Archivio
Ulrike Meinhof a Renate Riemeck
UNA MADRE DI SCHIAVI SUPPLICA LA FIGLIA
“Urike, tu sei diversa dalla foto segnaletica, una figlia di schiavi – tu stessa una schiava.
Come puoi essere capace di sparare al tuo oppressore?
Non lasciarti sedurre da chi non vuol esser più schiavo. Non puoi proteggerlo.
Voglio che resti una schiava – come me, io e te – abbiamo visto come i padroni hanno sgominato la rivolta degli schiavi, prima ancora che cominciasse.”
“O piccola, tu hai meritato qualcosa di meglio. Pensa che saresti potuta diventare.
Di sicuro saresti diventata una sorvegliante carceraria.
Non vedi quant’è forte il potere? Tutti gli schivi, gli ubbidiscono.
Persino coloro che si sono rivoltati e hanno vinto, metteranno ai piedi del potere la loro vittoria,
affinché possano essere ancora schiavi.
Gli schiavi odiano chi vuole essere libero. Non dovrebbero nemmeno aiutarti,
in modo che tu capisca una volta per tutte che la tua ribellione non ha senso.
Il tuo coraggio è spietato, perché ci costringe a svelare la nostra vigliaccheria.
Se preferisci morire poiuttosto che essere per sempre una schiava,
allora non hai comunque il diritto di toglierci la quiete.”
Ritrovata in un cestino dei rifiuti a Berlino,nel ’71, insieme ad alcuni documenti e munizioni.
“Compagni, smettete di trincerarvi dietro le masse! Smettete di razionalizzare le vostre paure per la smisurata violenza del sistema come un problema di comunicazione! Smettete di spacciare la vostra perplessità per erudizione, la vostra impotenza per lucidità!Abbiate il coraggio di combattere, abbiate il coraggio di vincere!
Disintegrate e frantumate le forze dell’imperialismo!
L’obbligo di ogni rivoluzionario è di fare la rivoluzione!”Ulrike Meinhof, 31 maggio ’72, Aula IV dell’Università di Francoforte
Su Ulrike Meinhof, LEGGI QUI
Leggi la commissione di inchiesta sul suo assassinio QUI
“Per nessun motivo”
Lui si incamminò verso la cresta della collina, lassù doveva esserci il cippo, perché lassù c’era il grosso della gente, tanta e disposta come intorno a una grande disgrazia. Aveva anche la curiosità di vedere il cippo, l’aveva già sentito nominare un cippo, ma non sapeva immaginarsene la forma. Arrivò e lo vide, era una specie di enorme paracarro, piantato proprio sul bordo della strada e con sopra dei segni neri che non erano i chilometri e il nome del paese più vicino ma i nomi dei morti e la data della battaglia. Ettore sapeva che quei morti erano seppelliti altrove, eppure sentiva come se i loro cadaveri fossero murati in quella specie di paracarro e così fissava il cippo con grande speciale attenzione. E tremò, lì, di colpo, come se gli si fosse parato davanti un pericolo di morte così preciso ed avanzato che il terrore era già agonia e come sotto i piedi si sentisse aprirsi la terra della collina, pronta per il suo cadavere.
Mentre gli stava passando un po’, una voce cominciò a parlar forte dall’alto della collina, era l’esponente del Comitato di Liberazione che faceva il discorso.
Va bene che io non credo mai niente di quello che dicono questi uomini qui in queste circostanze qui, ma non voglio nemmeno correre il rischio di ascoltarlo. C’è un solo discorso che voglio ascoltare, e questo discorso me lo faccio io, c’è solo una lezione che voglio tenere a mente, e mi odio se penso che l’avevo già imparata bene e poi col tempo me la sono dimenticata. Non finire sottoterra. Per nessun motivo.
Non finire sottoterra. Né in galera.
tratto da “La Paga del sabato” di Beppe Fenoglio
Foto di Valentina Perniciaro, una lapide per ricordare l'eccidio di Gessopalena, Chieti.
Scrivo per mostrare la mia esistenza
“A 7 anni smisi di giocare e ricordo bene come e perché: in una notte d’estate, quando si usava dormire sui tetti a terrazza delle case, fui improvvisamente svegliato da mia madre e mi trovai a correre con centinaia di contadini in mezzo ai boschi, inseguito dalle pallottole. Non capivo niente, ma dopo un’intera notte di disorientamento e di fughe arrivai con alcuni parenti in un villaggio sconosciuto, abitato da molti bambini. Chiesi ingenuamente: “Dove sono?” Sentii per la prima volta la parola “Libano”.
Quella notte ho messo fine all mia infanzia. Non chiedevo più nulla, ero diventato improvvisamente adulto. In Libano ho imparato –mai lo dimenticherò- che cosa significa la parola ‘patria’: là, infatti, per la prima volta e senza nessuna precedente preparazione, mi trovai a fare la coda allo scopo di ottenere il mio primo pasto all’UNRWA. Il pasto principale consisteva in una razione di formaggio giallo. Là ho imparato parole nuove che hanno aperto davanti a me una finestra su un mondo nuovo: guerra, notizie dalla patria, profughi, esercito, confini, TERRA.
Ho cominciato a studiare , a capire e a conoscere la nuova situazione che mi aveva privato dell’infanzia.
Dopo più di un anno mi dissero che saremmo tornati. Ricordo che quella notte non chiusi occhio dalla felicità. Tornare a casa significava per me la fine del formaggio giallo, la fine della provocazione continua dei ragazzi libanesi che mi insultavano con l’epiteto umiliante di “profugo”.
Il viaggio del ritorno avvenne di notte: strisciavamo pancia a terra io, mio zio e la guida. Dopo tanta fatica mi trovai in un certo villaggio. Che delusione! Non era il mio; casa mia non c’era e non c’erano nemmeno i miei compagni. Continuavo a chiedere: “Quando torniamo a casa?” Le risposte erano tante, nessuna convincente. Non capivo nulla. Non capivo come avesse potuto essere distrutto un villaggio intero. Non capivo come fosse accaduto che l’intero mio mondo fosse sparito, né chi fossero quelli che lo avevano annientato.
Nel nuovo villaggio, Deir al-Asad, frequentai la seconda elementare. Il direttore era molto gentile. Ogni volta che l’ispettore veniva a controllare, ricordo, lui mi chiamava e mi nascondeva in uno sgabuzzino o in un armadio perché le autorità mi consideravano un “infiltrato”. Aggiunsi così una nuova parola al mio vocabolario esistenziale. Anche a casa, ogni tanto, mi dovevano nascondere. Mi era proibito di vivere nel mio proprio paese e per ottenere la carta d’identità israeliana mi imparai a dire che ero vissuto con le tribù beduine del nord del paese, e non in Libano.”

“IL LUOGO NON E’ SEMPLICEMENTE UNO SPAZIO, E’ UNO STATO MENTALE; NE’ GLI ALBERI SONO SOLAMENTE ALBERI, MA COSTOLE DELL’INFANZIA.”
“Vuoi andare in Grecia. Chiedi all’autorità competenti del tuo paese di avere un passaporto e scopri che non sei cittadino, perché tuo padre o uno dei tuoi parenti era scappato portandoti con sé durante la guerra della Palestina. Eri un bambino, allora. Scopri che chiunque sia scappato dalla guerra in quel periodo poi, ritornano di nascosto, ha perso il diritto alla cittadinanza. Rinunci al passaporto e chiedi un “Laissez Passer”. Scopri che non sei residente nel tuo paese e quindi non puoi avere un certificato di residenza. Pensi che sia uno scherzo e ne parli al tuo amico avvocato: “Eccomi qui: non sono cittadino e non sono residente. Allora, dove e chi sono?” Sorprendentemente vieni a sapere che la legge è dalla loro parte, e tu devi dimostrare che esisti. Ti rivolgi al Ministero degli interni: “Sono o non sono?”
Dammi un filosofo e gli proverò che esisto. Capisci che filosoficamente esisti ma legalmente no.”
–SCRIVO PER MOSTRARE LA MIA ESISTENZA, PER VIVERE, PER ESSERE PRESENTE–
Ancora un saluto a Mahmoud Darwish, grande poeta della terra e dell’ulivo.
La Palestina ti piange.

“Avevo 20 anni. Non permetterò a nessuno di …
A PAUL NIZAN, ucciso nel 1940 da una pallottola tedesca durante la ritirata di Dunkerque. Saggista, narratore, pazzo viaggiatore
“Vivo, non ci fu un’ora che non rischiasse di perdersi; morto, corse un pericolo anche peggiore: per fargli pagare la sua chiaroveggenza una congiura di imbecilli ebbe la pretesa di farlo scomparire.
Da dodici anni apparteneva al Partito, quando, nel settembre del 1939, fece sapere che l’abbandonava: era la colpa inespiabile, era il peccato della disperazione che il Dio dei cristiani punisce con la dannazione.
I comunisti non credono all’Inferno: credono al nulla, e così fu deciso l’annientamento del compagno Nizan. Una pallottola esplosiva l’aveva colpito, nel frattempo, alla nuca, ma tale liquidazione non soddisfece nessuno: non bastava che avesse cessato di vivere, occorreva che non fosse esistito affatto.
La Virtù su, insieme col whisky, il nostro svago principale.
Nizan era un guastafeste: chiamava alle armi, all’odio, classe contro classe; con un nemico impaziente e mortale non esistono accomodamenti: uccidere o farsi uccidere, senza vie di mezzo. E senza dormire mai.
Pensavamo che, se fosse vissuto, avrebbe partecipato della nostra nuova sottigliezza, vale a dire, dei nostri compromessi. Che cosa aveva salvato la sua violenta purezza se non una pallottola perduta? Non c’è di che vantarsi. Ormai quel morto se la spassava allegramente nei suoi libri aveva scritto che un borghese francese a quarant’anni è una carcassa; e poi se l’era svignata, a trentacinque.
All’indomani del conflitto quella gioventù impazzì d’orgoglio e trovò il proprio piacere nel comportamento dell’obbedienza. Dopo cinque anni il loro avvenire si sgelava: avevano dei piani: la candida speranza di rinnovare la letteratura per mezzo della disperazione, di conoscere il fastidio di grandi viaggi intorno al mondo, l’insopportabile noia di guadagnare denaro e sedurre donne, oppure, più modestamente, di diventare farmacista o un dentista disperato e restarlo a lungo, molto a lungo, senz’altra preoccupazione che quella della condizione umana nella sua generalità. Che allegria: Nizan non aveva nulla da dire loro: parlava della condizione dell’uomo, molto delle cose sociali e delle nostre alienazioni: conosceva il terrore e il ringhio piuttosto che le dolcezze della disperazione; nei giovani borghesi che frequentava odiava il proprio riflesso e, fossero disperati o no, li trovava deprimenti.
Il loro rilassarsi, congelatosi, non è più che inerte vacuità. Fanno quel che occorre, modestamente, si guadagnano il pane, hanno la 403, una casa in campagna, una moglie e dei bambini. Ma, con uno stesso colpo d’ala, speranza e disperazione li hanno abbandonati. Questi ragazzi si preparavano a vivere, “partivano”, ma il loro treno si è fermato in aperta campagna: non andranno in nessun luogo, non faranno nulla.
Talvolta un ricordo confuso della loro splendida irrequietezza gli torna in mente ed allora si chiedono: “Ma in realtà, che cosa volevamo?” e non se ne ricordano.
Questi adattati soffrono di un’inadattabilità cronica e ne morranno: sono degli accattoni senza miseria, è inutile rimpinzarli. Li ricordo a vent’anni, così vivaci, così gai, impegnati a darci il cambio. Li osservo oggi, con quegli occhi corrosi dal cancro della stupefazione, e penso che non meritavano un simile servizio.
Ma noi non abbiamo più nulla da dire ai giovani; cinquant’anni di vita in questa provincia arretrata qual è divenuta la Francia ci hanno svilito. Abbiamo gridato, protestato…e poi alla fine eccoci qua: abbiamo accettato ogni cosa. Comunicare ai questi giovani sconosciuti la nostra saggezza e i bei frutti della nostra esperienza?
In conclusione, ragionieri o spacconi, teppisti o tecnici, lottano senza speranza e soli contro l’asfissia. E non illudetevi che coloro i quali scelgono la famiglia e un mestiere si rassegnino; non hanno fatto che rivolgere la propria violenza contro se stessi e infierire; ridotti all’impotenza dai padri, si sono storpiati da se stessi per risentimento; gli altri rompono tutto, colpiscono chiunque con qualunque cosa, con un coltello, con una catena di bicicletta; per sfuggire al proprio disagio farebbero saltare in aria tutto.Ma non salta nulla.
Giovane e violento, colpito da morte violenta, Nizan può uscire dalla fila e parlare della giovinezza ai nostri giovani : “AVEVO VENT’ANNI. NON PERMETTERO’ A NESSUNO DI DIRE CHE QUESTA E’ LA PIU’ BELLA ETA’ DELLA VITA”. Riconosceranno la loro stessa voce; egli potrà dire agli uni: state morendo di modestia, abbiate il coraggio di desiderare, siate insaziabili, scatenate le forze terribili che si fanno guerra e girano in tondo sotto la vostra pelle, non vergognatevi di volere la luna: ne abbiamo bisogno!
E agli altri: dirigete la vostra rabbia su coloro che l’hanno provocata, non cercate di sfuggire al vostro male, investigatene la cause e infrengetele.
Egli può dire tutto, perchè è un giovane mostro, un bel giovane mostro come loro, che divide il loro terrore di morire e il loro odio di vivere nel mondo che noi abbiamo fatto per loro. Era solo, diventò comunista, cessò di esserlo e morì solo, accanto a una finestra, sui gradini di una scala. Questa vita si spiega attraverso la sua intransigenza: si fece rivoluzionario per rivolta e quando la rivoluzione dovette cedere il passo alla guerra, ritrovò la sua violenta giovinezza e finì da ribelle.”
Jean-Paul Sartre, Marzo 1960
Crollavano le dighe
“Sentì le vibrazioni del corpo di Felipe, che rispondevano alla sua intenzione di scandalizzarlo. La teneva talmente stretta che quasi le faceva male. Lavinia si chiese che cosa succedeva con la donna sposata, con le lezioni serali all’università. Respirava a fatica. Con le labbra poteva toccare i bottoni della camicia di lui a metà petto. Il ballo stava diventando una cosa seria, pensò. Crollavano le dighe. Si rompevano i freni. I battiti del cuore acceleravano.
Il respiro di Felipe, caldo, sul collo. La musica che li muoveva, nell’oscurità.
La stringeva a sè con la forza con cui un naufrago abbraccerebbe una tavola di salvataggio in mezzo all’oceano. […]
Entrarono in casa al buio. Tutto successe con grande rapidità. Le mani di Felipe salivano e scendevano lungo la sua schiena, scivolando verso tutti i confini del suo corpo, e si moltiplicavano, vive, esplorandola, aprendosi la strada attraverso l’ostacolo dei vestiti. Lei, ancora cosciente, rispose nella penombra, mentre una parte del suo cervello cercava di assimilare ciò che stava accadendo senza riuscirci, offuscata dalle sensazioni della pelle che le suscitavano un’ondata di fremiti.
Lavinia smise di pensare. Sprofondò nel petto di Felipe, si abbandonò con lui alla marea di calore che emanava dal suo ventre, sommersa dalle onde che si sovrapponevano, ostriche, molluschi, palme, paesaggi sotterranei che cedevano al movimento del corpo di Felipe, quello di lei che si piegava ad arco, si tendeva, e i suoni inarticolati, giaguari, fino al picco dell’onda, all’arco che lanciava frecce, al convulso chiudersi e dischiudersi dei fiori. Si parlarono appena tra un attacco e un altro.
Si alzò alle risate di Lavinia, che decise finalmente di approfittarne, di liberarsi dal bisogno smodato di quella passione esplosa così irresistibilmente in una sola notte estenuante che le aveva tolto il senso della realtà e pensò che, allo spuntare del giorno, Lucrecia li avrebbe trovati, tutti e due morti per un attacco cardiaco.
Oggi è venuto un uomo. E’ entrato assieme alla donna. Sembravano prigionieri di filtri d’amore. Si sono amati ardentemente come se si fossero trattenuti per molto tempo. E’ stato come riviverlo. Vivere un’altra volta il fuoco di Yarince che mi penetra nel ricordo, nei rami, nelle foglie, nella tenera polpa delle arance. Si sono misurati come guerrieri prima del combattimento. Dopo, tra loro, non c’è stata che la pelle, quella di lei moltiplicava mani per abbracciare il corpo dell’uomo steso sul suo; il suo ventre si apriva come volesse attrarlo dentro di sè, annidarlo, farlo nuotare nel suo interno per tornare a darlo alla luce.
Si sono amati come ci amavamo Yarince ed io quando lui tornava da lunghe esplorazioni di molte lune. Una volta e un’altra ancora fino a esaurirsi, stesi, quieti su quella morbida stuoia. Lui emana forti vibrazioni. Lo circonda un alone di cose occulte. E’ alto e bianco come li spagnoli. Ora so, senza dubbio, che nè lei nè lui lo sono. Mi chiedo che razza sarà questa, mescolanza di invasori e indigeni nahua.
So soltanto che si amano come animali sani, senza vestiti nè inibizioni. Così amava la gente prima che lo strano dio degli spagnoli proibisse i piaceri dell’amore.
Lo salutò sulla porta. Rimase a guardarlo mentre si allontanava camminando velocemente, finchè divenne piccolo per la distanza. Ritornò in camera. Rimasta sola, si guardò allo specchio. Aveva il volto di una donna ben amata. Sapeva di lui. Fosse stato per lei non si sarebbe lavata, sarebbe rimasta con il suo odore per tutto il giorno. Le piaceva l’odore di seme. Di sesso. Ma andò sotto la doccia, per togliersi di dosso il languore , la voglia di tornare a letto.”
GIOCONDA BELLI “La donna abitata”
Foto di Henri Cartier Bresson, New York 1951
prima o poi…
E’ MORTO UN PARTIGIANO.
NE NASCONO ALTRI CENTO!
Ciao Carletto.
Mi piace ricordarti con questa foto. Mi piace ricordarti vivo, per le strade di quella città,
a pochi passi da me, a pochi passi da tutti noi.
Mi piace pensare che un giorno, prima o poi, ti vendicheremo!
“Noi viviamo stretti in un giuramento di ferro.
Per esso si va sulla croce e incontro ai proiettili.
Nelle nostre vene scorre sangue, non acqua.
Noi marciamo tra l’abbaiare dei revolver,
per incarnarci, morendo,
in navi,
in versi,
e in altre opere di lunga durata.”
Vladimir Majakovskij
la nave pirata!
PAUL Deve essere un nascondiglio.
Infila un dito nella fessura, la scorre e alza il lembo della moquette. Appare il coperchio di una scatola di legno della grandezza di un mattone
PAUL La famiglia! Magnifica istituzione morale, santa famiglia, inviolabile creazione divina, chiamata a educare i selvaggi alla virtù! Ripeti con me: Sacra famiglia , sacrario di tutti i valori… dove bambini innocenti sono torturati fino a quando non hanno detto la prima bugia…Dove la volontà è infrancata dall’autoritarismo e dalla repressione…dove la coscienza è uccisa da ciechi egoismi.
Famiglia, tu sei il covo di tutti i vizi sociali.
JEANNE Basta!
Paul la trascina per i capelli fino al taglio della moquette, poi la rivolta di colpo.
PAUL Vuoi che questo potente e luminoso guerriero costruisca una fortezza dove tu possa rifugiarti, per
non avere mai più paura, per non sentirti sola, per non sentirti esclusa. E’ questo che cerchi, vero?
JEANNE Si.
PAUL Non lo troverai mai!
JEANNE Io l’ho già trovato quest’uomo.
PAUL Bhè, non passerà molto che si costruirà lui una fortezza per te, fatta con le tue tette, con la tua
vagina, con il tuo odore, con il tuo sorriso. Una fortezza dove lui si sentirà al sicuro e così stupidamente virile che vorrà la tua riconoscenza sull’altare del suo cazzo.
JEANNE Ma l’ho trovato quest’uomo, sei tu!

Ultimo Tango a Parigi
VIENI CON ME, SULLA NAVE PIRATA!
sei la mia patria
Mi sento felice.
Non ci sto capendo nulla del mio presente.
Se non che son felice, si, proprio felice.
Sei la mia schiavitù sei la mia libertà
Sei la mia carne che brucia
come la nuda carne delle notti d’estate
sei la mia patria
tu, coi riflessi verdi dei tuoi occhi
tu, alta e vittoriosa
sei la mia nostalgia
di saperti inaccessibile
nel momento stesso
in cui ti afferro
—Nazim Hikmet, Poesie dal carcere—
Fermarsi soltanto alla felicità
-Il problema del capitalismo è che sul muro spruzzato dal sangue di milioni di rivoluzionari fucilati, sul muro finale, ci sarà sempre scritta la promessa di Saint Just:
“LA RIVOLUZIONE DEVE FERMARSI SOLTANTO ALLA FELICITA'”-
Tratto da “La danza immobile”, Manuel Scorza
“ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli”
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: “Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?”.
Ed elli a me: “Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli”.
E io: “Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?”.
Rispuose: “Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.
DANTE ALIGHIERI -III CANTO INFERNO- “Gli ignavi”
Dante tornerà spesso tra le righe di questo blog perché è una passione irrinunciabile,
é la perfezione che da secoli scalda la nostra terra… quando lo leggo mi vergogno un po’ meno
di essere italiana, quando lo leggo mi sento meno sola.
Quando leggo gli Ignavi, tratti dal terzo canto dell’Inferno, sento di non aver sbagliato.
Deprivazione tattile
“Sottratto al sociale, il corpo del recluso non ha modo di ricevere e cercare stimoli sensoriali. E, fra tutte le privazioni, quella della tattilità è forse la più grave e devastante. Così devastante che un bambino ne può anche morire.
Quando sul finire dell’800 la puericultura americana introdusse il “lettino con le sbarre”, soppiantando la tradizione della culla, cominciarono a verificarsi morti inspiegabili di bambini perfettamente sani. L’evento è passato alla storia come “morte da lettino” o “sindrome mortale infantile subitanea”. L’esperienza umana insegna che il cullamento è un moto di accarezzamento dell’intero corpo in ogni sua funzione.Una condizione essenziale di benessere che viene preclusa al “bambino fra le sbarre”.
Come la deprivazione tattile può far morire, così il toccamento può far rinascere.Il con-tatto umano è infatti una possibile cura in caso di coma irreversibile o per creature con lesioni cerebrali e handicap psicomotori. E’ il caso di quel centinaio di volontari che, a turno, andavano a casa di una bambina perchè potesse avere 24 su 24 l’unica medicina in grado di farla star meglio: il contatto umano: l’incontro e il toccamento di persone di ogni sesso, età, professione, cultura, che l’aiutavano negli esercizi di riabilitazione. La stimolazione è taumaturgica. L’assenza di tatto, invece, è dolorosa.
Tolgo dalle braccia -sotto pelle- frammenti di posate di plastica: le sole che si possono usare. Punte spezzate di forchette di plastica. Bastano piccoli taglietti e questi frammenti entrano sottopelle. Da quegli stessi taglietti, spingendo, tiro fuori le punte di forchette. Non c’è sangue, non c’è una goccia di sangue! Più ne tiro fuori e più, toccando, ne sento! Con un senso di fastidio, ma pazientemente, sto lì a tirar fuori questa plastica. Mi sveglio con un senso di angoscia. Quanta materia inerte ho assorbito in tutti questi anni attraverso i pori della pelle?
Penso al ferro, al cemento, alla plastica che tocco. Ed ai segni devitalizzati che mi invadono.E poi non c’è sangue! Senza che me ne accorgessi la morte mi è entrata dentro impossessandosi del sangue. Scrivo o racconto il sogno a chi posso , per lanciare un allarme. Bisogna avvisare, far presto, prima che l’inerte ci invada totalmente!”
tratto da “IL BOSCO DI BISTORCO”. Renato Curcio, Stefano Petrelli, Nicola Valentino. Edizioni Sensibili alle Foglie
Questo blog, inevitabilmente, parlerà spesso di reclusione, di privazione, di isolamento.
Si parlerà del carcere, dei meccanismi punitivi, di tortura fisica e psicologica, di ospedali psichiatrici giudiziari, di centri di detenzione temporanea per migranti…dei reietti. Di quelli che per lo stato devono marcire da reietti
Del diritto alla libertà, di quanto si può imparare dagli occhi di chi si è visto togliere tutto.
Col vento di questa sera non posso non pensare a chi è chiuso in una cella..con questo fischiare libero del vento, con questo piacere della pelle nel farsi attraversare da tanta forza.
CONTRO OGNI CARCERE, CONTRO OGNI GALERA.
GIORNO DOPO GIORNO!
































































Commenti recenti