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Posts Tagged ‘ergastolo’

Le “donne” dei prigionieri e la storia rimossa, la nostra storia

1 settembre 2010 20 commenti

AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI

Quest’articolo lo lessi che ero poco più di una bambina, a tredici anni, riportato tra le note di un libro che cambiò la mia vita (regalatomi da una mano completamente inconsapevole):
Dall’altra parte”  – l’odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici- di Prospero Gallinari e Linda Santilli.
Un articolo, un “reportage”, una testimonianza scossa di una giornata passata con le “donne dei detenuti” br e non, reclusi nel carcere speciale di Trani dopo appena un mese dalla rivolta. Le compagne di uomini fatti a pezzettini dai GIS, uomini con dita denti schiene e costole spezzate: detenuti politici che avevano messo a ferro e fuoco un carcere e che ora scontavano sulla loro pelle e quella dei loro cari la repressione dello stato.
Uno stato che doveva dimostrare la sua forza: uno stato che aveva mandato i GIS a sedare la rivolta …e c’era riuscito, ovvio!, peccato che al rientro dell’operazione – nei festeggiamenti per il capodanno- il generale che aveva guidato il masssacro è stato ucciso sul pianerottolo di casa.
Quest’articolo racconta il mai raccontato, quello vissuto da chi ha avuto la vita sventrata dal carcere, dalle leggi speciali, dall’ergastolo solo perchè madre, figlio, amore di un compagno prigioniero.

La tradotta di Trani ferma a Barletta. Per Trani si cambia.
Sul marciapiede, alle sette di mattina si riversano i familiari. Perlopiù sono donne, madri, compagne, sorelle. Nei venti minuti d’attesa prima che arrivi il Roma-Bari che bisognerà prendere al volo, di corsa dal giornalaio a raccattare quotidiani, di corsa al gabinetto, di corsa al bar a buttar giù un caffè; poi dieci minuti ancora , questa volta in piedi contro gli sportelli del treno, e giù di nuovo su un altro marciapiede, quello della stazione di Trani.
Qui il femminismo non avrebbe ragione d’esistere.
Le donne dei prigionieri sono forti, gestiscono le loro azioni con autorevolezza, a tratti perfino con allegria. Di fronte al procuratore capo De Marinis, ogni sabato, da quando c’è stata la rivolta, la dignità la chiarezza la determinazione sono loro […].
Il primo sabato: le visite e i pacchi sono sospesi. Il secondo, ancora niente visite e niente pacchi.  Le donne si organizzano, attuano il blocco dei cancelli, aspettano dieci ore, circondate dai carabinieri minacciosi, e commettono un peccato d’onestà: credono all’ufficiale che promette un colloquio con il direttore se il blocco viene tolto. Naturalmente l’ufficiale non rispetta la parola. Però i pacchi passano.
Il terzo sabato, ancora visite distanziate, ancora il ritrovarsi davanti al secondo cancello. Per ogni nome chiamato passa un’ora. I colloqui dovranno essere con i vetri. NO, prigionieri e donne dicono no. […]

Si decide di nuovo il blocco dei cancelli. […]
Da tutte le parti piovono autoblindo, e carabinieri, a nugoli come le mosche. Arriva anche un funzionario in borghese, forse Digos. Dice che le manifestazioni sono proibite, dice che bisogna sgombrare se no ci pensa lui, e infatti ci pensa.
I carabinieri si schierano a pochi passi dalle donne, faccia a faccia. Rigidi e neri che sembrano lì come per un film. Comparse che non conoscono tutta la trama, ma solo il povero ruolo che le riguarda. E caricano duro.
Piovono le botte e gli spintoni, ma il funzionario capisce che la loro è solo forza fisica.[…]
Le notizie che filtrano dall’interno sono come sassi in faccia e perdono ordine e priorità, trasformandosi in una sorta di onda d’urto che spinge le donne ad agire. Guardie incappucciate, da Ku Klux Klan, chiamano per nome i detenuti, e a mano a mano che uno viene crocifisso dalla luce dei fari, giù botte. Quindici prigionieri vengono trascinati sul tetto: le guardie che li tengono chiedono alle altre, in basso, se ci sono morti o feriti tra i loro colleghi. Sono pronte, a una risposta affermativa, a buttar giù i detenuti.
Il policlinico di Bari si lascia portari via dai carabinieri i feriti gravi. Ma questo è avvenuto subito dopo la rivolta. Le donne si sono già battute per organizzare una fitta rete di controinformazione, ma tranne le trasmissioni di poche radio libere e qualche stralcio di notizia censurata dagli stessi giornalisti che la passano, all’opinione pubblica non arriva niente.
Altre notizie, sassi in faccia. I prigionieri sono ammassati in cameroni e come unica forma di protesta possibile attuano la “guerra batteriologica”, buttano escrementi e immondizie nei corridoi e dalle finestre. I feriti curati alla bell’e meglio subito dopo la rivolta peggiorano. I punti vanno in suppurazione, alcuni hanno la febbre alta e non si reggono in piedi, altri hanno le ossa rotte, le mani le caviglie, le costole.
Falco il medico della prigione, che nome meglio di così non poteva avere, non si fa vivo. Neanche il Giudice di sorveglianza. […]
Quando vengono concessi i colloqui, le donne e i prigionieri li rifiutano: si vorrebbe ancora farli parlare attraverso vetri e citofoni. Vengono pestati e trascinati all’isolamento, ma non si illudano i carcerieri che questo possa spingere i detenuti o i loro familiari alla rinuncia della propria dignità umana. Le donne stendono una denuncia. La firmano nominalmente, la portano alla procura, la presentano come legge vuole,  anche se si immaginano che finirà in un cassetto. Trasmettono altri comunicati attraverso l’Ansa, ma anche su questi cala la nebbia.
Notte e nebbia. Nacht und Nebel sulle carceri speciali.
Notte e nebbia sulle coscienze. Nel paese delle interrogazioni parlamentari non si alza una sola voce, fosse anche semplicemente per chiedere. Ma di quello che accade o che potrebbe accadere nei lager di questa repubblica qualcuno dovrà pur rispondere.

Laura Grimaldi
Il Manifesto

29 Gennaio 1981

[A mamma Clara, a suo figlio Bruno]

I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis

“Costituzione” e “democrazia” non sono valori che m’appartengono

22 aprile 2010 3 commenti

La Costituzione??
La Democrazia??
Ma perchè? Perchè siamo diventati così?
Sarà dura per me stare in piazza questo 25 aprile: volevo portare il mio bambino al suo primo corteo di LIBERAZIONE ma non credo riuscirò a farlo.
Sono comunista, sono antifascista…ma quest’ antifascismo non mi piace, quest’antifascismo non m’appartiene.
Non riesco a vedere “compagni miei”, SANGUE MIO, invocare democrazia e Costituzione…
Non potete chiedermi di difendere la Costituzione…non la potete trattare come una cosa intoccabile, detentrice di valori eterni ed inviolabili.
Ma di cosa stiamo parlando?
Ma da quando amiamo la nostra Costituzione? La democrazia? Una costituzione che parla di “famiglia”, di “proprietà privata”?
La stessa democrazia che tiene i compagni in carcere da trent’anni, la stessa democrazia che ha regalato ergastoli e leggi speciali,
la stessa democrazia che sgombera le case, che carica i lavoratori e l’ha sempre fatto.
Quanti proletari sono stati ammazzati dalla nostra Costituzione???

Ieri ad Ostia c’è stata l’ennesima aggressione di Casa Pound: c’era un compagno solo ad attacchinare che s’è salvato per un pelo:
Volevo mettere il comunicato e non ne sono stata capace: si invocano le “forze sinceramente democratiche”… sul mio blog, scusate, non riesco a mettervi!

Non riesco a condividere strade e piazze nemmeno più con la retorica partigiana di personaggi come Bentivegna che poi hanno avallato ergastoli a go-go.
Basta, invece di capire questo, di superare quella retorica in modo antagonista e rivoluzionario facciamo addirittura passi indietro,
la peggioriamo, la rendiamo ancora più “democratica e populista”.  Non ne posso più!
Vorrei contenuti di altro genere, vorrei parole nostre…non vorrei appellarmi solo al lessico borghese, alle Costituzioni borghesi e ai loro tribunali.

Questo 25 aprile mi sento molto sola, e non per i tanti fascisti in giro, ma per il modo in cui tentiamo di combatterli!

Battisti, Genro: L’italia è stata arrogante e autoritaria

14 novembre 2009 Lascia un commento

Intervista al ministro della Giustizia brasiliano
di Paolo Persichetti, Liberazione 14 Novembre 2009

Il supremo tribunale brasiliano si è spaccato in due come un cocomero. Quattro giudici hanno ritenuto l’asilo politico concesso a Cesare Battisti dal ministro della Giustizia, Tarso Genro, <corretta sotto il profilo costituzionale>.
Tarso GenroHanno poi respinto la richiesta di estradizione avanzata dall’Italia perché i reati contestati «hanno una natura politica» che cade sotto la protezione della legge brasiliana e dei trattati internazionali ratificati dal loro Paese. Altri quattro giudici, con argomenti esattamente opposti, si sono pronunciati per il via libera alla estradizione. Questa cristallizzazione, come da più parti si è osservato, palesa in modo eclatante uno scontro istituzionale molto duro. In ballo c’è l’interpretazione della costituzione brasiliana e soprattutto quale debba essere la gerarchia dei poteri in materia estradizionale. Decide e prevale, in ultima istanza, il potere politico, dunque l’Esecutivo, come accade in tutti i Paesi del mondo, compresa l’Italia, oppure deve essere il Giudiziario a dire l’ultima parola?
Attorno alla battaglia giuridico-politica che si è tenuta fino ad ora nelle aule di giustizia brasiliane, la destra – oggi all’opposizione – alleata con una parte significativa della magistratura, sta tentando un assalto al potere politico legittimamente eletto, rappresentato dal presidente della repubblica Ignazio Lula da Silva. Uno scenario esattamente rovesciato rispetto a quello italiano. Il nostro governo, che per voce del suo premier raglia contro i «magistrati comunisti», non esita oltre oceano a costruire trame di corridoio con pezzi di magistratura per strappare con ogni mezzo l’estradizione di Battisti, dando una mano ai suoi amici della destra brasiliana per fare fuori Lula.
Degli scenari che si aprono dopo la situazione di stallo, venuta a crearsi tra i giudici della Supremo tribunale federale di Brasilia, abbiamo parlato con il ministro della Giustizia brasiliana, Tarso Genro.battisti01g

Ministro, cosa accadrà ora? Il presidente del Stf, Gilmar Mendes, voterà oppure come accaduto in altre occasioni, rispetterà il principio dell’habeas corpus?
Ha dichiarato che voterà.

Ha idea di come si pronuncerà?
È un’incognita perché ad oggi non ha ancora avuto l’opportunità di presentare pubblicamente la sua posizione.

È vero, come alcuni quotidiani hanno scritto, che se il Presidente Lula non ratificherà l’eventuale voto favorevole alla estradizione di Battisti, si potrebbe aprire una procedura di impeachment contro di lui?
Impossibile. Dietro questo scenario c’è una concezione completamente distorta della costituzione brasiliana. Le decisioni del Supremo tribunale sulla concessione dell’asilo non hanno forza di legge. Sono pareri privi di effetto vincolante. La decisione finale è riservata dalla costituzione al Presidente della repubblica. Se il voto finale del Supremo tribunale dovesse pendere per l’estradizione, la decisione passerà nelle mani del Presidente della repubblica. Decisione che comunque si farebbe attendere perché sul capo del signor Battisti pesa un procedimento penale per possesso e falsificazione di documenti d’identità. Per questo, quale che sia il risultato finale del voto, non vi può essere nessuna immediatezza della estradizione prima che non sia concluso il processo.

Eppure, in una dichiarazione il Presidente del Stf, ha evocato chiaramente il rischio di un impeachment (procedura di rimozione) contro Lula, se questi non si atterrà all’esito della decisione della Suprema corte.
Questa dichiarazione non l’ho mai letta da nessuna parte, mi è stata solo riferita. Se fosse vera, sarebbe espressione di una concezione profondamente sbagliata del sistema legale, dell’equilibrio e della divisione che presiede alle diverse competenze tra potere esecutivo e giudiziario.

Ministro, secondo lei perché Toffoli (il giudice nominato in sostituzione di un suo collega scomparso Ndr) non ha votato?
Non lo so. Ha parlato di un problema di coscienza, ma non saprei dire esattamente quale sia la ragione personale che gli ha impedito di esprimere il voto.

Forse perché ci sono state pressioni da parte italiana?
Pressioni da parte dell’Italia ci sono state fin dall’inizio.

Secondo lei si è andati ben oltre la legittima difesa dei propri interessi, fino alla vera e propria ingerenza negli affari interni?
Sì, da parte di persone appartenenti al governo italiano. Pressioni totalmente inaccetabili dal punto di vista politico e giuridico. In questa vicenda l’Italia ha dimostrato di avere una visione autoritaria e arrogante, inaccettabile per un paese democratico.

Caso Battisti: altra udienza sospesa

12 novembre 2009 Lascia un commento

Udienza per l’estradizione di Battisti: sospesa dopo un 4 a 4 nelle votazioni
di Paolo Persichetti, Liberazione 13 novembre 2009

Colpo di scena all’apertura dell’udienza del Supremo tribunale federale brasiliano che ieri doveva pronunciarsi sulla estradizione di Cesare Battisti, condannato in Italia a due ergastoli per una serie di attentati mortali commessi sul finire degli anni 70 dai Pac.
Il presidente della corte, Gilmar Mendes, ha reso noto il contenuto di una lettera inviata da Dias Toffoli, il giudice insediatosi tra le polemiche lo scorso 23 ottobre al posto di Menezes Direito, deceduto il primo settembre. Toffoli, che in qualità di avvocato generale dell’Unione era già intervenuto nel procedimento, chiamato a fornire un parere sull’eccezione di incostituzionalità sollevata contro la concessione dell’asilo politico a Battisti, aveva difeso la correttezza della decisione presa dal ministro della Giustizia, Tarso Genro.

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Il Supremo tribunal federal di Brasilia

Per evitare conflitti d’interesse ha preferito appellarsi alla clausola di coscienza e non prendere parte al voto. Un gesto che smentisce clamorosamente tutti quelli che avevano accusato Lula di averlo designato per far pendere gli equilibri del Tribunale a favore di Battisti. Nei giorni scorsi era persino circolata l’intensione del governo italiano di presentare ricorso contro la sua nomina. Voce che ha provocato la ferma reazione del ministro Genro contro l’atteggiamento irrispettoso della sovranità interna brasiliana. Fin dall’inizio l’Italia ha interferito in modo pesante sulla giustizia brasiliana. Un proconsole del governo, il procuratore Italo Ormanni, è stato inviato sul posto per manovrare nei corridoi del Tribunale e influenzare l’esito finale del voto. In realtà Toffoli avrebbe potuto votare. Non esistevano ostacoli giuridici, anzi i giuristi avevano elencato diversi precedenti. Soprattutto avrebbe potuto esprimersi sulla procedura di estradizione, nella quale non era mai intervenuto. Il Tribunale, infatti, con una scelta senza precedenti, e che molti hanno considerato quanto mai barocca, ha deciso di accorpare le due procedure: quella sulla costituzionalità della legge che attribuisce al ministro della Giustizia il potere di concedere lo status di rifugiato; e l’altra, sulla richiesta di estradizione avanzata dall’Italia. Il presidente Gilmar Mendes ha manovrato l’intera vicenda procedurale fornendo prova di notevole fantasia e creatività, al punto che nei manuali di diritto verrà ricordato come il fondatore del surrealismo giuridico brasiliano.
Venuto meno il voto di Toffoli, che avrebbe potuto subito chiudere la questione dando la maggioranza ai contrari alla estradizione, restano ancora aperti diversi scenari. Marco Aurelio Mello, il magistrato che all’ultima udienza aveva chiesto una sospensione, ha sciolto la riserva e si è detto contrario alla estradizione perché «il Tribunale supremo non può sostituirsi all’esecutivo». Di fronte ad una situazione di perfetta parità, 4 contro 4, la corte ha sospeso l’udienza. Al momento in cui questo giornale va in tipografia, non siamo in grado di dirvi quando riprenderà. Per sciogliere questa situazione di stallo, il presidente Mendes potrebbe essere chiamato ad esprimere un voto dirimente.

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Il carcere di Papuda, dove è rinchiuso Battisti

Decisione per nulla scontata. I contrari all’estradizione porranno, infatti, la questione dell’habeas corpus, ovvero il rispetto del principio del favor rei. Già in passato Mendes si era astenuto dal votare in situazione simile. Se prevalesse questa soluzione, la vicenda verrebbe archiviata e Battisti, scontata la pena per i documenti falsi, liberato. Una seconda incognita riguarda l’ipotesi che uno dei giudici chieda di rivedere la propria posizione. Nei giorni scorsi su alcuni quotidiani si era ventilata l’ipotesi di un ripensamento di Carlos Britto, che inizialmente si era detto favorevole all’estradizione. Anche in questo caso Battisti tornerebbe libero. Esiste anche l’eventualità che uno dei votanti chieda una ulteriore pausa di riflessione.
Se dovesse invece prevalere la volontà di far votare il presidente Mendes, da sempre favorevole all’estradizione, legato da stretti rapporti con gli ambienti del centrodestra italiano, e che della vicenda Battisti ha fatto un trampolino di lancio per le sue ambizioni politiche, allora la partita davanti al Tribunale si chiuderebbe con un voto a maggioranza favorevole alla estradizione. A quel punto la palla dovrebbe passare nelle mani di Lula, ma anche qui c’è chi è intenzionato a porre un problema di legittimità che aprirebbe uno scontro di poteri tra esecutivo e giudiziario. L’Italia, infine, dovrebbe comunque accedere alla condizione posta dal Tribunale perché l’estradizione possa esser possibile: commutare la pena dell’ergastolo a 30 anni di reclusione.

Cesare Battisti: ultima udienza in corso…

12 novembre 2009 Lascia un commento

reginacoeli-ballatoiDias Toffoli, giudice appena nominato al Supremo Tribunal Federal di Brasilia, ha formalmente annunciato che non prenderà parte alle votazioni che si terranno oggi e che decideranno se estradare o no Cesare Battisti. Come avvocato generale di stato si era espresso a favore della concessione di status di rifugiato politico concesso dal governo brasiliano; per questo precedente non voterà.
Senza il suo voto, il pronostico non è certo favorevole per l’ex militante dei PAC che in Italia dovrebbe scontare l’ergastolo.

L’udienza è in corso da meno di un’ora; l’intenzione di alcuni membri del tribunale è di bypassare completamente il presidente brasiliano Lula, che dovrebbe comunque avere l’ultima parola.Durante l’udienza il ministro giudice Cezar Peluso, ha dichiarato che Lula dovrebbe automaticamente inviare l’imputato verso le prigioni italiane.
Il procuratore generale Roberto Gurgel, tra i tanti, sostiene invece che Lula come capo di stato e del governo, responsabile delle relazioni internazionali in Brasile e garante della Costituzione, abbia il diritto di decidere se estradare o no Cesare Battisti in Italia.

Tra poco si saprà qualcosa…

Blefari Melazzi: induzione al pentimento

4 novembre 2009 Lascia un commento

Da un’Ansa di lunedi: Procura Bologna: mesi fa rifiutò di collaborare. All’inizio dell’anno, la Procura bolognese sentì Diana Blefari Melazzi nel tentativo di sondare una sua eventuale disponibilità a collaborare con le forze dell’ordine e la magistratura, tenendo conto anche dei segni di insofferenza per la detenzione già mostrati dalla brigatista. Ma lei – ha riferito la Procura – disse che non voleva collaborare in alcun modo.

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Gli inquirenti emiliani hanno confermato di essere al corrente dei problemi psichici della donna, fatto emerso anche durante l’interrogatorio a Massimo Papini, arrestato il primo ottobre su iniziativa delle Procure di Bologna e Roma con l’accusa di essere un militante delle nuove Br, ed ex compagno della Blefari. In quell’occasione l’uomo aveva ribadito al pm Enrico Cieri, titolare dell’inchiesta, il disagio psicologico in cui si trovava la brigatista esprimendo preoccupazione per questo. Inoltre, ha ricordato la Procura, durante il processo davanti alla Corte d’Assise di Bologna per l’omicidio Biagi, una perizia psichiatrica sulla donna stabilì che era capace di essere presente al processo.

Diana Blefari Melazzi e l’induzione al pentimento
di Paolo Persichetti, Liberazione 5 Novembre 2009 

In alcune redazioni non esitarono a definirla la «belva», e tutto a causa di una minuta sequestrata nella sua cella.
Un abbozzo di lettera mai conclusa a un suo coimputato, soprattutto mai spedita. In realtà si trattava della messa per iscritto di un delirio scatenatosi in uno dei momenti più acuti della sua malattia psichiatrica.
Era l’estate del 2005, e Diana Blefari Melazzi si trovava in regime di 41 bis aggravato, nella cosiddetta “area riservata” del carcere di Benevento. Nel pozzo più profondo che l’ingegneria sadica della punizione è riuscita a concepire. Ma la «belva» doveva essere lei. Faceva comodo quell’immagine bestiale da sovrapporre alla sparuta pattuglia di aspiranti nuovi brigatisti che, con i loro spari improvvisi, senza radici e senza futuro, avevano bruscamente risvegliato un paese distratto e annoiato. Alcune frasi di odio verso Marco Biagi, estrapolate dal testo, finirono in un rapporto della digos e poi sui giornali. Lo squilibrio mentale venne presentato come un proclama politico. La “pazzia” per la Blefari ha sempre funzionato come un elemento a carico, un’aggravante utile solo per condannarla all’ergastolo.
Non è vero che poteva stare nel processo, come i giudici hanno sentenziato con ostinazione. “Doveva” stare nel processo, non aveva scampo.
I suoi legali fecero ricorso contro il sequestro di quei fogli privati. Che rilevanza processuale poteva mai avere la parola di una persona ridotta in quello stato? Il tribunale del riesame di Bologna accolse il reclamo e ne dispose la cancellazione dal fascicolo processuale. Un riconoscimento che non ebbe seguito.
47 portePer anni la Blefari ha rifiutato le ore di socialità concesse. Non è mai uscita per l’ora d’aria, non ha mai acceso la luce della cella, è stata quasi sempre rintanata sotto le coperte e per lunghi periodi non ha effettuato i colloqui con i familiari e i suoi avvocati. Sospettava che il cibo dell’amministrazione fosse avvelenato e per lunghi periodi non mangiava. Aveva crisi d’identità e disturbi percettivi fino ad arrivare ad allucinazioni visive, particolarmente legate alla televisione nella quale vedeva dei “mostri”, motivo per cui aveva smesso di utilizzarla.
Nel 41 bis di L’Aquila rifiutava di avere contatti con le sue coimputate, scambiandone una per Provenzano e l’altra per sua sorella. Rivedeva sua madre, morta suicida dopo una lunga depressione, sul muro di fronte alla sua cella. Nella sua ultima lettera annotava, «continuano le vibrazioni, le sensazioni negative, i sapori di merda in ogni cosa che mangio, le intrusioni nella mia testa sia quando sono sveglia che quando dormo». Ma per i periti nominati dai giudici il suo atteggiamento rientrava nella tipica condotta oppositiva di chi vive un rapporto di inimicizia politica verso le istituzioni. Singolare capovolgimento di fronte. Ogni volta che un detenuto politico è sottoposto a “osservazione scientifica della personalità”, per fruire dei cosiddetti benefici penitenziari deve lottare con chi pensa di poter leggere il suo vissuto politico  come una devianza che rinvia a disturbi della personalità. Quando questi ci sono realmente, vengono interpretati in modo politico.
L’avvocato Caterina Calia ha ricordato la disponibilità venuta da molte detenute politiche storiche ad assistere la Blefari. Nelle carceri esiste la figura del “piantone”, ovvero di un detenuto che assume l’incarico di assistere un suo compagno impossibilitato a occuparsi di se stesso. La Blefari poteva essere aiutata, ma venne sempre tenuta isolata dalle altre politiche. C’era chi sperava di strumentalizzarne la sofferenza per farne una collaboratrice di giustizia.
 

Suicidio Blefari: l’uso della malattia come strumento di indagine

2 novembre 2009 Lascia un commento

La morte di Diana Blefari Melazzi: l’uso della malattia come strumento di indagine
di Paolo Persichetti, Liberazione 3 novembre 2009

Cronaca di una morte annunciata.
«Basta, basta, basta!!! Io voglio uscire. Devo uscire. Giuro che esco e mi ammazzo e vi libero della mia presenza, ma io di questa tortura non ne posso più». Si esprimeva in questo modo Diana Blefari Melazzi in una lettera del 13 maggio scorso, inviata dal carcere di Sollicciano ad un suo amico, Massimo Papini, col quale era stata legata sentimentalmente prima della cattura. Diana Blefari non è uscita, non poteva uscire. Si è suicidata sabato 31 ottobre intorno alle 22.30 nella cella del carcere romano di Rebibbia, dove era stata trasferita da una decina di giorni. Una morte brutta, architettata ricavando un cappio con strisce di lenzuola intrecciate. La sorvegliante l’ha trovata appesa, al termine del giro fatto in sezione dopo la chiusura dei blindati. Poche ore prima gli era stata notificata la sentenza di cassazione che confermava in modo definitivo la sua condanna all’ergastolo, perché ritenuta compartecipe dell’attentato mortale al giuslavorista Marco Biagi.Diana Blefari Melazzi

La Blefari venne arrestata sul litorale romano nel dicembre 2003, inizialmente come “prestanome”, titolare del contratto d’affitto della cantina nella quale le cosiddette «nuove Brigate rosse», il piccolo gruppo che fino al 1999 aveva operato sotto la sigla Ncc per poi sottrarre dalle teche impolverate della storia la vecchia sigla inoperante delle Br-pcc, ma «solo se l’azione D’Antona avesse avuto successo», avevano depositato in fretta e furia archivio e altro materiale sgomberato dalla base dove erano vissuti Nadia Lioce e Mario Galesi, fino al momento della sparatoria mortale sul treno Roma-Arezzo del marzo del 2003.
Ad accusarla della partecipazione materiale all’omicidio Biagi, la pentita Cinzia Banelli. Secondo la collaboratrice di giustizia, che oggi vive sotto programma di protezione, la «compagna Maria», nome di copertura attribuito alla Blefari, avrebbe fatto da staffetta il giorno dell’attentato, sorvegliando il tragitto del consulente del ministero del Welfare dalla stazione fino ai pressi della sua abitazione, quando sarebbe dovuta entrare in azione proprio la Banelli. Solo che quel giorno la collaboratrice di giustizia non vide mai la Blefari, come dovette ammettere più volte in aula sotto contestazione della difesa. Contro di lei pesavano tuttavia altre accuse, come quella di aver preso parte alla “inchiesta” preparatoria e di aver inviato la rivendicazione tramite un internet point. Le vennero, infatti, contestate tracce telefoniche lasciate dal suo cellulare a Modena.

Il primo ottobre scorso, i sostituti procuratori romani, Pietro Saviotti e Erminio Amelio, hanno arrestato anche Massimo Papini, con l’accusa di essere una delle persone ancora non identificate che avrebbero fatto parte del gruppo. Una persecuzione quella contro Papini. Dopo anni d’indagini, pedinamenti e intercettazioni, alla fine del 2008 la procura di Bologna ne chiese l’arresto per il coinvolgimento nell’attentato Biagi, ma il Gip ritenne gli elementi depositati dall’accusa inadeguati a sostenere l’incriminazione. Passati gli atti alla procura romana, sulla base degli stessi elementi e soprattutto per il fatto di aver continuato a seguire la sua ex fidanzata lungo l’odissea carceraria e i meandri dolorosi e allucinati della sofferenza psichiatrica che l’aveva colpita, Papini è stato arrestato con l’accusa di partecipazione a banda armata. Un’accusa allucinata, tanto quanto le visioni che colpivano la Blefari stessa.

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Durante il processo Biagi

Forse sta proprio in questo accerchiamento, in questa inesorabile escalation la pulsione finale che l’ha portata a darsi la morte. In una lettera scritta dal 13 al 23 maggio, in cui si susseguono frasi deliranti di ogni tipo, scriveva a Papini: «Se vogliono che mi cucio la bocca, me la cucio. Se vogliono che parlo, dico tutto quello che mi dicono di dire, ma io non posso più stare così. Io non so proprio cosa fare, io chiedo perdono a tutti, ma basta per pietà». Gli inquirenti hanno interpretato queste parole come un messaggio verso l’esterno, rivolto a presunti referenti che avrebbero dovuto dare indicazioni sul suo modo di comportarsi. In realtà la Blefari nel suo fare ondivago e schizofrenico meditava altro. Da diverso tempo non era più in contatto con i suoi coimputati che le avevano rimproverato la scelta processuale di non ricusare l’avvocato e farsi difendere anche in punto di fatto. Gli estratti di un duro scambio di missive, tutte visionate dalla censura carceraria e finite in mano all’antiterrorismo, apparvero sui giornali.
Nell’ultima lettera, finita di scrivere il 25 settembre, comunicava a Papini di aver informato il direttore del carcere di essersi «resa disponibile a parlare con i magistrati». Cosa avesse realmente in serbo, se volesse avviare una collaborazione e semplicemente circostanziare la sue reali responsabilità, o altro ancora, resterà un segreto che si è portato con sé. Di questa intenzione Papini ha saputo solo in carcere perché arrestato prima del suo recapito. Circostanza che smentisce il teorema accusatorio ed evidenzia il cinico gioco al rialzo portato avanti dagli investigatori contro la detenuta. Assolutamente consapevoli delle sue instabili condizioni di salute e del suo stato di prostrazione, gli inquirenti hanno dato l’idea di pensare alla Blefari come ad un “anello debole” che, prima o poi, si sarebbe spezzato conducendola ad atteggiamenti collaborativi con la giustizia. L’uso della malattia come strumento d’indagine. Mentre tutte le autorità carcerarie avevano riconosciuto da tempo la patologia psicotica che abitava la mente della donna, tanto da declassificarla dal regime duro 41 bis e assegnarla in un circuito comune, con frequenti passaggi nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo fiorentino, dove veniva sottoposta a periodici Tso, sul piano giudiziario si è continuato a negare per anni non solo la sua incapacità a “stare nel processo”, ma anche il diritto ad essere curata in una struttura ospedaliera adeguata.

La cieca sete di vendetta che ha animato l’inchiesta condotta dalla procura di Bologna e l’ostinata sordità delle corti d’assise nel recepire le richieste degli avvocati, documentate da numerose perizie psichiatriche che diagnosticavano una «patologia mentale che ne determina un comportamento psicotico in fase attiva», oltre a un «disturbo delirante, in diagnosi differenziale con Schizofrenia di tipo Paranoide», segnalando il «rischio di atti autolesionistici impulsivi che potrebbero essere fatali», sono finalmente pervenute a comminare quella condanna capitale abolita dalla costituzione italiana.

Muore suicida Diana Blefari nel carcere di Rebibbia

1 novembre 2009 1 commento

Ieri sera s’è suicidata in carcere Diana Blefari nel carcere romano di Rebibbia, condannata all’ergastolo per l’omicidio di Marco Biagi, del 2002.
Accusata di aver partecipato al pedinamento, di aver affittato il furgone e di avere la rivendicazione dell’omicidio  nel suo computer, era stata condannata al Fine Pena Mai.blefari_melazzi_diana
Precisamente un mese fa, a distanza di diversi anni e senza alcuna novità sulla sua posizione, era stato arrestato il suo compagno, Massimo Papini, per partecipazione a banda armata. La sola cosa di cui è accusato è l’uso di schede telefoniche ‘dedicate’ alle comunicazioni con la Blefari e il possesso di programmi di criptazione per computer simili a quelli usati da altri appartenenti delle Br-Pcc.
La condizione psichica di Diana Blefari era già pesantemente segnata, come aveva più volte dichiarato il direttore del carcere di Sollicciano dove era detenuta in una sezione A.S.

«Il sistema carcerario italiano ha dato, ancora una volta, l’ennesima dimostrazione di inumanità e inefficienza non riuscendo a cogliere i segnali di allarme di una situazione da tempo gravissima», dice il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni commentando il suicidio della brigatista. Il Garante ha ricordato che due anni fa, nel novembre del 2007, aveva già denunciato pubblicamente il caso della Belfari Melazzi soggetto schizofrenico e inabile psichicamente, figlia di madre con la stessa malattia e morta suicida. «I precedenti familiari della donna – ha spiegato – le sue condizioni psichiche in tutto il periodo di detenzione, il suo comportamento quotidiano, la sua solitudine, il suo rifiuto del cibo, delle medicine e di ogni contatto umano contribuivano a tratteggiare un quadro complessivo che doveva necessariamente far scattare un campanello d’allarme che, evidentemente, non si è attivato in tempo. Evidentemente  il fatto che dopo gli allarmi sia stato declassato il regime dal 41 bis a detenuta comune non ha comunque aiutato questa donna che ha continuato a tenere un atteggiamento di totale chiusura verso tutto e verso tutti. A quanto sembra, nei giorni scorsi era stata fatta tornare da Sollicciano per sentirsi confermare la sentenza. Io credo che, fermo restando le sue responsabilità, questa donna dovesse essere curata e assistita lontano dal carcere».

# Il suicidio nel carcere di Rebibbia di Diana Blefari Melazzi non ci coglie di sorpresa. Lo afferma in un comunicato stampa. Giulio Petrilli, responsabile provinciale Pd dipartimento diritti e garanzie, il quale ricorda:«sollevai il suo caso insieme ad altre persone(deputati, consiglieri regionali, esponenti di partito) in quanto in una visita con dei parlamentari nel carcere de L’Aquila dove era detenuta più di due anni fa, ci rendemmo conto della gravità del suo stato di salute; non mangiava, non parlava con nessuno, non si alzava dal letto, questo per mesi interi. Abbiamo fatto di tutto per farla trasferire, dopo alcuni mesi fu trasferita al centro clinico psichiatrico di Sollicciano, poi a Roma dove oggi si è suicidata. Era palese che avesse una forma gravissima di depressione, non poteva stare in regime di 41 bis o regimi speciali. Fu richiesta una soluzione che allievasse questa situazione, un intervento umanitario. Ma niente. Così purtroppo si muore nelle carceri. La democrazia e il diritto devono vigere anche nelle carceri e valere anche per chi ha commesso gravissimi reati, questa è la forza dello stato di diritto». 

Non toccavo questo blog da più di dieci giorni…torno in Italia e scopro di Stefano Cucchi con immenso ritardo e angoscia… non faccio in tempo a mettermi a scrivere qualcosa per aggiornare queste pagine su di lui che arriva questa notizia.Sono senza parole… 

Intervista a Tarso Genro sull’asilo politico a Cesare Battisti

11 ottobre 2009 Lascia un commento

«Anni 70 in Italia, giustizia d’eccezione non fascismo»
di Paolo Persichetti, Liberazione 11 ottobre 2009

tarsogenro1Quando nel gennaio scorso il ministro della Giustizia brasiliana, Tarso Genro, concesse l’asilo politico a Cesare Battisti, una reazione carica di astio coprì la sua decisione. Dai vertici istituzionali, sui media, dalla magistratura, senza mai veramente controargomentare vennero risposte spesso fuori dalle righe. Addirittura nel corso di una cerimonia, il ministro della Difesa Ignazio La Russa, rivolto carabinieri, disse: «se ci potesse essere un gruppetto che vuole andare in Brasile…». Oggi, per la prima volta, il guardasigilli brasiliano si spiega su un quotidiano italiano. Lo fa estesamente e con molta pacatezza. Evita le riposte polemiche. Tempo fa, Armando Spataro, il pm milanese che condusse l’inchiesta contro i Pac, noto per essere uno dei cuori di pietra dell’emergenza, domandò ai giudici brasiliani di «decidere col cuore». In Brasile, a leggere questa intervista, pare che continuino a preferire il Diritto, la Filosofia, la Storia.

Quali sono le fonti giuridiche della sua decisione di concedere l’asilo a Cesare Battisti?

Il Brasile ha sottoscritto la convenzione sullo Statuto dei rifugiati del 1951 e il Protocollo del 1967, che amplia la possibilità di riconoscimento dello status di rifugiato anche per fatti diversi da quelli accaduti fino al 1951, e legati alla seconda guerra mondiale.
Nella legislazione brasiliana, la mia decisione trova sostegno nella Legge n. 9.474 del 1997, che disciplina il riconoscimento della condizione di rifugiato. Questa legge riconosce l’asilo ad ogni persona che, a causa di fondati timori di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, gruppo sociale od opinioni politiche, si trovi fuori dal suo paese di origine e non possa o non voglia avvalersi della protezione di tale paese. Sempre secondo questa legge, il ministro della Giustizia è l’istanza di ricorso nella concessioni dell’asilo e la sua decisione è inappellabile.
Inoltre, considerando che la carta delle Nazioni unite e la Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo affermano il principio secondo il quale gli esseri umani senza distinzione alcuna debbano godere dei diritti e delle libertà fondamentali, e che gli stessi principi sono riconosciuti dalla Costituzione brasiliana, ritengo che la mia decisione sia ampiamente fondata.

Nel testo in cui lei concede l’asilo politico cita importanti autori nel campo della filosofia politica e del dirittocesare-copycostituzionale, come Norberto Bobbio, Carl Schmitt, Jurgen Habermas, il sociologo Laurent Mucchielli. Si dilunga con un’analisi molto dettagliata sulla particolare natura dello stato d’eccezione che è venuto a crearsi. Una disamina che assomiglia, per taluni aspetti, alle analisi condotte dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga nel 1991, quando avviò la procedura di grazia (poi bloccata) a Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate rosse. Gran parte delle obiezioni che si sono levate contro le sue argomentazioni riguardano i passaggi sui «poteri occulti», citazione di Norberto Bobbio. I suoi argomenti, tutt’altro che grossolani e affrettati, sono stati stravolti fino ad accusarla di aver definito l’Italia degli anni 70 una dittatura fascista. Può spiegare meglio cosa intendeva?

Non ho mai definito l’Italia degli anni 70 un regime dittatoriale o fascista. I fatti da me richiamati sono pubblici e ampiamente argomentati dagli autori sopracitati. Ho sostenuto invece la legittimità della reazione dello Stato di diritto italiano di fronte ad una situazione storica di rivolta sociale. Quella reazione venneportata avanti applicando le norme giuridiche in vigore all’epoca. Tuttavia è impossibile negare che avvenne anche ricorrendo alla creazione di un regime di eccezioni che ha ridotto le prerogative di difesa degli accusati di sovversione o di azioni violente. L’introduzione del “pentitismo remunerato” è un esempio di queste eccezioni restrittive del diritto di difesa, e, nel caso in questione, fu la base principale della condanna di Cesare Battisti. Inoltre è notorio che i meccanismi di funzionamento dell’eccezione operarono, a quell’epoca, anche fuori dalle regole della stessa eccezionalità prevista dalla legge. Circostanza che suscitò ripercussioni in diversi paesi, anche fuori dall’Europa, che per questo concessero asilo politico ad attivisti italiani, e che spinse organismi internazionali che si occupano dei diritti umani, come Amnesty International e il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti, a elaborare dei rapporti su quanto accadeva.

La decisione del presidente Lula di nominare il giurista José Antonio Dias Toffoli nuovo giudice del Supremo tribunal federal al posto di Carlos Alberto Menezes Direito, deceduto il primo settembre, ha suscitato polemiche perché considerato vicino al Pt (partito del presidente ndr). Secondo i critici, questa nomina modificherebbe gli equilibri interni al tribunale a ridosso di un voto controverso, come quello sul caso Battisti. E’ vero?

L’indicazione di un nome per ricoprire l’incarico nel Stf suscita sempre polemiche. E’ impossibile che un nome sia gradito a tutti i settori politici. E’ però una prerogativa attribuita dalla Costituzione al Presidente della Repubblica. Lo stesso presidente del Stf, Gilmar Mendes, ha dichiarato che Toffoli è una persona “qualificata” per divenire componente della Corte, e che ha “un buon dialogo nel tribunale”. L’indicazione attuale non provocherà cambiamenti significativi nell’equilibrio interno della corte. Il Presidente Lula ha già designato in passato 8 ministri del Tribunale, il che non significa che ciò gli permetta una qualsiasi ingerenza nel lavoro del Stf. Perché mai la designazione di Toffoli dovrebbe avere conseguenze diverse dalle precedenti? Anche Menezes Direito era stato designato dal Presidente Lula, eppure allora nessuno sollevava critiche.

Battisti_arrestofurgoneLa stampa di destra, riprendendo un’opinione del presidente del Tribunale Gilmar Mendes, ha sostenuto che Toffoli difficilmente potrà votare sul caso Battisti perché non ha assistito fin dall’inizio alla discussione. Cosa dice la legge in proposito?

Fino alla nomina al Stf Toffoli ha esercitato il ruolo di avvocato generale dell’Unione. Vi potrà essere un impedimento a votare solo sull’eccezione di incostituzionalità, poiché l’Avvocatura generale si è espressa in proposito. Ma nel processo di estradizione non esiste nessun ostacolo alla sua partecipazione.

In caso di parità tra i voti dei Ministri all’interno del Tsf, cosa succede?

Sarà il presidente della corte ad esprimere il voto decisivo.

Secondo il presidente del Tsf, Gilmar Mendes, è il Tribunale e non l’Esecutivo che deve dire l’ultima parola sulla procedura di estradizione. A suo avviso è corretta questa interpretazione? E’ in corso un conflitto istituzionale?

In concreto, l’estradizione rappresenta la proiezione del diritto di punire di uno Stato sul territorio di un altro Stato. Proprio per questo suo costituire un atto di disposizione sulla propria sovranità, si tratta di un fatto politico, e dunque di competenza del capo del potere esecutivo, che è il legittimo rappresentante del paese negli affari internazionali. Ciò non è una novità nel Diritto: né di quello brasiliano, né di quello straniero. Anche l’Italia possiede un sistema simile. Il procedimento esaminato dal Tsf è diviso in due fasi distinte. Una giudiziaria, dove il Tribunale funziona come garante dei diritti individuali della persona richiesta per l’estradizione, e verifica la possibilità giuridica di mandare avanti la procedura di estradizione. E’ una fase di autorizzazione, in cui la decisione è senza dubbio di competenza del tribunale. La decisione finale, invece, è di competenza dell’autorità amministrativa. Conseguenza del potere politico conferito dal voto al suo rappresentante, eletto anche per rappresentare il paese nelle sue relazioni esterne.

Il procuratore generale Antonio Fernando De Souza, che pure nell’aprile 2008 si era detto favorevole all’estradizione di Battisti, a patto che l’Italia commutasse la pena dell’ergastolo a 30 anni, aveva riconosciuto che la concessione dell’asilo estingueva la procedura d’estradizione. Il presidente del Tsf, Gilmar Mendes, ha ritenuto il contrario. Esiste una diversità di vedute anche all’interno del mondo giudiziario?brasile_bandiera

Nel mondo giuridico ci saranno sempre divergenze interpretative. Tuttavia la posizione del Procuratore generale non è una interpretazione isolata.Corrisponde al giudizio dei più capaci giuristi del nostro paese e fa parte della tradizione giuridica del nostro paese. Ciò che sorprende. in questo caso, è l’incompatibilità tra questa decisione e la giurisprudenza precedente del Stf. Ad esempio, nel caso Medina (esponente delle Farc), dove la richiesta di estradizione da parte del governo colombiano venne estinta dalla concessione dell’asilo.

Se, come ha detto il relatore Cesar Peluso nella sua requisitoria, la legge del 1997, che attribuisce al potere politico il compito di concedere l’asilo politico, è corretta, perché la corte pretende di sindacare nel merito della singola concessione?

La verifica di merito da parte di un altro potere costituisce senz’altro un danno al regime costituzionale della separazione dei poteri.

In Brasile, la vicenda Battisti non corre il rischio di favorire un’offensiva del potere giudiziario contro quello politico-elettivo? In Italia, la supplenza giudiziaria concessa dal potere politico alla magistratura sul finire degli anni 70, per combattere la sovversione politica della sinistra armata, si è poi trasformata in una “interferenza” teorizzata dagli stessi giudici, autoinvestitisi “nuovo soggetto” politico negli anni 90, fino a paventare scenari di «democrazia giudiziaria», di «repubblica penale», per dirla con Antoine Garapon. C’è il rischio che in Brasile si arrivi ad uno scenario simile?

La Costituzione del 1988 garantisce un ampio ricorso al potere giudiziario. La giudiziarizzazione è un fenomeno interessante perché promuove un ampio dibattito pubblico su temi importanti. Ovviamente c’è sempre il rischio di cadere in una giudiziarizzazione della politica, cosa che non sarebbe salutare. Però non credo che questo processo sia in corso. Il Brasile è una democrazia recente, e ancora in fase di maturazione, ma avanziamo rapidamente nel consolidamento delle nostre istituzioni.

Estradizioni: il diritto virtuale italiano

16 settembre 2009 5 commenti

di Valentina Perniciaro, L’Altro 16 Settembre 2009

Le uniche volte che il nostro paese è riuscito a prendere alcuni dei militanti della lotta armata riparati all’estero, ciò è avvenuto solo grazie alla frode, ad accordi sottobanco, a manovre che hanno aggirato leggi e trattati internazionali.
Nell’1987-88 tre militanti accusati di partecipazione a banda armata arrivarono dopo una poco chiara triangolazione con Spagna e Francia, dove in quel momento Mitterrand affrontava la sua prima coabitazione e ministro dell’Interno, coautore dell’intera operazione insieme a quello italiano, era Charles Pasqua. Personaggio noto per gli intrighi e i metodi spicci affidati ad operazioni coperte dei servizi. Allora la Francia espulse in Spagna i tre italiani, richiesti dalla nostra magistratura per una processo in corso nell’aula bunker di Rebibbia.

Cesare Battisti

Cesare Battisti

Nel Frattempo la Spagna aveva negoziato lo scambio dei tre con quello di un militante basco accusato di appartenere all’Eta e da mesi detenuto Rebibbia. In questo modo non solo venne aggirata la dottrina Mitterrand ma lo stesso trattato che regolava la materia delle estradizioni tra paesi europei. Ai tre, per fortuna, andò bene perché nel corso dei processi le loro posizioni si alleggerirono. Alla fine scontarono “solo” alcuni anni di detenzione preventiva.
Non è stato così per la prima “estradizione” diretta dalla Francia, quella di Paolo Persichetti nell’agosto 2002. Un polverone mediatico accompagnò l’episodio, volgarmente festeggiato con un brindisi a villa Certosa da Berlusconi e i suoi sodali durante una cena in cui era presente anche mamma Rosa. All’annuncio, dato via telefono dall’allora capo della polizia De Gennaro al ministro degli Interni Beppe Pisanu presente alla festa, si levò un coro di applausi e qualcuno invitò a levare i bicchieri in aria per brindare alla caccia riuscita. Non si trattava di un’estradizione realizzata secondo i crismi dei trattati europei ma di una consegna speciale. Erano gli anni in cui a livello internazionale era entrata in voga la prassi delle extraordinary rendition e da noi Cia e Sismi rapivano Abu Omar, l’Iman di via Quaranta a Milano mentre funzionava a pieno regime l’agenzia di disinformazione di Pio Pompa.

Persichetti il giorno del "rapimento"

Persichetti il giorno del "rapimento"

Il vecchio decreto d’estradizione che pesava sulla testa di Persichetti, firmato nel 1994 dal primo ministro francese Balladur nel corso della seconda coabitazione (destra al governo e il socialista Mitterrand all’Eliseo), non era più valido perché due delle tre condanne inflitte erano prescritte. Per riaverlo l’Italia imbastì un’enorme montatura giudiziaria esportando a Parigi la pista investigativa che avrebbe dovuto condurre a scoprire gli autori dell’attentato mortale contro Marco Biagi, avvenuto pochi mesi prima. Gli investigatori bolognesi crearono di sana pianta la «pista francese», una pesante campagna stampa venne orientata contro gli esuli ritenuti gli animatori del «santuario parigino della lotta armata». Non c’era nulla di vero. Semmai a Parigi c’era la centrale politica dell’amnistia, una spina nel fianco da sempre mal sopportata dalle autorità e dalla magistratura italiana. Arrestato in serata, nel corso della notte Persichetti venne trasferito e consegnato all’alba sotto il tunnel del Monte Bianco. Viste le accuse indicate nelle rogatorie internazionali e l’inchiesta sull’attentato Biagi che l’aspettava in Italia, Persichetti avrebbe avuto il diritto di dimostrare la propria estraneità nel corso di una regolare nuova procedura di estradizione, che mai ci fu.
Nel 2004 fu il turno di Rita Algranati e Maurizio Falessi, riparati da anni in Algeria. Vennero consegnati via il Cairo alla Digos dopo un accordo con i servizi algerini. Nessuna procedura d’estradizione, nessun giudice ha mai valutato se le pretese italiane fossero fondate, le accuse di natura politica o meno, i processi coretti. Nessun timbro o decreto ha mai sancito e reso legale quell’episodio. Fu un atto di pirateria internazionale, un’azione di contrabbando di vite umane. Presi e caricati a forza su un volo diretto in un paese terzo, ad attenderli trovarono le autorità italiane che preventivamente avevano concordato il tutto. Per giunta dopo un anno di carcere le condanne di Falessi risultarono prescritte.

Rita Algranati il giorno del suo di rapimento

Rita Algranati il giorno del suo di rapimento

È arrivata poi la vicenda Battisti. Prima in Francia, dove il grosso della battaglia giudiziaria ruotò attorno alla contumacia. La tesi italiana era che questa non inficiava minimamente il diritto alla difesa, soprattutto perché a detta degli italiani Battisti aveva comunque nominato dalla latitanza un legale di fiducia. In realtà uno dei primi avvocati di Battisti venne arrestato per un certo periodo, mentre la nomina del secondo, si è poi accertato, era frutto di un falso. Tuttavia ancora non bastava. Bisognava convincere i giudici di una chambre d’accusation, che seppur ben disposti erano comunque vincolati da leggi e giurisprudenza. Alla fine l’Italia strappò l’avviso favorevole sulla base di una promessa, il varo di una legge che avrebbe consentito alle persone condannate in contumacia di chiedere la riapertura del processo. Non si era mai visto che qualcuno venisse estradato in virtù di una legge che non ancora c’era. Era l’inizio del diritto virtuale all’italiana, la giustizia creativa che seguiva il solco delle evoluzioni della finanza. In effetti, una modifica derisoria dell’articolo 175 del codice di procedura venne poi introdotta, ma questa non ha mai previsto automatismi. È rimasto sempre un collegio di giudici a vagliarne la pertinenza. Così la Francia concesse l’estradizione sulla base dell’ennesimo raggiro: la promessa della riapertura di un processo che non sarebbe mai venuto, prova ne è il fatto che di fronte al Supremo tribunale brasiliano si discute d’ergastolo. Il Brasile ne chiede la commutazione, l’Italia risponde che non ce n’è bisogno perché si tratterebbe di una «pena virtuale». Ma il Brasile si farà fregare come la Francia?

Caso Battisti: ora l’Italia si inventa l’ergastolo “virtuale”

11 settembre 2009 Lascia un commento

Dopo otto mesi di stallo il “caso Battisti” è approdato nelle aule del Supremo tribunale federale brasiliano, equivalente alla nostre Corte Costituzionale. Su richiesta del governo italiano, nove magistrati dovranno pronunciarsi per decidere se sospendere o meno l’asilo politico concesso a gennaio a Cesare Battisti, ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo condannato in contumacia all’ergastolo per quattro omicidi, dal ministro della giustizia brasiliano Tarso Gendro. Il dibattimento non ha portato alla sentenza come ci si aspettava, ma ad una richiesta di sospensione che dia il tempo di esaminare ulteriormente le carte. A data da destinarsi, quindi.battisti_processo
Cesare Battisti non era presente in aula, al contrario del rappresentante del ministero di Grazia e Giustizia Italo Ormanni e dell’ambasciatore italiano in Brasile.
Dovessimo prender per buone le parole e l’enfasi della stampa italiana, immagineremmo già Cesare Battisti su un volo per l’Italia, con solide manette ai polsi. Urlano tutti giulivi, starnazzano ad un’estradizione praticamente ottenuta quando la realtà è chiaramente diversa e rivela una partita aperta, ancora tutta da giocare. Degli undici membri originari del Supremo tribunale federale saranno solamente nove quelli a votare: Meneses Direito è infatti scomparso da pochi giorni mentre Cesar de Melo ha deciso di astenersi su questo specifico caso. Dei nove magistrati sono stati otto ad essersi già pronunciati .Quattro a favore della richiesta italiana tra cui il giudice relatore Cezar Peluso, ed altri quattro hanno difeso la concessione dello status di rifugiato politico. Marco Aurelio de Mello, l’ultimo a dichiararsi pro-asilo politico ha fatto richiesta di sospendere il processo.

amnistiaQuello che la stampa italiana tende a non sottolineare e quasi ad occultare completamente è che anche i giudici che hanno votato per l’estradizione, hanno posto delle clausole che non saranno molto facili da gestire per il governo italiano. L’Italia fino a questo momento ha recitato la parte dello spettatore rumoroso ed arrogante; senza dover muovere alcun passo è stata a guardare con polemiche dai toni medievali e dagli atteggiamenti spesso razzisti a cui ormai stanno tentando di abituarci. Ma se l’Italia dovesse vincere questa prima battaglia si troverebbe comunque non poco in difficoltà per riuscire a sottostare alle leggi internazionali.
Cezar Peluso, giudice relatore, quello che con più enfasi ha dichiarato di esser favorevole a veder tornare Battisti in Italia ha però posto come requisito minimo che l’ergastolo venga commutato ad una pena non superiore ai trent’anni, visto che in Brasile è stato abolito.

Ieri il ministro degli Esteri Franco Frattini è riuscito a dichiarare: “Spero che la decisione tenga conto del fatto che l’Europa è la culla dei diritti fondamentali e che se accadesse che un cittadino europeo fosse ritenuto rifugiato fuori dall’Europa significherebbe smentire che l’Europa ha una Carta dei diritti fondamentali e che ovviamente nessuno qui può essere torturato, perseguitato, né trattato indegnamente.”
Forse non è stato mai informato delle condizioni che vivono i detenuti in Italia, schiacciati da un sovraffollamento unico in Europa e dalle discriminazioni razziali ormai sancite con il nuovo pacchetto sicurezza, testo di legge che dovrebbe almeno farci stare silenziosi su come “trattiamo degnamente” le persone.

C’è una differenza di fondo tra il Brasile e questo nostro starnazzante paese:brasile_bandiera
nel rovesciare la dittatura , loro, hanno rivoluzionato anche il sistema penale, abolendo la pena di morte e l’ergastolo perché non rispettosi dei diritti umani fondamentali. E’ incostituzionale una condanna che porti scritto sopra “Fine Pena Mai”, è inconcepibile la ghigliottina legalizzata che nella nostra società appare così normale. Ma d’altronde siamo un paese che, nel rovesciare la propria dittatura, non ha sentito l’esigenza di cambiare anche il proprio codice penale: i nostri giudici sentenziano tuttora con il Codice Rocco tra le mani, non c’è altro da dire.

Commutare l’ergastolo di Battisti con una pena inferiore ai trent’anni. Come faranno? Se riuscissero ad ottenere la sua estradizione si riaprirebbero le richieste anche per tutti gli altri militanti della lotta armata italiana rifugiati per la maggior parte in Francia, di cui molti ergastolani.
Tolgono l’ergastolo a tutti?
E chi, e non sono pochissimi, tra gli ex militanti delle Brigate Rosse sta ancora scontando la pena dopo 32 anni di carcerazione? Anche i loro di ergastoli cancelliamo o continueremo a non concedergli nemmeno la condizionale?
Ministri e deputati, giudici e magistrati,  giornalisti e parolai che già cantano vittoria in attesa di brindare attorno al nuovo corpo in catene che rientra in patria, inizino a pensare come gestire questo cavillo non da poco posto dai colleghi sudamericani.

di Valentina Perniciaro (malgrado sia stato scritto Valentina Baruda eheheeh), L’altro 11 settembre 2009

Poche ore alla sentenza Battisti

9 settembre 2009 Lascia un commento

battisti_arrestoSi è aperto poche ore fa il dibattimento sul caso Cesare Battisti a Brasilia, di fronte al Supremo Tribunale del Brasile (STF) che dee pronunciarsi sul ricorso presentato dall’Italia contro la concessione dell’asilo politico all’ex militante dei PAC (proletari armati per il comunismo) per cui è stata invece chiesta l’estradizione. Cesare non è presente in aula, al contrario di un rappresentante del ministero di Grazia e Giustizia italiano, Italo Ormanni e l’ambasciatore italiano a Brasilia Gherardo La Francesca.
Il ministro della giustizia  Tarso Gendro ha ribadito questa mattina la sua posizione a riguardo, augurandosi che sia mantenuta la giurisprudenza in vigore, sulla quale lui aveva basato la concessione dell’asilo politico.
Cosa che ci auguriamo tutti… anche il Procuratore generale del Brasile, Roberto Gurgel, ha affermato che la decisione del ministro della Giustizia Genro di concedere l’asilo politico a Battisti «è fondata sulla Costituzione, le leggi e i trattati internazionali».
IN BOCCA AL LUPO!

Un bell’articolo su Vincenzo Guagliardo e Nadia Ponti

16 luglio 2009 1 commento

TRANQUILLI! VINCENZO GUAGLIARDO DOPO 33 ANNI RESTA IN CARCERE
di Mario Dellacqua
“Il mondo di None” 6/7 GIUGNO-LUGLIO 2009
Mensile di None TO

Questa storia non mi da pace, non interessa quasi nessuno e non ci posso fare niente. Quando Vincenzo Guagliardo è sparito nella lotta armata, non me ne sono accorto. Ero distratto. Quando ne è uscito passando attraverso il carcere –ora sono una vita di 33 anni –  ero ancora più distratto e le sue foto sul giornale dietro le sbarre smuovevano al massimo la mia curiosità, ma finiva lì. Poi vennero i suoi libri. Li ho letti e ne ho parlato su queste ospitali colonne. Venne anche la dimessa lotta solitaria, sua e di sua moglie Nadia Ponti, per ottenere il diritto all’affettività in carcere, condotta con implacabile serenità, anche a costo di rinunciare ai benefici di una legislazione che premiava i detenuti a condizione che esprimessero atti di contrizione, esibizioni pubbliche di pentimento, richieste spettacolari di perdono. La giustizia italiana non concesse i benefici e neppure l’affettività, perché l’umanità del trattamento carcerario prescritta dalla Costituzione si accontenta di considerare i detenuti ancor meno di animali rinchiusi in uno zoo.stor_8048937_30030

Vincenzo e Nadia continuarono a rivendicare la loro dignità di persone senza pretese e rifiutarono persino di tentare la via della spettacolarizzazione massmediatica del loro caso. Scelsero la via del silenzio che reputarono la forma di mediazione più consona alla tragedia della quale erano stati corresponsabili.

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Vincenzo Guagliardo durante un processo

Perciò i giudici del Tribunale di Sorveglianza di Roma respinsero nel settembre scorso la prima istanza di liberazione condizionale: Guagliardo era colpevole della “scelta consapevole di non prendere contatti con i familiari delle vittime”.
Ma un incontro era avvenuto nel 2005, come Sabina Rossa ha testimoniato in un libro uscito ben prima che la figlia dell’operaio comunista ucciso a Genova nel 1979 diventasse parlamentare del PD.
Semplicemente avvenne senza chiamare Bruno Vespa (senza la benedizione televisiva del quale anche i fatti accaduti sono revocati), perché Vincenzo e Nadia non volevano che un così drammatico faccia a faccia apparisse “merce strumentale a interessi individuali, simulazione e perciò ulteriore offesa.”
L’onorevole Rossa, anzi, si rivolse spontaneamente al magistrato di sorveglianza, riferì dell’avvenuto colloquio, chiese la liberazione dei due detenuti e presentò addirittura una proposta di legge che non subordinava la concessione della condizionale alla imponderabile verifica pubblica della sfera interiore del detenuto come prova dell’autenticità del ravvedimento. Ma i giudici non si sono accontentati e ad aprile hanno respinto per la seconda volta la richiesta di Guagliardo. Non bastano più i contatti con le persone offese: ora si decide che essi assumono “valenza determinante” solo se “accompagnati dall’esternazione sincera e disinteressata”. Poco importa se Sabina Rossa, la figlia della vittima, ha chiesto la liberazione del condannato all’ergastolo dopo 33 anni di carcere: la sua è una “manifestazione isolata non rappresentativa delle persone offese”.
Anche noi anarchici siamo tenuti a rispettare la giustizia e le sentenze di uno Stato che non amiamo, ma nessuno ci toglierà dalla testa che “il tema del perdono –come scrive il giornale comunista Liberazione del 15 aprile scorso – o meglio la mediazione riparatrice o riconciliatrice, attiene alla sfera privata, non a quella dello Stato.” Lo Stato democratico, se non vuole diventare Stato etico, non dovrebbe spoliticizzare il pubblico e politicizzare il privato: piuttosto dovrebbe, come stabilisce la Costituzione, misurare se le pene inflitte – che non devono essere contrarie al senso di umanità – hanno raggiunto l’obiettivo della rieducazione del condannato al quale devono sempre tendere (art. 27).

La lotta di Nadia e Vincenzo continua con esemplare e magistrale serenità: essa non cancella l’inamovibile tormento, ma lo scioglie e lo distribuisce sotto forma di una domanda e di un’offerta di umanità che colpisce e turba anche i distratti come me, sempre impegnati in cose più importanti, che non so quanto siano effettivamente più importanti.

Ballata per una prigioniera

26 Maggio 2009 3 commenti

Era pericolosocarcere_blindato
lasciarle mani franche
senza ferri avvitati intorno ai polsi
quando rivide spazio,alberi,strade,
al cimitero dove
portavano suo padre.
Dieci anni già scontati,
ma contarli non serve,
l’ergastolo non scade ,
più vivi più ci resti.

Era pericoloso
permetterle gli abbracci,
e da regolamento
è escluso ogni contatto.
Era pericoloso2550_67020283277_618018277_2260865_426553_n
il lutto dei parenti,
di fronte al padre morto
potevano tentare
chissà di liberare
la figlia irrigidita,
solo per pareggiare
la morte con la vita.

Spettacolo mancato
la guerriera in singhiozzi,
ma chi è legato ai polsi
non può sciogliere gli occhi.Marina6
Per affacciarsi,lacrime e sorrisi,
debbono avere un pò di intimità
perchè sono selvatici,non sanno
nascere in cattività.

<<Non si è più stati insieme,vero,babbo?
Prima la lotta,gli anni clandestini,
neppure una telefonata per Natale,
poi il carcere speciale, la tua faccia
rivista dietro il vetro divisorio,
intimidita prima, poi spavalda
e con una scrollata delle spalle
dicevi: ”muri, vetri, sbarre, guardie,
non bastano a staccarci,
io sto dalla tua parte
anche senza toccarti,
anzi, guarda che faccio,
metto le mani in tasca”
Porta pazienza babbo, anche stavolta
non posso accarezzarti
tra i miei guardiani e i ferri.
Però grazie: di avermi fatto uscire
stamattina,di un gruzzolo di ore
di pena da scontare all’aria aperta>>.

Ora la puoi incontrareamnistia
la sera quando torna
a via Bartolo Longo,
prigione di Rebibbia
domicilio dei vinti
di una guerra finita,
residenza perpetua
degli sconfitti a vita.
Attravesa la strada,non si gira,
compagna Luna,antica prigioniera
che s’arrende alle sbarre della sera.

Erri De Luca, Ballata per una prigioniera

DEDICATO A TUTTI QUELLI CHE LA SERA, E POI DI NUOVO OGNI MATTINA, ANIMANO IL GRIGIO DI VIA BARTOLO LONGO, FACENDO USCIRE I PROPRI SORRISI AL SOLE DAL BLU DI QUELLA PORTA MALEDETTA.

Dai detenuti della casa di reclusione di Padova

13 Maggio 2009 Lascia un commento

 Ristretti Orizzonti, 12 maggio 2009

Il sovraffollamento delle carceri si fa sentire pesantemente anche alla Casa di Reclusione di Padova: creata per condannati a pene lunghissime ed ergastolani, ha solamente celle “singole” (8 metri quadri), che avrebbero dovuto consentire una detenzione meno gravosa per questa tipologia di detenuti e una gestione migliore della sicurezza da parte degli agenti. In realtà le celle “pensate” per una sola persona sono state subito occupate da 2 “inquilini” ed oggi ci è arrivata la notizia dell’aggiunta di una “terza branda”. Una situazione per la quale i detenuti hanno deciso una serie di “azioni dimostrative”, a partire da venerdì prossimo: rifiuto del vitto dell’amministrazione, sciopero della fame e “battitura” delle porte blindate. 
Lo rendono noto in una lettera indirizzata a Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Direzione del carcere, nella quale denunciano la “sopraffazione psico-fisica subita con l’istallazione della terza branda, in celle singole che mal si adattavano a due persone”.
Protesta avvalorata anche dal parere del Dirigente Sanitario del carcere, che riterrebbe le celle di 8 mq inadatte “per una normale convivenza di tre persone, specialmente in prossimità di temperature che in estate raggiungeranno facilmente i 40 gradi”.
I detenuti concludono appellandosi alle autorità competenti perché “vogliano prendere coscienza della situazione a dir poco drammatica di chi vive sulla propria pelle, quotidianamente, l’insufficienza d’aria, di igiene e di spazio”.
La Casa di Reclusione di Padova, costruita per 350 detenuti, ne “ospita” stabilmente oltre 700 e l’aggiunta della terza branda nelle celle lascia presagire che il numero è destinato molto presto ad aumentare, probabilmente nel tentativo di decongestionare le sovraffollate Case Circondariali della Regione: nel Veneto i carcerati sono oltre 3.100, mentre i posti-branda sono appena 1.900… in altre parole ogni 100 posti ci sono 162 detenuti.

 ECCO LA LETTERA DEI DETENUTI: 
lettera_detenuti 

Ancora un rigetto per Guagliardo, dopo 33 anni

14 aprile 2009 3 commenti

IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI ROMA RIGETTA LA RICHIESTA DI LIBERTA’ CONDIZIONALE A VINCENZO GUARGLIARDO DOPO 33 ANNI DI CARCERE CON UNA SENTENZA PIENA DI ODIO E ACCANIMENTO.

I giudici del tribunale di sorveglianza di Roma hanno nuovamente respinto la concessione della liberazione condizionale a Vincenzo Guagliardo, 33 anni di carcere oggi e prima una vita da operaio, anzi da migrante di ritorno. Nato in Tunisia nel 1948 da padre italiano, entra a lavorare in Fiat poco prima che esploda il “biennio rosso” del 1968-69 ma è subito licenziato per il suo attivismo sindacale. Approda quindi alla Magneti Marelli dove sarà uno dei quadri operai di fabbrica protagonisti di una delle più importanti stagioni di lotta. Esponente del nucleo storico delle Brigate rosse partecipa nel gennaio 1979

Vincenzo Guagliardo nel dicembre 1980

Vincenzo Guagliardo nel dicembre 1980

all’azione contro Guido Rossa, il militante del Pci ucciso perché aveva denunciato un altro operaio dell’Italsider di Cornigliano che distribuiva opuscoli delle Br. Per questo e altri episodi sconta l’ergastolo.
Eppure questa volta, anche se in modo sofferto, il pubblico ministero non si era opposto alla richiesta. Nel settembre scorso, i magistrati pur riconoscendo la positività del «percorso trattamentale» compiuto avevano contestato a Guagliardo «la scelta consapevole di non prendere contatti con i familiari delle vittime reputando il silenzio la forma di mediazione più consona alla tragicità della quale si è macchiato». Decisione che suscitò la viva reazione di Sabina Rossa, figlia del sindacalista ucciso e oggi parlamentare del Pd, che in un libro aveva narrato proprio l’incontro avuto nel 2005 con Guagliardo e sua moglie, Nadia Ponti, anche lei con alcuni ergastoli sulle spalle per la passata militanza nelle Br. La Rossa chiese pubblicamente la loro liberazione. Contrariamente a quanto sostenuto dai magistrati nella loro ordinanza, infatti, i due non si erano per nulla sottratti alla sua richiesta d’incontro, ma non avevano mai ufficializzato l’episodio nel fascicolo del tribunale. Un atteggiamento dettato dal rifiuto di qualsiasi ricompensa e perché il faccia a faccia non apparisse «merce strumentale a interessi individuali, simulazione e perciò ulteriore offesa».

 

Tuttavia la vicenda era nota. Il libro era stato recensito ovunque e la parlamentare del Pd aveva raccontato l’episodio in diverse trasmissioni televisive di grande ascolto. Solo il collegio del tribunale né era rimasto all’oscuro. Circostanza che solleva non pochi interrogativi sulla preparazione di molti magistrati, sul loro essere presenti al mondo che li circonda. Sembra quasi che alcuni di loro interpretino la professione sulla base della dottrina tolemaica delle sfere celesti. Autoinvestitisi centro dell’universo e dello scibile, la realtà pare esistere solo se passa sulle loro scrivanie, la vita che scorre altrove non esiste.
Per evitare ulteriori equivoci, Sabina Rossa si recò di persona dal magistrato di sorveglianza per dare la propria testimonianza. Da alcuni anni i tribunali ritengono la ricerca di contatto tra condannati e parti lese la prova dell’avvenuto ravvedimento richiesto dalla legge. Un’interpretazione giurisprudenziale rimessa in discussione anche da recenti pronunciamenti della cassazione e contestata da molti familiari delle vittime. Mario Calabresi ne ha scritto nel suo libro, Spingendo la notte più in là, «Abbiamo sempre provato fastidio quando ci veniva chiesto di dare o meno il via libera a una scarcerazione o una grazia, perché rifiutiamo questa idea medievale che i parenti di una vittima decidano della sorte di chi è ritenuto colpevole». Per evitare l’uso insincero e «strumentale da parte dei condannati», nonché «una pesante incombenza della quale le vittime non hanno certamente bisogno e che spesso va a riaprire ferite non rimarginate», la stessa Sabina Rossa ha presentato una proposta di legge che adegua al dettato dell’articolo 27 della costituzione i criteri di accesso alla condizionale, abolendo ogni riferimento all’imponderabile verifica della sfera interiore del detenuto contenuta nella richiesta di ravvedimento.
La vicenda di Vincenzo Gagliardo ha assunto così il carattere paradigmatico dello stallo in cui versa il doppio nodo irrisolto della liberazione degli ultratrentennali prigionieri politici e dell’eliminazione dell’ergastolo. Questa volta i giudici non potendo più richiamare «l’assenza di reale attenzione verso le vittime», obiettata in precedenza, hanno ulteriormente innalzato l’asticella dei criteri di verifica di quella che definiscono «concreta resipiscenza». stor_8048937_300301I «contatti con le persone offese», scrivono, «assumono valenza determinante» solo se «accompagnati dall’esternazione sincera e disinteressata». Per tale ragione «non costituisce di certo elemento di novità l’espressione di massima apertura», mostrato dalla Sabina Rossa, «trattandosi di manifestazione isolata non rappresentativa delle persone offese». In fondo questa sentenza ha il pregio di parlare chiaro, squarciando il velo d’ipocrisia costruito sul dolore delle vittime. Ai giudici interessa soltanto l’uso politico che se ne può ricavare. Con infinita immodestia si ergono a terapeuti del dolore altrui senza mancare disprezzare chi si è mosso per ridurre il loro potere arbitrario, come Sabina Rossa. Il tema del perdono, o meglio della mediazione riparatrice o riconciliatrice, attiene alla sfera privata non a quella dello Stato. Al contrario i giudici seguono un asse filosofico del tutto opposto che è quello dello Stato etico: spoliticizzare il pubblico e politicizzare il privato. La sinistra con chi sta?
____di Giorgio Ferri____

ANCHE IERI SUL CORRIERE A FIRMA DI GIOVANNI BIANCONI:
Aveva chiesto di poter uscire definitivamente dal carcere, dopo oltre trent’ anni di detenzione, come è stato concesso a quasi tutti gli altri ex terroristi condannati all’ ergastolo per le decine di omicidi commessi durante la stagione «di piombo». Lui, Vincenzo Guagliardo, sparò a Guido Rossa, l’ operaio iscritto al Pci e alla Cgil assassinato dalle Brigate rosse nel gennaio 1979. Il pubblico ministero era d’ accordo: per la legge l’ ex brigatista, già in regime di semilibertà, ha diritto a non rientrare in cella la sera. Ma il tribunale di sorveglianza ha detto no, come nello scorso settembre. E la vittima diretta di Guagliardo – Sabina Rossa, oggi deputato del Partito democratico – commenta: «E’ una vergogna, una vera ingiustizia. Lo dico con tutto il rispetto per i giudici, ma mi sembra che quest’ uomo sia ormai diventato il capro espiatorio del residuato insoluto delle leggi speciali». 2352_1050271909501_1606848852_130518_735_n
E’ una storia molto particolare, quella dell’ assassino di Guido Rossa, fra le tante di ex terroristi ergastolani ai quali, secondo una recente giurisprudenza, viene concessa la liberazione per i crimini di trent’ anni fa dopo qualche forma di contatto tra loro e i parenti delle persone uccise, come segno tangibile di contrizione e di «consapevole revisione critica delle pregresse scelte devianti»; anche solo attraverso delle lettere a cui spesso non arrivano nemmeno risposte, ma è quello che i giudici chiedono per misurare il «sicuro ravvedimento» richiesto dal codice per rimettere fuori i condannati a vita. Guagliardo, che da molti lustri ha abbandonato la lotta armata, non ha mai voluto scrivere niente perché riteneva di non avere il diritto di rivolgersi alle vittime per ottenere un beneficio in cambio; considerando, al contrario, il silenzio «la forma di mediazione più consona alla tragicità di cui mi sono macchiato». Ma quando Sabina Rossa, nel 2005, andò a cercarlo per chiedere spiegazioni e ragioni dell’ omicidio di suo padre, lui accettò l’ incontro e ci parlò a lungo, come la donna ha raccontato in un libro. L’ ex br non lo disse però ai giudici, affinché quel faccia a faccia non apparisse «merce strumentale ad interessi individuali, simulazione, e perciò ulteriore offesa» alle persone già colpite. Così arrivò il primo no alla liberazione, dopo il quale Sabina Rossa ha voluto rivolgersi direttamente al presidente del tribunale di sorveglianza per testimoniare «il ravvedimento dell’ uomo che ha sparato a mio padre; metterlo fuori, oggi, sarebbe un gesto di civiltà».
Dopo questa uscita pubblica Guagliardo ha riproposto la sua istanza, chiarendo ai giudici di essere processibr1disponibile a incontrare qualunque altro familiare di persone uccise: «Solo se lo desiderano, se non è un nostro imporci a loro. Trovo infatti legittimo che una vittima non voglia né perdonare né dialogare con chi le ha procurato un dolore dalle conseguenze irreversibili». Nell’ udienza della scorsa settimana il pubblico ministero s’ è dichiarato favorevole alla liberazione condizionale dell’ ex brigatista, ma i giudici hanno ugualmente rigettato la richiesta. Perché, hanno scritto nell’ ordinanza, chiedere che siano le vittime a sollecitare un eventuale contatto significa dare loro «carichi interiori assolutamente incomprensibili o intollerabili»; e l’ atteggiamento di Sabina Rossa è «una manifestazione isolata e certamente non rappresentativa delle posizioni delle altre e numerose persone offese». La reazione della figlia del sindacalista ammazzato dalle Br – che da deputato ha presentato un disegno di legge per modificare la norma sulla condizionale, in modo da svincolarla dal rapporto tra assassini e persone colpite – è tanto dura quanto inusuale: «Sono indignata come cittadina e come vittima. Ci sono brigatisti con molti più delitti a carico liberi da anni, senza che nessuno gli abbia chiesto nulla. C’ è troppa discrezionalità. Io credo nella giustizia, ma anche nel cambiamento degli uomini. Spero che la mia proposta di legge sia esaminata al più presto». L’ avvocato Francesco Romeo, difensore di Guagliardo insieme alla collega Caterina Calia, parla di «decisione che sembra scritta in altri secoli, da un giudice dell’ Inquisizione» e sta già preparando il ricorso alla Corte di cassazione. Giovanni Bianconi
   

 

 

Ultima settimana dello sciopero della fame contro l’ergastolo

8 marzo 2009 2 commenti

Giustizia: uno sciopero della fame per l’abolizione dell’ergastolo
di Sandro Padula Liberazione, 7 marzo 2009

Il 16 marzo sciopero della fame in tutta Italia, di ergastolani, detenuti, parenti, amici, volontari. L’ergastolo, residuo monarchico delle pene detentive italiane, fa discutere e lottare dentro e fuori le mura delle carceri della penisola. Continua infatti lo sciopero della fame degli ergastolani iniziato il primo dicembre, a staffetta e per gruppi di regioni, e proseguono le iniziative dei solidali, all’esterno delle carceri, COF04015nell’ambito della campagna per l’abolizione del “fine pena mai”. Il bollettino “Mai dire mai” del mese di febbraio, pubblicato dall’Associazione Liberarsi, e numerosi siti Internet fanno capire che la lotta è proseguita a gennaio e febbraio, trovando anche la solidarietà dentro e fuori dalle mura delle galere in Germania, Spagna, Grecia, Svizzera, Francia e Cile. In diverse città italiane si sono svolti presidi nelle vicinanze delle carceri: il 14 gennaio a Montorio (Verona), il 18 gennaio a Biella; il 24 gennaio ad Alessandria; il 29 gennaio nel borgo S. Nicola di Lecce; il 31 gennaio in via Speziale a Taranto, al quale è seguito un concerto con tre gruppi musicali (SFC, Sick Boy e No Thanx); il 14 febbraio vicino al carcere Dozza di Bologna; il 15 febbraio in via Burla 59 a Parma. Si sono altresì avuti diversi incontri e dibatti: ad esempio, il 17 gennaio presso il laboratorio sociale “La città di sotto” di Biella e il 27 gennaio nella sede di un circolo anarchico di Lecce, dove è stato proiettato il film Filaki – Una rivolta nelle carceri greche, aprile 2007. Alcuni consiglieri regionali hanno espresso la propria solidarietà alla lotta per l’abolizione dell’ergastolo anche nei mesi di gennaio e febbraio: a metà gennaio i consiglieri regionali del Frilui Venezia Giulia Stefano Pustetto e Roberto Antonaz hanno fatto visita al carcere di Tolmezzo, accompagnati da Christian De Vito e da Giuliano Capecchi dell’associazione Liberarsi, per incontrare i detenuti delle sezioni a 41 bis e i detenuti ergastolani della sezione A.S. (Alta Sorveglianza); il 3 febbraio inoltre il Consigliere regionale del Molise Michelangelo Bonomolo, accompagnato da Giuliano Capecchi, ha incontrato i detenuti ergastolani del carcere di Larino. I grandi organi di informazione, complici come sono della produzione dell’”emergenza criminalità” e della caccia al Girolimoni di turno, hanno continuato per lo più a disinteressarsi del fatto che da oltre 60 anni, come dimostra l’esistenza dell’ergastolo, l’articolo 27 della Costituzione repubblicana non è applicato in maniera effettiva. Solo da parte di alcuni giornali locali si è avuto il coraggio di fornire qualche indiretto riferimento alla lotta per l’abolizione dell’ergastolo. Domenica 25 gennaio, ad esempio, il quotidiano “Gazzetta del Sud” ha pubblicato un articolo, riguardante il carcere calabrese di Rossano, che terminava in questo modo: “in vista della protesta di carattere nazionale degli ergastolani che partirà domani e che consisterà proprio nel rifiuto del vitto… tutto il cibo cotto e pronto per la consumazione, anziché essere buttato nella spazzatura, sarà consegnato gratuitamente alla mensa della Caritas”. Qui ovviamente riportiamo fatti che ognuno è libero di considerare come meglio ritiene. Il dramma è che spesso i fatti connessi alla lotta contro l’ergastolo neanche si conoscono. Per questo non solo è utile riportarli nudi e crudi ma anche comunicare subito le scadenze previste per l’immediato futuro. Prima di tutto bisogna ricordare che, dopo il turno della Sicilia (2-8 marzo), lo sciopero della fame riguarderà gli ergastolani e i detenuti del Lazio (9-15 marzo). Il 15 marzo, contemporaneamente all’ultimo giorno di lotta nel Lazio, alle ore 11 avrà inizio un incontro nazionale con all’ordine del giorno due punti: un primo bilancio generale dello sciopero della fame iniziato il 1° dicembre 2008 e le iniziative future per giungere all’abolizione dell’ergastolo e all’attuazione dell’art. 27 della Costituzione. L’Associazione Liberarsi ha chiesto al csoa Forte Prenestino (via Federico Delpino – Centocelle – Roma tel. 0621807855 mail: forte@ecn.org) di poter organizzare al suo interno questo momento di scambio e discussione anche perché già da tempo segue le tematiche del carcere. È prevista la chiusura alle ore 18.00. Last but not least, lunedì 16 marzo ci sarà, a livello nazionale, lo sciopero della fame per l’abolizione dell’ergastolo e per l’attuazione dell’art. 27 della Costituzione italiana. Si mobiliteranno ergastolani, detenuti, parenti, amici, volontari e persone che ritengono giusta la lotta per l’abolizione del “fine pena mai”!

QUESTA SERA AL VOLTURNO OCCUPATO DALLE ORE 18.30
INIZIATIVA SULLA DETENZIONE FEMMINILE, CON PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI ANGELA DAVIS,
CENA CON LE RICETTE EVASIVE TRATTE DI SCARCERANDA.

ABOLIAMOLE: presentazione del libro ABOLIAMO LE PRIGIONI? di Angela Davis al Volturnoccupato

6 marzo 2009 Lascia un commento

 

aboliamoleprigioni-davispAboliamo le prigioni?” sarà presentato domenica a Roma al Volturnoccupato, via Volturno 37 alle ore 19 nell’ambito di una “giornata sulla prigionia femminile” organizzata da Scarceranda e Ora d’aria 

di Vincenzo Guagliardo, Liberazione 6 Marzo 2009

Che fine ha fatto la famosa compagna afroamericana Angela Davis, per la cui liberazione ci si mobilitò in tanti, e con successo, sia in America che in Europa nei primissimi anni Settanta? E’ rimasta al suo posto: sempre idealmente vicina ai suoi vecchi “maestri”, il filosofo Marcuse e il detenuto ammazzato in carcere George Jackson,

Funerali di George Jackson

Funerali di George Jackson

da studiosa e militante ha continuato ad approfondire certi temi, e, mutando e migliorando sempre il suo approccio, propone ora come approdo la lotta per l’abolizione delle prigioni. Così come si è fatto prima per la schiavitù e, ormai in molti paesi, per la pena di morte. (Angela Davis, Aboliamo le prigioni? , minimum fax, 270 pagine, euro 14,50).
Le prigioni sono un cancro nel cuore della democrazia che, così, non è più tale. Il carcere infatti non è solo la prigione, è una vasta intricata e ignorata rete di interessi e conseguenze, è un «complesso carcerario-industriale». «Le strategie di abolizione del carcere riflettono una comprensione dei nessi tra istituzioni che di solito concepiamo come diverse e slegate (…) La povertà persistente nel cuore del capitalismo globale porta a un aumento della popolazione carceraria, che a sua volta rafforza le condizioni che perpetuano la povertà».
I carcerati sono gli eredi degli schiavi, persone senza diritti (e gli ergastolani gli eredi dei condannati a morte). La vecchia pena visibile si occulta dietro i muri, e grazie all’invisibilità viene accettata come cosa normale. Ma da questo laboratorio-memoria ogni tanto le sue tecniche devono fuoriuscire. Mica sono lì per niente. Quando ciò avviene, a cella_largeGuantanamo o ad Abu Ghraib in Iraq, magari sotto forma di tortura filmata, il progressista scende in campo in difesa della “democrazia”, cui tali aspetti sarebbero estranei: in realtà continua a ignorare la fonte, “il cancro” della cosiddetta democrazia, la sua realtà quotidiana. Ma ora in America ci sono più di due milioni di reclusi. Come nascondersi con tali numeri che il carcere è ormai un ghetto dove buttar via una buona parte della gente ormai considerata superflua, demonizzandola, sottoponendola a un trattamento che terrorizzi gli altri superflui e cementi la morale della gente perbene? E come ignorare che l’esportazione della “democrazia” americana esporta anche questo cancro, che esso ne fa parte… “di brutto”?
Ecco: un discorso semplice, lineare. Siamo arrivati a un momento chiave, possiamo ripercorrere a ritroso il cammino del cancro, giungere alla logica conclusione del discorso (la «democrazia dell’abolizione»). Ma immagino che l’intellettuale italiano medio qualificherà questa analisi come rozza: slogan pietrificati, detriti sociologici… E se fosse evangelica chiarezza? Il futuro che già vediamo in atto anche qui? Beh, se non lo riconosceremo, sarà allora difficile capire il successo ottenuto nel 1998 dagli studenti americani con sit-in e manifestazioni in cinquanta campus. Avevano visto in un filmato che «Le guardie del Brazoria County Detention Center usavano pungoli elettrici per il bestiame e altre forme d’intimidazione per ottenere il rispetto e costringere i prigionieri a dire: Amo il Texas». A guadagnare in quel carcere privatizzato era la Sodexho (con sede a Parigi!): tra le università che hanno rinunciato ai servizi della Sodexho figurano la Suny di Albany, il Goucher College e la James Madison University. La Sodexho ha ceduto, ha mollato il Brazoria…
Se non lo riconosceremo, faremo girotondi.
In appendice al libro della Davis, Guido Caldiron e Paolo Persichetti provano generosamente a dimostrare l’attualità delle tesi abolizioniste dell’autrice riferite alla situazione italiana ed europea. Un’attualità tutt’ora virtuale, s’intende…

La coppia Battisti-Vargas e la guerra di pollaio

8 febbraio 2009 Lascia un commento

Battisti e l’aiuto dei Servizi        Gli ex compagni lo accusano
Scalzone e Persichetti: vede trame come nei suoi romanzetti

           di GIOVANNI BIANCONI, Corriere della Sera, Domenica 8 febbraio 2009

Fred Vargas

Fred Vargas

“Dove vuole arrivare la coppia Battisti-Vargas?”. La domanda viaggia su Internet, nel Blackblog di Oreste Scalzone e nel sito Insorgenze di Paolo Persichetti. Icona storica dei ‘rifugiati’ italiani in Francia il primo, unico estradato da Parigi il secondo, tuttora detenuto in semilibertà.

Paolo Persichetti il giorno del 'rapimento'

Paolo Persichetti il giorno del 'rapimento'

Sotto quel titolo, un lungo elenco di dubbi, interrogativi inquieti e critiche sull’ergastolano dei “Proletari Armati per il Comunismo” al quale il Brasile ha concesso asilo politico (ma si trova ancora in prigione); le sue ultime mosse non sono piaciute affatto alla ‘comunità’ degli ex militanti della lotta armata che hanno trovato ospitalità oltralpe, com’è stato per Battisti fino al 2004. Cinque anni fa, quando il governo di Parigi stava per rispedirlo nelle patrie galere, scappò in Sud America, e ora rivela che ad aiutarlo furono i servizi segreti francesi. “L’abbiamo letto con turbamento”, commenta Scalzone che nel 204 brindò alla sua fuga. Oggi non rinnega ma scrive: ” Le nostre reazioni oscillano tra incredulità e qualche domanda: perchè mai lo avrebbero ‘esfiltrato’? In cambio di che? E perchè mai, vero o fiction che sia, viene a dirlo come se fosse la cosa più normale del mondo, offrendo sponda alle calunnie “pistaiole”, in particolare stalino-fasciste, che da sempre ci propinano in materia?”
Subito dopo ce n’è per la scrittrice Fred Vargas, collega ‘giallista’ e amica di Battisti. Che ha confermato l’aiuto di Carla Bruni in Brasile, nonostante la pubblica smentita della signora Sarkozy, e fornito particolari sulla ‘persona servizievole’ che avrebbe fornito il passaporto falso al fuggiasco: “non esattamente un agente dei servizi ma una personalità molto vicina ai governi della presidenza Mitterand”, riassume Scalzone.

Oreste Scalzone

Oreste Scalzone

Tra gli ‘esiliati’ italiani Cesare Battisti, divenuto scrittore di successo in Francia, non ha mai goduto grandi simpatie. Anche perchè lui per primo assunse atteggiamenti distaccati dal resto della ‘compagneria’. Ma la battaglia per la sua libertà aveva rinsaldato la solidarietà. Scalzone intonava in piazza canti rivoluzionari accompagnati dalla fisarmonica, ma oggi accusa: “Manca solo che Battisti e Vargas lancino un altro strale contro qualche figura che si sia particolarmente impegnata verso la France terre d’asile e nella cosiddetta dottrina Mitterand”.
Poco meno che un traditore, insomma.
Paolo Persichetti, che nel 2002 fu riportato in Italia nel giro di una notte, unico risultato dei “patti” tra i governi di destra di Roma e Parigi, non crede al ruolo dei servizi segreti in favore di Battisti e dice: “Niente torna in questa storia. Il rancore dei suoi ex coimputati che lo stigmatizzano solo perchè a loro non è riuscito di fuggire; il fatto che per discolparsi Battisti stesso faccia il loro nome facendo passare per pentiti dei semplici ‘ammittenti’ che non avevano fatto dichiarazioni su terzi; una guerra di pollaio che vede i politici fare le dichiarazioni più astruse e insensate”.

 

Che ora l’ergastolano dei Pac abbia diritto di tornare libero in Brasile, per Scalzone, Persichetti e gli altri ‘rifugiati’ è un dato scontato. Ma “lo stillicidio di rivelazioni centellinnate e in crescendo sembrano uscite dalla mentalità contorta di chi, a furia d’inventare intrecci polizieschi, finisce per vedere la vita come un vortice di complotti. Battisti sembra vivere nella trama dei suoi romanzetti.”

Cesare Battisti durante un processo

Cesare Battisti durante un processo

E se gli amici dello scrittore, dalla Vargas e Bernard-Henry Levy, vengono bollati come “girotondini di Francia, con la loro vulgata sull’Italia ‘mai uscita dal fascismo’ “, l’ex militante dei Pac, “dev’essere affondato in un misto di ‘legittimismo’ e vittimismo: solo così si spiega l’odio riversato prima contro i ‘brigatisti’, poi ‘gli ex compagni’ fino a una sorta di sordo rancore contro Marina Petrella, come di gelosia perchè la battaglia du si lei ha avuto successo…”
Il finale è riservato al ‘terribile sospetto’ che la coppia Battisti-Vargas arrivi a fare “terra bruciata di quel che resta del mitterrandiano ‘asilo di fatto’ “, come fosse “la contropartita richiesta.” In ogni caso, “tutto quel che rende ancor più delirante, non meno, la caccia all’uomo e l’immagine che si vuol dare della rivolta con un intero Paese (l’Italia) contro uno (e di che spessore…)”

Lula e la pernacchia all’Italia.

25 gennaio 2009 1 commento

Il presidente brasiliano Luiz Inacio da Silva risponde al presidente della repubblica Giorgio Napolitano

«Rispettiamo l’ordinamento italiano ma l’asilo politico riconosciuto a Battisti è un nostro atto sovrano fondato su basi giuridiche interne e internazionali»

di LUIZ INACIO LULA DA SILVA

Signor Presidente, Giorgio Napolitano,
Ho l’onore di rispondere alla lettera di Vostra Eccellenza, del 16 gennaio, riferita alla decisione dello Stato brasiliano di concedere lo status di rifugiato politico al cittadino italiano Cesare Battisti.
“Vorrei, in questa occasione, esprimere a Sua Eccellenza la piena considerazione del potere giudiziario italiano e dello Stato democratico di diritto vigente in questo paese, ed affermare la mia fiducia nel carattere democratico, umanista e legittimo dell’ordinamento giuridico italiano.
“Chiarisco a Sua Eccellenza che la concessione della condizione di rifugiato al signor Battisti è un atto di sovranità dello Stato brasiliano. La decisione è basata nella Costituzione brasiliana (articolo 4°, X) nella Convenzione del 1951 delle Nazioni Unite relativa allo Statuto dei Rifugiati e nella legislazione brasiliana (Legge 9.474/97). La concessione dell’asilo e le considerazioni che la accompagnano sono ristrette ad un processo concreto, essendo state emesse con fondamento in elementi e documenti di un procedimento specifico.
“Voglio, in questa occasione, manifestare a Sua Eccellenza la mia fiducia che i legami storici e culturali che uniscono il Brasile e l’Italia continueranno ad ispirare i nostri sforzi tesi ad approfondire le nostre solide relazioni bilaterali nei più diversi settori.

*   *   *   *

Senhor presidente, Giorgio Napolitano,

Tenho a honra de acusar o recebimento da carta de Vossa Excelência, de 16 de janeiro do corrente, referente a’ decisão do Estado brasileiro de conceder o estatuto de refugiado ao cidadão italiano Cesare Battisti.
Desejaria, nesta ocasião, expressar a Vossa Excelência a plena consideração do Poder Judiciário italiano e ao Estado Democrático de Direito vigente nesse país, bem como afirmar minha confiança no caráter democrático, humanista e legítimo do ordenamento jurídico italiano.
Esclareço a Vossa Excelência que a concessão da condição de refugiado ao senhor Battisti representa um ato de soberania do Estado brasileiro. A decisão está amparada na Constituição brasileira (artigo 4º, X) na Convenção de 1951 das Nações Unidas relativa ao Estatuto dos Refugiados e na legislação infraconstitucional (Lei 9.474/97). A concessão do refúgio e as considerações que a acompanharam restringiram-se a um processo concreto, tendo sido proferida com fundamento nos elementos e documentos constantes num procedimento específico.
Quero, nesta oportunidade, manifestar a Vossa Excelência minha confiança de que os laços históricos e culturais que unem o Brasil e a Itália continuarão a inspirar nossos esforços com vistas a aprofundar ainda mais nossas densas e sólidas relações bilaterais nos mais diversos setores.

Cordiais saudações

per trovare più materiale a riguardo vi consiglio il blog INSORGENZE

Vicino agli esclusi, tra gli esclusi … di Jean Marc Rouillan

20 gennaio 2009 Lascia un commento

Stralci di un libro che parla di carcere, che descrive il carcere minuto dopo minuto. Il libro di un prigioniero politico francese che ancora lotta per la sua libertà. Un libro per non dimenticarci mai cos’è il carcere e chi sono i carcerieri.531523-649325

Al risveglio, la prigione salta alla gola. 
Le prime sensazioni mi avvertono della sua presenza nascosta. Un angolo di muro illuminato dal chiarore dell’alba, l’odore del disinfettante, le diverse abluzioni dei congeneri, la carezza della coperta carceraria e lo scoramento indicibile. Mi penetra di colpo.
Tiranna sovrana, la “malamorte” della lebbra moderna e carceraria è qui, dentro di me. E non c’è modo di sfuggirle. Fino al più lontano e ultimo esilio, sentirò questa nausea. Non ci si abitua mai alla prigione. Più passa il tempo, più le mattine sono dolorose. Tredici anni. Più di 4750 mattine.
[…] La penultima porta è la mia. L’ingresso della mia pelle di cemento nudo, della mia conchiglia, della mia corazza. Bevo delle grandi tazze di caffè  e mi immergo. Torturo la tastiera con due dita incazzate. “Tu batti come gli sbirri”, sì, io batto con odio. Così forte che i nuovi vicini chiedono sempre cosa può essere questo ticchettio mitragliatore. […] Scrivo sentendo montare dentro di me la bomba ad orologeria di questi anni di solitudine. Ho paura di perdere la dignità, di sprofondare nella follia, di dimenticare l’etica della giusta rivolta. E action_directequesto timore oggi è tirannico.
No, non ho stile. Non ho talento per questo esercizio letterario. Scrivo perché non ho ancora trovato altro da fare per uccidere definitivamente le mie mattine in carcere. Oppure non ne ho avuto il coraggio. Scrivo perché queste mattine senza vita siano imprigionate e sprofondino nel dolore delle parole e della loro fragile architettura. 
[…]Intra-muros, si assassina per “fatalità” giuridico-amministrativa. Si elimina il non compatibile. Lo si scioglie nell’acido del tempo. Lo si fa crepare come un batterio. Siamo come quelle vecchie carpe tirate fuori dall’acqua che agonizzano per ore e ore nella cesta.
[…]In fondo alle scale, una porta blu sbarra il passaggio. E’ il limite blindato del nostro territorio. Direi quasi della nostra autonomia. […]jean-marc_rouillan
Quando in prigioniero è sotto sorveglianza, le videocamere seguono i suoi passi senza fine nei cortili dell’aria. Esse inclinano il loro muso verso l’erba quando ci si stende al sole. Da quando emergiamo dalla cella, esse ci arpionano nel loro mirino. Sulle scale. Dietro ogni cancello, ogni porta. Nei passeggi. Alla fine, ci sono più videocamere che prigionieri. Un povero diavolo si metteva sull’attenti a venti centimetri dall’obiettivo della telecamera principale del corridoio. E scandiva militarmente: “Cavia 848 a rapporto. Tutto bene, capo!”
Si interiorizza questa sorveglianza. Finisce per far parte di noi stessi. Si gioca alla normalità. Si fa “finta di niente”. Si mantiene il ruolo del detenuto modello. Si ridiventa veramente sè stessi soltanto quando si nasconde qualcosa. Non appena si riesce ad ingannare l’occhio guercio.
In questo paese, dove il buonsenso popolare sa bene che non si picchia un cane legato, altrimenti diventa cattivo, si accetta e si trova normale il fatto che qualche maniaco del manganello si accanisca su diverse migliaia di uomini incatenati.
 
 
Signor procuratore, voleva darci il tempo per capire. Ma cosa c’è da capire? Si, so bene che per lei bisognava farci entrare nel cranio: l’inutilità della resistenza, dell’illegalità, della violenza di fronte al migliore dei mondi che lei rappresentava. Ma per fare ciò, caro Procuratore, non era il caso di sprofondarci nelle sue viscere più immonde. Mi spiace dirglielo, ma il suo ragionamento è idiota. Ho il sospetto che fosse soltanto una retorica indispensabile alla miniatura della condanna amministrativa. Doveva aggiungergli corpo e stile. Eppure, se avesse voluto veramente farci riconoscere il migliore dei mondi, avrebbe dovuto spedirci sulle spiagge dove i padroni si abbronzano con tranquillità, imporci il lusso in cui si stravaccano con nobiltà. Avrebbe dovuto condannarci a gestire un portafoglio di azioni e obbligazioni, costringerci a portare la cravatta e lo Chanel per le signore, a farci portare in automobili climatizzate con autista, a pavoneggiarci nei lunch recitando le quotazioni e le futilità estremiste con cui si gargarizzano le tribù della bella società. Bisognava rinchiuderci nelle ville delle soap televisive, tra Helene in stanza e Cricri in cantina. In questa condizione, forse, avremmo potuto “capire” la futilità rivoluzionaria, sorridere alle minacce dei più poveri, alzare le spalle di fronte alle rivolte picaresche. Allora, per lassismo, per perdita del “senso comune”, avremmo bevuto fino alla feccia, fino alla cicuta, ogni vergogna, ci saremmo raddrizzati sugli speroni in nome della razza degli eredi.
Ma signor Procuratore, sulla paglia delle celle, vicino agli esclusi tra gli esclusi,  ai poveri tra i poveri, cosa potevamo “capire” che andasse nel suo senso?
Sono più di 13 anni che giro da un carcere all’altro… Ho molto disimparato.
Ho disimparato la notte. Non fa mai notte nelle vostre prigioni. Siamo sempre sotto i proiettori alogeni arancioni, come sulle autostrade belghe e nei parcheggi dei supermercati.
Ho disimparato il silenzio. La prigione non conosce silenzio. Ne esce sempre un lamento, un grido, un rumore.
Ho dimenticato l’odore del sottobosco, di quando andavamo a funghi nella foresta di Orlèans, qualche mese prima del nostro arresto.
Ho dimenticato il sibilo dei copertoni sul pavè bagnato. Il rumore dei passi la sera, tardi, sui marciapiedi.
162891186_1cc7ae677bDi sicuro, signor Presidente, in 13 anni di galera mi ha strappato alle cose più semplici. Alla vita. All’amore. Non mi ricordo neanche più dell’infinita dolcezza delle cosce di una donna.
Invece, le devo confessare che saprei ancora smontare e rimontare una Colt 45, a occhi bendati, con la stessa destrezza che le occorre per compilare il fascicolo di un povero sventurato.
Potrei far scivolare i proiettili nei tamburi con quella disinvoltura che è la sua, quando sorvola sulle pagine. 
Se la incontrassi per strada, non la riconoscerei neppure. Questo la rassicurerebbe quasi, no? Lei fa parte di quel gregge di mezzi-uomini mezzi-uniformi che mi misero le manette. E a cui ho svelato il mio buco del culo per il controllo regolamentare.
Guardi, signor Procuratore, ecco una cosa imparata in questi anni: mostrare il culo con distacco. E’ vero che nella vita di tutti i giorni, è più una cosa inconscia, una metafora. Si sporge il culo come si accende una sigaretta. Ma, in quei momenti, tutto è crudo. Si abbassano le mutande, ci si sporge in avanti, si fissa con l’occhio unico lo sguardo gendarmesco. “Tossisca!”
Ho compreso che, a mostrare così la propria intimità, non si perde nulla in dignità Alla fine, questo danneggia ancora più il sistema e coloro che lo impongono. […]Avevano bisogno di appropriarsi del corpo, di mostrare la propria autorità attraverso la fragilizzazione dell’altro, di metterlo a nudo di fronte all’uniforme. “Tossisca!”

Tratto da ODIO LA MATTINA, di Jean Marc Rouillan , ergastolano, militante di Action Directe arrestato  il 21 febbraio 1987 passerà oltre 10 anni in regime di isolamento. Qui sotto un articolo di Paolo Persichetti  (tratta dal suo blog: INSORGENZE ) di qualche mese fa, sull’annullamento della semilibertà che gli era stata concessa, dopo un’intervista ad un settimanale francese: 


Per una intervista al settimanale l’Express, sospesa la semilibertà a Jean-Marc Rouillan, co-fondatore di Action directe
di Paolo Persichetti
Liberazione 10 ottobre 2008

La sintesi di una intervista anticipata mercoledì 1 ottobre sul sito internet del settimanale L’Express è costata la sospensione della semilibertà a Jean-Marc Rouillan, cofondatore di Action directe, il gruppo armato dell’estrema sinistra francese attivo negli anni 80. La misura sospensiva emessa dal magistrato di sorveglianza è intervenuta su richiesta della procura generale di Parigi, titolare in materia di antiterrorismo, che ha domandato la revoca della misura prim’ancora che il testo integrale dell’intervista apparisse nelle edicole.
Dal 2 ottobre Rouillan è di nuovo rinchiuso nel carcere marsigliese delle Baumettes, da dove usciva ogni mattina per raggiungere il suo posto di lavoro presso la casa editrice 
Agone, in attesa che il prossimo 16 ottobre il tribunale di sorveglianza si pronunci sulla legittimità della richiesta di revoca. All’ex militante di Action directe, la cui domanda di liberazione condizionale doveva essere esaminata il prossimo dicembre, la procura contesta alcune frasi contenute nell’intervista uscita in contemporanea anche sulle pagine di Libération il 2 ottobre. L’anticipazione dell’Express ha bruciato sui tempi il quotidiano parigino che non ha mancato di sollevare una piccola polemica rilevando il carattere «un po’ delinquenziale» di chi dietro la frenetica caccia allo scoop ha innescato un artificioso caso mediatico sulla pelle di un ergastolano. Ed in effetti l’intera vicenda puzza di strumentalizzazione costruita ad arte.
Secondo la procura, Rouillan avrebbe «infranto l’obbligo di astenersi da qualsiasi tipo d’intervento pubblico relativo alle infrazioni per le quali è stato condannato». Condizione che gli era stata imposta al momento della concessione della semilibertà nel dicembre 2007, dopo aver trascorso 20 anni di reclusione tra isolamento e carceri speciali. Il suo avvocato, Jean-Louis Chalanset, contesta però questa interpretazione che considera «infondata giuridicamente». E non ha tutti i torti perché gran parte delle risposte fornite dall’ex esponente di Ad riguardano, in realtà, la sua adesione al processo costituente del Nuovo partito anticapitalista che sta raccogliendo attorno a se la galassia della sinistra sociale e antagonista francese. Ingresso di cui aveva parlato la stampa la scorsa estate dopo un incontro avuto con Olivier Besancenot, il porta parola della Lcr che da mesi svetta nei sondaggi ed ha promosso questo processo d’unificazione.screenshot_2
«Dopo 22 anni di carcere – dichiara l’ex membro di Ad – ho bisogno di parlare, di apprendere di nuovo dalle persone che hanno continuato a lottare in tutti questi anni (…) la mia adesione è una scelta individuale». Che lo scandalo suscitato dalle sue parole sia il prodotto di una manipolazione emerge chiaramente dal raffronto dei due diversi resoconti realizzati dai giornalisti che l’hanno incontrato, Michel Henry di
Libération e Gilles Rof dell’Express. Nel testo apparso su Libération vengono riportate delle affermazioni estremamente posate. Rouillan spiega come s’immagini «semplice militante di base. L’epoca dei capi è finita. Sono entrato nell’Npa per imparare dagli altri. Vorrei che dimenticassero chi sono». Ben 11 delle 20 domande riportate sull’Express insistono sulle ragioni di quest’adesione, dunque sul presente, non sul passato. Rouillan non si sottrae però a domande più difficili e spiega a Libération che seppur «assumo pienamente la responsabilità del mio percorso, non incito però alla violenza (…) se lanciassi un appello alla lotta armata commetterei un grave errore». Quando viene incalzato precisa che «il processo della lotta armata per come si è manifestato dopo il 68, nel corso di un formidabile slancio di emancipazione, non esiste più». E di fronte alle ulteriori, e a questo punto tendenziose insistenze del giornalista dell’Express, puntualizza che «quando ci si dice guevarista [il riferimento è a un’autodefinizione di Besancenot, Ndr] si può rispondere che la lotta armata è necessaria in determinati momenti storici. Si può avere un discorso teorico senza per questo fare della propaganda all’omicidio». Nel resto dell’intervista descrive sommariamente la sua concezione conflittuale della lotta politica e il senso di smarrimento di fronte ai disastrosi mutamenti della società scoperti dopo l’uscita dal carcere. Ricorda infine che degli ultimi 4 prigionieri di Ad, una di loro è morta e due sono gravemente malati, risultato dei durissimi anni di detenzione subiti.
Insomma nonostante lo sforzo di fargli dire dell’altro, Rouillan è chiaro. Tuttavia la procura e subito dietro i commentatori della stampa di destra come di sinistra, la presidente di Sos-attentats, un’associazione di vittime del terrorismo, hanno duramente stigmatizzato le sue parole denunciando l’assenza di rimorsi, la mancanza di una richiesta di perdono, intimando a Besancenot di liberarsi di una presenza ingombrante, equivoca, «ripugnante».
Eppure se ci si sofferma qualche istante sull’intervista, ci si accorge che Rouillan non ha fatto altro che attenersi alle prescrizioni del magistrato: «Non ho il diritto di esprimermi sull’argomento… – dice – ma il fatto che non mi esprima è già una risposta. È evidente che se mi pentissi del passato potrei esprimermi liberamente. Ma attraverso quest’obbligo al silenzio s’impedisce alla nostra esperienza di tirare un vero bilancio critico».
Il direttore della redazione dell’
Express, Christophe Barbier, alla notizia dell’intervento della procura ha reagito spiegando che se il bilancio di Action directe è «indifendibile», Rouillan è comunque «un cittadino che continua a pagare il suo debito con la società» e ha «diritto alla libertà di espressione». Gilles Rof, il giornalista freelanceche ha ceduto il suo pezzo all’Express, si è detto «scioccato» dalla reazione della magistratura e dal cortocircuito mediatico che ha deformato le affermazioni di Rouillan, rivelando che questi per ben due volte in passato aveva rifiutato l’intervista per alla fine accettare a condizione di rileggerne il testo prima della pubblicazione. «Non ha mai detto che non esprimeva rimorso per l’uccisione di Georges Besse [il presidente-direttore generale della Renault ucciso nel 1986, Ndr]. Anzi ha riscritto con cura la risposta per dire che non aveva il “diritto di esprimersi” non che non poteva esprimersi». Benché non avesse concordato domande sui fatti oggetto della condanna, Rof sostiene che evitare l’argomento avrebbe posto una questione di credibilità all’intervista.
Niente di quanto abbia fatto Rouillan durante la semilibertà, o detto nell’intervista, risulta reprensibile. Tra i requisiti previsti dalla legge francese non vi è alcun obbligo di
regret, ovvero d’esprimere ravvedimento. Le condizioni poste riguardano invece la verifica della cessata pericolosità sociale e gli obblighi civili di risarcimento. In realtà Rouillan quando sottolinea che il silenzio imposto sui fatti sanzionati dalla legge impedisce la possibilità di una vera rielaborazione critica e pubblica del proprio percorso, mette il dito nella piaga. Sono gli ostacoli frapposti al lavoro di storicizzazione, che presuppone un dibattito pubblico senza esclusioni e preclusioni, che impediscono il processo di oltrepassamento relegando un periodo storico negli antri angusti dei tabù sacralizzati, dell’indicibile se non nella forma dell’esorcismo che ha solo due forme espressive: l’anatema o il pentimento. Qualcosa di simile sta accadendo anche in Italia, dove il paradigma del complotto che ha imperversato per due decenni è stato soppiantato dalla demonizzazione pura e semplice. Così oggi Rouillan rischia di essere ricacciato negli inferi del fine pena mai sulla base di una mancata abiura. Delitto teologico che già ha fatto parlare alcuni di «reato d’opinione reinventato» (Daniel Schneiderman su Libération del 6 ottobre).n1606848852_48703_3997
Questo intervento della magistratura sembra dare voce al dissenso di una parte degli apparati, e probabilmente di una parte dello stesso ministero della Giustizia, verso la politica messa in campo nei confronti dei residui penali dei conflitti politico-sociali degli anni 70-80. Infatti, dopo una iniziale politica di segno opposto, Nicolas Sarkozy è sembrato rendersi conto – forse anche sulla scia della vicenda Petrella – dell’utilità che poteva rappresentare la chiusura degli «anni di piombo». Sono altre le emergenze che preoccupano il presidente francese. Le nuove politiche sicuritarie si indirizzano altrove: migranti, banlieues, integralismo islamico. I residui penali del novecento rappresentano una zavorra anche per la visibilità sociale dei vecchi militanti incarcerati, sostenuti da una parte della società civile che ne chiede da tempo la scarcerazione. Così il 17 luglio scorso è stata concessa la liberazione condizionale a Nathalie Ménigon, anche lei membro di Action directe e con diversi ergastoli, in semilibertà da un anno. Prima di lei, Joëlle Aubrun, arrestata nel 1987 con Rouillan, Ménigon e Georges Cipriani, aveva ottenuto negli ultimi mesi di vita la sospensione della pena a causa delle gravi condizioni di salute.6aa632
Nel quadro delle prescrizioni indicate dalla nuova legge sulla «retenzione di sicurezza» (vedi 
Queer del 13 luglio 2008), Georges Ibrahim Abdallah, Régis Schleicher, Georges Cipriani, Max Frérot, Emile Ballandras, tutti prigionieri politici con oltre 20 anni di carcere sulle spalle, sono stati concentrati nell’istituto penitenziario di Fresnes, nella periferia sud di Parigi, dove è presente il centro d’osservazione nazionale incaricato di valutare la pericolosità sociale dei detenuti prima che questi vengano ammessi al regime in prova della semilibertà e successivamente in libertà condizionale.

A questo punto la decisione che dovrà prendere la magistratura di sorveglianza il prossimo 16 ottobre non investe solo la sorte di Rouillan, ma il destino dell’intera “soluzione politica”. Intanto oggi e domani si tiene a Parigi un convegno di studi organizzato da uno degli istituti universitari più prestigiosi, la grande école di science po, sostenuto dall’istituto culturale italiano, il comune di Parigi, dedicato a «L’Italia degli anni di piombo: il terrorismo tra storia e memoria». Che sia utile a far riflettere i giudici? 

ODIO IL CARCERE… capodanno sotto Rebibbia

30 dicembre 2008 1 commento

BUON ANNO:dal CARCERE DI SPOLETO

28 dicembre 2008 4 commenti

Buon anno agli uomini ombra più vicini alla morte che alla vita, più vicini al buio che alla luce, tenuti in vita per morire in catene.
Buon anno agli uomini senza speranza che brancolano ciechi nel buio di una cella, cadaveri prima del tempo.esterne051027470512102941_big
Buon anno ai colpevoli per sempre, agli ergastolani con l’ergastolo ostativo ai benefici, destinati a morire in prigione.
Buon anno ai morti viventi che camminano, un passo dietro l’altro, un passo dopo l’altro, avanti ed indietro fra quattro mura, per giorni, mesi, anni e secoli.
Buon anno ai dannati condannati a una pena di sofferenza quotidiana destinata a durare tutta la vita.
Buon anno ai forcaioli per ricordargli che spesso i buoni sono più cattivi dei cattivi se tengono un uomo sepolto vivo per l’eternità.
Buon anno agli uomini senza più sogni e futuro che vivono un incubo a occhi aperti senza nessuna possibilità di svegliarsi.
Buon anno ai condannati a una tortura dell’anima e a un dolore all’infinito, vittime della vendetta della giustizia.
Buon anno ai favorevoli alla pena dell’ergastolo per ricordargli che i cattivi cambiano e migliorano, solo i buoni non cambiano e peggiorano.
Buon anno agli uomini senza tempo, con una pena sempre presente, con un’angoscia sempre presente.
Buon anno agli uomini dal cuore nero che sono contrari alla pena di morte ma sono favorevoli a una pena che non finisce mai.
Buon anno ai non morti, ai non vivi, torturati e uccisi ancora, ancora un po’ di più.
Buon anno ai cattivi che fanno i criminali per non esserlo e a quelli che lo sono ma lo nascondono per non sembrare criminali.
Buon anno ai senza Dio, con il dolore nel cuore e l’amore nell’anima.
Buon anno ai fantasmi senza neppure più un’ombra, cielo, sole, luna e stelle.
Buon anno agli uomini persi, agli uomini tristi, agli uomini infelici, agli uomini che piangono e soffrono, agli uomini maledetti da Dio e dagli uomini perché solo così si può essere vivi pure essendo morti.
Buon anno a quelli che credono come Gesù che l’amore è la migliore vendetta.
Buon anno ai morti in vita.
Buon anno ai lupi cannibali, ai lupi diavoli, a Zanna Blu e a Nadia che in una seggiola a rotelle cammina e corre con l’energia dell’amore.
Buon anno 2009 a tutti gli ergastolani.

Carmelo Musumeci, carcere di Spoleto, anno 2009

Rote Armee Fraktion: la Germania sa voltare pagina

27 novembre 2008 2 commenti

La lezione tedesca: liberazione condizionale senza richiesta di pentimento per gli ultimi detenuti della Raf

di Paolo Persichetti, Liberazione 26 novembre 2008

La Germania chiude o forse, sarebbe meglio dire, schiude i suoi anni di piombo. Il via libera alla scarcerazione di Christian Klar, concessa due giorni fa dalla corte di appello di Stoccarda, porta lo Stato federale tedesco verso il definitivo azzeramento degli strascichi penali ancora aperti della stagione della lotta armata. A differenza di quelle passate, queste ultime scarcerazioni riguardano i prigionieri che hanno rifiutato di pentirsiDEU TERROR RAF KLAR MOHNHAUPT o dissociarsi. Ex militante della Rote armee fraktion (Raf), Klar uscirà dal carcere il 3 gennaio 2009 al maturare del ventiseiesimo anno di detenzione (forse anche prima, se le riduzioni di pena legate alla buona condotta lo consentiranno), 7 dei quali passati in totale isolamento. Klar aveva ottenuto la possibilità di uscire in permesso già dalla primavera scorsa. In realtà la parola fine potrà dirsi soltanto dopo la liberazione di Birgit Hogefeld, arrestata nel 1993, ed unica a restare ancora detenuta dopo la liberazione condizionale concessa a Klar. Esponente dell’ultima fase della storia politico-militare della Raf (la cosiddetta “terza generazione”, definizione che però viene rigettata dai membri del gruppo autodiscioltosi nel 1998, i quali hanno sempre messo l’accento sull’unità del percorso della loro organizzazione), la Hogefeld è liberabile a partire dal 2011.

Per anticipare la sua uscita Klar aveva fatto richiesta di grazia, ma nel maggio 2007, dopo le polemiche suscitate dalla concessione della liberazione condizionale a, altro membro della Raf con 24 anni di carcere sulle spalle, il presidente della Repubblica, Horst Köeler, rispose negativamente. Un polverone mediatico fu sollevato dalla stampa di destra a causa di un suo messaggio di solidarietà inviato ad una meinhoffahndungconferenza su Luxenburg-Liebknecht, tenutasi a Berlino nel gennaio dello stesso anno, nel quale Klar auspicava una società futura senza capitalismo. Campagna mediatica che chiedeva una esplicita dichiarazione di pentimento come condizione necessaria alla scarcerazione. Tuttavia ciò non ha impedito che nell’agosto successivo fosse concessa la liberazione condizionale anche a Eva Haule, dopo 21 anni di carcere. Incassato il rifiuto della grazia, Klar ha continuato a difendere il proprio diritto di tacere (da intendersi come il rifiuto di sottomettersi a dichiarazioni pubbliche di pentimento) e non fare mercanteggiamenti per uscire. Il 15 agosto 2008 è sopraggiunta una importante decisione della Corte federale che ha chiarito come il diritto al silenzio sia compatibile con terrorlistel’ammissione ai benefici di legge. Questa sentenza ha così definitivamente sbloccato la situazione.
Il sistema penale tedesco, infatti, non prevede che la pena dell’ergastolo venga scontata a vita. Se i giudici ritengono che il comportamento del recluso sia tale da escludere il permanere di una sua pericolosità sociale, l’accesso alla libertà vigilata per una durata di 5 anni, passati i quali la pena è estinta, è ammessa una volta scontati 15 anni di pena, salvo nei casi in cui in sede di condanna venga stabilito un tetto più alto, in ragione della particolare «gravità della colpa». Tetto di reclusione incomprimibile che nel caso di Klar era stato fissato a 26 anni, ovvero allo scadere del 3 gennaio 2009.
A differenza dell’ordinamento italiano, il sistema tedesco non prevede il requisito del ravvedimento,

<Klar>

 la concessione della liberazione condizionale è dunque valutata sulla base del comportamento oggettivo, esternato nel corso degli anni di detenzione dal soggetto, e non sulla scorta di una presunta analisi del suo foro interiore. Prassi che in Italia si è consolidata in una giurisprudenza dei tribunali di sorveglianza (in più casi censurata dalla Cassazione) che da luogo ad ipocrite procedure di richiesta di scuse e domande di perdono nei confronti dei familiari delle vittime per via epistolare, il più delle volte da queste giustamente rinviate al mittente. L’esperienza dimostra però che all’autorità giudiziaria non interessa l’esito finale di questo tentativo di mediazione, quanto l’atto in sè, inteso come una vera e propria forca caudina, un gesto che di riparatore ha ben poco. In realtà è solo una forma di assoggettamento al sovrano, essenza moderna dei vecchi autodafé, cerimonia di degradazione pubblica, umiliazione dell’intelligenza, etica a buon mercato, grado infimo della coscienza.
Anni di piombo era il titolo che la regista Margarethe Von Trotta scelse per il suo film realizzato nel 1981. Ispirato alla storia di Gudrun Ensslin, militante della Raf uccisa nel carcere di Stammhein nel 1977, quel titolo voleva indicare la cappa plumbea gettata sulle speranze, il germogliare di idee, libertà, conquiste sociali che la rivolta degli anni 70 aveva suscitato. Col tempo l’espressione ha assunto il significato opposto, trasformandosi nel sinonimo della rivolta stessa ridotta al piombo cupo delle armi. Oggi ciò che resta di quella cappa soffocante, le mura e il ferro delle prigioni, almeno in Germania cominciano a fondersi.

In Italia il piombo tiene ancora.

Dall’ A.S. di Rebibbia Femminile

26 novembre 2008 Lascia un commento

IL CARCERE NON PUO’ ESSERE LA DISCARICA ABUSIVA DI ESSERI UMANI “INDESIDERATI”

In questi ultimi tempi è solo un susseguirsi di politiche e leggi che rendono il ricorso al carcere come il “rimedio miracolo” per togliere di mezzo dalla società i problemi sociali ai quali non si riesce a dare una risposta. Per ogni problema la risposta è: carcere.logo_scarc
La politica che sembra sempre riscuotere il maggior consenso, soprattutto elettorale, è quella del “buttare la chiave”! (Questa è la traduzione letterale da fare quando dicono “certezza della pena”). Questo quando la Costituzione, in diversi suoi articoli, sancisce invece che la pena (notare bene, scrive “pena” e non “reclusione” visto che la pena può avere varie forme!) deve avere uno scopo rieducativo e non può andare contro il senso di umanità. Noi che abbiamo la sventura di esserci finite in carcere, sia in qualità di condannate che di detenute in attesa di giudizio, ci rendiamo conto ogni giorno di quanto e quante volte quei principi vengono violati.

Noi tutte della sez. A.S. di Rebibbia vogliamo allargare la protesta del 1 dicembre 2008 CONTRO TUTTE QUELLE VIOLAZIONI. Intendiamo partecipare all’iniziativa con un giorno di protesta pacifica con sciopero del sopravvitto, del lavoro, “battitura” ecc… da riprendere il mese di marzo aderendo alla calendarizzazione dei promotori della campagna contro l’ergastolo.

PER L’ABOLIZIONE DELL’ERGASTOLO, il “fine pena mai” che è la violazione evidente del principio della possibilità della “rieducazione”. Senza farsi ingannare dal falso argomento per cui, in Italia, dopo 26 anni è possibile ottenere la libertà condizionale. Innanzitutto questa non è mai concessa automaticamente ed è di fatto esclusa preventivamente, come gli altri “benefici”, per coloro che sono sottoposti all’articolo 4bis nella sua forma più restrittiva.
CONTRO IL 41bis, forma detentiva disumana che si può paragonare a un vero e proprio strumento di tortura.
CONTRO IL DISEGNO DI LEGGE BERSELLI che vorrebbe modificare la Riforma Penitenziaria del 1975 e il Codice di Procedura Penale in materia di permessi premio e di misure alternative alla detenzione, per altro già lasciata alla discrezionalità dei giudici e poco e male applicata. Lo scopo è quello di rendere la detenzione ancora piu oppressiva, facendo credere, erroneamente, che un carcere ancora più afflittivo serva a dissuadere dal commettere e reiterare i reati. Il disegno di legge punta a ridurre i benefici nel suoscarcecomplesso, incluso i giorni di liberazione anticipata e a togliere la possibilità di andare in semilibertà a tutti gli ergastolani, così come oggi succede per quelli sottoposti alla misura ultrapunitiva del 41bis.  La possibilità di ottenere permessi verrebbe ulteriormente allontanata, così come quella di usufruire di altri benefici. Per altro già la legge cosidetta Cirielli ha, di fatto, escluso da questa possibilità tutti i recidivi.
Tutto questo, per altro, quando l’isolamento affettivo viene applicato duramente per tutta la detenzione, in modo particolare tra familiari detenuti, per i quali il diritto al colloquio, previsto dalla O.P. non viene quasi mai rispettato.
CONTRO LA PRESENZA DI BAMBINI IN CARCERE. C’è qualche forma detentiva più disumana di rinchiudere in un carcere con le loro madri –per quanto si possa tentare di “abbellirlo- dei bimbi in età da 0 a 3 anni? In seguito, quando vengono obbligatoriamente separati dalla madre,

Foto di Valerio Bispuri _carcere femminile sudamericano_

Foto di Valerio Bispuri http://valeriobispuri.com

 acquistando la “libertà” vengono ad aggiungersi a tutti gli altri bambini che separati dai loro genitori vedono, per lungo tempo, ridotti il vitale rapporto affettivo familiare a qualche visita mensile di 1 ora in squallidi parlatori.
La Costituzione dice che bisogna rispettare il senso di umanità: che colpa hanno i bambini delle azioni eventualmente commesse dai loro genitori?
Infine i bimbi a cui è capitato di essere figli di persone in regime 41bis, solo un’ora mensile, attraverso un vetro divisorio, visto che compiendo 12 anni si perde il “diritto” ai 10 minuti mensili concessi senza vetro!

CHI DEVE RISPETTARE LE LEGGI E IN PRIMO LUOGO LA COSTITUZIONE?

           Le detenute della sez. A.S. di Rebibbia

 

 

E’ USCITA SCARCERANDA PROPRIO OGGI, L’AGENDA CONTRO IL CARCERE. E IL LIBRO!!!logo_scarc

…PASSATE IN VIA DEI VOLSCI 56, A RADIO ONDA ROSSA.

PER OGNI COPIA VENDUTA NE VERRA’ SPEDITA UNA IN CARCERE GRATUITAMENTE 

Aboliamo il carcere -un testo di V. Guagliardo-

27 ottobre 2008 5 commenti

ABOLIZIONISMO di Vincenzo Guagliardo

 

Per fortuna ormai un pò di gente arriva a dire che è in atto da anni una regressione dallo Stato sociale allo Stato penale, criminalizzando la miseria, ovvero mettendo in galera il diseredato solo perché è tale e neanche più per quello che ha potuto fare. Tendere a imprigionare la gente per quel che è a prescindere da quel che ha fatto, è anche un passaggio, come alcuni ricorderanno, dalla logica penitenziaria a quella del lager, dove si finiva in quanto ebrei, zingari, omosessuali … 

la cella "liscia"

la cella "liscia"

Questa tendenza, auspicata da tanti e denunciata da pochi, vive dagli anni di Reagan, in pratica da un ventennio, e ha invaso tutto l’Occidente. Essa richiede una riflessione che non si limiti a dire che è in atto una svolta repressiva contro i poveri; richiede una riflessione in grado di capire che questa è la conclusione di una lunga storia. Quanto avviene in questi due decenni è l’epilogo grave, l’ultima evoluzione d’una civiltà fondata sul dominio ed è perciò che bisogna cominciare a parlare di abolizionismo: di movimento per l’abolizione di tutto il sistema penale, dal diritto penale alle prigioni; e non nella società del domani in testa a qualcuno, ma in questa. 
    
Almeno in Italia, l’attuale svolta non cominciò considerando ogni emarginato un potenziale colpevole, ma colpendo con meccanismi inquisitoriali. Tizio e Caio vennero puniti più di altri se volevano pensare con la loro testa. Già qui non importava più quel che si era fatto; fu l’epoca dei pentiti e delle dissociazioni, ovvero delle delazioni e abiure a pagamento, in nome dell’emergenza antiterrorista. E’ da quella fase tipo gulag che si è poi arrivati all’inizio di questa nuova, tipo lager. Naturalmente i due principi continuano a coesistere; se il primo storicamente prepara il secondo, il secondo comprende il primo. E se ci si pensa, non è la prima volta che questo processo si verifica nella storia della nostra civiltà. Solo che questa volta, tale processo, unito ad altri fattori degenerativi, rischia di travolgere tutto e tutti con beate incoscienze e diffuse partecipazioni. 
Il rito del capro espiatorio è stato e resta a fondamento della nostra cultura, la base su cui si è costruito ogni potere prima, quindi ogni dominio e infine ogni sistema di sfruttamento. E’ la costante, il fattore K. E’ utile rileggersi cosa fu il massacro degli eretici fino alla definitiva sconfitta dei catari nel Duecento, e poi vedere non già esaurirsi, ma rilanciarsi l’Inquisizione che lì era nata, per darsi al massacro nella cosiddetta “caccia alle streghe” durante i secoli successivi. Vi si scopre che tante novità non sono tali, appunto. Anche allora ci fu un passaggio dal modello tipo gulag verso gli eretici e i mondi sociali che rappresentavano, a quello tipo lager contro le streghe, donne mandate al rogo non più per quello che pensavano (se non nell’immaginario degli inquisitori) ma per ciò che costituivano: l’indipendenza di un mondo fondato sulla sussistenza, fuori dalla logica invadente del mercato. Oggi, nel regno liberista, tutto questo avviene però in un giorno, invece che in qualche secolo. Ecco che chi fa l’abiura delle lotte per la liberazione sociale – riducendola a vicende da KGB e di subordinazione al regime dittatoriale dell’URSS – manda negli stessi giorni il grande messaggio della lotta alla criminalità: in pratica contro i più deboli dei deboli, quei 50 mila in carcere che sono già, comunque, il doppio di alcuni anni fa. 
Ancora una volta, dunque: ancora una volta vediamo che offrire vittime sacrificali serve ad ogni potere a “limitare” la violenza e a controllarla a suo uso e consumo. La si indirizza contro qualcuno per evitare che tutti si scannino contro tutti mossi dall’invidia, dal risentimento, dato che comunque si tratta di salvare un sistema basato sull’ingiustizia e non certo sull’amorevolezza … Questo antichissimo meccanismo permette di cooptare chiunque, anche il ribelle, perché è la via più facile per spiegarsi le cose. E’ infatti più facile vedere la pagliuzza nell’occhio altrui che la trave nel proprio; soprattutto è più comodo. E non è forse vero che anche i rivoluzionari hanno spesso mantenuto questo vizio, “tradendo” così ogni volta ogni rivoluzione? In un breve scritto poco conosciuto, Gramsci si entusiasmò per la nuova profonda autenticità della rivoluzione bolscevica perché il primo atto che la contraddistinse fu la liberazione dei prigionieri a Riga. La rivoluzione francese ha ancora oggi come simbolo la presa della Bastiglia. Ma poi arrivano quelli della rivoluzione diventata potere … e sappiamo che Stalin fece fuori per primi proprio i bolscevichi suoi compagni, e poi instaurò un immenso sistema penale che giunse a incarcerare anche i dodicenni (sì, come Blair). E nella rivoluzione francese quando, pochi anni dopo, furono assalite delle carceri, fu per massacrare i prigionieri! 
Il principio della pena è l’unico valore, il centro della morale di questa società. Essa non ha altro, e praticamente tutti partecipano al suo sistema, da cui discendono modelli educativi, teorie psicologiche, concezioni filosofiche, ecc. Quella della pena è la lingua in cui parliamo tutti, e fin da piccoli. I benpensanti vogliono in galera i poveracci, gli altri i ricchi o i “fascisti”, ma tutti accettano quel centro, i ruoli previsti dalla tragica sceneggiatura, il cui perno è la vittima sacrificale, demone per l’ uno o eroe per l’altro. La pena non è mai servita a reprimere realmente i colpevoli; ogni storico serio lo riconoscerà. Serve a gratificare, a cementare il senso d’appartenenza di quelli che la vogliono applicata ad altri. La pena è dunque “inefficiente” per definizione, per la sua stessa natura; e proprio così unisce tutti, amici e nemici. 
    
Ma ora che, nella vita sempre più atomizzata del mondo attuale, tutte le sue istituzioni implodono, è come se – per reazione – si tornasse sempre più alle origini con l’esplosione del sistema penale. E’ come se, dopo aver distrutto via via tutto, non restasse più altro, come valore morale, che questo atto fondatore di una comunità linciante. Perciò oggi la violenza insita nel rito della vittima sacrificale non incontra più i confini, i “limiti” stabiliti nel sacro da cui è nata e vediamo anzi la logica del sistema penale diventare sempre più invadente: dominando la politica interna (questione sociale = questione criminale), quella internazionale (dalla crisi della diplomazia verso l’esaltazione di un tribunale penale internazionale permanente), fino ad aver pericolosamente rovesciato recentemente lo stesso senso “tradizionale” della guerra. Le guerre non sono mai state definite come delle sentenze. La guerra convenzionale è una sanzione violenta che pretende di raggiungere l’ordine che si è dato, come è in fondo altro tipo di lotta violenta e non, dallo sciopero al boicottaggio. Solo l’incarcerazione e la pena di morte hanno generalmente lo scopo di punire la disobbedienza a un ordine e non di raggiungere l’obbiettivo per cui esso è stato dato. Ma la guerra Nato condotta nei Balcani è stata frutto di un ragionamento penale invece che guerresco vero e proprio. 
 In questo nuovo contesto, parlare di abolizionismo significa anzitutto guardar se stessi prima di mettere in croce un altro (o volere che ci resti come martire e faro di ribellione … futura): perché si vada alla radice della pena come centro della morale comune, onde definire una nuova strategia dei conflitti non più fondata su una loro prevalente riduzione a reati. 
 Tutto ciò apre il campo a molte riflessioni che non si possono affrontare qui per ragioni, se non altro, di spazio. Ma una cosa mi è chiara: non tutti gli abolizionisti saranno necessariamente dei rivoluzionari; ma, di sicuro, chi non è abolizionista, rivoluzionario da oggi in poi non potrà più esserlo.

Vincenzo Guagliardo

Carcere di Opera, ottobre 1999

MARINA PETRELLA E’ LIBERA!

12 ottobre 2008 1 commento

LA NOTIZIA E’ APPENA ARRIVATA ED E’ TRA LE PIU BELLE POSSIBILI!
RITIRATO IL DECRETO D’ESTRADIZIONE A MARINA PETRELLA, CHE DA PIU DI UN ANNO MANGIAVA LA SUA ESISTENZA. ORA POTRA’ RICOMINCIARE A RECUPERARE ENERGIE, A MANGIARE, A COCCOLARE LE SUE FIGLIE.
CHE BELLA NOTIZIA.
UN ABBRACCIO FORTE FORTE AD ELISA ED EMMA!

(ANSA-AFP) – PARIGI, 12 OTT Secondo ‘Le Journal du Dimanchè, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha rinunciato a fare applicare l’estradizione verso l’Italia per l’ex membro delle Brigate Rosse, Marina Petrella. La decisione, si spiega nell’ultima edizione del giornale, sarebbe giustificata da «ragioni umanitarie».Un decreto del governo francese dello scorso 3 giugno, autorizzava l’estradizione di Marina Petrella verso l’Italia, dove una sentenza del 1992 la condanna all’ergastolo per omicidio. Un comitato di sostenitori dell’ex brigatista di 54 anni aveva domandato al presidente francese Sarkozy l’applicazione della «clausola umanitaria» prevista dalla convenzione sull’estradizione franco-italiana del 1957. Marina Petrella aveva depositato un ricorso al Consiglio di Stato contro il decreto che autorizza la sua estradizione. Il ricorso sarà esaminato mercoledì alle 14:00 dalla seconda e settima sotto-sezione riunite. Ex dirigente della ‘colonna romana’ delle Br, rifugiatasi in Francia dal 1993, Marina Petrella è stata arrestata nell’agosto del 2007 a Val-d’Oise, dove lavorava come assistente sociale. Il suo stato fisico e mentale non ha cessato di peggiorare per un anno e l’ex brigatista è restata in carcere fino a quando la Corte d’appello di Versailles ha autorizzato da agosto la libertà sotto controllo giudiziario per permetterle di ricevere delle cure senza essere detenuta. Marina Petrella è ricoverata presso l’ospedale parigino Sainte-Anne, dove è nutrita attraverso un sondino che consente «la sua sopravvivenza con un’alimentazione minima», secondo la Lega dei Diritti dell’Uomo.

Aboliamo l’ergastolo!

9 settembre 2008 11 commenti

Quando un Tribunale condanna un recluso ad una pena temporale, anche elevata, gli riconosce comunque il diritto alla libertà. Se invece condanna una persona all’ergastolo gli toglie questo diritto e, per il malcapitato, la libertà diventa una concessione.

Dopo 6 anni l’ergastolo mi è stato tolto e tramutato in trent’anni di carcere.
Mi sono raddrizzato. Da curvo che ero, con quel macigno sul collo.

Il suo compagno di cella insisteva.
-L’ergastolo di fatto non esiste più, al massimo dopo vent’anni si esce.
Quella sera stizzito rispose:
-Ma tu…ti sei mai addormentato con l’ergastolo?

 336 ergastoli, tanti ne sono stati erogati tra il 1969 e il 1989 in processi contro le Brigate Rosse ed altre organizzazioni di sinistra per fatti di lotta armata. 
L’art. 1 della legge antiterrorismo, varata tra il dicembre del 1979 ed il febbraio 1980, introducendo un’aggravante particolare per i reati commessi con finalità eversiva, rendeva certo ed automatico l’ergastolo per tutti quei delitti che lo prevedevano. L’impennata nelle condanne all’ergastolo si ha proprio negli anni successivi all’entrata in vigore di quella legge approvata dal parlamento in un periodo di acutizzazione dello scontro. Basti ricordare che nella primavera del 1978 avvennero il sequestro e l’omicidio dell’onorevole Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. 
Con le leggi emergenziali per la lotta al terrorismo il Parlamento ha legittimato, per la prima volta in Italia, un uso massivo ed abnorme dell’ergastolo. Delle centinaia di ergastoli una parte sono stati sicuramente erogati per responsabilità materiale diretta al reato, molti però, per semplice concorso morale o per la partecipazione solo marginale alle attività preparatorie di un delitto. 

Terrorista: persona senza inflessioni dialettali. Sradicata da qualunque contesto sociale. Alieno. Manovrato da forze occulte, o paesi stranieri. Infatuato da ideologie deliranti. Senza alcun seguito di massa. Assalta la democrazia. Semina il terrore nella comunità.
Questo, a grandi linee, potrebbe essere lo stereotipo del terrorista che è stato impropriamente applicato alle persone e al fenomeno della lotta armata degli anni ’70.
Terrorista può tradursi anche in ergastolano. Terrorista – ergastolano. Due termini che legano bene. L’ergastolo sembra infatti la sanzione più ovvia e naturale per un terrorista, perché non fa che espellere a vita dal consorzio umano un corpo che gli è stato giudicato estraneo.

-TRATTO DA “ERGASTOLO” di Nicola Valentino- 

 

PER L’ABOLIZIONE DELL’ERGASTOLO.
FUORI I DETENUTI POLITICI, AMNISTIAMO GLI ANNI ’70
CONTRO IL CARCERE, GIORNO DOPO GIORNO 

Il lavoro “giusto” per me

6 luglio 2008 2 commenti

“Oggi guardo indietro, a quei tempi, e misuro il distacco, la strada percorsa e sento che senza quell’esperienza forse non sai in galera, ma sento pure che se non fossi diventato comunista, l’intera mia viata non avrebbe avuto senso. E per me essere comunisti è l’unico modo di essere uomini. 
Il futuro, vada come vada, ma le cose giuste della mia vita non posso rifiutarle, respingerle, neppure per rendere più tollerabile la mia situazione: vada come vada, sono stato e sono un comunista.
Dicano quel che gli pare, i fottuti borghesi, me ne sono sempre sbattuto di loro, in modo giusto o sbagliato gli ho sempre sputato in faccia. E ora più che mai.
A maggior ragione ora che li conosco meglio, ora che ho conosciuto le loro galere, ho visto ciò che fanno ogni giorno ai poveri cristi. Non rimpiango di essermi ribellato contro i padroni, rimpiango di averlo fatto fuori tempo, in modo sbagliato.
Se fossi nato dieci anni prima forse sarei stato un gappista. Avrei vissuto la Resistenza, probabilmente, e l’avrei vissuta in un certo modo. Anche il tempo, la situazione in cui si vive, contano, nel determinare un uomo e la sua sorte. Legati a un movimento partigiano, in un momento in cui erano validi il sabotaggio e il terrorismo, noi avremmo potuto compiere azioni utilissime, decisive per la lotta in una città come Torino o Milano. Fare il partigiano in montagna non sarebbe stato affar nostro, ma in una città avremmo dato del filo da torcere a tedeschi e fascisti.
Se i partigiani erano in certo qual modo organizzazioni “regolari”, con una divisa, un territorio proprio, un confine sia pure labilissimo che li divideva dal nemico, un retroterra sia pure minimo in cui il nemico per inoltrarsi doveva impiegare forze massicce e poteva farlo solo in certe occasioni, per i gappisti si trattava di sparare proprio in mezzo al nemico, in casa sua.
Erano i partigiani dei partigiani.
Un lavoro durissimo, la tensione era continua, in genere gli uomini duravano solo pochi mesi. Ogni soldato, e anche il partigiano, quando non è impegnato nell’azione , ha la possibilità di scaricarsi, di vivere qualche giorno o anche solo qualche ora “fuori pericolo”, in mezzo ai suoi. Può parlare, cantare, dormire in un’atmosfera amica.
Per il gappista non c’è un momento solo in cui possa abbandonarsi, ogni faccia ce vede può essere il nemico, ogni parola nasconde un’insidia, chiunque lo avvicina può essere un delatore.
Ogni suono di campanello alla porta può essere il nemico che l’ha individuato e non c’è salvezza, in questo caso non ci sono azioni di difesa, non c’è strada di fuga, non c’è retrovia, non ci sono i compagni che possono intervenire. Quando si viene identificati è la fine, senza mediazioni, senza la possibilità estrema del combattimento o dello sganciamento.
Se fossi nato prima, quello sarebbe stato il lavoro “giusto” per me, ognuno è fatto in un certo modo e per un certo tipo di azione.”
__________SANTE NOTARNICOLA_________ “L’evasione impossibile”

Il libro che ha cambiato la mia vita, molto tempo fa. 
 

 

Perpetuitè

20 giugno 2008 22 commenti

“Erba: modo carcerario di dire ergastolo.
Avere l’erbetta sul groppone!
Non si conosce l’origine di questo eufemismo.
Immagini evocate:
Ne hai da brucare per tutta la vita! Oppure: campa cavallo che l’erba cresce. Come dire: passerà tanto di quel tempo che ti verrà l’erba sulle spalle.

A chi cresce l’erba sul groppone?
A chi è seppellito a pancia in giù.

Dal dizionario etimologico.
Ergastolo, dal latino ergastulum ‘prigione di schiavi’, adattamento del greco ergasterion ‘cava di lavoro’.

Ergastolo: Oggi, domani e sempre.

In francese, perpetuitè.

FINE PENA MAI: 99/99/9999
Incubo numerico che sostituisce il MAI nei certificati di detenzione computerizzati.

In Francia viene chiamato la “ghigliottina secca”.

“L’ergastolo è più della morte.
La morte dura un attimo e richiede un coraggio momentaneo.
L’ergastolo è un’esistenza” _Ignazio Silone: Il segreto di Luca_

Santo Padre,
sono la mamma di un detenuto politico condannato all’Ergastolo. Ora mio figlio si trova rinchiuso nel carcere di Rebibbia, sono cattolica e come me anche mio figlio. Molte volte mi viene a mancare la fede, perchè la parola Ergastolo è un tarlo che sta distruggendo il mio cervello.

Nicola Valentino -ERGASTOLO- Edizioni Sensibili alle Foglie