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Alaa scrive alla sua compagna e a suo figlio appena nato: da una cella
Questa lettera è stata scritta in una cella,
luogo capace di creare delle lettere d’amore uniche, piene di carne, di baci, di tatto, di strazio: le lettere d’amore da o per il carcere, sono la cosa che più lacera il mio cuore, son quello che ha cambiato la mia vita…
Quando conosci quella sensazione di privazione forzata non te ne liberi più, perché hai scoperto che la carta è carne, che lo diventa facilmente…immagino quante lacrime siano scese sul volto di Manal quando ha letto queste righe, immagino il modo in cui ha stretto suo figlio, in cui ha tenuto le sue manine nella sua, apparentemente enorme.
E allora il mio pensiero va a loro due, ad una madre privata della gioia di dividere l’emozione più bella con l’uomo che ama,
ad un padre…che non ha ancora sentito l’odore della pelle di suo figlio.
NO AI TRIBUNALI MILITARI
NO AL CONSIGLIO SUPREMO DELLE FORZE ARMATE
EGITTO LIBERO, ALAA LIBERO!
Mia partner, mia amica, mia metà, mio amore, madre dei miei figli, mio supporto in vita. MI MANCHI, TI AMO.
L’unica ragione per cui tollero di stare separato da te viene dal tuo supporto.
Ho le fotografie, sono confuso in merito a ciò che provo ora ma anche felice. Non è corretto che io non possa stare con te per confortarti, non è giusto che io debba aspettare te per stare bene e che sia tu a dover confortare me. E’ oltremodo scorretto che non posso tenere in braccio Khaled per ore come potei a suo tempo tenere in braccio innumerevoli neonati, dando amore e attenzioni a figli e figlie di amici e parenti. Ancora non posso fare lo stesso con mio figlio.
Vorrei sapere quanti anni potrà avere Khaled quando finalmente riuscirò ad uscire da qui, mi piacerebbe sapere.. cos’altro mi perderò? Le sue manine? La prima volta che stringerà le sue piccole dita? La prima volta in cui realizzi che i suoi occhi si stanno focalizzando su di te? O andrà ancora peggio ed io non potrò vedere il suo primo sorriso?
Che cosa si prova a tenerlo tra le braccia? Qual’è il suo odore? Com’è il suono del suo pianto?
Mio figlio, nostro figlio, il nostro piccolo Khaled.
Ho mostrato le fotografie a tutti nella cella, sono davvero felici per me ma come tutto per me in questa prigione, mi rende ancora più solo e mi fa sentire la solitudine.
Ho pensato molto alla nostra vita in Sud Africa al semplice piacere di stare insieme vivendo una vita semplice e piacevole, sempre continuando a fare un buon lavoro. Commentavamo spesso quanto la gioventù Egiziana aspiri solamente ad avere una casa ed una famiglia ed un lavoro per potersi sostentare. Succederà quando la popolazione avrà i suoi diritti, il giorno in cui potremo godere di poter essere una famiglia in Egitto con certezze per il futuro, felici nella nostra tranquillità e realizzati nei nostri lavori, sarà il giorno in cui la rivoluzione sarà finita.
Fino a quel momento per ottenere ciò dobbiamo restare uniti affrontando qualsiasi cosa la vita ci faccia capitare, sapendo che fin quando tutti saremo uniti, tutto sarà perfetto.
Mi manchi da morire, immagino che tu conosca questa sensazione, sono sopraffatto da quanto ciò è diventato scorretto e senza senso a questo punto, ma sò che siamo entrambi in buone mani, Khaled è protetto dall’amore incondizionato non solo dei suoi genitori ma di moltissime famiglie e centinaia di zie e zii, crescendo spero possa apprezzare tutto questo.
Alaa,
6-12-2011
cell 6/1 ward 4
Tora prison
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Tahrir sbarca a Roma: la storia di Nabil
Nabil Ahmed, attivista egiziano stabilito in Italia, è oramai al suo terzo giorno di sciopero della fame e della sete per protestare contro il massacro di civili che sta avvenendo in Egitto per mano del Consiglio supremo delle forze armate.
di Anthony Santilli
Di fronte all’edificio della FAO, a Roma, accanto alle decine di tende messe su per il presidio contro la privatizzazione dell’acqua, Nabil Ahmed, militante egiziano da anni oramai stabilito in Italia, ci spiega le ragioni della sua protesta.
Dallo scorso venerdì [25 novembre] Nabil ha infatti cominciato uno sciopero della fame e della sete, ricevendo un sostegno trasversale.
Nabil, quali sono le ragioni di questa tua protesta così radicale?
Ho deciso di praticare questa protesta così radicale perché la drammaticità della situazione oggi in Egitto lo richiede. Questo mio gesto è indirizzato, da una parte al popolo egiziano. Voglio dire loro che anche noi Egiziani all’estero partecipiamo alle loro lotte, e siamo con loro nella resistenza contro il Consiglio Supremo delle forze armate.
La seconda ragione è che l’Occidente, l’Italia, l’Europa tutta non possono essere indifferenti a quanto sta accadendo nel Sud del Mediterraneo, non possono rimanere immobili di fronte ai massacri che le forze armate stanno effettuando contro la popolazione civile egiziana.
Intanto in Egitto, il processo elettorale è alle porte.
Non è alle porte, è già cominciato. Nelle sezioni all’estero come in Italia, gli scrutini sono stati aperti mercoledì scorso e si chiuderanno stamattina [27 novembre], anche se nessuno ne parla. Ma per me le elezioni dovrebbero rappresentare un momento di festa, dopo tanti anni caratterizzati da una dittatura opprimente come quella egiziana.
Invece, secondo loro, io dovrei dare il mio voto ed allo stesso tempo vedere un fratello o un parente massacrati per strada mentre rivendicano i propri diritti. E’ assurdo.
Vuoi lanciare un appello?
Voglio dire agli egiziani che come me vivono fuori dal proprio paese che la lotta deve estendersi anche qui. Dobbiamo far sentire la nostra voce, far capire ai militari che non rimarremo in silenzio.
Rivolgo un appello anche tutti quelli che in Italia da anni lottano per rivendicare i propri diritti, ed è per questo che sono qui a Roma assieme a chi protesta contro le speculazioni sull’acqua: le loro lotte sono le lotte di noi egiziani, perché nascono dagli stessi problemi di fondo.
Allo stesso tempo, la lotta che io ed il mio popolo stiamo portando avanti deve essere anche una loro lotta, da sostenere con convinzione.
27 novembre 2011
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Fermati alcuni compagni italiani a Tahrir, più alcune immagini
Comunicato di “Indipendenti” sui fermi dei compagni italiani al Cairo!
Il Cairo, Egitto, 26 novembre 2011
La scorsa notte, al termine di una nuova intensa giornata di mobilitazione di massa intorno a piazza Tahrir, 4 mediattivisti, tre italiani e una giovane blogger palestinese di Gaza, sono stati tratti in arresto dalla polizia egiziana e sono tuttora trattenuti con la grave e ingiustificata accusa di sabotaggio.
I quattro raccontano di essersi trovati nei pressi di un incendio che aveva colpito le piante all’ingresso di un noto albergo del centro e, mentre stavano documentando quanto accadeva con macchina fotografica e telecamera, sono stati avvicinati da due uomini in borghese e non identificati che inveivano in arabo contro di loro.
Nella situazione concitata hanno preso un taxi per farsi portare a casa ma la vettura con i 4 a bordo é stata poco dopo fermata dalle stesse persone che, ancora una volta senza qualificarsi, hanno imposto al conducente di condurli al commissariato dove li hanno appunto trattenuti con la fantasiosa accusa di essere i responsabili dell’incendio.
Da ieri sera sono dunque in stato di fermo e da qualche ora sono stati tolti loro i telefoni cellulari attraverso cui eravamo in contatto con loro.
Sicuri che al più presto la situazione si risolverà nel migliore dei modi, non possiamo fare a meno di segnalare la preoccupazione per il trattamento riservato in questi contesti a chi si mobilita per garantire quello scambio di informazioni attraverso la rete, i twitter e i blog che tanto hanno aiutato le popolazioni di tutto il mondo a liberarsi dai regimi e a rivendicare una società più giusta e libera.
Tutte e tutti Liberi!
Roma, 26 novembre 2011
Queste foto e queste brevi righe le rubo da InvisibleArabs, perché raccontano tanto,
raccontano quel che spero di poter viver presto, di respirare con i miei polmoni.
La vecchia via Mohmmed Mahmoud è stata ribattezzata da chi sta a Tahrir.

La ribattezzata VIA DEI MARTIRI
Cuore della battaglia che ha opposto i ragazzi di Tahrir alle forze della Sicurezza centrale (la polizia egiziana), via Mohammed Mahmoud è stata ribattezzata shara Shuhada, via dei Martiri, come si legge nella foto scattata da uno dei blogger/attivisti più conosciuti, Wael Abbas. E’ un dettaglio, nella storia complicata di questo capitolo della rivoluzione egiziana, ma serve anche a ricordare che in gioco, in questi giorni, c’è stata la vita e la morte di molti ragazzi. Oltre quaranta le vittime, migliaia i feriti. Ignoto il numero di chi ha perso un occhio.
L’immagine di questo capitolo è quella che ritrae Ahmed Harara, il giovane dentista che ha perso un occhio il 28 gennaio, e l’altro il 19 novembre. Un occhio per ognuno dei capi di questo filo che congiunge le fiammate della thawra, della rivoluzione. Tanto è stata simbolo, la perdita della vista, che la benda su di un occhio è stata usata sia dagli attivisti (come Wael Ghonim, il manager di Google che era stato in predicato di vincere il Nobel per la Pace) sia da uno dei Leoni che immettono sul ponte di Qasr el Nil. Ponte che, nei 18 giorni epici tra gennaio e febbraio, è stato al centro degli scontri. Anche il Leone di Qasr el Nil ha ora la benda, come mostra la foto di un altro attivista, Mosa’aberizing.

Il leone bendato di Qasr al Nil
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Tahrir, la traduzione di un volantino da Infoaut
DA INFOAUT
(GRAZIE)
Pubblichiamo la nostra traduzione di un volantino distribuito dai Comitati Popolari per la Difesa della Rivoluzione in Egitto. Raccolto nelle strade intorno Piazza Tahrir il 18 novembre, si tratta dell’appello alla mobilitazione che poi sfocerà nella grande insurrezione ancora in corso nella capitale e nel resto del paese egiziano. In poche righe si condensa il programma della rivoluzione riconoscendo nell’ultimo paragrafo il grande lavoro di lotta e organizzazione che ha attraversato l’Egitto dalle giornate di gennaio fino ad oggi. L’esortazione è che quel lavoro rivoluzionario trovi finalmente la massima espressione politica e sociale per compiere il nuovo titanico passo avanti nel proseguimento degli obiettivi della rivoluzione, primo tra tutti lo scioglimento del Consiglio Militare.
Insieme per il Potere del Popolo 
I Comitati Popolari per la Difesa della Rivoluzione partecipano alle manifestazionidi Venerdì 18 Novembre, per richiedere il passaggio di potere al governo dei civili, così realizzando gli obiettivi della rivoluzione che il popolo egiziano ha richiesto. I quali sono: giustizia sociale, libertà e dignità. Il Consiglio Militare sta bloccando la loro realizzazione a causa della propria parzialità verso i propri interessi che, necessariamente, sono in contraddizione con gli interessi del popolo. Il popolo vuole il suo pane quotidiano, ma essi vogliono accumulare ampie ricchezze nei loro conti bancari personali. Il popolo vuole libertà, ma essi non possono continuare a governare senza trascinare migliaia dei nostri ragazzi nelle loro prigioni. Il popolo vuole dignità, ma essi la schiacciano a terra migliaia di volte al giorno. Questa e la realtà nell’ombra del governo del Consiglio Militare, che protegge i lasciti di Mubarak, garantendo ad essi il controllo sul nuovo parlamento. Questo è ciò che ci ha spinto a dire con sicurezza che il Consiglio Militare è il primo nemico della rivoluzione, il vero leader della contro-rivoluzione, che non vuole il meglio per l’Egitto o per il suo popolo.
Al contrario, dal momento che il Consiglio Militare è salito al potere, esso ha preparato il sentiero catastrofico attraverso il quale siamo stati condotti, riguardo all’amministrazione del paese. E’ un sentiero basato sulla repressione; tribunali militari per i civili; esasperazione del conflitto settario tra cristiani e musulmani di quando in quando per distrarre il popolo dalle proprie vertenze di principio; degenerazione della sicurezza pre-programmata; assenza di processi per gli uccisori dei martiri; ritardo nel mettere a processo l’assassino Mubarak ed i suoi complici; e l’assassinio di cittadini, crivellati di colpi e travolti da mezzi corazzati che gli egiziani hanno comprato con i loro magri redditi.
Oggi, gli egiziani non hanno nulla, se non la loro unità e l’organizzazione dei propri gruppi rivoluzionari e comitati popolari in espansione in ogni strada d’Egitto, che si preparano a strappare il potere al Consiglio Militare e a stabilire un’autorità popolare rivoluzionaria che dia alla nazione ed ai cittadini la propria dignità ed il proprio diritto ad una vita libera e degna. Alcuni hanno ventilato che raggiungere questo obiettivo sia impossibile. Diciamo ad essi che è impossibile andare avanti sotto il peso di un governo autoritario che ha succhiato il sangue del popolo egiziano per più di trent’anni. E’ impossibile arrendersi sugli obiettivi della rivoluzione, che il popolo egiziano ha sognato per molti lunghi anni. Libertà e giustizia non sono troppo per gli egiziani, perché essi possono realmente strapparle alla morsa dei tiranni del Consiglio Militare, che si immaginano di essere al di sopra del popolo e di ogni responsabilità.
Insieme per un Governo Civile Rivoluzionario
Abbasso il Governo Militare
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Tahrir: lacrimogeni o gas nervino? giudicate voi
AGGIORNAMENTO ORE 13
UN NEONATO, DI NOVE MESI, E’ MORTO IN BRACCIO ALLA SUA MAMMA MENTRE PASSAVA IN UNA STRADA ADIACENTE ALLA PREFETTURA, DOVE STAVANO AVVENENDO SCONTRI CON LE FORZE ARMATE.
I GAS L’HANNO UCCISO IN POCO TEMPO. E’ IL PIU’ GIOVANE MORTO DELLA RIVOLUZIONE EGIZIANA.
SI INIZIA A PARLARE UFFICIALMENTE DI NERVINO…
“To the doctors in the field (tahrir and elsewhere), my experience with the gas used by the police: It causes extra-pyramidal symptoms (involuntary jerks in extremities and trunk mimicking a convulsive seizure, occulo-gyric crisis, etc.) and little respiratory distress. The jerking is relieved by low-dose (3-5mg) diluted diazepam given slowly IV.
The type of gas used is still uncertain but it is certainly very acidic and is not the regular tear gas used in January. Please try to capture as many videos as possible of the symptoms for documentation (and eventually legal action).”
Queste son le considerazioni di alcuni medici degli ospedali cairoti, riguardo i sintomi provocati dai gas che invadono l’aria di tutta la zona adiacente a piazza Tahrir.
Cosa c’è nelle centinaia di candelotti lanciati?
Non certo gas lacrimogeni, visto quante morti ci son state per asfissia: gli effetti sono drammatici, questi gas bloccano il sistema nervoso con paralisi che durano ore, che causano soffocamento e ripetuti conati di vomito.
Le immagini parlano da sole.
Oltre ai proiettili rivestiti che fanno saltare occhi su occhi dei manifestanti che non vogliono mollare la piazza, questi maledetti gas stanno cercando di spazzare via questa rivoluzione: che non è la seconda.
E’ semplicemente la prima, al 302esimo giorno di svolgimento!
Peccato solo che si son fidati così tanto, peccato che hanno dato per mesi fiducia a quelli che -come immaginavamo- ora godono nel vederli cadere a terra morti.
THAWRA HATTA AL-NASR
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I Fratelli musulmani disertano: non scendono a Tahrir ad affrontare l’esercito
Se nelle ultime settimane i Fratelli musulmani avevano progressivamente acquisito visibilità per le loro posizioni critiche contro i militari, ora sembrano intenzionati a fare un passo indietro. Un atteggiamento ambiguo, ma non sorprendente.
di Anthony Santillida OsservatorioIraq
Dall’inizio del mese di novembre e sino a venerdì scorso la Fratellanza aveva svolto un ruolo di leadership nelle iniziative volte a contestare l’esercito, in particolare dall’apparizione del famoso “documento al-Selmi”.
La loro visibilità su tutti i media nazionali e internazionali era in crescita, anche in vista delle prossime elezioni. Da quando tuttavia sono cominciati gli scontri tra la piazza e gli apparati di sicurezza egiziani, gli Ikhwan hanno deciso di fare un passo indietro.
Mentre i movimenti salafiti e la sinistra più radicale erano per le strade, e il numero dei morti e dei feriti aumentava inesorabilmente, i Fratelli musulmani si sono limitati ad una “ferma condanna” delle violenze in corso.
Non si possono dimenticare le affermazioni del Segretario generale del partito della Giustizia e della Libertà [braccio politico degli Ikhwan] di domenica scorsa. Il dr. Sa’ad Katatny aveva infatti criticato la pratica dei sit-in prolungati che avrebbero, a suo dire, “paralizzato la città”.
Una velata critica a chi aveva deciso di rimanere in piazza la notte tra venerdì e sabato, quando invece i Fratelli si erano già ritirati.
Intanto gli scontri continuavano. Costretta a schierarsi, la Fratellanza ha emesso numerosi comunicati, solo apparentemente contraddittori. In un loro comunicato di ieri [21 novembre, ndr] gli Ikhwan hanno affermato di ritenere “il Consiglio supremo delle forze armate il principale responsabile di tutto quanto accaduto” e “il governo provvisorio il secondo principale responsabile di questi sanguinosi eventi”.
Tra le principali richieste vi erano l’immediata cessazione di qualsiasi atto di aggressione verso i manifestanti, il ritiro delle truppe dalla piazza, le dimissioni del governo provvisorio, una road map che definisca in maniera dettagliata il ritiro dei militari, e la costituzione di un governo civile entro la metà del 2012.
Tuttavia, in un altro comunicato sempre di ieri si affermava che “la Fratellanza si asterrà dal partecipare a qualsiasi sit-in o protesta che potrebbe causare altri scontri”. Questo atteggiamento apparentemente ambiguo riflette in realtà una tendenza in seno alla Fratellanza che da tempo oramai sembra prevalere nel dettare i comportamenti dell’elite dirigente.
I Fratelli musulmani intendono agire nel solco della legalità. La loro lotta contro il documento al-Selmy partiva da presupposti giuridici ben definiti che la Fratellanza ha sempre manifestato in maniera trasparente. La sostanza delle critica portata al documento era che, in uno stato di diritto, non si può condizionare la sovranità popolare attraverso documenti dettati dall’alto.
Ecco motivata la loro richiesta di costituire una commissione d’inchiesta per accertare le responsabilità delle violenze di questo lungo week-end. Ecco perché hanno deciso di non supportare, almeno ufficialmente, le mobilitazioni in programma per oggi in tutto l’Egitto.
Non vogliono presentarsi come dei semplici agitatori, ma come partner affidabili a livello interno e nel panorama internazionale, sostenitori quindi del processo elettorale che, a loro avviso, non deve essere sospeso.
Tuttavia, in un momento delicato come quello che sta vivendo l’Egitto, il loro atteggiamento non è certo condiviso da chi in piazza ha lasciato morti e feriti. Bisognerà allo stesso tempo vedere quello che la stessa base della Fratellanza deciderà di fare.
E’ emblematico tuttavia quanto accaduto a piazza Tahrir ieri pomeriggio. In un primo momento la Fratellanza aveva declinato l’invito a scendere in piazza. Ma quando Muhammad al-Beltagi, una delle più eminenti figure della Fratellanza, aveva deciso di entrare in piazza, pur senza un folto seguito, i manifestanti hanno deciso di cacciarlo.
La scissione che si ebbe nei primi giorni delle mobilitazioni, che portarono lo scorso febbraio alla cacciata di Mubarak, è nota. Da una parte i quadri del movimento non vollero sostenere le proteste, mentre le generazioni più giovani decisero di “disobbedire” scendendo per strada. Il sostegno ufficiale alla rivolta, dato solo a posteriori, rappresentò una vittoria della base.
Nelle prossime ore capiremo come le differenti correnti in seno al movimento, assieme agli altri gruppi, reagiranno alla tradizionale ambiguità imposta dall’alto.
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Tahrir: con i cadaveri trascinati dalla polizia nella spazzatura

QUI SI CONTANO 8 CADAVERI
Nessuna parola, se non che dal primo giorno che ho vissuto e calpestato quei marciapiedi, pensavo che sarebbe per forza dovuta finire così.
Elezioni non ce ne saranno probabilmente: sarebbero state una farsa, io ero stretta stretta a braccetto con chi le avrebbe boicottate…
ma anche quello ora come ora non è che un miraggio…ad una settimana dall’inizio.
NO AL CONSIGLIO SUPREMO DELL’ESERCITO
NO SCAF
NO AI TRIBUNALI MILITARI
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Tahrir: i proiettili (italiani) fischiano di nuovo!
Purtroppo non ho modo di mettermi a scrivere.
Zero tempo di condividere con voi quel che provo nel vedere i proiettili fischiare in piazza Tahrir,
nel vedere quella rabbia in quegli sguardi che ho conosciuto felici.
Non ho modo di dirvi quanto sostengo tutti coloro che si stanno mobilitando contro l’esercito, contro i tribunali militari che lavorano a pieno regime come se nulla fosse cambiato.
E infatti è cambiato poco: insieme a Mubarak bisognava spazzare via anche lo SCAF e il suo potere…
non l’avevano capito, si son fidati.
Ora è tutto più chiaro. Ora le strade son di nuovo piene, contro quello che sarebbe dovuto essere IL nemico dal primo secondo.
Ora si lotta per la libertà quella vera, iniziando dalla liberazione di tutti i prigionieri
FREE MAIKEL NABIL, FREE ALAA, FREE ALL POLITICAL PRISONERS!
Buonafortuna compagni cari.
Perchè di compagni ce ne son tanti, che la nostra stampa islamofobica proprio non lo vuole dire!
QUI l’archivio sull’Egitto e la sua rivoluzione tutta da fare
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Egitto: altro rinvio per Maikel Nabil ormai allo stremo, e grandi mobilitazioni in solidarietà di Alaa
Ieri la mobilitazione in sostegno di @Alaa, blogger e attivista politico di spicco nel movimento di piazza Tahrir condannato a scontare quindici giorni per essersi rifiutato, da civile, di rispondere alle domande postegli dalla corte militare, è stata massiccia. Alaa è un personaggio molto noto, che aveva già conosciuto le carceri egiziane del regime di Hosni Mubarak e le manifestazioni in suo sostegno ci son state al Cairo, ad Alessandria e in Tunisia, oltre alla grande mobilitazione avvenuta in rete.
Il fratello, altro noto attivista, che è riuscito ad avere un colloquio con lui, ci racconta di una cella priva di luce, con la possibilità di uscire per recarsi al bagno solo due volte al giorno, per venti minuti.
Migliaia di persone si sono riunite in piazza Talaat Harb, a pochi passi da piazza Tahrir, per manifestare solidarietà al compagno e amico Alaa e urlare la propria rabbia cntro il Consiglio Supremo delle Forze Armate, la grande delusione (anche troppo scontata per quel che ci riguarda) della rivoluzione del gennaio di quest’anno.
Tra i cingolati dei carri armati dello Scaf trovavano riparo e letto le migliaia di persone che per settimane hanno abitato i marciapiedi e l’asfalto della downtown del Cairo, nelle mani di quei soldati hanno imprudentemente consegnato la loro lotta, convinti che gli sarebbe stata garantita una transizione pacifica verso delle elezioni democratiche a cui tutti sono impreparati.
Ma insomma, era un po’ come crede alle favole e il sogno dell’esercito buono dalla parte del popolo e contro agli ancestrali meccanismi e mandri di un regime quarantennale si è spappolato come le teste dei coopti che manifestavano davanti alla sede nazionale della Tv di stato, pochissime settimane fa.
Decine di morti, molti schiacciati sotto le ruote dei blindati di quell’esercito tanto amato: quella sera è stata definitivamente tirata una linea di demarcazione, e lo SCAF è dalla parte del regime, del potere, della repressione, del carcere, della tortura, degli assassinii.
E i nomi iniziano ad esser troppi, da quella lunga notte in cui fu ucciso anche il giovane blogger Mina Daniel, tra quelle 40 persone, accorse immediatamente in sostegno dei copti colpiti.
Maikel Nabil è un altro blogger, un ragazzo coraggioso che dalle sue pagine ha denunciato per primo il test della verginità sui corpi delle donne che venivano fermate in piazza, o negli scioperi: tre anni di condanna inflittagli da un tribunale militare, contro il quale ha iniziato uno sciopero della fame. Una storia processuale un po’ rocambolesca, un continuo posticipare le udienze – proprio come avvenuto anche questa mattina- che sta portando il corpo di Maikel a non farcela più.
Oggi, allo sfiorar del settantesimo giorno senza cibo, lo scheletrico Maikel Nabil Sanad s’è visto schiaffeggiare con un altro rinvio: altre due settimane, forse quelle fatali viste le sue condizioni.
Questi alcuni dei casi, insieme a quello di Essam, il ragazzo torturato a morte di cui si son fatti i funerali nella piazza simbolo della rivoluzione nemmeno una settimana fa, che stanno facendo esplodere la rabbia egiziana verso l’esercito.
Ancora una volta è l’inaspettato ad aver la meglio nelle mobilitazioni: mai si sarebbe pensato a slogan contro Mubarak fino allo scorso anno e abbiamo visto quel che è stato.
Mai si sarebbe pensato, nei mesi successivi alla sua caduta, di sentire migliaia di persone urlare per l’abbattimento dell’esercito con tanta determinazione: ora è quello di cui risuonano le strade.
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Egitto: lo SCAF ha stufato, ora hanno Alaa. BASTA: TUTTI LIBERI!!
Ora c’è ‘Alaa nelle mani del consiglio supremo delle forze armate egiziane (SCAF).
A pochissimi giorni dall’ennesimo funerale in piazza Tahrir, di un ragazzo ucciso dalla tortura, abbiamo un compagno, un comunista, un blogger, un giovane rivoluzionario nelle loro mani.
Appena una decina di giorni fa si trovava a San Francisco, invitato dagli attivisti delle accampate americane per un viaggio statunitense in cui avrebbe raccontato, e così è stato, la sua esperienza di “rivoluzionario” egiziano.
Alaa Abd El Fattah non è mai mancato per le strade, per gli scioperi, per le manifestazioni che hanno attraversato e mutato l’Egitto in questi ultimi mesi, da poco prima del 25 gennaio ad oggi: non son mai mancati i suoi commenti e le sue analisi, da militante comunista,
i suoi folti capelli ricci e neri non hanno mai smesso di riempire le fotografie delle mobilitazioni,
anche e soprattutto quelle contro l’esercito, che doveva garantire una transizione e invece sembra stia solo garantendo la prosecuzione del regime di Mubarak, senza il Faraone seduto sul trono.
Alaa mentre era in Egitto ha ricevuto la comunicazione di una chiamata in tribunale militare…
sulla sua pagina Twitter c’ha avvertito a tutti che stamattina si sarebbe obbligatoriamente dovuto recare lì, a rispondere a chissà che cosa.
Per ora ha ricevuto una condanna a quindici giorni, per essersi rifiutato di rispondere.
Carcere militare, tribunale militare: tutto quello contro lui l’amico Alaa ha sempre lottato e cercato di mobilitare più persone possibili.
Non poteva rispondere a domande di militare; non accetta quel tribunale, non lo riconosce da civile che è, giustamente.
La campagna FreeAlaa esisteva prima delle gloriose giornate della rivoluzione poi tradita dagli anfibi,
ora ci risiamo, sperando che questi quindici giorni siano effettivi, che non sia una sola ora di più,
e che a causa di questa detenzione Alaa possa assistere alla nascita di suo figlio,
visto che Manal, sua moglie, è all’ottavo mese di gravidanza.
Ricordiamoci che c’è ancora Maikel, in condizioni disperate
e che Mina invece non c’è più…
E che più di 12.000 persone son passate per i tribunali militari egiziani dal 25 gennaio
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Egitto: tortura e carcere. Nulla cambia: l’ennesimo funerale in piazza Tahrir
Un’altra giornata di rabbia infinita per il Cairo e per tutte quelle migliaia di persone che non mollano la lotta contro un regime che non sembra proprio voler andare a casa, dopo la caduta del rasi Hosni Mubarak.
Il consiglio supremo delle forze armate, che doveva garantire la transizione dalla dittatura alle prime elezioni senza Mubarak dopo decenni, sta continuando a calpestare le speranze di chi ha mobilitato il paese a Tahrir come in tutte le altre province del paese.
Un esercito che continua ad uccidere e torturare, che continua a reprimere i lavoratori in lotta e chi dissente: nulla sembra cambiare per l’Egitto.
E oggi è stata un’altra giornata indimenticabile, che ha riportato la rabbia delle giornate in cui l’esercito ha sparato sul corteo copto, ha calpestato i manifestanti con i blindati, lasciando a terra decine di persone, tra cui il caro blogger e attivista Mina Daniel.
Oggi parliamo di un detenuto di 24 anni, di nome Essam Ali Atta Ali, morto la scorsa notte all’interno dell’ospedale Qasr el-‘Aini, in seguito alle lesioni riportate dopo le brutali torture subite in carcere: a far scoppiare il caso è stato il quotidiano al-Ahram, spinto dal Centro El-Nadeem, (che si occupa proprio della riabilitazione delle vittime di torture) che ha riportato la testimonianza del fratello, che ha visto i segni di tortura su quel corpo ed ha denunciato il caso.
La sua condanna, arrivata il 25 febbraio, era a due anni, datagli dal tribunale militare per l’occupazione di un appartamento e la stava scontando nel carcere di massima sicurezza di Tora.
Le punizioni corporali subite sarebbero partite dopo il ritrovamento di una SIM card nella sua cella: a quel punto sarebbe stato torturato con l’inserimento di alcuni tubi in bocca e nell’ano di Ali, che gli anno causato emorragie letali.
Oggi tutti gli attivisti del Cairo si son mobilitati per andare tutti insieme all’obitorio del Cairo a recuperare il corpo di questo ragazzo brutalizzato a morte: col suo corpo in spalla migliaia di persone si son recate dall’obitorio dell’ospedale alla moschea di piazza Tahrir, per la preghiera della sera, alla quale si sono aggiunti i suoi familiari. Più di diecimila persone sono arrivate in midan al-Tahrir per salutare Essam e per urlare con tutto il proprio fiato l’infinita rabbia contro il potere militare, che tanto era riuscito ad illudere chi pensava di essersi liberati da una dittatura.
C’è ancora da fare: la repressione di Stato non smette di accanirsi su chiunque può, arrestando, condannando, torturando e uccidendo.
A fianco di tutti voi, che oggi siete andati a salutare Essam, ennesimo martire di una rivoluzione tutta da fare.
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Maikel Nabil: sarà una sentenza a morte lenta
Per Maikel Nabil hanno deciso una morte silenziosa e lenta.
L’altro ieri sera per molti altri, che partecipavano al corteo indetto dai copti le sentenze a morte sono state tante ed immediate: molte delle quali eseguite schiacciando letteralmente le teste sull’asfalto con i blindati. Le autopsie parlano chiaro e fanno paura, se si pensa a quanto poco c’è voluto per lasciare sul selciato decine di persone: molte colpite in testa, senza troppi problemi, con un colpo di fucile.
Tra queste anche Mina Daniel, volto noto di Tahrir e della rete, la cui mancanza si sentirà.
Il Comando Supremo delle Forze Armate egiziane (SCAF) e il suo tribunale militare, stanno giocando una partita sporca e perversa con Maikel Nabil, condannato in aprile a tre anni per le sue attività: noto attivista già precedentemente alla rivoluzione, con il movimento contro la leva obbligatoria, è stato accusato e condannato per aver “insultato le forze armate”. E’ da 45 giorni in sciopero della fame, in condizioni ormai decisamente pericolose.
Oggi viste le sue condizioni si sperava in una scarcerazione, in vista dell’udienza d’appello, già rinviata la scorsa settimana.
Niente da fare, non solo non è stato previsto alcun rilascio di un Maikel Nabil ormai in fin di vita, ma la decisione è stata di rifare il processo completamente da capo e inviarlo ad un nuovo distretto militare. Tutto da rifare, lasciandolo morire in carcere nella battaglia che sta portando avanti, probabilmente fino alla morte.
Questo conferma come erano vere le sue parole quando scriveva che “il popolo e l’esercito non sono la stessa mano” …
mentre al contrario delle menzogne della stampa egiziana ed internazionale la piazza copta attaccata e gli imponenti funerali di massa del giorno dopo urlavano “cristiani e musulmani sono una mano sola“.
QUI la pagina su Maikel di qualche giorno fa.
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L’ultimo saluto a Mina Daniel … ucciso dall’esercito egiziano
Mina Daniel è il nome più noto tra la ventina di cadaveri stesi nell’obitorio del Cairo.
Era un attivista, un blogger, un giovanissimo militante della rivoluzione egiziana: sempre presente nelle piazze e capace di dar copertura costante di ciò che accadeva per quelle strade.
E’ stato ammazzato negli “scontri” di ieri, che sappiamo perfettamente che non erano scontri tra copti e musulmani, ma un becero attacco della Baltagheyya (le squadracce di Mubarak) e dello SCAF (il Comando generale delle forze armate) che dovrebbe garantire la transizione e che invece sta mandando avanti una pesante politica di repressione e carcerazione dei militanti che non pensano che la rivoluzione si sia fermata l’11 febbraio, giorno in cui Mubarak s’è ritirato dalle scene dopo 40 anni di regime.
Ecco Mina Daniel, questa foto lo ritrae durante gli scontri del 28 gennaio, quelli che hanno cambiato per sempre la storia d’Egitto.
Alle 11 di questa mattina ci saranno i suoi funerali. (#perdio)
QUI il resoconto di ieri: LEGGI
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Il Cairo: una serata di sangue. Attaccato il corteo copto, l’esercito fa più di dieci morti
Una nottata come non si vedevano da mesi per le strade d’Egitto, sia per il gran numero di morti e il troppo sangue a macchiare l’asfalto, sia per la ricomparsa delle squadracce in borghese, quella “baltagheyya” di regime che si era fatta conoscere al mondo per la “battaglia dei cammelli”, la settimana dopo l’inizio della rivoluzione di piazza Tahrir, nei primi giorni di febbraio di quest’anno. Oggi, giorno di festa per i cristiani copti d’Egitto, era stata convocata una loro manifestazione di protesta davanti alla sede della televisione di Stato, che porta il nome di Maspero, visti i ripetuti attacchi contro le chiese avvenuti degli ultimi dieci giorni. Primo tra tutti l’attacco nel villaggio Merinab, vicino Assuan, del 29 settembre, che come gli altri fa pensare a qualcosa di organizzato dagli scagnozzi del vecchio regime per far credere che ci sia una reale pericolosità per la popolazione copta e quindi creare scompiglio. Non si capisce bene la dinamica dei fatti, come la battaglia e la mattanza sia iniziata: ma quello che appare chiaro dai racconti dei manifestanti è che il corteo è stato attaccato a colpi d’arma da fuoco e poi dall’attacco -coltelli alla mano- delle squadracce fedeli ad Hosni Mubarak, che ricominciano a far capolino sempre quando si tratta di provocare scontri interreligiosi. In ospedale sono già arrivato diciassette corpi senza vita, tutti feriti da armi da fuoco e da tagli, tra cui anche due soldati: alcuni mezzi blindati sono andati in fiamme dopo che la manifestazione copta ha reagito alla violenza con una fitta sassaiola e il lancio di alcune bottiglie molotov. La situazione alle 22 è ancora tesa e difficile da capire, con migliaia di manifestanti che stanno cercando di ricompattarsi in questi minuti verso piazza Tharir, cercando di proteggerla con un cordone di macchine nei punti d’accesso per cercare di limitare l’eventuale avanzata dei mezzi pesanti del Consiglio Supremo delle Forze Armate.
Gli slogan che ora risuonano per una città avvolta dall’aria irrespirabile di centinaia di lacrimogeni lanciati per disperdere, invano, i manifestanti copti e musulmani che si stanno riversando nelle strade: chi non c’era sta accorrendo, per portare massima solidarietà alle componenti copte sotto attacco e per ribadire con forza e tutti uniti che musulmani e cristiani sono una cosa sola, e che vogliono spazzare via l’esercito che avrebbe dovuto garantire la transizione e che invece sta reprimendo con sempre maggior forza chiunque non vuole smettere di rivendicare i propri diritti e il proprio desiderio di cambiare realmente il paese. “Non lasceremo che i fratelli cristiani prendino in faccia il piombo dell’esercito senza di noi” , queste alcune delle tante parole urlate dai cortei spontanei che si stanno muovendo per la città, tra i caroselli dei blindati, i fumi di gas lacrimogeni e i pestaggi sui marciapiedi. Quest’esercito deve sparire, questa finta transizione può anche terminare se questo è quello che sta portando avanti, con decine di giovani condannati dai tribunali militari, con l’isolamento in carcere, i pestaggi e gli attacchi indiscriminati a chiunque voglia manifestare: saranno delle elezioni farsa, una grande opera teatrale che tutti coloro che da mesi vivono per le strade, al Cairo come a Suez, a Mahalla come ad Alessandria, iniziano a comprendere e quindi a voler boicottare. Quello che sta accadendo in questi minuti è l’ennesima prova che il regime di Mubarak è comodamente seduto sulle sue poltrone, e il piombo che sta uccidendo chi alza la testa non è molti differente da quello che ha terrorizzato il paese per quarant’anni.
Sarà una lunga notte… mentre i carri armati iniziano ad ammassarsi intorno al Maspero e verso piazza Tahrir, e chi l’ha vissuto inizia ad aver la sensazione di rivivere il 28 gennaio…
le piazze aumentano, i cortei stanno arrivando da tutti i quartieri della città..
contro l’esercito, contro i tribunali militari, contro il tentativo tutto “di Stato” di creare disordini inter-religiosi.
NON CI DIMENTICHIAMO DI MAIKEL NABIL!
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Egitto: Maikel Nabil Sanad sta morendo in carcere.
La storia di Maikel Nabil Sanad sta iniziando a scuotere l’Egitto, l’Egitto dei movimenti rivoluzionari, dei giovani di piazza Tahrir e di tutti quelli che credono che la rivoluzione sia solo all’inizio.
Parlavamo pochi giorni fa di come si incazzano molti militanti egiziani nel sentir parlare di rivoluzione dei social network, pensando siano stati quelli a portare in piazza quella marea umana che ha provato a spazzare via tutto, riuscendo solo nella prima parte dei suoi obiettivi.
Non è certo la rivoluzione di twitter o dei blogger, ma la repressione del Consiglio Supremo delle Forze Armate sta colpendo a muso duro anche loro, con sentenze fino a quattro anni di carcere anche per una sola pagina online.
Lo stesso Consiglio Supremo che ha garantito la transizione e che nei primi giorni di rivoluzione s’è schierato quasi immediatamente dalla parte della popolazione e della sua rabbia.
La storia del blogger Maikel Nabil nasce con il suo arresto a marzo, quando fu accusato di insultare i militari attraverso il suo blog e di diffondere informazioni false: fu proprio Maikel il primo a far uscire pubblicamente la notizia del test della verginità per le donne che venivano fermate dalle forze di sicurezza, cosa che poi furono costretti ad ammettere.
Ventiseienne, fu additato in diretta televisiva proprio dallo stesso Ismail Etman,a capo del “moral affairs department” ( mi rifiuto di tradurlo) come uno che si era azzardato ad usare un linguaggio inappropriato per diffamare l’esercito. Trasferito subito nel famigerato carcere militare di Hikestep, nella periferia del Cairo, è stato picchiato ferocemente fino alla sentenza a tre anni, due settimane dopo, dopo la quale è stato trasferito nella prigione di Qalubeya ad El-Marg, in regime di totale isolamento.
Il suo reato è stato scrivere e diffondere i comportamenti del Consiglio Supremo e i loro abusi,
il suo reato è stato scrivere e dire la verità, per far uscire quello che subivano le donne tratte in arresto o anche solo fermate nei pressi di una mobilitazione.
Ora sta morendo.
Dal 23 agosto ha iniziato un rigido sciopero della fame contro il suo regime di isolamento e in solidarietà con tutti coloro che in questi mesi dalla caduta di Mubarak sono passati per i tribunali militari. L’udienza d’appello del 4 ottobre, tenutasi già con un Maikel moribondo al 43esimo giorno di sciopero della fame in cui si sarebbe dovuta chiedere la sua liberazione, è stata arbitrariamente spostata di una settimana.
La famiglia, i compagni e gli amici di Maikel hanno il terrore che non arrivi vivo all’udienza, viste ormai le condizioni in cui versa.
Le manifestazioni in sua solidarietà fuori dal tribunale sono state immediatamente attaccate dalle forze di sicurezza, che hanno compiuto quattro arresti e sequestrato tutto il materiale video dei giornalisti presenti: ogni manifestazione contro i tribunali militari egiziani viene immediatamente repressa da chi dovrebbe garantire la cosiddetta transizione alle elezioni farsa di fine novembre.
Con i lavoratori egiziani,
con i prigionieri, con tutti i compagni di quella grande terra che giorno dopo giorno stanno portando avanti la loro rivoluzione.
Per la liberazione immediata di Maikel e di tutti i prigionieri politici.
Si doveva discutere
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Quattro chiacchiere con Hossam el-Hamalawy, con l’Egitto nel cuore
Hossam El-Hamalawi non ha iniziato la sua attività di blogger nelle giornata di piazza Tahrir, così come la sua militanza nel movimento socialista rivoluzionario in Egitto. Ed è proprio quello che è venuto a raccontarci in una splendida serata al CSOA Ex Snia di Roma, il 4 ottobre.
Se avesse avuto davanti una platea di persone che non sapevano nemmeno dove collocare l’Egitto geograficamente, è cosa certa che tutti si sarebbero alzati con una consapevolezza profonda di quel che sono i mutamenti che sta vivendo quell’enorme paese, immenso nella sua storia e nel suo territorio.
Una rivoluzione appena iniziata, certamente non terminata con la caduta di Hosni Mubarak.
La prima cosa che ha voluto sottolineare, con quella durezza e chiarezza che caratterizzano il suo modo di parlare, è stato proprio il grande superficiale errore di denominare le rivolte della primavera araba come le “rivoluzioni dei social network”. Erano ironici ma anche furiosi i suoi occhi mentre sciorinava le definizioni multimediali che sono state affibbiate al movimento egiziano che ha portato milioni di persone in piazza, fino alla caduta di Hosni Mubarak, ma non del suo regime.
E’ venuto a raccontarci una rivoluzione che non è nata il 25 gennaio 2011, che non è stata un evento su Facebook, che non è stata trascinata dietro dalle rivolte tunisine e la caduta di Ben Ali: è stato lì, con un timbro di voce forte e orgoglioso, a spiegarci la lunga strada della rivoluzione egiziana, gli anni e le lotte che hanno portato a quell’improvvisa e per tutti inaspettata folla rabbiosa, che ha sfidato tutto e tutti per ottenere almeno il primo pezzo delle propria libertà.
Il lavoro di Hossam, sul suo blog, si concentra soprattutto sulle lotte e gli scioperi dei lavoratori egiziani: dal Delta del Nilo dove le industrie tessili impiegano decine di migliaia di operai e operaie, al Sinai del Canale di Suez, dei gasdotti, dei grandi porti.
I primi scioperi degli anni 90 e l’ondata di repressione che ha caratterizzato quel decennio: sparizioni , carcere, tortura sono sempre stati all’ordine del giorno per chiunque provava solo a reclamare qualche pound in più sul proprio salario.
L’enorme macchina di controllo e sicurezza di Hosni Mubarak e dei suoi scagnozzi non permetteva nemmeno di sussurrare il suo nome, nemmeno in aperto deserto.
Poi l’anno della svolta, il 2000, quando anche grazie al fervore della seconda intifada palestinese, il panorama nei posti di lavoro e dentro le facoltà universitarie è iniziato a cambiare, anche se ancora nessuno aveva il coraggio di uscire per la strada, di manifestare nelle piazza, di cantare slogan contro il potere, il regime, gli abusi, la mancanza totale di libertà, i salari da fame.
Tahrir inizia ad esser “presa” da piccoli gruppi di manifestanti a partire dal 2003, con l’invasione statunitense dell’Iraq e la nascita del movimento Kifaya (“basta” in arabo), che poi verrà definitivamente sventrato, nell’estate del 2006, dal regime.
Ma è proprio nel dicembre 2006, ci racconta Hossam, che gli scioperi di Mahalla portano per le strade 27.000 operai a braccia incrociate, e 3000 donne: proprio loro sono state a trascinare le industrie tessili nei quattro storici giorni di sciopero. Sono state loro ad entrare per prime in sciopero, le operaie, e a trascinare per il bavero i loro uomini, padri mariti e figli verso un nuovo livello di scontro.
Da Mahalla al-Kubra è un attimo, e tutte le fabbriche del Delta del Nilo incrociano le braccia, fino ad arrivare ad Alessandria e al Sinai: per la prima volta il regime trema, le basi di piazza Tahrir iniziano a costruirsi, la gente inizia a trovare il coraggio non solo di nominare il rais, ma di inventare e cantare slogan contro di lui.
Insomma, Hossam non lascia spazio a fraintendimenti su questo: la rivoluzione di piazza Tahrir di gennaio nasce molti anni prima, negli scioperi sempre più consistenti e nelle richieste della classe operaia, nasce a Suez, nasce nelle zone dei campi di cotone, nasce nell’indotto del Canale da Port Said al Mar Rosso, nelle richieste tutte politiche di chi scende in piazza sfidando le forze di sicurezza, il loro piombo e le loro retate.
Poi, il 25 gennaio.
L’inaspettato. Per tutti. Nessun egiziano, e questo me l’hanno raccontato tutti per le strade di quella città e di quei villaggi, si sarebbe mai aspettato quel che è accaduto: nessuno immaginava di arrivare in quella piazza in decine di cortei spontanei che si spostavano da ogni quartiere. Nessuno avrebbe mai pensato che quel giorno tutti, di ogni strato sociale d’Egitto, stavano riempiendo le strade urlando una sola cosa: IL POPOLO VUOLE LA CADUTA DEL REGIME.
La Fratellanza Musulmana, che non aveva aderito immediatamente alle mobilitazioni s’è vista costretta a farlo perché tutti i suoi giovani erano in piazza.
I copti, malgrado il terrore iniziale ( per decenni il regime li ha convinti che la loro sopravvivenza dipendeva dalle forze di sicurezza di Mubarak) hanno iniziato a scendere in piazza: nessuno è rimasto a casa.
E non li hanno fermati i cecchini sui tetti, non li hanno fermati la baltagheyya e la battaglia dei cammelli: nessuno ha potuto fermare quella marea umana che avanzava verso l’inizio di un nuovo Egitto, faccia alta e mani vuote.
Hossam ci ha raccontato di Tahrir ma anche di come nulla sarebbe cambiato se non fossero state tutte le altre città a rivoltarsi, in alcune zone anche con livelli di scontro estremamente pesanti, come a Suez: non è stata piazza Tahrir a far cadere il regime, ma gli scioperi di massa che dopo pochi giorni dalle prime mobilitazioni hanno inchiodato il paese tutto.
Ha sottolineato però, che la controrivoluzione sta avanzando: c’ha raccontato come il Consiglio Supremo delle Forze Armate sta reprimendo le mobilitazioni e tentando di eliminare la possibilità di scioperare per i lavoratori, c’ha raccontato con nomi e cognomi come ancora gran parte dell’apparato di regime sia al suo posto, seduto comodamente sulla sua poltrona, c’ha raccontato di quanto ancora deve avanzare questa rivoluzione e del grande circo che saranno le elezioni del prossimo novembre. I socialisti e tutti i gruppi della sinistra rivoluzionaria le boicotteranno.
Difficile raccontare tutto quello che è uscito dalla bella chiacchierata di ieri sera.
Quando gli è stato chiesto della partecipazione femminile c’ha detto: “ma come, se v’ho detto che son state le donne a prender i lavoratori per il collo e a farli scioperare urlando che eran dei codardi!”. Con tono molto critico ha detto di come sia sterile la lotta di alcuni movimenti femministi della borghesia egiziana che si stanno mobilitando solamente per le quote rosa e per la possibilità di muoversi con il passaporto senza il lasciapassare di un uomo della propria famiglia. Importantissime istanze -ovviamente- ma, dice Hossam, ora dobbiamo preoccuparci delle priorità delle donne egiziane, delle lavoratrici, delle donne dei villaggi e dei piccoli centri che non sanno neanche cosa sia un passaporto. Per Hossam, e mi trova d’accordo, il processo di liberazione femminile in Egitto -essenziale e prioritario per il cambiamento del paese- non passa certo per le quote rose, ma casa per casa nella quotidianeità di ogni donna, ogni ragazza, ogni bambina.
Si è parlato ovviamente di Siria, dell’infinita solidarietà verso chi si sta ribellando al regime di Bashar al-Assad e del partito Baath, sopportando una repressione che non s’era ancora vista in questa stagione di rivolte mediorientali e nordafricane. Spazzato via in quattro chiare parole qualunque discorso su deliri complottistici e ingerenze occidentali o sioniste in Siria, il caro Hossam el-Hamalawy ha conquistato la mia più profonda stima.
Saremmo stati per ore a parlare e fargli domande, ma la stanchezza di queste giornate italiane a raccontare la sua esperienza era più che leggibile nel suo sguardo:un ragazzo che a trent’anni ha conosciuto la tortura e il carcere, che ha passato la sua vita a seguire sciopero per sciopero i lavoratori in lotta,
un giovane rivoluzionario che c’ha dato un po’ di grandi piccole lezioni in poche ore insieme.
C’ha raccontato di una rivoluzione reale, che sta passando sul corpo delle donne, dei lavoratori, degli studenti d’Egitto; una rivoluzione che non vuole fermarsi nè farsi ingannare, che sa riconoscere i suoi nemici, che cerca la solidarietà di ogni pezzetto di mondo e che ha l’orgoglio di voler ispirare il mondo che la circonda.
Grazie ad Hossam, alle sue parole chiare, al suo immenso lavoro, al suo essere per la strada giorno dopo giorno.
Fino alla vittoria.
APPENA SARA’ POSSIBILE LINKERO’ L’AUDIO DELLA SERATA.
QUI IL BLOG DI HOSSAM: 3ARABAWY
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Egitto: scioperi e sindacati independenti
Non posso non girare questo articolo, comparso sulle pagine del ri-nato Osservatorio Iraq, firmato dalla penna di un amico e compagno nonché voce anche lui della mia amata Radio Onda Rossa, con la trasmissione su Africa e Medioriente intitolata “Afriche in movimento”.

Foto di Valentina Perniciaro _i ragazzi di Mahalla al Kubra festeggiano la caduta di Mubarak, febbraio 2011_
Questo articolo ci racconta quel che, sul fronte della lotta di classe e per i diritti dei lavoratori, si sta muovendo nell’Egitto post-Mubarak: quello piegato dal controllo del Consiglio Supremo delle Forze Armate, ma anche quello stesso paese che ha fatto irruzione nell’ambasciata israeliana, che presidia in migliaia ogni processo ai rivoltosi, che scandisce ogni giornata con scioperi, manifestazioni, presidi e quando serve assalti.
Un popolo che ha iniziato un processo di liberazione dal suo vecchio regime e che ora si trova a fare i conti, come era ovvio, con il tentativo di restaurazione compiuto dalle forze armate e da quegli stessi apparati che per decenni hanno fatto da spalla a Hosni Mubarak, il faraone caduto.
E’ proprio la lotta sui posti di lavoro, nelle fabbriche di cotone, nell’indotto del Canale di Suez, nella zona del delta del Nilo: è la lotta dei lavoratori quella che ha iniziato il processo di presa di coscienza che ha poi portato il paese alle giornate di febbraio di quest’anno e al movimento di piazza Tahrir.
E andiamo a vedere come si muovono i nuovi soggetti politici e sindacali in Egitto
C’è chi attende le prossime scadenze elettorali per le elezioni parlamentari e chi invece continua a mobilitarsi per costruire in Egitto una nuova dialettica politica, fatta di autorganizzazione e di responsabilizzazione dal basso. La moltiplicazione di nuovi sindacati indipendenti, protagonisti indiscussi delle ultime proteste, è forse il fenomeno più innovativo prodottosi dallo scorso 25 gennaio.
Mentre l’attenzione mediatica sull’Egitto post-Mubarak sembra focalizzarsi sulle prossime scadenze elettorali e sulla legge che dovrà regolamentarle, in Egitto da qualche mese a questa parte sta emergendo un fenomeno tanto inedito quanto gravido di conseguenze per il futuro. Si tratta della costruzione di reali pratiche di autorganizzazione che dal basso vogliono ridiscutere con lo Stato sia le regole della propria rappresentanza, sia le modalità attraverso le quali avviene la redistribuzione delle ricchezze nel paese.
Università, scuole, insediamenti industriali e servizi pubblici, questi sono i principali settori da dove sta nascendo un nuovo modo del popolo egiziano di rapportarsi al potere costituito e, in fin dei conti, anche un nuovo modo di fare politica. Perché se i maggiori partiti tradizionali hanno da sempre implicitamente legittimato il regime attraverso la loro opposizione solo formale, è in quei luoghi dove la politica sembrava fosse stata bandita che si è trovata la forza per costruire una nuova dialettica tra parti sociali e istituzioni politiche.
In questo inedito contesto, lo sciopero ha rappresentato uno degli strumenti più efficaci per scrivere una nuova storia della relazioni di potere. Alcuni esempi delle lotte portate avanti nelle ultime settimane possono aiutarci a comprendere l’importanza del fenomeno.
Sciopero degli insegnanti
Causa principale, la crisi cronica del sistema educativo egiziano, che ha visto una riduzione sostanziale del budget statale ed un progressivo impoverimento del corpo insegnante. Un problema di lungo periodo, se si pensa che dalla fine del regime nasseriano, che aveva introdotto in Egitto un sistema d’istruzione di massa, le condizioni del sistema educativo sono andate progressivamente peggiorando. Oggi a causa del basso potere d’acquisto dei salari, gli insegnanti sono spesso costretti ad avere un secondo lavoro. A volte anche a chiedere ai propri studenti denaro per delle lezioni private.
Negli ultimi mesi si è assistito ad una serie di scioperi a catena in varie località dell’Egitto.
La richiesta principale, una riforma strutturale nel finanziamento del sistema educativo egiziano, che potesse permettere agli insegnanti di avere uno stipendio dignitoso. La figura oggetto di maggiori contestazioni, il ministro dell’Educazione, Ahmad Gamal al-Din Mussa, accusato di essere un esponente del vecchio regime e quindi di portare avanti la stessa politica.
Gli scioperi che a livello locale si sono susseguiti negli ultimi mesi hanno costruito le basi per la grande manifestazione del 10 settembre, con più di 40 mila persone a gridare la loro determinazione di fronte al palazzo del governo. L’apice delle mobilitazioni lo si è avuto tuttavia dal 17 settembre, data d’inizio ufficiale dell’anno scolastico. Quel giorno è cominciato il primo sciopero nazionale del settore, un evento che non si vedeva dal lontano 1951.
L’adesione è stata altissima, anche del 90 % in alcuni governatorati come quello di Suez. La determinazione delle mobilitazioni ha spinto il governo ad emettere un comunicato dove si garantiva, attraverso una concertazione tra i ministri dell’Educazione e delle Finanze, incentivi per oltre 600.000 insegnanti e la stabilizzazione dei docenti che hanno al momento un contratto a tempo determinato. Rassicurazioni che non hanno ammorbidito la protesta. Sabato scorso (24 settembre) ancora migliaia di insegnanti venuti da tutto il paese si sono radunati al Cairo.
La sera dello stesso giorno la maggior parte dei manifestanti ha comunicato di sospendere lo sciopero in attesa di una risposta dal governo, mentre una minoranza più agguerrita ha tentato di piantare delle tende di fronte al palazzo del gabinetto. Le forze di polizia le hanno immediatamente sgomberate con la forza.
I trasporti pubblici
Sciopero ad oltranza anche nel settore del trasporto pubblico, in particolare degli operatori nei depositi dei bus e degli autisti. Lo sciopero era cominciato due settimane fa: principale richiesta un incremento del 200% degli incentivi al salario. La mobilitazione era stata sospesa domenica 18 settembre, dopo che si era garantito ai lavoratori che si sarebbero prese in esame le loro richieste entro lo scorso martedì (20 settembre). La protesta si è riaccesa a seguito delle successive affermazioni del Presidente dell’Autorità dei trasporti pubblici Safwat Nahhas (“la negoziazione è ancora in corso, nulla è stato deciso”).
La mobilitazione è quindi ripresa mercoledì 21 aprile. A nulla sono servite le intimidazioni delle forze di sicurezza, entrate nei depositi dei bus per impedire la mobilitazione attraverso l’arresto di alcuni dimostranti. Importanti manifestazioni di solidarietà tra differenti settori in sciopero si sono prodotte sabato scorso (24 settembre) quando un gruppo di scioperanti del settore dei trasporti ha raggiunto la manifestazione degli insegnanti.
Accanto a questi due esempi si devono aggiungere anche gli scioperi nei settori della raffinazione dello zucchero, della sanità (in primis dei medici), delle telefonia e dell’università, per citare solo le ultime iniziative. In tutte queste mobilitazioni, un ruolo determinante è stato svolto dai neo costituiti sindacati indipendenti. Moltiplicatisi con velocità progressiva in tutti i segmenti dell’economia egiziana, hanno saputo aggirare le barriere imposte dai sindacati tradizionali, oggi in una fase di stallo a causa delle profonde trasformazioni che stanno vivendo nel post-Mubarak.
I sindacati tradizionali: uno strumento nelle mani del potere
Sin dall’epoca nasseriana infatti i sindacati hanno subito un processo di cooptazione da parte dello Stato. Sono diventati nel corso del tempo un’arma in mano ai regimi per controllare il malcontento che emergeva nel paese. La Federazione nazionale dei sindacati era quindi sotto lo stretto controllo del regime, ne assecondava le politiche economiche ed evitava qualsiasi concertazione dal basso tra i diversi settori dell’economia.
Dalla cacciata di Mubarak qualcosa si è mosso. Alcune sentenze hanno dichiarato truccate importanti tornate elettorali per l’elezione dei consigli direttivi di alcuni organi di rappresentanza sindacale. Tra le molte, forse la più importante è stata quella che ha dichiarato fraudolente le elezioni del 2006 del consiglio direttivo della Federazione egiziana dei sindacati. Lo scioglimento del consiglio ha rappresentato un’importante vittoria del movimento sindacale in Egitto, per una battaglia cominciata nel lontano 2007.
I sindacati indipendenti: il nuovo motore della contestazione
Accanto a questa politica di denuncia, il mondo del lavoro ha portato avanti anche una battaglia per la costruzione di sindacati indipendenti che non facessero parte della Federazione “filo-governativa” sopra evocata. Un primo esperimento riuscito, dopo anni di forte repressione, fu quello della costruzione di un sindacato indipendente dei lavoratori nel settore della riscossione delle imposte, nel 2009. Le contestazioni del mondo del lavoro hanno continuato a svolgere un ruolo fondamentale nella delegittimazione del regime prima della sua caduta, con una determinazione ed un attivismo superiore a quello mostrato dai movimenti come Kifaya che concentravano la loro attenzione sulla rivendicazione di diritti politici (basti pensare alle mobilitazioni che, dal 2000 a questa parte, si sono prodotte nelle zone industriali del paese, come a Mahalla el-Kubra). Se in Egitto è nata e si è diffusa una cultura della protesta contro il potere costituito lo si deve principalmente a loro.
La caduta del regime ha dato il via alla proliferazione di nuovi sindacati indipendenti, che oggi sono coordinati in una federazione con a capo Kamal Abu Eita, il protagonista della nascita del primo sindacato non controllato dal regime. Le mobilitazioni da loro promosse hanno rappresentato negli ultimi mesi un filo rosso che è riuscito a spingere la piazza egiziana anche nei momenti più difficili, come quello attuale.
Le prossime scadenze elettorali stanno infatti dividendo quel fronte compatto che tanti risultati aveva prodotto nei primi mesi. Le proteste di questi sindacati mantengono vivo il germe della contestazione perché nascono da problemi concreti che il governo post-rivoluzionario di Essam Sheraf non sembra voler risolvere. Esse riescono a mostrare con un’evidenza disarmante la connivenza tra il governo ed il Consiglio supremo delle forze armate. Mostrano alla popolazione egiziana come i problemi sostanziali che attanagliano il paese non possono essere risolti se non attraverso una radicale trasformazione dei rapporti di forza. Ma mostrano anche come siano possibili forme di autorganizzazione indipendenti dall’enorme apparato di controllo costruito dallo Stato egiziano nel corso del tempo; soprattutto, che queste forme di autorganizzazione, a lungo andare, paghino.
Intanto i sindacati tradizionali sono impegnati in un processo di restyling, con le tradizionali forze politiche a contendersi seggi e potere. In primis troviamo esponenti del vecchio regime accanto a membri dei Fratelli Musulmani. Sono loro i più attivi nella presentazione di candidature per le elezioni che via via si stanno promuovendo nei diversi settori. Questo attivismo lo si può comprendere solo se pensiamo che il Consiglio Supremo delle forze armate ha affermato che, una volta terminate le elezioni parlamentari, sarà il momento di costruire un’Assemblea costituente per la redazione di una nuova costituzione. Sembra che accanto ad una maggioranza di membri che verranno scelti dal Parlamento, l’assemblea dovrà includere anche esponenti delle istituzioni religiose, dei partiti e del movimento sindacale. Il controllo dei sindacati significherà quindi, in una prospettiva non molto lontana, avere maggior voce in capitolo nella redazione della prossima carta costituzionale.
Resta da capire come reagiranno i nuovi sindacati indipendenti ad un processo di transizione istituzionale che sembra non riconoscerli come parte in causa.
Anthony Santilli
27 settembre 2011
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Egitto: irruzione nell’ambasciata israeliana! una corrispondenza con Radio Onda Rossa
In un post di appena poche ore fa, scrivevo sbigottita di come il muro costruito in difesa dell’ambasciata israeliana del Cairo fosse venuto giù a colpi di martelli e slogan di una folla di persone che da piazza Tahrir si son mosse compatte.
In realtà ora, che è la mezza, la situazione è difficile da comprendere: un’ora fa una parte dei manifestanti, che da ore cantavano sui pezzi del muro distrutto, è riuscita a fare irruzione nell’ambasciata.
Cambio di bandiera: quella israeliana spazzata via da quella egiziana e palestinese.
Migliaia di fogli dell’archivio sono stati lanciati dalle finestre e presi dai manifestanti di cui non oso immaginare lo stato di grazia.
Una nottata che ancora proseguirà per molto e cambia le carte in tavole sul panorama egiziano e mediorientale.
Israele non ha ancora rilasciato dichiarazioni ufficiali…staremo a vedere.
Intanto vi linko la corrispondenza che ho fatto poco fa in RADIO, per raccontare questa giornata egiziana indimenticabile, mentre in ValSusa i lacrimogeni e le sassaiole fanno da ninnananna!
Che nottata…
ASCOLTA LA CORRISPONDENZA CON RADIO ONDA ROSSA
ore 00.35: si parla di un morto e di quasi 200 feriti
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Egitto: distrutto il muro dell’ambasciata israeliana, il popolo di piazza Tahrir più rabbioso che mai
Ancora è difficile fare un bilancio della giornata che sta vivendo il popolo Egiziano, soprattutto al Cairo, oggi, per il “venerdì del ritorno sulla strada giusta”
Le manifestazioni convocate da questa mattina e che sembravano essere iniziate con un profilo molto basso visto le poche presenze all’ora di pranzo in piazza Tahrir, che non superavano le 3000 persone. La Fratellanza Musulmana ha fatto di tutto per boicottare questa mobilitazione contro l’Esercito, che è invece voce della parte più progressista e laica del movimento.
Poco dopo pranzo da Zamalek, da Giza, da Talaat harb, molti sono stati i cortei che son confluiti nel primo pomeriggio nella piazza centrale e tutti estremamente affollati, rabbiosi e decisi ad arrivare agli obiettivi prefissati.
Una volta colmata la piazza ci si è divisi in diverse direzioni: molti verso l’Ambasciata Israeliana, poi il Ministero dell’Interno e il palazzo di Giustizia.
I nemici del popolo di Piazza Tahrir oggi sono stati tutti spudoratamente presi d’assalto.
Davanti l’ambasciata Israeliana, grazie ai nuovi freschi accordi di sicurezza siglati tra Egitto ed Israele, aveva un muro nuovo di zecca costruito dal Consiglio Supremo delle Forze Armate in difesa della bandiera israeliana … il muro è stato assaltato da migliaia di persone, alcune delle quali dotate di martelli che in poco tempo hanno completamente distrutto il muro.
I pezzettini stanno andando a ruba tra i giovani venditori ambulanti delle strade del Cairo.
Il ministero dell’Interno, come il palazzo di Giustizia sono ricoperti di scritte e graffiti, dopo il fitto lancio di sassi che hanno rotto buona parte dei vetri, centinaia di giovani hanno divelto e poi portato in corteo come trofeo la grande aquila fissata sul palazzo.
La richiesta è così semplice: la fine definitiva dei processi militari per i civili, la liberazione di tutti i prigionieri e gli arrestati per manifestazioni e scioperi e l’indipendenza della magistratura dall’esercito.
La serata è ancora lunga, le fotografie che ci arrivano si son lasciate alle spalle anche le luci del tramonto sulle rive di quel Nilo che non vuole mollare la lotta iniziata a gennaio: la serata sta calando rapida, ma nessuno -ancora una volta- sembra aver alcuna intenzione di tornare a casa
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ORE 23.10 La tensione è salita per tutta la serata, ma alla fine, malgrado l’aumentare del dispiegamento di forze di sicurezza (alcune anche disarmate e quasi spogliate dai manifestanti), una del presidio è riuscito ad entrare nell’ambasciata israeliana.
I messaggi che girano in questi momenti sono di lanci di centinaia di fogli dal primo e dal secondo piano … come fossero banconote, lanciati a chi sta sotto, che incredulo urla all’unità tra egiziani e palestinesi.
Entrambe le bandiere ora sono sventolanti e fiere … sull’ambasciata israeliana!
E’ quasi inimmaginabile!
QUI GLI ALTRI AGGIORNAMENTI E LA CORRISPONDENZA CON RADIO ONDA ROSSA
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Egitto: la controrivoluzione avanza, il movimento si convoca in piazza
Domani, venerdì 9 settembre, sarà un nuovo venerdì per l’Egitto.
Una nuova chiamata in piazza, una nuova chiamata alla mobilitazione generale di tutta quella miriade di persone, organizzazioni, partiti, associazioni e movimenti che hanno permesso alla primavera araba (come ci siamo abituati a sentirla nominare poi) di veder cadere il suo secondo padrone, dopo Ben Ali.
Allo scoccare di ogni venerdì l’Egitto è avanzato verso un processo di liberazione dal vecchio decennale maledetto regime, allo scoccare di ogni venerdì è cresciuta la consapevolezza in tutti loro di voler creare un nuovo paese,
una nuova cultura, un nuovo approccio alle libertà tutte.
C’è stata una parvenza di vittoria ma poi, come c’era da aspettarsi visto la poco furba ( ma probabilmente inevitabile per l’Egitto di quelle giornate) fiducia avuta per le forze armate che quasi immediatamente hanno sostenuto il movimento di piazza Tahrir, ogni venerdì è stato un passo indietro.
Ogni venerdì lo SCAF (il consiglio supremo delle forze armate) è avanzato di qualche passo nella repressione del movimento, nella promulgazione di leggi che vietassero scioperi e manifestazioni per tagliare le gambe a tutte quelle forme di lotta che in ogni punto del paese sono sorte.
C’è una tensione sociale altissima in questi giorni nel paese, vista anche l’apertura del processo a Mubarak e il comportamento di esercito e polizia nei confronti dei tanti che fuori al tribunale hanno manifestato.
In aula gli uomini di regime che siedono dietro alle sbarre negano di aver ordinato di sparare sui manifestanti, e chi dovrebbe testimoniare sembra fare il gioco della vecchia guarda ogni volta che può…
l’attesa è tutta per domenica, alla riapertura del Tribunale, che in realtà non aprirà più di tanto.
La prima seduta a porte chiuse è proprio quella per colui che guida il Consiglio Supremo, il generale Husein Tantawi; uomo non certo amato dal movimento, che si è ovviamente convocato davanti al tribunale per urlare il proprio dissenso verso quell’udienza a porte chiuse, di un uomo che tutti vorrebbero più tra le fila degli imputati che tra quelle dei testimoni.
Venerdì sarà una nuova giornata di protesta, verso quel regime che sembra non esser mai caduto, verso quel regime che pare essere ancora al suo posto, malgrado Mubarak sia in quell’aula tra le sbarre: il Consiglio Supremo delle forze armate con le centinaia di processi militari nei confronti di civili arrestati nelle mobilitazioni, con il tentativo di evitare qualunque possibilità di organizzare forme di lotta in piazza e sui posti di lavoro, sta portando la rabbia a livelli sempre più alti.
Non è facile tornare indietro per chi ha creduto di aver la libertà tra le mani, la seconda ondata rivoluzionaria egiziana potrebbe scatenarsi contro l’Esercito, e magari non essere più pacifica come è stata quella di Tahrir, come lo stesso Mohamed el-Baradei – candidato alle prossime elezioni- ha paventato ultimamente.
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Lettera da un comunista siriano…che mi sembra lucido!
DAMASCO. Separare ciò che sta accadendo oggi in Siria dalle rivoluzioni che hanno pervaso la regione araba, in particolare dalla rivoluzione tunisina e da quella egiziana, è difficile se non impossibile. Soprattutto se abbiamo imparato le ragioni e le motivazioni che stavano dietro a quelle rivoluzioni: (repressione, assenza di libertà e corruzione.
Sotto lo stato d’emergenza e la legge marziale, in cui la Siria soccombe da circa mezzo secolo, sono stati arrestati centinaia di migliaia di oppositori del regime di ogni appartenenza politica (nazionalisti, di sinistra, islamisti), alcuni dei quali trascorsero in prigione più di dieci anni senza processo. A migliaia sono stati uccisi o sono scomparsi, decine di migliaia gli esiliati dalla loro patria. Soprattutto tra la fine degli anni settanta e la fine degli anni ottanta del secolo scorso, periodo che ha visto la lotta armata tra il regime e il movimento islamista armato e che è stato sfruttato per epurare tutte le forze politiche di opposizione. La particolarità del movimento di protesta in Siria è che è un movimento di giovani nel fiore degli anni, la maggior parte appartenente alla classe media e ai gruppi emarginati dalla nascita del regime nel 1970 che precedentemente non conosceva alcuna appartenenza a movimenti politici. Non c’è quindi da meravigliarsi se la coscienza politica di questi ragazzi è limitata. Non si tratta di qualcosa di strano per coloro di questa età, poiché durante gli anni ottanta del secolo scorso in Siria sono stati distrutti tutti i movimenti politici di opposizione. Per questo la forza politica di opposizione di tutti gli schieramenti (Fratelli Musulmani compresi) è limitata nella società e di conseguenza anche la loro partecipazione all’attuale movimento che si sta alzando in Siria non può che essere limitata.
Lo slogan più famoso sollevato dai manifestanti durante le proteste è “Dio, Siria, Libertà, e basta” ed è un riassunto di ciò che vogliono: rifiuto di un regime a partito unico, rifiuto di continuare un presidenzialismo della repubblica in carica in eterno e allo stesso tempo si contrappone allo slogan innalzato dai sostenitori del partito Baath che dice ‘Dio, Siria, Bashar, e basta’. Manifestare all’uscita dalle moschee non sarebbe stata l’unica opzione dei manifestanti se non fosse stato reso impossibile il raduno in piazza o per strada tramite la proliferazione di servizi di sicurezza capaci di dissolvere qualsiasi protesta o manifestazione prima ancora che abbiano inizio. Così a volte ci sono dei laici o addirittura dei non musulmani che frequentano le preghiere del venerdì per poter uscire a manifestare.
Il regime tenta di chiamare il movimento di protesta con il nome di salafismo islamico e di individuare la presenza dei jihadisti armati al centro del movimento. Ma una parte considerevole della popolazione siriana non ci crede. Questo non significa che la corrente salafita islamica sia del tutto assente dal movimento di protesta ma che la sua presenza nel movimento che si sta sollevando in Siria, al pari di altre correnti politiche, sia per il momento limitato.
Non c’è dubbio che la lotta armata condotta dagli islamisti jihadisti contro il regime alla fine degli anni settanta e nei primi anni ottanta in nome di slogan confessionali e contro la miscredenza ha lasciato un’influenza negativa e un atteggiamento prudente per non poche minoranze religiose e confessionali nei confronti del movimento islamista, specialmente tra coloro che hanno vissuto quel periodo di conflitto. Il regime ha approfittato di queste preoccupazioni tra le minoranze religiose e confessionali e ha giocato con i suoi mass media utilizzando le voci di agitazione e confessionalismo provenienti dall’estero, sia siriane che arabe (come il canale televisivo Barada parlante a nome di alcuni oppositori siriani o il canale televisivo Safa finanziato da gruppi arabi del Golfo).
In breve tempo i manifestanti si sono resi conto di questo pericolo per l’unità nazionale e gli slogan che invocano l’unità nazionale si sono moltiplicati, come il grido ‘no al salafismo, no al terrorismo, noi vogliamo la libertà’. O come è avvenuto venerdì 22 aprile, Venerdì Santo, festa per le comunità cristiane. Ma la partecipazione alle proteste da parte delle minoranze religiose e confessionali è ancora limitata ed è difficile rompere prudenza e paura nelle minoranze se le persone non fanno conoscenza nelle piazze. Tutto ciò appare oggi prematuro, visto che le forze di sicurezza chiudono la bocca dei manifestanti con i proiettili.
Il movimento di protesta si caratterizza per ora dall’assenza di leadership e dall’assenza di particolarismi politici. Non tanto la mancanza di leadership a livello nazionale quanto la mancanza di una leadership unita a livello delle singole città ora come ora rende difficile il contenimento e la loro repressione, ma in futuro l’assenza di una leadership unita potrebbe costituire un punto debole.
Il regime ha cercato di contenere la prima ondata del movimento di protesta, durante il quale sono cadute sotto i proiettili delle forze di sicurezza più di cento persone, con promesse riformiste, tra tutte la revoca dello stato di emergenza in vigore da circa mezzo secolo. Ma le promesse di riforma non hanno trovato ascolto tra i manifestanti… Perché?
Il giovane presidente Bashar al-Assad salì al potere nel 2000, dopo la morte del padre, Hafez al-Assad, che per 30 anni governò la Siria con il pugno di ferro. L’eredità che apparì maggiormente fu quella di un paese divorato dalla corruzione in tutte le sue direzioni e articolazioni (tra cui corti di giustizia, apparati di sicurezza e di formazioni militari) talmente ramificata, estesa e profonda al punto da ingoiare il partito Ba’th al governo e le sue istituzioni così come aveva ingoiato lo Stato e le sue istituzioni. Dopo aver assunto le sue funzioni costituzionali il giovane presidente forse avrebbe potuto leggere ciò che fu scritto nelle note che non sfuggivano a un giovane osservatore come lui: questo regime, fondato nel 1970, ha terminato il periodo della sua autorità. Fin dall’inizio tentò di introdurre alcune riforme al regime assoluto promesse nel discorso d’insediamento quando assunse le sue funzioni costituzionali. Le forze di opposizione al regime e ampi segmenti della popolazione accolsero le promesse del presidente e scommisero su di lui.
Il giovane presidente fallì nella realizzazione di qualsiasi progresso riformista durante gli undici anni del suo governo a causa della forza dispotica del potere e del patrimonio. E così oggi le promesse di riforma non trovano ascolto in ampi settori della popolazione siriana, specialmente dopo il fiume di sangue che ha macchiato l’intero paese negli scontri tra manifestanti e forze di sicurezza e dopo il comportamento avuto in alcune città, dalle violazioni alla perdita di dignità. Il regime sostiene che la Siria è sotto la minaccia delle potenze occidentali e di un complotto che coinvolge settori arabi in collaborazione con le potenze occidentali per punire il regime a causa delle sue posizioni nazionaliste. Non escludiamo l’esistenza di queste forze, ma per quanto riguarda il movimento dei manifestanti che cercano il cambiamento, se questo cambiamento si attuasse pacificamente e con l’accettazione del regime come avvenuto in Tunisia ed Egitto, la Siria avrebbe maggior forza per affrontare i complotti stranieri senza far entrare la Siria in una spirale violenza.
Specialmente se sappiamo che la posizione del popolo siriano, passata, presente e futura, non nasconde la sua ostilità verso la politica degli Stati Uniti e di Israele. Inoltre le voci d’opposizione che risiedono a Washington e in alcune capitali occidentali e che sono alimentate dai circoli occidentali non hanno alcuna rappresentanza sulla scena siriana. La storia nazionale siriana dimostra che il popolo siriano è il reale custode dalle deviazioni di qualsiasi regime dall’indipendenza a oggi. Questo popolo ha abbracciato la resistenza palestinese fin dal suo inizio negli anni sessanta, ha abbracciato un milione e mezzo di iracheni in fuga dall’invasione americana dell’Iraq del 2003 e ha accolto gli emigrati libanesi in fuga dall’aggressione israeliana contro il Libano del 2006.
L’impiego dei militari siriani da parte del regime nella città di Daraa per affrontare i manifestanti è stato un atto folle, così come minacciare l’uso della forza militare in altre città non promette nulla di buono e getta il paese in una spirale di violenza e caos che indebolisce la Siria di fronte alle minacce esterne e ne minaccia l’unità nazionale. Alcuni media raccontano di divisioni e insubordinazioni all’interno dell’esercito in maniera amplificata poichè per il momento si tratta solo di insubordinazioni individuali. Non è però da escludere che il fenomeno aumenti se l’esercito continuerà ad essere impiegato per questo scopo. La via d’uscita alla crisi politica che sta devastando oggi la Siria è oramai nota a tutti ed è raffigurata nel cammino delle rivoluzioni arabe, sia di quelle avvenute in Tunisia e Egitto, sia dalla strada intrapresa in Yemen. O cambiare il regime stesso (responsabilità del presidente della repubblica considerato il garante dell’integrità del paese e del popolo) o andarsene.
di Munif Malham
fonte: Nena News
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Occhi puntati su piazza Tahrir oggi: giornata della rabbia, dopo gli arresti delle ultime settimane
Lo dicevamo da un po’ di giorni di come avanzava al galoppo la controrivoluzione in Egitto, contro quella massa di giovani incazzati e speranzosi che aveva animato l’occupazione di piazza Tahrir e che per settimane aveva resistito agli attacchi della polizia e dei loro scagnozzi in borghese.
Una rivoluzione a metà, l’abbiamo sempre detto: una rivoluzione che invece di avanzare a passo di carica aveva lasciato che passasse il pericoloso concetto di “transizione” dal regime di Hosni Mubarak alle nuove e prime libere elezioni.
Una transizione che sarebbe stata sostenuta e garantita dall’esercito, che nei giorni di piazza Tahrir aveva dimostrato di voler stare dalla parte di un sovvertimento di regime, anche se non interno alle forze armate.
Una rivoluzione regalata ad un esercito non è una rivoluzione.
Certo.
Ma non era facile parlare di questo tra le strade egiziane in quei giorni: quando ci provavamo vedevamo occhi brillanti e speranzosi che rispondevano “ce la faremo, abbiate fiducia in noi”. Niente da fare, malgrado la tenacia e gli occhi brillanti di chi pensava di aver già vinto, la controrivoluzione ovviamente dilaga: l’esercito si comporta da esercito, la repressione è ripartita in quarta, come se il vecchio regime fosse saldo al suo posto.
E l’hanno capito questa volta i giovani egiziani rabbiosi, l’hanno capito e lo stanno pagando sulla loro pelle, per l’ennesima volta.
Dal 15 maggio, anniversario della Nakba palestinese, l’ondata di arresti non s’è più fermata: abbiamo iniziato con le retate in difesa dell’ambasciata israeliana nel giorno della “catastrofe” ed ora sembra arrestino chiunque prova a dare un volantino per la manifestazione #May27, quella di oggi pomeriggio.
Ieri sono stati catturati tre noti artisti/blogger mentre affiggevano manifesti vicino al sindacato dei giornalisti, in pieno centro, per chiamare alla manifestazione di oggi, il “secondo venerdì della rabbia”.
Tra loro anche Ganzeer (mohammad fahmy) famoso per i suoi graffiti e molto seguito su twitter dai giorni della rivolta!
Si arresta per i volantini: vedremo oggi che accade.
Occhi puntati su piazza Tahrir, che deve portare avanti la sua rivoluzione…
nel frattempo a Roma abbiamo l’onore di avere Wahel Abbas, blogger tra i più famosi di questi mesi egiziani, ospite di alcune iniziative promosse da Un Ponte Per…
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Mare di Gaza: Israele attacca nave d’aiuti malese
Prendo da Infopal, ma poi vi allego un po’ di altri link per capire meglio la situazione:
il concetto è però di facile comprensione. Una nave di aiuti (malese) diretta da Pireo a Gaza è stata attaccata militarmente dalle fregate militari israeliane a 400 mt dalla costa (quindi questa volta non in acque internazionali).
Sembrerebbe che fosse presente anche una nave da guerra battente bandiera egiziana, che ha poi scortato il cargo malese fino al porto di Al-Arish..
poco altro son riuscita a trovare.
Questa mattina, i cannoni della marina da guerra israeliana hanno aperto il fuoco contro la nave di aiuti umanitari malese, mentre si stava avvicinando alla Striscia di Gaza, obbligandola a far rotta verso l’Egitto.Hanno confermato la notizia sia gli organizzatori sia l’esercito israeliano.
“La MV Finch, che trasportava tubi per gli impianti fognari di Gaza, ha ricevuto colpi di avvertimento sparati dalle forze israeliane in una zona di sicurezza palestinese, questa mattina alle 6,54”, ha dichiarato Shamsul Azhar della Perdana Global Peace Foundation.
“La nave era nella zona di sicurezza palestinese, a circa 400 metri dalle coste di Gaza, quando è stata intercettata dalle forze navali israeliane”, ha dichiarato alla AFP, aggiungendo che ora si trova ancorata a 30 miglia nautiche dal territorio egiziano.
La Perdana Foundation è diretta dall’ex premier malese, Mahathir Mohamad.
Secondo i co-organizzatori in Irlanda, a bordo della nave ci sono attivisti irlandesi, canadesi, malesi e indiani.
In un comunicato stampa, gli organizzatori irlandesi fanno sapere che la barca aveva lasciato il porto del Pireo, in Grecia, mercoledì, e che stava trasportando 7,5 chilometri di tubi di PVC che avrebbero dovuto servire per ristrutturare il sistema fognario di Gaza devastato dalla guerra israeliana del 2008-2009.
(Altre fonti: Ma’an e AFP)
Dalla Malesia : leggi qui
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Egitto: attaccati i manifestanti. Il vecchio regime va a gonfie vele…
Cavolo. Come si innervosisce facile questa polizia egiziana. Eppure non è stata così rapida nell’intervenire ad Imbaba, qualche giorno fa, in quel delirio interreligioso che ha fatto una manciata di morti. In tarda serata, oggi, un fittissimo lancio di lacrimogeni,praticamente tutti a colpire sul corpo dei manifestanti che presidiavano l’ambasciata israeliana, nel giorno della Nakba, e dell’uccisione di 10 persone, tra i diversi confini “violati” d’Israele (la Palestina occupata da Gaza, Libano e Giordania, e le Alture del Golan occupate). Nessun movimento brusco, nessuna provocazione od assalto, la piazza è stata attaccata improvvisamente: alla nostra mezzanotte si contano già 25 persone ferite e un ragazzo in fin di vita.
La quantità di manifestanti, da quel che batte la rete in modo frenetico è in continuo aumento, in un’atmosfera che in molti descrivono simile a quella di Tahrir, che visto il livello di repressione stasera sembra essere più che lontana. Il regime di Mubarak è solido al suo posto…per la liberazione c’è molto da fare ancora popolo di piazza Tahrir…
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RAP2GAZA! Per finanziare il Convoglio Restiamo Umani
Serate a sostegno di CO.RU.M convoglio restiamo umani.
MERCOLEDÌ 4 MAGGIO
dalle 12:30 – pranzo sociale @ Scienze Politiche di Roma Tre, Via G. Chiabrera, 199
SABATO 7 MAGGIO 2011 @C.S.O.AeXSnia – via Prenestina 173
RAP2GAZA – alle 20:00 CENA SOCIALE (CUCINA PALESTINESE) – dalle 21:00VIDEO DI VIK DA GAZA + TO SHOOT THE ELEPHANT – dalle 22:30 concerto con
RAMALLAH UNDERGROUND (PALESTINA) IL NANO + PEYAMAN + ROBBAFORTE + ZIANO + LEGA AL TITANIO/XSB + FORI DAR CENTROL’11 maggio 2011 partirà una carovana internazionale che vuole entrare a Gaza dal valico di Rafah con tutti e tutte coloro che nel mondo condividono l’urgenza di gridare forte e chiaro quello che la voce di Vittorio Arrigoni ci ha detto tante volte: Restiamo Umani!
Porteremo lì i nostri corpi, le nostre capacità e le nostre attrezzature per continuare il lavoro di informazione indipendente che Vittorio, insieme agli uomini e alle donne palestinesi, stava portando avanti contro l’occupazione di Gaza e della West Bank.
Partiamo, con il desiderio di entrare in contatto, conoscere personalmente, scambiarci competenze ed iniziare una stretta collaborazione con coloro che si occupano di libera informazione dalla Striscia di Gaza.
Da freepalestine
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Aggiornamenti Vik2Gaza dal Convoglio Restiamo Umani
Reciviamo e diffondiamo:
Le assemblee organizzative del Convoglio Restiamo Umani [CO.R.UM] si stanno tenendo quotidianamente, purtroppo la visibilità è rallentata da problemi tecnici con il sito ufficiale vik2gaza.org che resterà in ogni caso l’unico punto di riferimento.
La tempistica ci obbliga a diffondere via mail e attraverso blog e siti affini le seguenti informazioni pratiche e i seguenti aggiornamenti:
Se vuoi partecipare al Convoglio Restiamo Umani, comunica la tua volontà di aderire all’indirizzo mail vik2gaza@autistici.org entro lunedì 2 maggio 2001 esplicitando le seguenti informazioni:
– Precedenti esperienze in Palestina
– Appartenenza ad associazioni, realtà, collettivi
– Il motivo per il quale hai scelto di partecipare
– Competenze o conoscenze
Date del Convoglio Restiamo Umani: 11 maggio 2011 – 18 maggio 2011
Incontro al Cairo: la sera dell’11 maggio. L’appuntamento verrà comunicato unicamente ai/alle partecipanti.
Lasceremo il Cairo la mattina del 12 davvero molto presto, per entrare a Gaza da Rafah lo stesso giorno.
Torneremo indietro, passando da Rafah il 17 maggio, per arrivare al Cairo il 18 maggio.
Inoltre, entro le ore 14.00 di lunedì 2 maggio, per partecipare devi inviare a vik2gaza@autistici.org la seguente documentazione per l’adesione:
– oggetto della mail specifica la parola: “passaporto”
– Nome, cognome e data di nascita
– Il numero del passaporto, la data di scadenza ( la quale validità deve essere di almeno 6 mesi dopo la data del ritorno)
– La fotocopia delle prime 4 pagine del passaporto, possibilmente in formato pdf
Tutti questi elementi sono indispensabili per comunicare la lista dei/delle partecipanti all’ambasciata al Cairo e ottenere il coordination pass per l’ingresso a Gaza.
Stiamo consigliando di cercare immediatamente dei voli economici e qualcuno/a ha già scelto di comprare il biglietto individualmente ma allo stesso tempo ci stiamo informando per segnalare e confermare dei voli in due principali città: Roma e Milano.
Le indicazioni che vi stiamo dando riguardano la partecipazione dall’Italia perchè faremo la comunicazione di tutta la lista dei partecipanti all’ambasciata italiana al Cairo nella giornata di lunedì 2 maggio.
Il CO.R.UM si preoccuperà di dare conferma immediata alla richiesta di adesione.
CHI SIAMO
Il COnvoglio Restiamo UMani nasce da singoli, associazioni e movimenti da sempre vicini alla popolazione palestinese, come reazione necessaria all’uccisione di Vittorio Arrigoni.
Nei primi momenti abbiamo scelto di ricordare Vittorio ognuno a suo modo, raccontando chi era, cosa faceva e cosa lo aveva spinto a vivere per anni nella prigione a cielo aperto che è la Striscia di Gaza.
L’idea del convoglio prende forma da un senso di vuoto e impotenza che si è trasformato in una risposta collettiva, determinata, organizzata dal basso: tornare a Gaza.
Il sogno di Vittorio è anche il nostro sogno.
Dare voce a Gaza, soffocata dall’assedio e dal silenzio internazionale.
Riportare a Gaza Vittorio attraverso le idee che ispiravano il suo agire quotidiano.
E che sono anche le nostre.
“E alla fine sono tornato.
Non sazio del silenzio d’assenzio di una felicità incolta
accollata come un cerotto mal riposto su di una bocca che urla.”
Vittorio Arrigoni, Gaza 25 dicembre 2008
OBIETTIVI
Essere a Gaza il 15 maggio a un mese dall’assassinio di Vittorio Arrigoni nell’anniversario della Nakba, passando dal valico di Rafah.
Perché vogliamo gridare forte e chiaro quello che la voce di Vittorio ci ha detto tante volte: Restiamo Umani!
Per ribadire che la solidarietà internazionale verso la popolazione palestinese non può essere fermata.
Per dare nuove energie e continuità al lavoro di informazione indipendente che Vittorio, insieme agli uomini e alle donne palestinesi, stava portando avanti da una Gaza sotto assedio.
Per sostenere la popolazione palestinese e i giovani che lottano quotidianamente per la liberazione dall’occupazione israeliana.
COSTI
Per coprire le spese dei documenti necessari, per i trasporti, il vitto e il pernottamento si prevede una spesa complessiva di circa 250 Euro. Speriamo di poter ridurre questa cifra il piu’ possibile.
Sono già in calendario, e inizieranno da oggi, le iniziative di autofinanziamento per gli obiettivi del convoglio.
Il costo del viaggio fino al Cairo e’ escluso da questa cifra, cambiando notevolmente a seconda del paese di provenienza.
COME PARTECIPARE
Si dovranno soddisfare delle condizioni minime per poter partecipare al CO.R.UM., questo è necessario per garantire la sicurezza e la riuscita del convoglio.
CONTATTI PER L’ITALIA
e-mail : vik2gaza[at]autistici[.]org
phone : 0039.333.3666713
DONAZIONI
Se vuoi contribuire economicamente ai progetti che verranno sostenuti da CO.R.UM. sia durante la permanenza a Gaza che successivamente, puoi fare una donazione sul seguente conto:
NAME: Giovanni Lisi
BIC: BAECIT2B
IBAN: IT 94 k 03127 03241 0000000001237
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Egitto: la repressione colpisce i blogger
Ieri è arrivata l’ennesima condanna ad un blogger, più grave delle altre perché questa volta non è stato il regime di Mubarak a sancire il carcere per questo ragazzo. La condanna decisa per questo ragazzo, colpevole delle parole usate online, è la prima da quando il Consiglio supremo delle forze armate tiene le redini del potere, in attesa delle elezioni. 
Maikel Nabil è stato condannato da un tribunale militare a ben tre anni di prigione per aver postato su internet, attraverso il suo blog (intitolato “L’esercito e il popolo non sono mai dalla stessa parte”)e alcuni social network, messaggi che criticavano il ruolo dell’esercito sia nell’era del regime, sia durante e dopo le settimane della cosiddetta rivoluzione di piazza Tahrir. Gli avvocati, peraltro non informati dell’udienza e quindi non presenti in aula, hanno detto che ricorreranno in appello per tentare di bloccare la repressione su Maikel. Oggi le notizie che giungono dal paese del grande fiume ci raccontano di Safwat el-Sharif, uomo chiave del rerime, che da oggi si trova in regime di custodia cautelare per accuse riguardanti appropriazioni indebite di denaro: insieme a lui anche l’ex presidente dell’Assemblea del popolo Fathi Sorour e l’ex capo di gabinetto Zakaria Azmi.
In piazza Tahrir, dove alcuni manifestanti cercavano di rimanere dalla manifestazione dello scorso venerdì, l’esercito si sta dispiegando in numero più massiccio per eliminare traccia di qualunque accampamento. Le notizie dell’ultima ora ci parlano anche di un ricovero di Mubarak nell’ospedale si Sharm el-Sheik… ancora una volta
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Egitto: peggio di prima!
Si dovevano celebrare i due mesi senza la presenza di Hosni Mubarak, due mesi dalla sua caduta, dalla fuga nel fortino di Sharm, mentre piazza Tahrir stremata da 18 giorni di rivolta, esultava troppo presto per una rivoluzione ancora tutta da fare.
La manifestazione indetta è stato un territorio di battaglia, dove i soldati hanno attaccato i manifestanti e tirato giù le tende presenti, tende che appaiono e scompaiono continuamente da quelle isola di aiuole al centro dell’immensa piazza. Ci sono due morti a terra, uccisi da colpi d’arma da fuoco e 71 feriti (molti violentemente picchiati o intossicati dal fitto uso di gas urticanti e asfissianti). L’esercito ha caricato quasi immediatamente per disperdere le duemila persone che erano già arrivate in piazza, incredule davanti a quella reazione, totalmente inaspettata malgrado la situazione per i manifestanti sia mutata già da una manciata di settimane.
La piazza poi si è riempita, più di diecimila persone si sono scontrate con le forze armate… probabilmente la furia dell’esercito è scattata quando molti sottoufficiali, dal palco della piazza, si sono uniti alla manifestazione con una chiarezza mai espressa fino ad ora, contro i loro stessi vertici, che pochi minuti dopo hanno iniziato ad ordinare di sparare e disperdere tutti. Un pulmann dell’esercito è stato dato alle fiamme, ma i sassi sono stati l’arma più usata, in risposta a gas e piombo. Quarantadue persone risultano in stato di fermo.
Il popolo di piazza Tahrir sembra aver finalmente capito che l’esercito rientra tra i nemici di questa rivoluzione e l’ha capito ovviamente solo dopo aver visto scorrere il proprio sangue: l’esercito ha sparato contro di loro, ha dimostrato di essere parte integrante di quel regime che troppo ingenuamente pensavano di aver raso al suolo solo con le magnifiche giornate di febbraio … un’illusione finita più che velocemente, come si poteva immaginare.
In piazza si scendeva anche contro il generale Hussein Tantawi, a capo del Consiglio supremo delle Forze armate egiziane, in cui in troppo avevano creduto fino a poco fa “Non hai più la nostra fiducia” urlavano i manifestanti e, fino a poco prima delle cariche, uno degli slogan era anche “Forze Armate, avete un posto nel nostro cuore, non perdetelo”… cosa accaduta definitamente pochi minuti dopo.
Non vogliono più che l’esercito sia per le strade, vorrebbero ancora poter credere in un reale cambiamento nella gestione del potere ma la frustrazione è ormai l’unico sentimento che pregna chi fino a poco tempo fa festeggiava per un futuro tutto nuovo in via di costruzione.
Questa mattina Ahmed Salah, espontente del movimento 6 aprile e leader di piazza Tahrir ha detto che in Egitto “è in atto una cospirazione evidente per mantenere il vecchio regime. Quasi tutti i partiti di opposizione tacciono per opportunismo. Stanno uccidendo la rivoluzione, nessuna delle nostre richieste è stata esaudita. Chiediamo – racconta – che i militari lascino subito il potere, sostituiti da un consiglio presidenziale civile. Che si fermi davvero la corruzione rimuovendo e processando tutti gli elementi del vecchio regime, compresi Mubarak e famiglia. Vanno rimossi anche i giudici che continuano a fare processi pur essendo collusi col vecchio regime. Infine la richiesta di rinviare il voto di settembre: è troppo presto, si devono ancora formare partiti liberi, manca una vera Costituzione, ci vogliono riforme. La gente prima di votare deve sapere chi è” … se il referendum fosse andato diversamente non starebbero in questa situazione, ma il tradimento di alcuni partecipanti della “rivoluzione”, come i Fratelli Musulmani è ormai dichiarato.
Intanto già alle prime ore dell’alba i manifestanti hanno tentato di riprendere posizione e barricarsi…il filo spinato usato dall’esercito per bloccare gli accessi è ora nelle loro mani, che stanno tentando di usarlo per proteggere i punti di ritrovo…
anche questa giornata sarà lunga, per le strade del Cairo.
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Al-Aswani ci racconta quest’Egitto della controrivoluzione …
Un articolo interessante, comparso pochi giorni fa sulle pagine del giornale indipendente egiziano Al-Masry al-youm, a firma del noto scrittore Alaa al-Aswani, noto anche per essere uno tra i fondatori del partito Kifaya (“basta!”), “movimento egiziano per il cambiamento”, nato nel 2004. NOn per sposare ogni sua parola, ma per dare un ulteriore elemento per capire quello che sta accadendo lungo le sponde del Nilo, da qualche mese a questa parte…
Parlavamo già un po’ di tempo fa del rischio che sta correndo il popolo di piazza Tahrir, che per un attimo e forse troppo ingenuamente, ha sentito la rivoluzione tra le dita delle mani. L’abbiamo raccontata col più sincero degli entusiasmi, ma allo stesso col terrore che possa essere, come dice in questa pagina al-Aswani, un’occasione sprecata. Una panoramica, che fa trapelare la rabbia per come l’esercito ha gestito l’arrivo ai referendum, il volta faccia dei Fratelli Musulmani, l’attesa popolare per un’incriminazione di Mubarak che continua a non arrivare…
Dopo la riuscita rivoluzione del 1919, e dopo che le forze d’occupazione britanniche ebbero ceduto alla volontà del popolo egiziano, re Faruq istituì una commissione incaricata di redigere una nuova costituzione. Essa venne nominata anziché eletta. Il leader nazionalista Saad Zaghloul si oppose, chiedendo che venisse eletta un’assemblea costituente per garantire che la costituzione rispecchiasse la volontà del popolo. Ma re Faruq insistette sulla sua posizione. La commissione nominata redasse la costituzione del 1923, che diede al re il diritto di sciogliere il parlamento in qualsiasi momento. Questa grave carenza costituzionale guastò la vita politica trasformando il parlamento in uno strumento nelle mani del re. Il partito Wafd di Zaghloul, che aveva la maggioranza dei seggi in parlamento, prese il potere una sola volta nel corso dei successivi 30 anni.
Stranamente, Zaghloul accettò la costituzione del 1923, nonostante i suoi difetti. In qualità di leader incontrastato dell’Egitto in quel momento, egli avrebbe potuto invitare gli egiziani a insistere sul loro diritto a una costituzione giusta e democratica. Ma l’occasione andò persa.
Dopo la rivoluzione del 1952, l’Egitto sprecò un’altra occasione di democratizzazione. La corrente antidemocratica presente all’interno degli Ufficiali Liberi dominò la rivoluzione, e il 16 gennaio 1953 emanò la decisione di sciogliere tutti i partiti politici e di confiscare il loro denaro e i loro uffici. Il partito Wafd era il partito di maggioranza all’epoca, ed era in grado di mobilitare l’opinione pubblica contro la dittatura, nel qual caso gli Ufficiali Liberi avrebbero ritirato la propria decisione e il sistema democratico in Egitto sarebbe stato preservato. Ma il partito Wafd non sollevò obiezioni. Fu un’altra occasione sprecata per l’Egitto. Invece, il paese rimase sotto il dominio autoritario per i successivi 60 anni.
Purtroppo, la storia dell’Egitto è piena di opportunità di democratizzazione sprecate. Ora abbiamo un’altra opportunità, che mi auguro non venga persa. La rivoluzione del 25 gennaio ha costretto Hosni Mubarak a dimettersi. Centinaia di egiziani hanno sacrificato la loro vita per amore della libertà. Fin dai suoi inizi, tuttavia, la rivoluzione si è trovata di fronte a una feroce controrivoluzione – sia all’interno dell’Egitto che all’estero.
Pochi giorni fa, il quotidiano kuwaitiano ‘Al-Dar’ ha riferito che le autorità egiziane stanno subendo enormi pressioni da parte dei governanti arabi, in particolare dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, affinché Mubarak non venga processato. Secondo il giornale, questi Stati arabi hanno apertamente minacciato di congelare tutti i rapporti con il Cairo, di tagliare tutti gli aiuti finanziari, e di ritirare i loro investimenti dall’Egitto. Tali regimi si sono spinti addirittura a minacciare di licenziare i 5 milioni di egiziani che lavorano nei loro paesi, se Mubarak dovesse essere processato.
Da parte sua, Israele ha sempre difeso Hosni Mubarak, uno dei suoi migliori alleati. La stampa israeliana non nasconde le sue preoccupazioni di fronte al significativo cambiamento democratico in Egitto. L’amministrazione americana ha una posizione simile. Sia i funzionari americani che quelli israeliani riconoscono il potenziale dell’Egitto e sanno che diventerebbe una potenza regionale nel giro di pochi anni, se diventasse una democrazia.
Sul quotidiano britannico ‘Guardian’, il noto intellettuale americano Noam Chomsky ha sostenuto che gli Stati Uniti appoggiano l’autoritarismo in Egitto, non perché temono l’estremismo islamico, come solitamente affermano, ma perché temono un Egitto indipendente che non faccia affidamento sul sostegno americano. L’amministrazione USA si impegnerà a fondo – Chomsky ha aggiunto – per garantire che il prossimo presidente dell’Egitto resti fedele agli interessi americani.
Oltre alle minacce internazionali contro la rivoluzione in Egitto, ci sono anche seri problemi interni. Le basi del regime di Mubarak sono ancora intatte. L’ex Partito Nazionale Democratico (NDP) rimane radicato in tutto l’Egitto. Centinaia di migliaia di membri dell’NDP faranno del loro meglio per riconquistare il potere, sia pure sotto una nuova denominazione. Centinaia di agenti della sicurezza statale, che hanno perso i loro posti di lavoro, sono ora liberi di provocare devastazioni. Decine di migliaia di consiglieri comunali, governatori, rettori e presidi di università (nominati dall’apparato di sicurezza), oltre a esponenti dei media, leader d’impresa e di falsi sindacati, stanno ora cospirando contro la rivoluzione.
Quali sono gli obiettivi della controrivoluzione? Le dichiarazioni di Mubarak alla stampa internazionale, prima che egli si dimettesse, sono particolarmente significative.
“Voglio farmi da parte, ma temo il caos in Egitto … ho paura che i Fratelli Musulmani possano arrivare al potere”.
La controrivoluzione sta ora implementando un piano per trasformare in realtà le paure di Mubarak al fine di mostrare che l’ex presidente aveva ragione. Questo piano comprende:
1. Fomentare il caos e terrorizzare gli egiziani per farli sentire insicuri. Ciò serve a farli stancare della rivoluzione e a spingerli ad accettare le mezze soluzioni per motivi di stabilità. Questo piano ha avuto inizio con il ritiro delle forze di polizia in tutto l’Egitto e con la liberazione di 40.000 criminali dal carcere, che sono stati armati e hanno ricevuto istruzioni di attaccare la popolazione civile. Il piano è rimasto in vigore durante il mandato di Ahmed Shafiq come primo ministro. Quando Essam Sharaf ha preso il suo posto, hanno avuto luogo diversi episodi di vandalismo e di tensioni settarie, umiliando in tal modo il governo post-rivoluzionario. Nonostante i grandi sforzi intrapresi dal nuovo ministro degli interni, Mansur Al-Issawi, la polizia rimane in gran parte assente. Il rifiuto della polizia di proteggere questa nazione costituisce un tradimento. Gli agenti di polizia possono astenersi dal compiere il proprio lavoro solo se gli viene dato un ordine in tal senso. E’ chiaro che coloro che ordinano agli agenti di polizia di non compiere il proprio dovere sono ancora più influenti dello stesso ministro degli interni.
Gli episodi di criminalità e di teppismo in Egitto non sono casuali. Sono per lo più pianificati e mirati. Ad esempio, il personale di sicurezza di fronte al seggio di Moqatam non è intervenuto quando il sostenitore delle riforme Mohammad ElBaradei è stato attaccato dai sostenitori dell’NDP il giorno del referendum. Nel quartiere di Shubra, nei due giorni precedenti il referendum, alcuni teppisti sono stati autorizzati a bloccare le strade, a terrorizzare la gente e a sparare a casaccio colpi di arma da fuoco, causando diversi morti. Non un singolo funzionario di polizia o soldato dell’esercito è intervenuto per proteggere i cittadini. Il fatto che molti copti vivano a Shubra e che i leader copti avessero annunciato la loro opposizione agli emendamenti costituzionali non ha nulla a che fare con questi attacchi? Gli attacchi erano forse mirati a terrorizzare i copti per costringerli ad accettare gli emendamenti, o avevano l’obiettivo di punirli per aver insistito sul diritto degli egiziani ad avere una nuova costituzione?
2. Celebrare processi selettivi, la maggior parte dei quali si svolge sotto i riflettori dei media. I media statali (che erano anch’essi sotto il controllo dell’apparato di sicurezza dello Stato) si sono precipitati a fotografare gli ex-membri dell’NDP Ahmed Ezz, Zoheir Garana, e Ahmed Maghrabi nelle loro uniformi da detenuti, durante le indagini nei loro confronti. Lasciando da parte il fatto che ciò è andato contro tutti gli standard professionali, lo scopo era quello di assorbire la rabbia degli egiziani e convincerli che si stava facendo giustizia. Con tutto il rispetto per il procuratore generale, ci sono molte domande senza risposta a questo proposito.
Perché Mubarak e i suoi familiari non sono stati indagati? Perché gli ex-leader dell’NDP Zakaria Azmi, Fathi Sorour e Safwat al-Sherif non sono stati messi sotto processo? Perché il procuratore generale non ha indagato a proposito delle 24 denunce presentate dai lavoratori dell’aviazione civile contro Ahmed Shafiq, accusato di sprecare il denaro pubblico? Durante il mandato di Ahmed Shafiq come primo ministro, perché il procuratore generale non ha compiuto alcuna indagine sugli agenti di polizia accusati di aver ucciso i manifestanti? Dopo che Shafiq ha presentato le dimissioni, perché la procura ha rilasciato gli agenti accusati di omicidio? Il loro rilascio non permetterà loro di nascondere le prove che potrebbero essere usate per incriminarli? Qual è lo scopo di processare funzionari corrotti e assassini in maniera selettiva?
3. Agli egiziani non è stato permesso di eleggere un’assemblea costituente in grado di redigere una nuova costituzione che rifletta la volontà del popolo e che porti l’Egitto verso un’era di democrazia. Invece, il Consiglio Supremo delle Forze Armate ha sorprendentemente adottato la proposta di Mubarak di compiere limitati emendamenti costituzionali. Il processo di elaborazione e di approvazione degli emendamenti è stato afflitto da una serie di mancanze. In primo luogo, i membri della commissione incaricata di formulare gli emendamenti non sono stati selezionati sulla base di criteri chiari. In secondo luogo, il referendum si è svolto in tutta fretta dopo l’annuncio delle modifiche proposte, rendendo difficile per i cittadini comprendere appieno le problematiche coinvolte. Terzo, i cittadini potevano solo accettare o respingere l’intero pacchetto degli emendamenti, e non votarli singolarmente. In quarto luogo, la Fratellanza Musulmana e l’NDP si sono ritrovati uniti per la prima volta nell’appoggiare l’approvazione degli emendamenti. I Fratelli Musulmani hanno dimostrato di essere pronti a modificare la loro posizione a seconda dei propri interessi. Dopo aver raccolto le firme per mesi per sostenere la campagna di riforma di ElBaradei, essi hanno voltato le spalle a tutto questo e si sono alleati con l’NDP.
I principi dell’Islam sembrano essere sospesi per i Fratelli Musulmani durante la stagione elettorale, in quanto essi sembrano essere pronti a tutto pur di ottenere il potere. La Fratellanza Musulmana ha accusato i suoi oppositori di essere agenti stranieri. Ha distribuito zucchero e olio ad alcuni elettori, ha terrorizzato altri, e addirittura si è spinta a definire alcuni di loro ‘apostati’. La dimostrazione di forza della Fratellanza, anche se non è del tutto indicativa della sua influenza in tutto l’Egitto, sta servendo gli obiettivi della
controrivoluzione. Da un lato, il movimento sta polarizzando gli egiziani sulla base della religione. Sta minando l’unità nazionale che la rivoluzione aveva invece alimentato. Dall’altro, esso dimostra ai simpatizzanti della rivoluzione in Occidente che Hosni Mubarak era davvero l’ultimo baluardo contro gli estremisti. Coloro che sono rimasti frustrati dalla calda accoglienza che i media hanno riservato al leader e assassino della Jihad Islamica Abud al-Zumur, dopo la sua liberazione dal carcere la scorsa settimana, devono riconoscere che queste immagini offrono un sostegno alla controrivoluzione. Al-Zumur, la cui lunga barba ricorda quella di Osama bin Laden, ha annunciato in televisione che uccidere in nome della religione è legittimo. Quest’affermazione ha terrorizzato milioni di occidentali che simpatizzavano con la rivoluzione egiziana, ma che ora sono pronti ad accettare il ritorno del vecchio regime in nome dell’esigenza di proteggere l’Egitto dagli estremisti.
Coloro che erano a favore degli emendamenti costituzionali hanno vinto il referendum. Pur rallegrandomi per la grande affluenza alle urne e rivolgendo il mio rispetto agli elettori, è mio dovere affermare che portare avanti il processo di transizione con un ritmo così rapido è contro gli interessi dell’Egitto e della rivoluzione.
Se coloro che sono al potere vogliono veramente sostenere il cambiamento democratico, il nostro sistema elettorale incentrato sui candidati deve essere cambiato. Questo sistema permetterà all’NDP e ai Fratelli Musulmani di aggiudicarsi la maggior parte dei seggi alle prossime elezioni. Che siano costoro a ricevere l’incarico di redigere la nuova costituzione egiziana è inaccettabile. La maggior parte dei giuristi ha sostenuto che una costituzione redatta da un parlamento eletto attraverso il sistema attuale non rappresenterebbe la volontà del popolo egiziano. Il loro ammonimento deve essere preso sul serio. La grande rivoluzione egiziana non diventerà un’altra occasione sprecata. Se il processo di transizione ci riporterà indietro, nessuno potrà impedire al popolo egiziano, che ha costretto Hosni Mubarak a dimettersi, di ottenere da sé la propria libertà.
La democrazia è la soluzione.
Tradotto da Medarabnews
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Piazza Tahrir: immagini dei miei ricordi!
ehehehe…Baruda che s’aggira per piazza Tahrir!
me piace! grazie Misna
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Egitto: il referendum non doveva andare così!
Ci son rimasta male, anche se inizio ad avere una certa età per credere nei sogni con così tanto fervore; poi ci rimango male.
La chiamata alle urne in Egitto non è andata come doveva andare anche se tutte le autorità mondiali giocano a chi fa prima d sbrodolarsi dicendo che è l’opzione migliore per la transizione e l’arrivo alle nuove elezioni. Io non la penso così e con me tutto il popolo di piazza Tahrir, quello che ha mosso lo spirito del nuovo Egitto, esclusa i Fratelli Musulmani.
Tutti i sondaggi e i pronostici davano il no per favorito: ma facciamo un po’ di chiarezza.
Se avesse vinto il NO tutto sarebbe stato da ridiscutere: l’intera Costituzione si sarebbe rivista ed era il desiderio delle giovani organizzazione nate durante la rivoluzione, il desiderio dei lavoratori che in massa hanno scioperato per settimane, il desiderio delle donne che avrebbero potuto ridiscutere pezzo pezzo il loro “accesso” alle libertà individuali in modo diverso. Passando il No sarebbe andato al vaglio anche l’art. 2 della Costituzione che sancisce la legge islamica alla base della legislazione nazionale: motivo per cui tutta la comunità copta ha votato compattamente per la riscrittura. Insomma, l’intero popolo della rivoluzione del 25 gennaio, quello che ha mandato a casa Mubarak dopo 30 anni, confidava in un secco NO.
Quello si che sarebbe stato un bello schiaffone al vecchio regime, all’esercito, agli attuali aspiranti candidati (anche se entrambi i potenziali candidati hanno dato la preferenza al NO) e uomini della nuova pagina di quel paese così strategicamente importante, così centrale nella scacchiera mediorientale.
E invece la reazione alla fine ha prevalso ed anche con percentuali più che ampie (pare che la vittoria ruoti intorno al 77%): colpevoli sicuro i Fratelli Musulmani che hanno appoggiato il SI insieme al partito del potere, del regime, dell’ex rais. Si sperava in un comportamento diverso visti i rapporti nati nei due lunghi mesi di vita per le strade che abbiamo alle spalle…ma invece, come sempre, la “reazione” ha prevalso nella principale organizzazione islamica, che pur di uscire dalla clandestinità politica in cui s’è mossa sotto il regime non spinge i propri simpatizzanti per un ulteriore salto.
Niente da fare.
Passano i dieci emendamenti costituzionali: saranno riviste le modalità per presentarsi alle elezioni e anche quelle riguardanti la tempistica della carica, ma buona parte delle norme che regolavano il vecchio regime rimarrano intoccate.
La strada, per il popolo meraviglioso di piazza Tahrir, è solo un po’ più in salita del previsto…
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Egitto: 45 milioni di persone alle urne, oggi
In 45 milioni alle urne, nel caro Egitto in rivoluzione. Dovranno esprimersi su uno dei punti fondamentali per il futuro politico del paese nell’era successiva al regime di Mubarak. Potranno votare per ancora una manciata di minuti (i seggi chiuderanno alle nostre 18): Na’am (si) o La (no) al pacchetto di dieci emendamenti, proposti come intervento sulla costituzione. Gli emendamenti più importanti riguardano la durata del mandato presidenziale, le caratteristiche necessarie per esser capo dello stato e le modalità per candidarsi alle elezioni. Gli unici a tifare per il si, oltre a quel che è rimasto del Partito Nazionale Democratico (quello che era il partito di Hosni Mubarak) e i Fratelli Musulmani.
Tutto il popolo di piazza Tahrir, le centinaia di migliaia di giovani che in questi due mesi non hanno mollato la presa contro il regime e i suoi servi che stanno riuscendo dalle fogne appena poche settimane dopo esserci finalmente finiti, il popolo che sta mobilitando il nuovo Egitto, quello della Coalizione dei giovani della rivoluzione invita il paese a votare per il no. No ad un pacchetto d’emendamenti ad una Costituzione che giustamente vogliono riscrivere dall’inzio, parola per parola. Lo raccontavo mentre manifestavo con loro, un mese fa, per Il Cairo: anche i bambini buttati sulle panchine o quelli seduti a mangiare un panino a ricreazione, gli operai, i tassisti…non ho conosciuto egiziano che non avesse in tasca la sua bozza di Costituzione. Se dovesse vincere il SI, con l’approvazione degli emendamenti si arriverebbe rapidamente -a giugno- ad elezioni parlamentari e a settembre alle presidenziali; se dovesse invece prevalere il NO tutto slitterebbe dopo dicembre per permettere ad una commissione di riscrivere la costituzione. Quindi speriamo che la situazione sia come dicono gli ultimi sondaggi, che vedono solo un 37% di preferenze rivolte verso il SI. Al-jazeera racconta di lunghissime file ai seggi; una partecipazione praticamente sconosciuta alle urne egiziane precedentemente
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Egitto: maledetta Baltagheyya
Ciò che è accaduto questo pomeriggio a piazza Tahrir e un po’ tutto quello che sta avvenendo da una decina di giorni a questa parte, palesa che son state prese alla leggera un po’ troppe cose dai giovani rivoltosi egiziani.
Le squadracce del regime, la Baltagheyya, che tanto spesso abbiamo nominato in questo blog per descrivere la situazione egiziana, stanno di nuovo passando all’attacco. Probabilmente anche questi improvvisi scontri confessionali, che hanno fatto dieci morti in due giorni, puzzano della loro mano: almeno a me, che ho visto con i miei occhi l’unione tra copti e islamici in questo inizio di rivoluzione in Egitto.
I copti hanno permesso ai Fratelli Musulmani di pregare tranquillamente in piazza durante le tre settimane di piazza Tahrir: loro cordonavano gli islamici piegati a recitare il Corano, loro con quelle piccole croci tatuate sui polsi. Tutti i volantini, tutti i manifesti, tutti i giornali e tutti i volti hanno parlato dal primo giorno di unione tra confessioni per un nuovo paese e la stavano e stanno costruendo con forza e determinazione.
Ora…piazza Tahrir attaccata dalle squadracce, come a gennaio; la manifestazione di ieri, otto marzo, di donne e per donne, finita nel peggiore dei modi; gli scontri confessionali che riappaiono improvvisi, anche alla luce di molte prove uscite sugli attacchi contro le chiese copte, mossi non da gruppi di fondamentalisti islamici ma direttamente dal vecchio ministero dell’Interno…

Foto di Valentina Perniciaro _uno dei simboli più diffusi a piazza Tahrir, l'unità tra musulmani e copti_
Piazza Tahrir, attaccata come dicevamo da queste maledette squadracce che stanno provando a fermare il mutamento in corso con i soli metodi che conoscono, è stata poi definitivamente sgomberata di tutti i manifestanti dall’esercito, che sembra averlo fatto senza usare forza e senza nemmeno reagire al fitto lancio di sassi di un gruppo di giovani che non voleva lasciare il luogo ormai simbolo di un popolo che cerca di liberarsi del regime e dei suoi scagnozzi.
Per qualche ora è circolata la notizia che il coprifuoco era stato anticipato alle 21 in tutta wast al-balad, il quartiere dove si trova piazza Tahrir, notizia smentita poco fa dalla tv di stato.
La rivoluzione non è un pranzo di gala, diceva un tipo tempo fa… il popolo in lotta d’Egitto lo sta imparando sulla sua pelle giorno dopo giorno.
Il popolo di piazza Tahrir
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La tortura in Egitto, ecco una sfilza di corpi
Amnesty International dopo aver preso visione di queste immagini ha immediatamente avvertito e sollecitato le autorità egiziane perchè si avvii immediatamente un’indagine su scatti che mostrano decine di corpi di detenuti del carcere di al-Fayoum (nel deserto egiziano, ad un centinaio di kilometri da Il Cairo) apparentemente morti dopo tortura. I video sono stati girati tutti e tre nell’obitorio di Zenhoum l’8 febbraio di quest’anno, a rivoluzione in corso, da Malek Tamer, fratello di uno di quei corpi torturati e poi uccisi. Amnesty racconta dalle pagine del suo sito che Malek si era recato in obitorio perché avvertito da un amico, che aveva riconosciuto il fratello tra quei corpi, tutti con il nome attaccato sulla fronte con un pezzo di carta. Le immagini testimoniano, attraverso le ferite presenti sui cadaveri, delle torture subite prima di essere uccisi ed ora le autorità egiziane dovranno aprire un’inchiesta per stabilire le circostanze della morte di tutti e 68.
Questo numero è quello riportato nella lista presente nell’obitorio di Al-Fayoum, uno dei penitenziari più grandi del paese. La maggior parte delle ferite visibili sono su testa, bocca ed occhi, alcuni hanno bruciature o colpi di arma da fuoco ed alcuni le dita delle mani amputate e quelle dei piedi prive di unghie..
Malek Tamer, all’interno dell’obitorio era con Mohamed Ibrahim Eldesouy, il cui fratello è stato ritrovato lì: entrambi sono stati visti l’ultima volta il 30 gennaio, quando sono stati trattenuti dall’esercito in stato. La comunicazione data alle famiglie era per entrambi la stessa: avrete informazioni sul luogo di detenzione del vostro familiare entro due giorni presso il dipartimento penitenziario gestito dal ministero dell’interno. Una settimana dopo eccoli spuntare morti all’obitorio: il certificato di morte parla di soffocamento per uno e di cause da accertare per l’altro.
Delle quasi ventiduemila persone evase o fuggite durante i giorni della rivoluzione, più della metà sarebbe stato riarrestato o si sarebbe ricostituito, stando alle notizie di Amnesty International
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L’Egitto e le frustrazioni della stampa israeliana
Le frustrazioni accumulate dalla stampa israeliana in questi giorni sono innumerevoli e divertenti: l’editoriale uscito questa mattina su Hareetz, quotidiano di Tel Aviv a firma di Amira Hass è emblematico a riguardo e lo si legge con una certa “simpatia”.
Stiamo parlando di Amira Hass poi, residente a Ramallah da molti anni, inviata israeliana nei territori occupati che più di una volta -se non sempre- ha mosso penna contro l’esercito dalla stella di Davide, quello del suo paese. Ora Amira scrive, o tenta di farlo, dalle strade de Il Cairo protagoniste di una rivolta che ha accolto tutti i media internazionali, ma non lei a quanto pare.
Le risposte che riferisce nel suo editoriale sono emblematiche del rapporto che c’è tra il giovane popolo rivoluzionario di piazza Tahrir e l’ “entità sionista”, in qualunque forma si presenti: c’è chi ha rifiutato l’incontro a prescindere, ci racconta la giornalista, perchè incontrare un cittadino dello stato di Israele avrebbe significato riconoscerne l’esistenza, di quello Stato.
Ci racconta sconcertata della sua faticosa ricerca di un interlocutore e ci tiene a specificare che non sono stati gli appartenenti ai Fratelli Musulmani a rifiutare gli incontri, ma esponenti di diverse organizzazioni anche appena nate, che spesso rimanevano anche sorpresi della richiesta di un incontro [“scusi signora, niente di personale ma non tengo rapporti con l’entità sionista”].
Tra questi anche esponenti delle organizzazioni di lavoratori che hanno scioperato nei giorni della rivolta e non stanno smettendo di farlo.
Amira, con tutto l’infinito rispetto per il tuo lavoro…ma che t’aspettavi??
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