sarebbe stata contentissima di sapere che qui c’è qualcuno che mi fa le prediche sul fumo che annerisce i polmoni). Ho conosciuto una loro cognata, che è venuta a trovarli dal campo profughi di Nusserat, e ho giocato con il suo bebè.
L’inglese di Nidal migliora di giorno in giorno. È lui a chiamarmi “sorella”. Ha anche cominciato ad insegnare alla Nonna a dire “Hello. How are you?” in inglese. Si sente costantemente il rumore dei carri armati e dei bulldozer che passano, eppure tutte queste persone riescono a mantenere un sincero buon umore, sia tra loro che nei rapporti con me. Quando sono in compagnia di amici palestinesi mi sento un po’ meno orripilata di quando cerco di impersonare il ruolo di osservatrice sui diritti umani o di raccoglitrice di testimonianze, o di quando partecipo ad azioni di resistenza diretta. Danno un ottimo esempio del modo giusto di vivere in mezzo a tutto questo nel lungo periodo. So che la situazione in realtà li colpisce – e potrebbe alla fine schiacciarli – in un’infinità di modi, e tuttavia mi lascia stupefatta la forza che dimostrano riuscendo a difendere in così grande misura la loro umanità – le risate, la generosità, il tempo per la famiglia – contro l’incredibile orrore che irrompe nelle loro vite e contro la presenza costante della morte. Dopo stamattina mi sono sentita molto meglio.
In passato ho scritto tanto sulla delusione di scoprire, in qualche misura direttamente, di quanta malignità siamo ancora capaci. Ma è giusto aggiungere, almeno di sfuggita, che sto anche scoprendo una forza straordinaria e una straordinaria capacità elementare dell’essere umano di mantenersi umano anche nelle circostanze più terribili – anche di questo non avevo mai fatto esperienza in modo così forte. Credo che la parola giusta sia dignità. Come vorrei che tu potessi incontrare questa gente. Chissà, forse un giorno succederà, speriamo. Rachel
Traduzioni di Miguel Martinez, Lucia De Rocco, Silvia Lanfranchini, Nora Tigges Mazzone, Andrea Spila
Jean-Paul Sartre sulla Tortura
Nel 1943, in via Lauriston, erano dei francesi a gridare d’angoscia e di dolore.
La Francia intera li udiva. L’esito della guerra non era certo, e non si voleva neppure pensare al futuro; ma una sola cosa ci pareva comunque impossibile: che si sarebbero fatti urlare altri uomini, un giorno, in nostro nome.
Ma impossibile non è francese: nel 1958, ad Algeri, si tortura abitualmente, sistematicamente; tutti lo sanno, da Lacoste ai contadini dell’Aveyron. Nessuno ne parla, o quasi: fili di voce si estinguono, nel silenzio. La Francia non era più muta di oggi sotto l’occupazione; ma aveva almeno la scusa di essere imbavagliata. All’estero, il caso nostro è già giudicato: la Francia continua a degradarsi: dal ’39 secondo alcuni, dal ’18 secondo altri.
Io non credo però così facilmente alla degradazione di un popolo; credo ai suoi marasmi e alle sue ottusità. Durante la guerra, quando la radio inglese o la stampa clandestina ci parlavano dei massacri di Ouradour, guardavamo i soldati tedeschi che passeggiavano per le vie con aria innocua, e ci capitava di osservare tra noi: “Eppure sono uomini che ci rassomigliano: come possono fare quello che fanno?” Eravamo fieri di noi, perché riuscivamo a non capirli.
Oggi sappiamo che non c’è nulla da comprendere; tutto si è compiuto insensibilmente, con abbandoni impercettibili; quando abbiamo levato il capo, abbiamo visto nello specchio un volto sconosciuto, odioso: il nostro. Atterriti dallo stupore, i francesi scoprono questa evidenza terribile: se niente vale a proteggere una nazione contro se stessa -né il suo passato, né le sue fedeltà, né le sue proprie leggi,- se bastano quindici anni per cambiare le vittime in carnefici, allora chi decide è l’occasione; basta l’occasione a trasformare la vittima in carnefice: qualsiasi uomo, in qualsiasi momento.
Felici quelli che sono morti senza aver mai dovuto domandarsi: “Se mi strappano le unghie, parlerò?” Ma più felici quelli che non sono stati costretti, usciti appena dall’infanzia, a porsi l‘altra domanda: “Se i miei amici, i miei compagni d’armi, i miei capi strappano le unghie a un nemico dinanzi ai miei occhi, cosa farò?”
Che sanno di loro stessi questi giovani messi con le spalle al muro dalle circostanze? Essi indovinano che qualsiasi decisione possano prendere qui, sembrerà loro astratta e vuota nel momento decisivo; che tutto il loro essere sarà rimesso in gioco da situazioni imprevedibili; e che le loro decisioni per la Francia, per se stessi, dovranno prenderle laggiù, da soli. Essi partono. Altri ritornano, dopo aver sperimentato la propria impotenza, serbando nella maggior parte dei casi un silenzio pieno di rancore. Nasce la paura: la paura degli altri e di se stessi, e dilaga in ogni ambiente. La vittima e il boia si confondono nella nostra stessa immagine. Poiché, nei casi estremi, l’unica maniera di rifiutare una delle due parti consiste nell’accettare l’altra.
Una tale scelta non si impone -almeno non ancora- ai francesi in Francia. Ma proprio queste indeterminatezza ci pesa: noi siamo la ferita e il coltello: l’orrore di questo e il terrore di quella si bilanciano e si rafforzano reciprocamente. I ricordi riaffiorano. Quindici anni or sono i migliori della nostra Resistenza avevano paura di non resistere alla sofferenza, più che della sofferenza stessa. Essi dicevano :” Quando tace, la vittima salva ogni cosa; ma quando parla, nessuno ha diritto di giudicarla, neppure colui che non ha parlato: essa s’accoppia col suo carnefice, diventa la sua femmina, e questa coppia allacciata sprofonda nella notte dell’abiezione”. L’abiezione ritorna.
A El-Biar, essa ritorna ogni notte. In Francia è la fuliggine dei nostri cuori. Ecco, una propaganda sussurrata insinua appunto che “tutti parlano”; e così la tortura si giustifica con l’umana ignoranza: ciascuno di noi essendo un traditore potenziale, il boia che è in ciascuno di noi trova giustificazione. Tanto più che la gloria della Francia lo esige, come voci suadenti insinuano ogni giorno. Un buon patriota non può avere che buona coscienza. Solo un disfattista può averla cattiva.
Allora, lo sbigottimento diviene disperazione: se il patriottismo deve precipitarci all’abiezione, se nessuna sorveglianza, mai, ha impedito alle nazioni e all’umanità tutta di perdersi in una follia disumana, allora, a che scopo tormentarci per divenire o rimanere degli uomini? Essere disumani è la nostra verità.
Ma se di vero non c’è altro che il terrore, terrorizzare o essere terrorizzati, a che scopo vivere e restare patrioti?
Questi pensieri sono stati seminati in noi con la violenza. Nella loro oscurità e nella loro falsità, discendono tutti da questa premessa: l’uomo è inumano. Il loro obiettivo è convincerci della nostra impotenza, e ci riusciranno, finché non li guarderemo in faccia. Ma bisogna che all’estero si sappia che il nostro silenzio non significa consenso. Esso deriva da angosce provocate, esasperate, sapientemente dirette. Lo sapevo da tempo, ma aspettavo la prova decisiva.
Essa è venuta.
Quindi giorni fa, presso le Editions de Minuit, usciva un libro: La Tortura.
Il suo autore, Henri Alleg, tuttore detenuto in una prigione di Algeri, racconta senza commenti inutili, con precisione ammirevole, gli “interrogatori” che ha subito. I carnefici, come gli avevano promesso, lo hanno “curato”: “telefono da campo”, supplizio dell’acqua come al tempo della Brinvilliers, ma coi perfezionamenti tecnici del nostro tempo, supplizio del fuoco, della sete, etc.
E’ un libro che sconsigliamo alle anime tenere.
Finora, solo qualche richiamato alle armi e soprattutto qualche sacerdote avevano osato portare testimonianze. Avevano vissuto in mezzo ai torturatori, loro e nostri fratelli. Delle vittime, per lo più. Non conoscevano che le urla, le ferite, le sofferenze; additavano i segni del sadismo su brandelli di carne. Ma che cosa ci distingueva da questi sadici? Nulla, dal momento che tacevamo.
La nostra indignazione poteva anche parerci sincera: ma avremmo saputo provarla vivendo laggiù, o non ci saremmo piuttosto abbandonati a una cupa rassegnazione, a un universale disgusto? Per mio conto, leggevo talvolta per dovere e magari pubblicavo, ma detestandomi, quei racconti, che ci mettevano spietatamente in causa, e che non ci lasciavano speranza.
Con La Tortura, tutto cambia. Alleg ci risparmia vergogna e disperazione, perché è una vittima e ha “vinto” la tortura. C’è un sinistro umorismo, in questo rovesciamento di posizioni; lo hanno martirizzato in nome nostro, e noi, grazie a lui, ritroviamo un poco della nostra fierezza: siamo fieri che sia un francese. I lettori si incarnano in lui con passione, l’accompagnano sino al passo estremo della sofferenza. Con lui, soli e nudi, lottano e resistono. Sarebbero questi lettori, saremmo noi capaci davvero di tanto? Questo è un altro affare. Quello che conta è che la vittima ci libera facendoci scoprire, come lo scopre lei stessa, che abbiamo la possibilità e il dovere di sopportare tutto.
Eravamo come affascinati dalla vertigine dell’inumano, ma basta che un uomo duro e ostinato -ostinato nel suo mestiere d’uomo- a strapparti all’incantesimo: la “tortura” non è nulla di inumano, è soltanto un crimine ignobile e lurido, commesso da uomini contro altri uomini, e che altri uomini ancora possono e debbono reprimere. L’inumano non esiste, se non negli incubi generati dalla paura. Basta il calmo coraggio di una vittima, la sua modestia, la sua lucidità, per liberarci dalla mistificazione. Alleg ha strappato la tortura alla notte che la ricopriva:; avviciniamoci, guardiamola alla luce.
Questi carnefici, prima di tutto, che cosa sono? Dei sadici? Degli arcangeli irritati? Dei signori della guerra con i loro terrificanti capricci? A creder loro, sarebbero una mescolanza di tutto questo. Ma Alleg, appunto, non li crede. Quel che risulta da quanto egli ci riferisce è che essi vorrebbero convincere se stessi e convincere la vittima di una loro piena sovranità: ora come superuomini che tengono dei semplici uomini in loro potere, ora come uomini forti e severi, incaricati di addomesticare la bestia più oscena, più feroce e più vile che ci sia, la bestia umana. S’indovina che non fanno tuttavia scelte sottili: l’essenziale è far sentire al prigioniero che non è della loro razza_ lo si spoglia, lo si imbavaglia, lo si beffeggia. Intanto, dei soldato vanno e vengono, pronunciando insulti e minacce con una disinvoltura che vorrebbe apparire terribile.
Ma Alleg, nudo, tremante di freddo, legato a una tavola ancor nera e viscida di vecchi vomiti, riduce tutte queste manovre alla loro miserabile verità: sono commedie recitate da imbecilli. Commedia, la violenza fascista delle loro parole, i il giuramento di “buttare all’aria la Repubblica”. Commedia, il discorso dell’aiutante di campo del generale M., che termina con queste parole: “Non vi resta più che suicidarvi”. Commedie grossolane, sempre quelle, che ricominciano senza convinzione ogni notte, con ogni prigioniero, e che poi si smettono per mancanza di tempo. Perché questi orribili lavoratori sono sovraccarichi di lavoro e fatica: i prigionieri fanno la coda davanti alla tavola del supplizio, si legano, si slegano, si portano in giro le vittime da una camera di tortura all’altra. A guardare con gli occhi di Alleg questo immondo alveare ci si accorge che gli stessi torturatori sono soverchiati da ciò che fanno.
Certo, sanno che atteggiarsi alla calma, bere birra, tranquilli e decisi, accanto a un corpo martirizzato, e poi d’un tratto balzano in piedi, corrono dappertutto, bestemmiano e urlano di rabbia: dei nevrotici che sarebbero delle vittime eccellenti, e alla prima sferzata confesserebbero.
Malvagi, rabbiosi, certo. Sadici? No, nemmeno sadici: hanno troppa fretta. E’ quella che li salva, del resto: resistono grazie alla velocità acquistata: debbono correre senza requie o crollare.
Eppure amano il lavoro ben fatto: se lo giudicano necessario, spingono la coscienza professionale fino ad uccidere. Ed ecco quello che colpisce, nella narrazione di Alleg: dietro questi chirurghi squallidi e sgomenti senti una inflessibilità che li supera, loro e i loro capi.
Sarebbe troppa fortuna, se questi delitti fossero l’opera di un pugno di pazzi. In verità è la tortura, che fa i carnefici. Dopo tutto, questi soldati non si erano arruolati in un corpo scelto per martirizzare il nemico vinto.
Alleg, in pochi tratti, ci descrive quelli che ha conosciuto, e questo basta a segnare le tappe delle metamorfosi.
Ci sono i più giovani, sbigottiti, incapaci di resistere, che mormorano “è orribile” quando la loro torcia illumina un suppliziato. E poi ci sono i sotto-boia, che non mettono ancora mano alla tortura, ma sostengono e trasportano i prigionieri, alcuni già induriti e altri no, ma tutti già presi nell’ingranaggio, e tutti imperdonabili.
C’è un biondino del Nord con un viso così simpatico, che può parlare delle sedute di tortura che Alleg ha subito, “come di una partita di cui si ricorda con piacere, e che non prova disagio a congratularsi con la vittima come farebbe con un campione ciclista”. Qualche giorno dopo, Alleg lo ritroverà congestionato, sfigurato dall’odio, mentre percuote, su per una scala, un musulmano. E poi ci sono gli specialisti, i duri che fanno tutto il lavoro, che si compiacciono ai soprassalti, i duri che fanno tutto il lavoro, che si compiacciono ai soprassalti delle scosse elettriche, ma che non sopportano le grida. E infine i pazzi che corrono intorno come foglie morte nel turbine della loro propria violenza.
Nessuno di questi uomini ha una vita sua, nessuno resterà quello che è: non sono che i momenti di una trasformazione inesorabile. Tra i migliori e i peggiori v’è una sola differenza: i primi sono reclute, i secondi veterani. Tutti finiranno per andarsene e, se la guerra continua, altri li sostituiranno: biondini del Nord o piccoli bruni del Mezzogiorno, che faranno lo stesso tirocinio o ritroveranno la stessa violenza con lo stesso nervosismo.
In quest’affare gli individui non contano; una specie di odio errante e anonimo, un odio radicale dell’uomo s’accanisce a un tempo sui carnefici e sulle vitime per degradarli insieme, gli uni mediante gli altri. Quest’ odio è la tortura eretta a sistema, creatrice dei suoi stessi strumenti.
Quando questo vien detto, sia pur timidamente, sui banchi dell’Assemblea, la canea si scatena, e urla: “E’ un insulto all’esercito”. Ma una volta per tutte, questi cani ringhiosi ci dicano: che c’entra l’esercito? Nell’esercito ci sono dei torturatori, senza dubbio. La commissione inchiesta, nel suo rapporto pur indulgente, non lo ha nascosto. Ma questo non vuol dire che sia l’esercito a torturare.
Che insensatezza! Forse che i civili non conoscono il metodo? Basta lasciar fare alla polizia di Algeri. E poi ci vuole un capo-carnefice, l’Assemblea intera l’ha designato: non è il generale S., e neppure il generale E., e neppure il generale M., di cui tuttavia Alleg fa il nome: è Lacoste, l’uomo dai pieni poteri.
Tutto si fa attraverso di lui e con lui, a Bona come a Orano: tutti gli uomini che sono morti di sofferenze e di orrore nell’immobile di El-Biar, nella villa S., sono morti per sua volontà. Non sono io che lo dico: sono i deputati, è il governo.
E del resto la cancrena si estende, ha attraversato il mare. Si è sparsa anche la voce che si pratica la tortura in certe prigioni civili del “territorio metropolitano”: non so se sia fondata, ma dev’essere stata raccolta anche dai poteri pubblici, visto che il procuratore, al processo di Ben Saddok, ha domandato solennemente all’accusato se avesse subito sevizie. Beninteso, la risposta era conosciuta in anticipo.
No, la tortura non è né civile né militare né specificatamente francese: è come una sifilide che devasta l’intera epoca. All’est come all’ovest ci sono carnefici. Non è passato tanto tempo da quando Farkas torturava gli ungheresi. I polacchi non nascondono che la loro polizia , prima di Poznan, torturava anch’essa volentieri; e su ciò che accadeva in URSS al tempo di Stalin abbiamo la testimonianza irrecusabile del rapporto Krusciov. Ieri si “interrogavano” così, nelle prigioni di Nasser, degli uomini politici che poi sono stati, con qualche cicatrice, elevati a cariche eminenti. L’elenco potrebbe continuare. Oggi, comunque, è il momento di Cipro e dell’Algeria; e Hitler, insomma, non era che un precursore.
Sconfessata – a volte, del resto, senza molta energia – ma sistematicamente applicata dietro la facciata della legalità democratica, la tortura può definirsi un’istituzione semiclandestina. Ha forse le stesse cause dappertutto? No, probabilmente. E poi poco importa: qui non si tratta di giudicare il nostro tempo; si tratta di guardare in faccia le cose nostre per cercar di capire che cosa è successo a noi, a noi francesi.
Sapete quel che si dice a volte per giustificare i carnefici: bisogna pur ridursi a torturare un uomo se dalla sua confessione possono dipendere centinaia di vite umane. E’ un bell’espediente da Tratuffe. Alleg, come Audin, non era un terrorista. Tanto è vero che è stato accusato di “attentato alla sicurezza dello Stato e di ricostruzione di una lega sciolta”.
Era per salvare delle vite umane che gli si bruciavano i capezzoli e i peli del pube? No, si voleva soltanto estorcergli l’indirizzo dell’amico che lo aveva ospitato. Se avesse parlato, si sarebbe messo un comunista di più sotto chiave: ecco tutto.
E poi si arresta a casaccio: qualsiasi musulmano è “interrogabile” a piacere: la maggior parte dei torturati non dicono nulla perché non hanno nulla da dire, a meno che non acconsentano, per non soffrire di più, a fare una falsa testimonianza o accusarsi gratuitamente di un delitto rimasto impunito, del quale diventa comodo accusarli. In quanto a quelli che potrebbero parlare, si sa bene che tacciono. Tutti, o quasi tutti.
Né Audin, né Alleg, né Guerroudji hanno disserrato i denti. “Ha comunque guadagnato una notte per dar tempo ai suoi amici di tagliare la corda”, constata uno dei carnefici dopo il primo interrogatorio di Alleg. E un ufficiale, qualche giorno più tardi: “Da dieci o da quindici anni sanno che se vengono presi non devono dire nulla. Non c’è niente da fare per togliere loro quest’idea della testa.” Forse volevan parlare soltanto dei comunisti; ma credono forse che i combattenti dell’ALN (l’Armata di Liberazione Nazionale) siano di un’altra tempra? Queste violenze non rendono: gli stessi tedeschi, nel 1944, avevano finito per convincersene; costano vite umane, e non ne salvano.
L’argomento, tuttavia, non è del tutto falso, e comunque ci illumina sulla funzione della tortura , istituzione clandestina o semiclandestina indissolubilmente legata alla clandestinità della resistenza o dell’opposizione.
In Algeria, il nostro esercito è schierato in tutto il territorio. Abbiamo per noi il numero, il denaro, le armi. Gli insorti non hanno nulla, salvo la fiducia e l’appoggio di una gran parte della popolazione. Siamo stati noi, nostro malgrado, a dare a questa guerra popolare attentati nelle città, imboscate nelle campagne; il FLN non ha scelto lui questa forma di attività, fa quello che può e basta.
Il rapporto fra le sue forme e le nostre lo costringe ad attaccarci di sorpresa: invisibili, inafferrabili, inattese, devono colpire e scomparire, per non essere sterminate. Di qui il nostro malessere: lottiamo contro un avversario segreto, una mano lancia una bomba in una strada, una fucilata ferisce un nostro soldato, si accorre: non c’è più nessuno. Più tardi, nei dintorni, si troveranno dei musulmani che non hanno visto niente. Tutto è legato: la guerra popolare, guerra dei poveri contro i ricchi, è caratterizzata dallo stretto vincolo delle unità insurrezionali con la popolazione. Per l’esercito regolare e o poteri civili, questo nugolo di miserabili diventa il nemico quotidiano, innumerevole. Le truppe d’occupazione si preoccupano del mutismo che esse hanno generato. Si indovina una inafferrabile volontà di silenzio, un segreto circolare, onnipresente. I ricchi si sentono braccati in mezzo ai poveri che tacciono. Imbarazzate dalla loro stessa potenza, le “forze dell’ordine” non possono opporre nulla alle guerriglie, se non i rastrellamenti e le spedizioni punitive, nulla da opporre al terrorismo, se non il terrore- Qualche cosa è nascosto: in qualsiasi luogo e da tutti.
Bisogna farli parlare.
La tortura è una vana furia, nata dalla paura: si vuole strappare, ad una bocca, in mezzo alle grida e ai rigurgiti di sangue, il segreto di tutti. Inutile violenza: che la vittima parli o che muoia sotto le torture, l’innumerevole segreto è altrove, sempre altrove, fuori portata. Il carnefice si trasforma in Sisifo. Se applica la question dovrà sempre ricominciare.
Ma nemmeno questi silenzi, queste paura, questi pericoli sempre invisibili e sempre presenti possono giustificare completamente l’accanimento dei carnefici, la loro volontà di ridurre all’abiezione le loro vittime, questo odio dell’uomo, infine, che si è impadronito di loro senza il loro consenso e li ha plasmati.
Uccidersi a vicenda, è la regola; ci si è sempre battuti per interessi collettivi e particolaristici. Ma nella tortura, questo strano match, la posta sembra essere totale: è per il titolo di uomo che il carnefice si misura col torturato, e tutto si svolge come se i due non potessero appartenere insieme alla specie umana. Scopo dell’interrogatorio non è soltanto quello di costringere un uomo a parlare, a tradire: bisogna che la vittima si auto qualifichi bestia umana attraverso le sue grida e la sua sottomissione: agli occhi di tutti e davanti a se stessa. Bisogna che il suo tradimento la spezzi e la tolga definitivamente di mezzo. Colui che cede all’interrogatorio, non soltanto è costretto a parlare, ma gli è stato imposto per sempre uno status: quello del sotto-uomo.
Questa radicalizzazione della posta è uno dei caratteri del nostro tempo. In nessuna epoca la volontà di essere liberi è stata più cosciente e più forte: in nessuna epoca l’oppressione è stata più violenta e meglio armata.
In Algeria le contraddizioni sono irriducibili: ognuno dei gruppi in conflitto esige l’esclusione radicale dell’altro. Abbiamo preso tutto ai musulmani e poi abbiamo proibito loro persino l’uso della loro lingua. Memmi, lo scrittore algerino, ha dimostrato come la colonizzazione si realizza attraverso l’annullamento dei colonizzati. Essi non possedevano più nulla, non erano più nessuno: abbiamo liquidato la loro civiltà rifiutando loro la nostra. Avevano chiesto l’integrazione, l’assimilazione e noi abbiamo risposto di no: grazie a quale miracolo si potrebbe mantenere il supersfruttamento coloniale se i colonizzati dovessero godere degli stessi diritti dei coloni? Sotto-alimentati, incolti, miserabili, il sistema li respingeva spietatamente ai confini del Sahara, ai limiti dell’umano; sotto la spinta demografica il loro tenore di vita si abbassava di anno in anno. Quando la disperazione li ha indotti alla rivolta, questi sotto-uomini non avevano altra scelta che morire o tentare di affermare la loro umanità contro di noi: hanno respinto i nostri valori, la nostra cultura, le nostre pretese superiorità, e in blocco hanno rivendicato il titolo di uomini e rifiutato la nazionalità francese.
Questa ribellione non si limitava a contestare il potere dei coloni. Essi hanno capito che era in causa la loro stessa esistenza. Per la maggior parte degli europei d’Algeria ci sono due verità complementari e inseparabili: i coloni sono degli uomini per diritto divino, gli indigeni sono una sottospecie di uomini. E’ la traduzione mitica di un fatto preciso, poiché la ricchezza degli uni poggia sulla miseria degli altri.
Così lo sfruttamento mette lo sfruttatore alla dipendenza dello sfruttato. E, su un altro piano, questa dipendenza è il nocciolo del razzismo, è la sua contraddizione profonda e la sua acida maledizione: essere uomo, per l’europeo di Algeri, vuol dire, innanzitutto, essere superiore al musulmano.
Ma se il musulmano si afferma a sua volta come uomo, come l’eguale del colono? Ebbene il colono è leso nel suo essere, si sente diminuito, svalutato: l’accesso dei bougnoules (termine dispregiativo per definire gli arabi) alle condizioni di uomini gli ripugna non soltanto perché ne vede le conseguenze economiche ma perché gli si annunzia il suo decadimento personale. Nella sua rabbia il colono sogna il genocidio. Ma è una pura utopia. Egli lo sa, conosce la propria dipendenza. Che cosa farebbe senza un sottoproletario indigeno, senza una manodopera in eccesso, senza la disoccupazione cronica che gli permette di imporre i salari? E poi, se i musulmani sono già degli uomini, tutto è perduto, non c’è nemmeno più bisogno di sterminarli. No: la cosa più urgente, se c’è ancora tempo, è di umiliarli, di stroncare l’orgoglio nel loro cuore, di abbassarli al livello della bestia.
Si lascerà vivere il corpo, ma si ucciderà lo spirito. Domare, addomesticare, castigare, ecco le parole che ossessionano il colono. Non c’è posto in Algeria per due specie umane. Tra l’una e l’altra bisogna scegliere.
Beninteso, non intendo dire che gli europei di Algeri abbiano inventato la tortura, e nemmeno che abbiano incitato le autorità civili e militari a praticarla. Al contrario: la tortura si è imposta da sé, è diventata una pratica prima ancora che ci se ne accorgesse. Ma l’odio per l’uomo che vi si manifesta, è l’espressione del razzismo. Poiché è proprio l’uomo che si vuol distruggere, con tutte le sue doti di uomo, il coraggio, la volontà, l’intelligenza, la fedeltà, quelle stesse doti che il colono rivendica per sé. Ma se l’europeo trascende sino a detestare la propria immagine, vuol dire che essa è rispecchiata da un arabo.
Così, di queste due coppie indissolubilmente legate, il colono e il colonizzato, il carnefice e la sua vittima, la seconda è un’emancipazione della prima. I carnefici non sono coloni, né i coloni sono carnefici. Questi ultimi sono spesso giovanotti che vengono dalla Francia e hanno passato vent’anni della loro vita senza mai preoccuparsi del problema algerino. Ma laggiù l’odio è un campo di forze magnetiche che li ha attraversati, corrosi e asserviti.
La calma lucidità di Alleg ci permette di comprendere tutto ciò. Quand’anche non ci desse altro, bisognerebbe essergliene profondamente grati. Ma in realtà egli ha fatto molto di più: incutendo rispetto ai suoi carnefici ha fatto trionfare l’umanesimo delle vittime e dei colonizzati contro le violenze senza misura di certi militari, contro il razzismo dei coloni. E la parola “vittime” non vale qui a suscitare non so quale lacrimoso pietismo: in mezzo ai loro piccoli caid, fieri della loro giovinezza, della loro forza, del loro numero, Alleg è il solo “duro”, il solo veramente forte. Noi possiamo dire che ha pagato il prezzo più alto per il semplice diritto di rimanere un uomo fra gli uomini. Ma egli non vi pensa neppure. E’ per questo che tanto ci commuove questa semplice frase alla fine di un paragrafo: “Mi sentii tutt’a un tratto fiero e contento di non aver ceduto. Ero convinto che avrei resistito ancora se avessero ricominciato, che mi sarei battuto fino in fondo, che non avrei facilitato il loro compito suicidandomi.”
Si, un duro, che finisce per far paura agli arcangeli dell’ira.
Almeno in alcune delle loro parole, si intuisce che essi presentono e cercano di scongiurare una vaga e scandalosa rivelazione: quando è la vittima che trionfa, addio sovranità, addio diritto divino. Le ali degli arcangeli si fermano e i carnefici si chiedono perplessi: ma io saprei resistere se mi torturassero?
Il fatto è che, al momento della vittoria, un sistema di valori si è sostituito agli altro. Per poco gli stessi carnefici non sono presi dalla vertigine. Ma no: hanno la testa vuota, il lavoro li abbrutisce e credono appena a ciò che fanno.
Perché poi, del resto, turbare la coscienza dei carnefici?
Se qualcuno di loro muovesse obiezione, i loro capi lo sostituirebbero: ne troverebbero dieci per uno perduto. La testimonianza di Alleg infatti – ed è forse il suo maggiore merito – dissipa completamente le nostre illusioni: non basta punire o rieducare alcuni individui.
La guerra d’Algeria non può essere umanizzata. La tortura si è imposta da sé: è stata suggerita dalle circostanze, chiamata dall’odio razzista. In certa misura, come abbiamo visto, essa si trova al centro stesso del conflitto e forse ne esprime la verità più profonda. Se vogliamo mettere fine a queste immonde e lugubri crudeltà, salvare la Francia dalla vergogna e gli algerini dall’inferno, abbiamo un solo mezzo, sempre lo stesso, il solo che abbiamo mai avuto, il solo che avremo mai: aprire dei negoziati, fare la pace.
Jean-Paul Sartre
Gerusalemme Est: costruzioni e demolizioni
INTERESSANTE ARTICOLO COMPARSO POCO FA SU MISNA
“Il governo israeliano utilizza l’espansione degli ‘insediamenti’, la demolizione di abitazioni (palestinesi, ndr) e il muro di separazione che isola la Cisgiordania come mezzi per perseguire l’annessione illegale di Gerusalemme Est”: lo afferma un rapporto confidenziale dell’Unione Europea ottenuto e reso noto dal quotidiano inglese ‘Guardian’. Le politiche israeliane all’interno e nei dintorni di Gerusalemme costituiscono da tempo uno dei principali ostacoli al processo di pace in Medioriente; il documento europeo, redatto nel dicembre scorso, denuncia esplicitamente una politica di demolizioni “illegali in base al diritto internazionali, e che comportano gravi conseguenze sul piano umanitario, oltre a contribuire al diffondersi di sentimenti estremisti”. Si sottolinea che nonostante i palestinesi rappresentino oltre il 34% della popolazione della parte orientale della città, solo tra il 5 e il 10% dei fondi municipali viene utilizzata nelle aree da loro abitate, lasciandole quindi prive di servizi e infrastrutture. “Gli israeliani accordano circa 200 concessioni edilizie all’anno e di conseguenza molte abitazioni sono costruite senza permessi” aggiunge il documento, secondo cui Israele agisce “in violazione della IV Convenzione di Ginevra che vieta a una potenza occupante di estendere la propria giurisdizione ai territori occupati”. Il rapporto, ovviamente respinto da Israele, è stato diffuso nei giorni successivi alla visita compiuta in Medio Oriente dal Segretario di stato americano Hillary Clinton che ha definito “di nessun aiuto al processo di pace” le demolizioni di abitazioni palestinesi; subito prima, a Gerusalemme erano state abbattute due case e altre 88 sono in procinto di essere demolite nel quartiere al Bustan di Silwan. “ Se queste demolizioni verranno effettuate, secondo Luisa Morgantini, vicepresidente del Parlamento europeo si tratterà del più grande progetto di demolizioni sin dall’inizio dell’occupazione israeliana nel 1967, per di più in un’area storica e simbolica di Gerusalemme Est, a meno di 400 metri dalla Moschea di Al-Aqsa e dal Muro del Pianto”. A margine di questa situazione si aggiunge il fatto che Israele è a corto di materiale da costruzione e nel giro di 10 anni, secondo uno studio del governo, potrebbe trovarsi senza più mattoni: “Per ovviare a questo problema i costruttori israeliani, durante la notte, trasferiscono risorse naturali dalla Cisgiordania a proprio beneficio e questo è assolutamente proibito non solo dal diritto internazionale ma anche dalla Suprema corte israeliana” afferma il gruppo israeliano per la difesa dei diritti umani, ‘Yesh Din’, che ha portato il caso davanti a un tribunale e avviato una petizione affinchè Israele interrompa queste attività in Cisgiordania. Secondo l’organizzazione, circa 10 milioni di tonnellate – dei 44 milioni totali di materiale da costruzione ricavato dalle cave presenti in territorio palestinese – vengono attualmente utilizzati per quasi un quarto da Israele.
ANGELA DAVIS: Oltre l’Impero, il carcere e la tortura
INTERVISTA AD ANGELA DAVIS, della quale metteremo diverse cose su questo blog.
Militante nera americana, ex detenuta, è il simbolo della lotta contro il carcere , per l’abolizionismo
“Nel Quaderno 03 di Scarceranda abbiamo pubblicato la traduzione di un brano del libro “Are prisons obsolete?” di Angela Y. Davis (2003) sulle alternative abolizioniste al carcere. Siamo quindi stati contattati dalla casa editrice minimum fax che ci ha annunciato la prossima pubblicazione (gennaio 2009) per i loro tipi della traduzione italiana dell’intero saggio della Davis insieme al suo libro-intervista “Abolition democracy. Beyond empire, prisons, and torture” del 2005 in un’unica pubblicazione in italiano dal titolo “Aboliamo le prigioni?”. Vi presentiamo qui, per gentile concessione dell’editore, un breve estratto dell’intervista di Eduardo Mendieta ad Angela Y. Davis nella traduzione di Giuliana Lupi.”
IL LIBRO E’ STATO PUBBLICATO DALLA MINIMUM FAX ED E’ VERAMENTE STRAORDINARIO.
CON IL LIBRO ANCHE UN SAGGIO IN APPENDICE A FIRMA DI GUIDO CALDIRON E PAOLO PERSICHETTI
• In questo momento abbiamo la globalizzazione della «guerra al terrorismo» e, in successione, dei centri di detenzione e delle prigioni statunitensi creati per eludere la legge statunitense e internazionale. Scorge dei nessi tra la globalizzazione di queste prigioni illegali e il complesso carcerario-industriale interno?
I due processi sono chiaramente correlati. Innanzitutto entrambe le istituzioni appartengono al sistema penale statunitense e sono classificate insieme nel censimento annuale del Federal Bureau of Statistics. Questa classificazione comprende le prigioni statali e federali, le carceri di contea, le prigioni in territorio indiano, i centri di detenzione gestiti dal Dipartimento della Sicurezza Interna, le prigioni territoriali in aree che gli Stati Uniti si rifiutano di riconoscere come proprie colonie e le prigioni militari, tanto all’interno degli Stati Uniti che fuori dei confini nazionali. La crescita della popolazionecarceraria nazionale, la nascita di nuove industrie che dipendono da questa crescita, la riqualificazione di vecchie industrie per adeguarsi al mercato carcerario e trarne profitto, l’espansione dei centri di detenzione per immigrati e l’uso delle prigioni militari come un’arma importante nella cosiddetta guerra al terrorismo, la combinazione della retorica contro la criminalità con la retorica contro il terrorismo sono alcune delle nuove caratteristiche del complesso carcerario industriale.Il complesso carcerario-industriale è un fenomeno globale, che non si può comprendere appieno come uno sviluppo isolato all’interno dei soli Stati Uniti. Ciò che è stato consentito negli Stati Uniti e la proliferazione di strutture e popolazioni carcerarie; la rapidità con cui il capitale è affluito nell’industria carceraria cosicché non è più un settore di nicchia, bensì una componente importante dell’economia statunitense; tutto questo ha implicazioni globali. È lo stesso percorso che ha fatto della produzione militare un settore centrale della nostra economia. È una delle principali ragioni per cui abbiamo scelto di diffondere il termine complesso carcerario-industriale : perché riecheggia per tanti versi il complesso militare-industriale.Così le prigioni, la loro architettura, la loro tecnologia, i loro regimi, le merci che la loro popolazione consuma e produce e la retorica che legittima la loro proliferazione, partono tutti dagli Stati Uniti verso il resto del mondo. Perché un paese come il Sudafrica, che sta costruendo, speriamo, una società giusta – non razzista, non sessista, non omofoba – ha bisogno delle tecnologie repressive del carcere di massima sicurezza? Perché la Turchia ha bisogno di prigioni di tipo F [a celle di isolamento, n.d.t. ] del tipo statunitense? L’introduzione di queste prigioni in Turchia ha provocato nelle carceri di quel paese un lungo sciopero della fame – digiuno fino alla morte – che è costato la vita a un centinaio di detenuti.È importante riflettere sui diversi livelli di questo processo globale. Come riconosciamo che la prigione di Guantánamo, per esempio, o quella di Abu Ghraib, alle porte di Baghdad, riflettono ed estendono la normalizzazione della tortura nelle prigioni all’interno degli Stati Uniti? Per quanto orrende siano le recenti rivelazioni circa il trattamento dei prigionieri di Guantánamo e Abu Ghraib, non è qualitativamente diverso da quanto accade nelle prigioni statunitensi. Prendiamo per esempio l’onnipresenza della violenza sessuale, soprattutto nelle carceri femminili. Le detenute del Michigan hanno intrapreso un’importante azione legale contro lo stato, in cui sostenevano che il governo autorizzava condizioni carcerarie che consentivano molestie e abusi sessuali, implicando con ciò che lo stato stesso fosse colpevole di violenza sessuale. Human Rights Watch ha presentato un rapporto intitolato Un evento fin troppo familiare: l’abuso sessuale nelle prigioni statali statunitensi che documenta questo abuso sistematico. Perciò le molestie sessuali nella prigione di Abu Ghraib confermano i nessi profondi tra la violenza sessuale e le pratiche sessualizzate di disciplina e di potere insite nei sistemi detentivi. Queste pratiche trasmigrano facilmente da un sistema all’altro: detenzione comune, carcerazione militare e reclusione degli immigrati. In tutti e tre queste tipologie carcerarie, la coercizione sessuale è una tecnica comprovata di disciplina e potere. La tortura e la coercizione sessuale che appaiono così barbare e terribili ai telespettatori quando le vedono trasmesse da 60 Minutes non sono così eccezionali come si potrebbe credere, perché alla loro base c’è la violenza quotidiana, di routine, che è giustificata come un normale mezzo di controllo sulla popolazione carceraria negli Stati
• L’enfasi che lei pone sulla continuità disciplinare m’induce a riesaminare i presupposti su cui si basava la mia domanda, uno dei quali riguardava l’importanza di una discontinuità legale. Il fatto che queste prigioni e questi centri di detenzione gestiti dagli Stati Uniti sfuggano al controllo della legge, dei legislatori e dei media statunitensi…
Ma si potrebbe dire lo stesso delle prigioni sul territorio nazionale.
• Il che solleva la questione del ruolo della legge stessa. La legge fa davvero una differenza significativa in questo caso? Che ne è del suo potenziale di mettere in discussione questi abusi? L’esistenza della legge nel caso del sistema carcerario interno è un argomento su cui potremmo fare leva?
Anche se sarebbe sbagliato considerarla come l’arbitro ultimo dei problemi sociali, la legge ha effettivamente un’importanza strategica nella lotta per il progresso e la trasformazione radicale. Può però anche essere uno degli ostacoli peggiori per il cambiamento, proprio perché le si dà l’ultima parola. In vari momenti, le battaglie legali hanno consentito riforme specifiche del carcere, ma, il più delle volte, quelle riforme hanno fondamentalmente consolidato l’istituzione. Certo, dobbiamo appellarci alla legge, tanto a livello nazionale quanto internazionale, ma ne dovremmo anche riconoscere i limiti. La miriade di battaglie legali contro la pena di morte non sono ancora riuscite ad abolirla
• Posso essere d’accordo sul fatto che la legge non basta, ma abbiamo i mezzi per contestare le azioni, se non abbiamo la legge?
Non lo so. Sono un po’ indecisa su questo punto, perché non so se sono disposta a riconoscere così tanto potere alla legge. Nei casi in cui ci sono state vittorie importanti, nel caso dei detenuti statunitensi, per esempio, quelle vittorie sono state, per la maggior parte, vittorie sulla legge, di solito con l’assistenza cruciale di movimenti organizzati di massa. La legge non opera nel vuoto. Sì, ci affidiamo a essa se la possiamo usare per ottenere quelli che definiamo obiettivi progressisti, ma, di per sé, è impotente. Riceve il suo potere dal consenso ideologico. Avendo combattuto il sistema carcerario da un discreto numero di anni, penso che dobbiamo sollecitare gli individui e le organizzazioni già impegnate nella lotta contro le disuguaglianze di razza e di classe e contro la repressione generalizzata prodotta dalle prigioni comuni a riorganizzare la loro militanza contro il carcere in modo da affrontare e contrastare le atrocità perpetrate nei centri di detenzione controllati dagli Stati Uniti in Afghanistan, in Iraq e nella baia di Guantánamo.
• Per tornare al suo rilascio, è sembrato più il risultato dell’attivismo politico e del conseguente cambiamento nel dibattito nazionale che non il risultato di considerazioni su basi legali.
Sì, e dell’impatto che quell’attivismo politico ha avuto sul procedimento giudiziario. Questa è la dinamica – la dialettica – che vorrei sottolineare.
• Noam Chomsky ha detto che l’agente primario del terrorismo è lo stato…
Sì, è vero. Sono assolutamente d’accordo con lui…
• Concorda anche sul fatto che il complesso carcerario-industriale sia uno dei meccanismi mediante i quali lo stato fa del terrorismo, del tipo di cui parla Chomsky, giustificandolo – nelle prigioni – con il fatto di combattere la criminalità?
C’è un fondo di verità in ciò che lei dice, ma la questione è un po’ più complessa, soprattutto dato che il ruolo delle prigioni nella società statunitense è diventato quello di soluzione di ripiego ai principali problemi sociali del nostro tempo. Perciò èterrorismo, ma terrorismo in risposta a un’economia politica ingestibile. Anziché affrontare seriamente i problemi che affliggono tante comunità – povertà, mancanza di alloggi, di assistenza sanitaria, di istruzione – il nostro sistema getta in prigione le persone che soffrono per questi problemi. Il carcere è diventato l’istituzione per eccellenza dopo lo smantellamento dello stato assistenziale. Perciò parlerei sì di terrorismo di stato, ma è terrorismo con uno scopo, non gratuito o soltanto come reazione a una resistenza politica conscia.
• Nel suo saggio Race and Criminalization lei scrive: «La figura del criminale – la figura razzializzata del criminale – ha finito per rappresentare il nemico più minaccioso della “Società Americana”. Praticamente tutto è accettabile – tortura, brutalità, un grande dispendio di fondi pubblici – fintantoché lo si fa nel nome della sicurezza pubblica». Pensa che il «terrorista» sia il nostro nuovo criminale razzializzato?
Ricordo che quando scrissi quel saggio pensavo al «criminale» come surrogato del «comunista» nell’epoca di «legge e ordine». Pensavo a questa nuova figura teorica del criminale, che aveva assorbito gran parte del discorso a proposito del nemico comunista. Dopo l’11 settembre, la figura del «terrorista» mobilita paure collettive in un modo che richiama e consolida le ideologie precedenti sul nemico nazionale. Sì, il terrorista è il nemico contemporaneo. La retorica, le conseguenti ansie e le strategie diversive prodotte dall’uso della figura del terrorista sono molto simili alla produzione del criminale come minaccia diffusa e fanno affidamento a essa in modi molto concreti.
• Nel ripercorrere il cammino storico dal comunista al terrorista, assistiamo anche a un cambiamento nella dinamica dei rapporti razziali qui in patria, e in particolare dei rapporti razziali tra le comunità afroamericane, musulmane e arabo-americane dopo l’11 settembre. Cosa pensa di questo cambiamento?
Prima di rispondere alla sua domanda, vorrei dire molto semplicemente che il razzismo era un ingrediente significativo delle campagne anticomuniste. Basti considerare che Martin Luther King era descritto spesso dai suoi avversari come un comunista e non perché fosse iscritto al Partito Comunista, ma perché si pensava che la causa dell’uguaglianza razziale fosse una creazione dei comunisti. L’anticomunismo ha consentito di opporsi ai diritti civili in un’infinità di modi, e viceversa; il razzismo ha favorito la diffusione dell’anticomunismo. In altre parole, il razzismo ha avuto un ruolo chiave nella produzione ideologica del comunista, del criminale e del terrorista.
Però vorrei provare a rispondere alla sua domanda sull’impatto della nascita di questa nuova figura di nemico e su quanto le comunità afroamericane siano state coinvolte in questo nuovo razzismo. Subito dopo l’11 settembre, una nuova mobilitazione nazionalista ha fatto affidamento sulla presentazione del nemico terrorista come musulmano, arabo, del Sud dell’Asia, del Medio Oriente, e così via, e per la primissima volta altre persone di colore sono state accolte nell’abbraccio nazionale. E questo fatto, stranamente, lo si è vissuto come la realizzazione di quella nazione multiculturale che era stata l’obiettivo delle lotte per la giustizia sociale – il sogno di Martin Luther King, se vuole – e molte comunità precedentemente escluse hanno avvertito – sia pure momentaneamente – un senso di appartenenza nazionale. Ovviamente il processo si fondava sull’esclusione del terrorista e di quei corpi ai quali era appiccicata quell’etichetta. Siamo ancora alle prese con le conseguenze di quel momento.
Talvolta i neri stentano ad ammettere che sia possibile per loro essere razzisti allo stesso modo dei bianchi. Questa è oggi una sfida importante. Non è più possibile presumere che le vittime del razzismo non siano vulnerabili anche loro alle stesse ideologie che hanno insistito sulla loro inferiorità. Non c’è un passaggio garantito dall’attivismo radicale di un tempo alle posizioni progressiste odierne. La cosa più promettente adesso sono gli attuali sforzi per costruire alleanze tra le comunità nere e arabo-americane. In un momento in cui esponenti di governo neri come Colin Powell e Condoleezza Rice rivestono ruoli di spicco come architetti della guerra globale, queste alleanze saranno fondamentali per la creazione di reti di resistenza. Ma è altrettanto importante cercare alleanze con altre comunità di immigrati, soprattutto quelli originari dell’America Latina e dell’Asia.
• Come per il «comunista» e il «criminale», quando parliamo del «terrorista» finiamo ben presto per parlare della sua carcerazione. Abbiamo visto che la baia di Guantánamo, in particolare, è diventata un simbolo potente della carcerazione. Quale pensa che sia l’opera ideologica svolta dalla prigione statunitense di Guantánamo?
In questo particolare momento, intende?
• Sì.
La storia di Guantánamo è lunga e brutta. Dieci anni fa, la prigione militare di Guantánamo era utilizzata come l’unico centro di detenzione al mondo per profughi sieropositivi. Nel 1993 alcuni prigionieri haitiani fecero uno sciopero della fame per protestare contro la propria detenzione, e un gran numero di persone negli Stati Uniti partecipò al digiuno in un gesto di solidarietà. Ma lei si riferisce alla prigione militare illegale dove all’inizio tutto era possibile perché il governo degli Stati Uniti credeva che una struttura fuori del territorio nazionale potesse essere anche fuori del controllo della legge nazionale. Così, l’amministrazione Bush si è comportata come se potesse agire senza dover rispondere delle proprie azioni.Vorrei sfruttare questa occasione per parlare brevemente delle idee ufficiali di democrazia che circolano oggi e del perché attivisti, intellettuali, studiosi, artisti, operatori culturali devono prendere molto sul serio quelli che sono segnali chiari di imminenti politiche e pratiche fasciste. Uso il termine fascista a ragion veduta. Non è un aggettivo che abbia mai utilizzato con leggerezza. Ma in che altro modo si possono descrivere le torture, l’abbandono e le malvagità inflitti ai reclusi di Guantánamo, persone che sono state arrestate per il solo motivo di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato? Ci sono state famiglie rimaste per anni senza alcun contatto con i propri figli imprigionati che, a detta dei massimi funzionari governativi, non hanno diritto a un avvocato perché non si trovano sul territorio degli Stati Uniti. E Guantánamo è solo uno dei tanti buchi controllati dagli Stati Uniti in cui la gente scompare.Se si prende in considerazione la crescente erosione delle libertà e dei diritti democratici sotto gli auspici dell’ USA PATRIOT Act, per esempio, dovrebbe essere un indizio della necessità di un nuovo movimento di massa. Fortunatamente, grazie ai cittadini britannici che sono stati rilasciati di recente e hanno tenuto delle conferenze stampa ampiamente diffuse, abbiamo potuto ottenere molte più informazioni su ciò che accade a Guantánamo che se non fossero stati cittadini britannici. Il fatto che i media fossero molto più interessati a cittadini del Regno Unito che non a cittadini dell’Afghanistan o del Pakistan è estremamente inquietante, perché implica che gli afgani privi di un passaporto britannico o gli iracheni sottoposti a brutalità e violenze sessuali non sono considerati degni dell’attenzione dei media. Posso soltanto dire che si tratta di segnali davvero preoccupanti di un futuro repressivo che molti di noi hanno paura perfino di immaginare. Dobbiamo però affrontare questa possibilità se ci preme la creazione di un futuro democratico negli Stati Uniti e nel mondo.
• Le sue osservazioni circa il rilascio di cittadini britannici da Guantánamo sembrano illustrare ancora una volta il potere di un’opinione pubblica organizzata nel fare pressioni sul governo, sia britannico che statunitense, per ottenerne la scarcerazione in assenza di meccanismi legali e di giurisdizione…
Proprio così.
• Pensa che Guantánamo abbia soppiantato la prigione di massima sicurezza come minaccia carceraria estrema nell’immaginario sociale?
Le spaventose realtà di Guantánamo hanno effetti materiali ed emotivi per tutti quelli che hanno la disgrazia di esservi detenuti. Ma Guantánamo è anche quell’ambiente sociale immaginario per tutti quelli etichettati come «il nemico». È la tecnologia della repressione che un nemico si merita, a quanto si dice. Le strutture detentive militari come quelle di Guantánamo sono state rese possibili dal rapido sviluppo di nuove tecnologie nelle prigioni su territorio nazionale. Al tempo stesso, le nuove carceri di massima sicurezza sono state rese possibili dalle torture e dalle tecnologie militari.
Mi piace pensarle come simbiotiche. Il centro detentivo militare come luogo di tortura e repressione non soppianta quindi il supercarcere su territorio nazionale (che, per inciso, viene esportato in tutto il mondo); piuttosto, costituiscono entrambi dei luoghi estremi nei quali la democrazia ha perso ogni diritto. In un certo senso, si potrebbe affermare che la minaccia del carcere di massima sicurezza supera perfino quella del centro detentivo militare. Non mi piace creare gerarchie della repressione, perciò non sono neanche sicura che dovrei esprimermi in questi termini. Quello che voglio dire è che la normalizzazione della tortura, la quotidianità della tortura che è caratteristica del supercarcere potrebbe avere un potere più duraturo rispetto alla prigione militare illegale. Nel carcere di massima sicurezza si applica la deprivazione sensoriale e i contatti umani sono così scarsi che spesso i detenuti arrivano al punto di usare le escrezioni del proprio corpo – urina e feci – come un mezzo di azione e libertà. Questa regolarizzazione, questa normalizzazione può essere ancora più pericolosa, soprattutto se la si dà per scontata e quindi non la si reputa degna dell’attenzione mediatica. Le pratiche del supercarcere non sono mai rappresentate come aberrazioni, come è accaduto invece per i fatti di Guantánamo o Abu Ghraib, descritti non come normali o di ordinaria amministrazione, bensì come pratiche eccezionali di cui sono responsabili singoli individui. Il supercarcere non lo si può descrivere come un’aberrazione. È classificato attualmente come il più sicuro tra i sistemi detentivi interni. Una volta, un minimo implicava un medio e un massimo . Ora il minimo implica il carcere di massima sicurezza e chissà cos’altro in seguito. Ma ovviamente con questo non voglio sottovalutare gli orrori delle prigioni militari illegali.
PROSEGUE RAPIDA LA COSTRUZIONE DI INSEDIAMENTI ISRAELIANI IN TERRITORIO PALESTINESE
La colonizzazione della West Bank continua a passo rapido. Gli insediamenti israeliani nei Territori Occupati crescono a vista d’occhio con una percentuale molto più alta dello scorso anno, cosa che alimenta l’impossibilità di vivere per i palestinesi, cosa che continua ad annullare qualunque idea di una continuità geografica del territorio palestinese ridotto a Bantustan circondati da un muro alto otto metri.
Un’agenzia stampa di pochi minuti fa dice: Nel 2008 il numero di nuove abitazioni negli insediamenti ebraici in Cisgiordania è cresciuto del 69 per cento rispetto all’anno precedente: lo rivela un rapporto dell’organizzazione ‘Peace Now’. In particolare sarebbero 1.518 le abitazioni realizzate lo scorso anno contro le 898 del 2007. Tale sviluppo si riflette sulla popolazione ebraica nella West Bank salita dalle 270 mila unità del 2007 alle 285 mila dello scorso anno, con un tasso di crescita superiore a quello di Israele. Sulla questione degli insediamenti, inoltre, pesa la promessa elettorale del leader del Likud Benyamin Nethanyahu che – in caso di vittoria nelle elezioni di febbraio – si è impegnato a permetterne lo sviluppo, considerato da molte parti come uno dei principali ostacoli alla definizione di un accordo di pace con i palestinesi.
POI CI PARLANO DEL PROCESSO DI PACE, DI HAMAS CHE CON I RAZZI BLOCCA QUALUNQUE POSSIBILITA’ DI TREGUA.
MA L’UNICA TREGUA DI ISRAELE E’ QUELLA DELL’OCCUPAZIONE MILITARE, DELLA CRESCITA DEGLI INSEDIAMENTI, DEL FURTO DI RISORSE IDRICHE E DI TERRA FERTILE. UNO STATO OCCUPANTE NON E’ DIFENDIBILE: QUELLA CHE LORO CHIAMANO PACE NON E’ ALTRO CHE APARTHEID, INACCETTABILE APARTHEID.
NESSUNA PACE SOTTO OCCUPAZIONE, NESSUNA PACE CON CHI RUBA LA TERRA ALTRUI, CON CHI STUPRA LA TERRA E UN INTERO POPOLO DA 61 ANNI!
CONTRO L’OCCUPAZIONE MILITARE DELLA CISGIORDANIA E DELLA STRISCIA DI GAZA
PER IL DIRITTO ALLA VITA DEL POPOLO PALESTINESE, PER L’ABBATTIMENTO DEGLI INSEDIAMENTI ISRAELIANI!
Al-khalil. Il dramma di Hebron, la città divisa
La situazione della città di Hebron, Al-Khalil, sta nuovamente precipitando senza che nessuno o quasi se ne accorga. La città della divisione, la città simbolo delle violenze dei coloni, di come uno Stato sia nato sulla pelle di un popolo, di come una terra sia stata stuprata, giorno dopo giorno da più di 60 anni.
Prima di passare ai fatti di questa notte bisognerebbe scrivere cosa il mondo ha permesso ad Israele in quella città, ciò che si sono presi, strappandolo via ad un popolo che non aveva certo gli strumenti per capire, per organizzarsi, per difendersi e contrattaccare come sarebbe naturale fare.
Facile, troppo facile per un pachiderma foraggiato da tutti, calpestare le umili aiuole di qualche pastore, di qualche contadino che aveva come sola ricchezza il succo prezioso delle sue olive.
Erano 5000 anni che la vita procedeva in quel modo, ad Hebron.
Dal 1967 in poi, dopo periodi di violenti scontri tra il 1929 e il ’36, la situazione muta completamente. Un gruppo di coloni si finge gruppo turistico ed occupa il principale albergo della città, per poi occupare una base militare abbandonata che trasformeranno in poco tempo nel primo “mattone” dell’insediamento Kyriat Arba. Saranno le donne israeliane, colone illegali, ad occupare un’altra parte della città e a strappare l’appoggio assoluto dell’esercito che ha poi sempre coperto e legittimato il processo di espansione ebraica, mai terminato. Se guardiamo i dati del 2005 possiamo capire facilmente come è mutata la vita dei palestinesi residenti nel centro di Hebron o nelle aree limitrofe: ora sono più di 20 gli insediamenti, per un numero di coloni sempre più alto.
I coloni sono diversi dai normali cittadini. I coloni sono militanti di estrema destra (nella maggior parte dei casi), che soprattutto nel caso del centro di Hebron, occupano passo passo quel che riescono, girano armati fino ai denti permettendo che i loro figli prendano a sassate le case e le scuole dei loro coetanei arabi.
La parte palestinese della città è facilmente riconoscibile.
E’ un carcere. Un carcere vero e proprio, dove tutte le case, le finestre e le porte di ogni edificio pubblico e privato, le strade percorse….tutto è avvolto da fitte reti metalliche, per salvarsi dai ripetuti lanci dei coloni, soprattutto di donne e bambini.
La vita di queste persone è distrutta da qualche decennio, il commercio è inesistente, le saracinesche tutte abbassate, i bambini vivono come piccoli detenuti, impossibilitati anche a giocare per strada, per le loro strade, le poche che gli sono concesse…. «Le violenze contro le famiglie arabe sono all’ordine del giorno», racconta un attivista statunitense per i diritti umani. «I palestinesi hanno le inferriate alle finestre perché erano puntualmente prese a sassate dai coloni. I soldati dovrebbero intervenire, ma si limitano a raccogliere a voce le denunce». Idris, un macellaio che vive nella zona alta di Tel Rumeida, mostra la bocca senza denti. «La mia vicina israeliana è entrata nella mia casa e mi ha colpito più volte con un bastone, accusandomi di occupare la sua terra», dice. «Quando sono arrivati i soldati hanno portato via uno dei miei ragazzi dicendo che l’aveva provocata»
Hebron è un caso unico nell’assurdo conflitto israeliano. La città della divisione, delle reti metalliche, dell’odio infinito verso un popolo gemello, abitante delle stesse colline. Da troppo tempo.
Ma passiamo ai fatti di questa notte:
decine di coloni e di attivisti di estrema destra si sono scontrati la scorsa notte a Hebron con palestinesi e con soldati e poliziotti israeliani: hanno sconsacrato tombe in un antico cimitero musulmano, scritto sul muro di una moschea slogan offensivi contro la religione musulmana “Maometto maiale” e “Morte agli arabi”, danneggiato automezzi dell’esercito e della polizia.
Ovviamente la polizia e l’esercito sono intervenuti per calmare la situazione, sono impegnati a togliere le scritte e ripristinare l’ordine: nessuno è stato arrestato fino ad ora, malgrado questi scontri siano stati provocati dai coloni dopo che l’Alta Corte di Giustizia israeliana aveva imposto lo sgombero di uno stabile di quattro piani, illegalmente occupato. Da tutto lo stato israeliano, decine di attivisti di estrema destra stanno raggiungendo Hebron per aiutare i coloni ad impedire lo sgombero.
Tutto tace da questa mattina: questo blog proverà a seguire gli sviluppi della situazione.
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