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Mare di Gaza: Israele attacca nave d’aiuti malese
Prendo da Infopal, ma poi vi allego un po’ di altri link per capire meglio la situazione:
il concetto è però di facile comprensione. Una nave di aiuti (malese) diretta da Pireo a Gaza è stata attaccata militarmente dalle fregate militari israeliane a 400 mt dalla costa (quindi questa volta non in acque internazionali).
Sembrerebbe che fosse presente anche una nave da guerra battente bandiera egiziana, che ha poi scortato il cargo malese fino al porto di Al-Arish..
poco altro son riuscita a trovare.
Questa mattina, i cannoni della marina da guerra israeliana hanno aperto il fuoco contro la nave di aiuti umanitari malese, mentre si stava avvicinando alla Striscia di Gaza, obbligandola a far rotta verso l’Egitto.Hanno confermato la notizia sia gli organizzatori sia l’esercito israeliano.
“La MV Finch, che trasportava tubi per gli impianti fognari di Gaza, ha ricevuto colpi di avvertimento sparati dalle forze israeliane in una zona di sicurezza palestinese, questa mattina alle 6,54”, ha dichiarato Shamsul Azhar della Perdana Global Peace Foundation.
“La nave era nella zona di sicurezza palestinese, a circa 400 metri dalle coste di Gaza, quando è stata intercettata dalle forze navali israeliane”, ha dichiarato alla AFP, aggiungendo che ora si trova ancorata a 30 miglia nautiche dal territorio egiziano.
La Perdana Foundation è diretta dall’ex premier malese, Mahathir Mohamad.
Secondo i co-organizzatori in Irlanda, a bordo della nave ci sono attivisti irlandesi, canadesi, malesi e indiani.
In un comunicato stampa, gli organizzatori irlandesi fanno sapere che la barca aveva lasciato il porto del Pireo, in Grecia, mercoledì, e che stava trasportando 7,5 chilometri di tubi di PVC che avrebbero dovuto servire per ristrutturare il sistema fognario di Gaza devastato dalla guerra israeliana del 2008-2009.
(Altre fonti: Ma’an e AFP)
Dalla Malesia : leggi qui
Finalmente Gaza
Il sole del Cairo deve ancora finire di sorgere, quando il convoglio restiamo umani comincia a prepararsi per la partenza verso Gaza.
E’ un viaggio, quello che verrà intrapreso, denso di attesa e carico di speranza: c’è la consapevolezza di quanto sia importante attraversare il valico di Rafah in seguito alle rivolte che hanno abbattuto il regime di Mubarak; e c’è la volontà di ricordare Vittorio Arrigoni nella terra stessa per cui ha dato la vita. Il convoglio porterà tra la popolazione palestinese un messaggio da rivolgere a tutto il mondo: la Palestina non è sola, i sogni di Vik sono anche i nostri, la solidarietà verso chi lotta contro oppressione e sfruttamento non conosce frontiere.
Dieci check-point rallentano il cammino, uno in particolare lo costringe ad una sosta di 2 ore e mezza nel deserto del Sinai, vengono poste le questioni di sempre, le stesse riscontrate nei giorni precedenti circa l’impossibilità di oltrepassare Rafah . Questa volta, l’ambasciata italiana “premurosa e zelante” comunica che il convoglio non entrerà mai dentro Gaza ma evidentemente i fatti gli hanno dato torto: noi siamo qui!
Il Convoglio Restiamo Umani da oggi cammina sui passi di Vittorio, orme chiare, impresse nella terra di Gaza e rimarcate dall’affetto spontaneo delle palestinesi e dei palestinesi che hanno accolto il nostro arrivo.
Il Co.R.Um assorbe la determinazione, il coraggio e l’estrema umiltà di Vittorio, caratteristiche che riconosciamo nella lunga resistenza della popolazione palestinese.
Per molti di noi è la prima volta che si attraversa la frontiera della Striscia di Gaza, una vittoria per chi non si è mai arreso, via mare e via terra, al categorico Denied Entry: niente da vedere, nessuno da incontrare.
A sottolineare l’importanza storica del momento c’è stato il contagioso entusiasmo dell’accoglienza riservata al convoglio da numerosi palestinesi presenti, che ci hanno accompagnato fino a Gaza City. Una volta sul posto ripercorriamo i luoghi frequentati quotidianamente da Vittorio nella sua lunga permanenza a Gaza, dove ha conosciuto tutti quei compagni e quelle compagne che da oggi conosciamo anche noi.
Sulle note di Bella Ciao, Unadikom e del rap dei Gazawi, le immagini di Vittorio salutano il nostro arrivo;
ciao Vik, Palestina libera.
Territori occupati palestinesi: retate e arresti a Silwan, incursioni di coloni a Hawara
L’occupazione militare israeliana non si arresta mai nei suoi meccanismi multipli di repressione: da un lato le infinite ed noni presenti operazioni militari o gli arresti della polizia militare israeliana (come anche palestinese purtroppo), da un lato le azioni dei coloni, il lato più facinoroso, xenofobo e genocitario della società israeliana.Solo nelle ultime ore i Territori Occupati sono stati colpiti su diversi fronti, mentre Hamas e Fatah siglavano il loro accordo al Cairo e il mondo parla dell’ennesima e forse definitiva morte del n.1 della mostruosità planetaria (! bella battaglia ultimamente!) Silwan, quartiere arabo di Gerusalemme vedeva l’ennesima incursione dell’esercito. Sei arresti da quel che si dice per ora, cinque ragazzi e Suad al-Shoukhi, una ragazza di 24 anni, portata via dagli ufficiali israeliani “per un interrogatorio”. Suad è stata rilasciata due anni da da un’interrogatorio durato 18 mesi di detenzione amministrativa, per gli scontri avvenuti in quella zona tra abitanti palestinesi e le formazioni israeliane di estrema destra che hanno focalizzato le loro azioni in quel quartiere, prossimo alla città vecchia.
Altra bella notizia del giorno viene da poco distante, nella cittadina palestinese di Hawara, che questa mattina ha trovato il villaggio cosparso di scritte xenofobe contro arabi e musulmani e una moschea interna ad una scuola data alle fiamme.
Il villaggio di Hawara si trova nella zona meridionale della provincia di Nablus, circondata da 39 insediamenti.
Aggiornamenti Vik2Gaza dal Convoglio Restiamo Umani
Reciviamo e diffondiamo:
Le assemblee organizzative del Convoglio Restiamo Umani [CO.R.UM] si stanno tenendo quotidianamente, purtroppo la visibilità è rallentata da problemi tecnici con il sito ufficiale vik2gaza.org che resterà in ogni caso l’unico punto di riferimento.
La tempistica ci obbliga a diffondere via mail e attraverso blog e siti affini le seguenti informazioni pratiche e i seguenti aggiornamenti:
Se vuoi partecipare al Convoglio Restiamo Umani, comunica la tua volontà di aderire all’indirizzo mail vik2gaza@autistici.org entro lunedì 2 maggio 2001 esplicitando le seguenti informazioni:
– Precedenti esperienze in Palestina
– Appartenenza ad associazioni, realtà, collettivi
– Il motivo per il quale hai scelto di partecipare
– Competenze o conoscenze
Date del Convoglio Restiamo Umani: 11 maggio 2011 – 18 maggio 2011
Incontro al Cairo: la sera dell’11 maggio. L’appuntamento verrà comunicato unicamente ai/alle partecipanti.
Lasceremo il Cairo la mattina del 12 davvero molto presto, per entrare a Gaza da Rafah lo stesso giorno.
Torneremo indietro, passando da Rafah il 17 maggio, per arrivare al Cairo il 18 maggio.
Inoltre, entro le ore 14.00 di lunedì 2 maggio, per partecipare devi inviare a vik2gaza@autistici.org la seguente documentazione per l’adesione:
– oggetto della mail specifica la parola: “passaporto”
– Nome, cognome e data di nascita
– Il numero del passaporto, la data di scadenza ( la quale validità deve essere di almeno 6 mesi dopo la data del ritorno)
– La fotocopia delle prime 4 pagine del passaporto, possibilmente in formato pdf
Tutti questi elementi sono indispensabili per comunicare la lista dei/delle partecipanti all’ambasciata al Cairo e ottenere il coordination pass per l’ingresso a Gaza.
Stiamo consigliando di cercare immediatamente dei voli economici e qualcuno/a ha già scelto di comprare il biglietto individualmente ma allo stesso tempo ci stiamo informando per segnalare e confermare dei voli in due principali città: Roma e Milano.
Le indicazioni che vi stiamo dando riguardano la partecipazione dall’Italia perchè faremo la comunicazione di tutta la lista dei partecipanti all’ambasciata italiana al Cairo nella giornata di lunedì 2 maggio.
Il CO.R.UM si preoccuperà di dare conferma immediata alla richiesta di adesione.
CHI SIAMO
Il COnvoglio Restiamo UMani nasce da singoli, associazioni e movimenti da sempre vicini alla popolazione palestinese, come reazione necessaria all’uccisione di Vittorio Arrigoni.
Nei primi momenti abbiamo scelto di ricordare Vittorio ognuno a suo modo, raccontando chi era, cosa faceva e cosa lo aveva spinto a vivere per anni nella prigione a cielo aperto che è la Striscia di Gaza.
L’idea del convoglio prende forma da un senso di vuoto e impotenza che si è trasformato in una risposta collettiva, determinata, organizzata dal basso: tornare a Gaza.
Il sogno di Vittorio è anche il nostro sogno.
Dare voce a Gaza, soffocata dall’assedio e dal silenzio internazionale.
Riportare a Gaza Vittorio attraverso le idee che ispiravano il suo agire quotidiano.
E che sono anche le nostre.
“E alla fine sono tornato.
Non sazio del silenzio d’assenzio di una felicità incolta
accollata come un cerotto mal riposto su di una bocca che urla.”
Vittorio Arrigoni, Gaza 25 dicembre 2008
OBIETTIVI
Essere a Gaza il 15 maggio a un mese dall’assassinio di Vittorio Arrigoni nell’anniversario della Nakba, passando dal valico di Rafah.
Perché vogliamo gridare forte e chiaro quello che la voce di Vittorio ci ha detto tante volte: Restiamo Umani!
Per ribadire che la solidarietà internazionale verso la popolazione palestinese non può essere fermata.
Per dare nuove energie e continuità al lavoro di informazione indipendente che Vittorio, insieme agli uomini e alle donne palestinesi, stava portando avanti da una Gaza sotto assedio.
Per sostenere la popolazione palestinese e i giovani che lottano quotidianamente per la liberazione dall’occupazione israeliana.
COSTI
Per coprire le spese dei documenti necessari, per i trasporti, il vitto e il pernottamento si prevede una spesa complessiva di circa 250 Euro. Speriamo di poter ridurre questa cifra il piu’ possibile.
Sono già in calendario, e inizieranno da oggi, le iniziative di autofinanziamento per gli obiettivi del convoglio.
Il costo del viaggio fino al Cairo e’ escluso da questa cifra, cambiando notevolmente a seconda del paese di provenienza.
COME PARTECIPARE
Si dovranno soddisfare delle condizioni minime per poter partecipare al CO.R.UM., questo è necessario per garantire la sicurezza e la riuscita del convoglio.
CONTATTI PER L’ITALIA
e-mail : vik2gaza[at]autistici[.]org
phone : 0039.333.3666713
DONAZIONI
Se vuoi contribuire economicamente ai progetti che verranno sostenuti da CO.R.UM. sia durante la permanenza a Gaza che successivamente, puoi fare una donazione sul seguente conto:
NAME: Giovanni Lisi
BIC: BAECIT2B
IBAN: IT 94 k 03127 03241 0000000001237
Non fiori per Vittorio, ma donazioni per la Palestina: richiesta dalla famiglia Arrigoni
La famigliia di Vittorio avrebbe piacere che gli amici e i compagni di Vik non inviassero fiori ma donazioni per la Palestina sul seguente conto, riportando nella causale che si tratta di un contributo per la causa palestinese.
Successivamente la famiglia deciderà a quali progetti saranno devolute le donazioni pervenute.
La famiglia di Vittorio ci tiene a sottolineare che questo è solo un suggerimento ma che ognuno ovviamente può omaggiare Vittorio nel modo che ritiene più opportuno.
Di seguito le COORDINATE:
- Iban IT16Y0542851000000000000791
- BIC BEPOIT21
- Intestato ad Egidia Beretta
- Banca Popolare di Bergamo Filiale di bulciago
Restiamo Umani. Stay Human.
Vittorio’s family would invite friends and comrades of Vik not to send flowers but donations on the following account to support Palestine, reporting in the Payment Reason that it’s a contribution to the Palestinian cause. Afterwards Vik’s family will decide which projects want to fund.
Vittorio’s family would like to underline this is just a suggestion but of course everyone can pay homage to Vik as he thinks proper.
BANK DETAILS as follows:
- IBAN NO IT16Y0542851000000000000791
- SWIFT NO BEPOIT21
- HOLDER Egidia Beretta
- BANK NAME Banca Popolare di Bergamo Branch of Bulciago
Restiamo Umani. Stay Human.
Juliano Mer Khamis, ucciso a Jenin
L’attore e attivista israeliano Juliano Mer Khamis (جوليانو مير خميس), direttore della scuola di teatro Freedom Theatre a Jenin, è stato ucciso oggi da un uomo armato con il volto coperto che l’ha atteso all’ingresso del campo profughi e lo ha freddato con diversi colpi di arma da fuoco. Juliano era figlio di Arna, ebrea israeliana, iniziatrice e fondatrice di una scuola di teatro nel campo profughi palestinese di Jenin e di un palestinese di Haifa Saliba Khamis.
Nel 2003 aveva prodotto e diretto il suo primo documentario, “I bambini di Arna”, sul lavoro di sua madre volto a creare laboratori di teatro per bambini palestinesi nel campo profughi, durante gli anni ’80. Nel 2006, Juliano, aveva aperto una scuola di teatro per ragazzi e adulti, nel campo profughi di Jenin, chiamato il “Freedom Theatre”.
Quando Mer-Khamis e’ stato assassinato era in auto con la tata che si prende cura del figlio, che è rimasta ferita. Il governatore di Jenin ha immediatamente condannato l’accaduto e provveduto a far arrivare il corpo di Juliano alle autorità israeliane, presso il checkpoint più vicino. Zakariya Zubeidi, l’ ex comandante locale delle Brigate dei martiri di Al Aqsa, che con Juliano aveva aperto il Teatro della Liberta’ha ipotizzato il coivolgimento di una “grossa organizzazione” dietro l’assassinio. Nena News
Qui anche un articolo di Hareetz, giornale israeliano, sull’assassinio avvenuto ieri
Israele e la vendetta del cemento dopo la strage di Itamar
Lo stato di Israele, se volesse bene al suo popolo prenderebbe altre misure, e invece…
ieri nell’insediamento israeliano di Itamar, situato nei territori occupati vicino Nablus, cinque persone sono state uccise, di cui tre bambini, da un uomo (ora si parla di due) che è riuscito ad infiltrarsi nella colonia e poi nella loro abitazione, per dileguarsi dopo aver pugnalato a morte cinque degli otto membri della famiglia Fogel. Un gesto efferato, che ha lanciato nel panico i coloni: i peggiori elementi presenti sul pianeta terra, assassini matricolati, integralisti dell’occupazione militare e del genocidio del diverso, l’arabo palestinese in questo caso.
Davanti ad una simile strage, dove la vittima più piccola ha appena tre mesi di vita, anch’essa pugnalata nel sonno in piena notte, si dovrebbe parlare di smantellamento delle colonie illegali, di fine dell’occupazione della Cisgiordania… di tanto dovrebbe parlare il governo israeliano e invece: stamattina alle 7 è partita l’autorizzazione per la costruzione di 500 nuove unità abitative.Un’intera notte in riunione straordinaria per i vertici politici e militari d’Israele della Commissione interministeriale per la politica di iinsediamento: «Il consiglio ministeriale con delega per gli insediamenti ha deciso ieri di autorizzare la costruzione di alcune centinaia di unità abitative a Gush Etzion, Maale Adumin, Ariel e Kyriat Sefer», è stato il verdetto finale. La vendetta è stuprare ancora quel territorio, riempirlo di case spesso sfitte per secoli o abitate da maledetti coloni armati fino ai denti, spesso milizie organizzati delle tante organizzazioni xenofobe che teorizzano l’eliminazione del popolo palestinese.
L’Egitto e le frustrazioni della stampa israeliana
Le frustrazioni accumulate dalla stampa israeliana in questi giorni sono innumerevoli e divertenti: l’editoriale uscito questa mattina su Hareetz, quotidiano di Tel Aviv a firma di Amira Hass è emblematico a riguardo e lo si legge con una certa “simpatia”.
Stiamo parlando di Amira Hass poi, residente a Ramallah da molti anni, inviata israeliana nei territori occupati che più di una volta -se non sempre- ha mosso penna contro l’esercito dalla stella di Davide, quello del suo paese. Ora Amira scrive, o tenta di farlo, dalle strade de Il Cairo protagoniste di una rivolta che ha accolto tutti i media internazionali, ma non lei a quanto pare.
Le risposte che riferisce nel suo editoriale sono emblematiche del rapporto che c’è tra il giovane popolo rivoluzionario di piazza Tahrir e l’ “entità sionista”, in qualunque forma si presenti: c’è chi ha rifiutato l’incontro a prescindere, ci racconta la giornalista, perchè incontrare un cittadino dello stato di Israele avrebbe significato riconoscerne l’esistenza, di quello Stato.
Ci racconta sconcertata della sua faticosa ricerca di un interlocutore e ci tiene a specificare che non sono stati gli appartenenti ai Fratelli Musulmani a rifiutare gli incontri, ma esponenti di diverse organizzazioni anche appena nate, che spesso rimanevano anche sorpresi della richiesta di un incontro [“scusi signora, niente di personale ma non tengo rapporti con l’entità sionista”].
Tra questi anche esponenti delle organizzazioni di lavoratori che hanno scioperato nei giorni della rivolta e non stanno smettendo di farlo.
Amira, con tutto l’infinito rispetto per il tuo lavoro…ma che t’aspettavi??
Ucciso nel suo letto ad Hebron e altre storie quotidiane della terra di Palestina
Ucciso nel suo letto, nella sua camera da letto, senza avere vicino a lui alcuna arma da fuoco. Si chiamava Amr Qawasme, aveva 65 anni e risiedeva ad Hebron, fino alla sua morte, due settimane fa. Oggi un’agenzia ci racconta che il suo assassino, soldato dell’esercito israeliano è stato espulso dal corpo, malgrado abbia espresso il suo profondo rammarico per quello che aveva compiuto.
Avrebbe dovuto compiere un arresto in una casa, dentro la città palestinese di Hebron di cinque presunti membri di Hamas: “per errore” il soldato (di cui non ci viene fornito nessun dato) sarebbe entrato nell’abitazione di Qawasme (un piano sopra all’appartamento sospetto) uccidendolo dopo pochi secondi per una “mossa sospetta”, però non confermata dall’esercito, che infatti ha chiesto la sua espulsione.
Diverso il comportamento del Ministero dell’interno in un caso simile avvenuto a giugno dello scorso anno, a Gerusalemme Est.
Qui la vittima, ovviamente palestinese, Ziad Jilani è stata uccisa malgrado fosse già ferita e a terra: il ministero ha ammesso che la morte è avvenuta quando il sospettato era già a terra, ma giustifica il comportamento della polizia perchè gli agenti temevano di essere obiettivo di un attacco terroristico. Tutto normale insomma.
Da Jenin invece ci riferiscono oggi dell’uccisione di un palestinese che avrebbe aperto il fuoco contro un check point nei pressi dell’insediamento di Mevo Dotan. Sarebbe avvenuto intorno alle 11 di questa mattina: i colpi partiti da un soldato del Battaglione Netzah Yehuda, tristemente noto per aver reclutato un gran numero di giovani ortodossi e di coloni.
La “crema” di quel paese.
Intervista ad un militante del FPLP, detenuto per 18 anni in Israele
tratto da rebelión.org
traduzione a cura del Collettivo Autorganizzato Universitario – Napoli
– Ci puoi raccontare le cause della tua detenzione, le accuse in base alle quali ti incarcerarono?
In realtà le accuse furono tre. In primo luogo mi accusarono di cercare di infiltrarmi armato all’interno dello stato di Israele; in secondo luogo, di eliminare collaborazionisti e la terza accusa fu di appartenere, in Giordania, ad un gruppo illegale, l’FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina).
Ci sono tre tipi diversi di detenzione in Israele. C’è quella amministrativa, quella per precauzione o preventiva e una terza, dovuta alla appartenenza ad un gruppo terrorista. Noi fummo detenuti in base a questo terzo tipo di accusa.
Era la prima tappa della lotta palestinese nel 1967, la guerra dei 6 giorni: nella mia unità eravamo 19 persone capeggiate da Abu Ali Mustafa, che più tardi sarebbe diventato segretario generale dell’FPLP per essere poi assassinato nel 2002. Tutti gli appartenenti al nostro gruppo morirono; rimanemmo in quattro e fummo arrestati mentre cercavamo di dirigerci verso la Giordania. Eravamo in una fase di preparazione e immagazzinamento di munizioni. Torniamo al tema in questione. Fummo detenuti in quanto legati ad un gruppo terrorista, per cui fummo interrogati e sottoposti ad una tortura che assunse mille forme diverse. Sono torture che hanno l’obiettivo di estorcere un riconoscimento di colpevolezza, cercano di strapparti dichiarazioni che permetta loro di accusarti e farti condannare dai tribunali israeliani in maniera quasi automatica. Ci torturano fisicamente e psicologicamente in diversi momenti per estorcerci le confessioni che gli servivano. Una volta ottenuto ciò che è sufficiente per poterti accusare, anche se non hai fatto nulla di ciò che dichiari, ti accusano e danno per scontata la tua colpevolezza.
– Avevate qualche tipo di consulenza legale? Qualche tipi di garanzia? In che condizioni avvenne il processo?
In quei momenti la situazione era molto particolare. Ci sottoposero ad un tribunale militare e nominarono un avvocato d’ufficio. Rifiutammo l’avvocato: se lo avessimo accettato avremmo riconosciuto implicitamente il tribunale che ci giudicava. Obbligarono un avvocato arabo ad assumere la nostra difesa ma noi ci rifiutammo di farci difendere, gli dicemmo che eravamo combattenti per la libertà contro le forze d’occupazione e che quindi non riconoscevamo un tribunale delle forze dell’occupazione, né gli avvocati che avrebbero nominato. Noi, gli dicemmo, non ci pentivamo di nulla e avremmo continuato a lottare se ci avessero rimesso in libertà.
Israele ritiene importanti due criteri: la sicurezza, dalla sua ottica, e gli effetti politici. Quando c’è un picco nella lotta dei palestinesi, moltiplicano gli arresti e aumentano le condanne per dissuadere e demoralizzare. Quando invece la situazione è più calma, allora ci sono meno arresti e lo stesso vale per le condanne.
Rimasi in carcere per 18 anni, dall’8 dicembre del 1967 all’8 maggio del 1985.
– Come fu la liberazione? Perché ti scarcerarono? Intervennero organismi internazionali?
Fui parte di uno scambio tra Israele e l’FPLP – Comando Generale per liberare prigionieri israeliani detenuti dalla suddetta organizzazione, in cambio di prigionieri palestinesi.
– Ma questo in realtà non è un riconoscimento di uno stato di guerra, non di terrorismo, come dicono gli israeliani?
Sì, Israele non lo riconosce ufficialmente ma implicitamente riconosce di essere in uno stato di guerra. Solo dinanzi alla forza si vedono costretti a scambiare prigionieri e riconoscono in maniera indiretta l’occupazione. Invece, quando negozi con loro in una situazione di pace, non sono capaci di riconoscere nulla né di metterti in libertà.
Qual è stata la tua attività da quando ti rimisero in libertà?
Ora sono impegnato in una lotta su diversi fronti. Da una parte, come militante dell’FPLP, sono giornalista e scrittore. Sono anche presidente della commissione dei prigionieri nelle carceri israeliane e sono membro del comitato disciplinare dell’FPLP. Sono attivo anche come padre, a casa, con i miei figli.
– Quali sono i problemi più importanti dei prigionieri palestinesi in questo momento?
Israele ha due obiettivi in relazione ai prigionieri. Come essere umano, vuole trasformarti in un problema per la tua famiglia, per la società, vale a dire, renderti invalido fisicamente e psicologicamente. Noi in carcere vogliamo superare questa situazione cerchiamo di formarci, di trasformarci in una scuola di costruzione e coscientizzazione e di far fallire così questa strategia. Allo stesso tempo, non dobbiamo dimenticare la ragione per la quale veniamo incarcerati: mettere fine alla causa di liberazione della Palestina; per cui il nostro scopo è continuare questa lotta dovunque ci troviamo.
Però dovresti chiedermi del nostro apprendistato in carcere, le cose che abbiamo imparato e che ci aiutano a sopravvivere e a mantenere viva la causa.
– Va bene, allora parlami di questo apprendistato…
Uno degli strumenti della lotta che abbiamo sviluppato nelle carceri e che si è dimostrato molto efficace è lo sciopero per il miglioramento delle condizioni di vita, dato che consente di contrastare gli effetti dell’isolamento e della tortura. Lottare per il miglioramento delle condizioni fisiche e psichiche dei prigionieri è una delle armi più pericolose per preservare la nostra mente e il nostro corpo, per poter continuare la nostra lotta in futuro. Israele vuole trasformarci in cadaveri, vivi ma cadaveri; vuole annichilirci in vita, affinché non possiamo servire né alle nostre famiglie né alla nostra società, per renderci un peso per loro e per la nostra stessa causa.
– Che tipo di attività svolgi con i prigionieri che continuano ad essere in carcere?
Lo sciopero come forma di lotta ha diverse varianti. Una strada è rifiutarci di prestare servizi come la rasatura; un’altra è non accettare colloqui con la direzione delle carceri, rifiutare le mediazioni delle persone giuridiche che vogliono offrirsi come mediatori. C’è anche lo sciopero della fame, ed anche la ribellione contro i carcerieri. A volte abbiamo perso compagni perché l’esercito ha lanciato elicotteri contro le carceri. La lotta dei prigionieri è coordinata e ha un appoggio logistico dall’esterno per poter influenzare l’amministrazione e per poter negoziare, per obbligare gli uffici penitenziari a negoziare. Si tratta di una lotta che dipende da noi perché tutto ciò che facciamo qui parte dalla coscienza dei prigionieri, se non lo facciamo in questo modo non serve a nulla. Ciò che facciamo fuori per quelli che sono dentro deve essere il riflesso di quello che fanno loro.
– Che importanza dai a questo Forum arabo in appoggio ai prigionieri?
È una cerimonia, come una piccola luce che finirà per spegnersi, non mi pare che sia il metodo ottimale per lottare. Bisogna comprendere bene la fase di lotta in cui ci si trova.
Bisogna tenere in conto che il corpo della resistenza nel suo insieme sono i prigionieri, tanto quelli che stanno dentro come quelli che stanno fuori: sono loro il corpo della resistenza dal 1965. Siamo un tutto, con un’entità propria al margine delle organizzazioni cui apparteniamo e siamo la garanzia della continuità della lotta.
In primo luogo bisogna considerare le diverse tappe che ha attraversato la lotta palestinese. Nella prima la lotta era generica, si trattava di una causa nazionale che era al di sopra di tutto e indipendente dalle organizzazioni; a livello di coscienza superava le differenziazioni tra partiti, per tutti era una lotta di resistenza contro un nemico occupante. Poi c’erano le diverse categorie di prigionieri secondo il carcere in cui erano rinchiusi, poiché il grado di implicazione nella resistenza era differente. Il carcere in cui ero rinchiuso io era emblematico, il carcere di Ascalon. Avevamo le condanne più lunghe perché eravamo guerriglieri, rappresentavamo la lotta armata, l’avanguardia che, in qualche modo, forniva l’esempio agli altri prigionieri delle carceri israeliane. Eravamo in un momento precedente a quello delle militanza politica. Se non si fosse dato questo tipo di resistenza, la lotta dei prigionieri avrebbe finito per fallire.
Questa è la prima tappa, dal 1965 al 1973. La seconda tappa è quella in cui le contraddizioni della militanza politica, quelle relazionate all’età biologica, quelle che derivano dall’appartenenza all’uno o all’altro gruppo, si ripercuotono sui prigionieri. In quel momento Israele moltiplica l’utilizzo di collaborazionisti, offre privilegi agli uni contro gli altri per suscitare scontri all’interno del fronte palestinese. È una tappa molto negativa quella tra il 1973 e il 1976. Ti riassumo molto quello che è successo. La terza tappa è quella in cui cominciamo nuovamente a spostare le contraddizioni nel campo del nemico, contro Israele.
Queste tappe riassumono il nostro apprendistato. Abbiamo imparato nelle carceri a risolvere le differenze interne tramite il dialogo democratico e ad anteporre l’interesse generale dei palestinesi, la causa nazionale, la lotta contro il nemico, alle discrepanze tra di noi. Questo è quello che ha conseguito il movimento dei prigionieri.
A differenza di ciò che accade tra i palestinesi al di fuori, dove prevalgono le differenze, nelle carceri non avviene. La terza tappa di cui ti parlo è quella del superamento delle contraddizioni. Questo non vuol dire che non ci siano state divergenze arrivate dall’esterno: per esempio, gli accordi di Oslo generarono gravi tensioni tra i prigionieri, ma la linea prevalente è stata quella di raggiungere una maggior presa di coscienza politica, un maggior coordinamento e un dialogo democratico per contribuire alla causa. Da lì nacque il documento dei prigionieri che è stato tanto importante per definire la loro posizione e per chiedere l’unità nella lotta. Questo documento fu un’iniziativa dei prigionieri, non delle organizzazioni politiche. Venuto alla luce nel 2005, è conosciuto come il documento dei prigionieri e in esso si fa prevalere l’unità nella lotta contro l’occupazione su qualsiasi divergenza politica.
Oggi, dopo gli accordi di Oslo del 1993, siamo davanti ad una situazione molto difficile: ci sono 350 prigionieri arrestati prima di questi accordi e che non sono stati presi in considerazione. Israele ha separato i prigionieri di Fatah da quelli di Hamas, questi da quelli dell’FPLP, questi da quelli del 1948, gli arabi dai palestinesi…, e questo è un riflesso della realtà esterna, della frammentazione della resistenza. Si è prodotta una profonda ferita nello stato d’animo dei prigionieri. In questo senso, l’unità diventa un’arma fondamentale per poter superare questa situazione, affinché la lotta dei prigionieri continui e affinché non si arrivi ad una depoliticizzazione. Non si può consentire la separazione dei prigionieri della Cisgiordania da quelli di Gaza, di quelli di Fatah da quelli di Hamas e dal resto…
– Che succede con i giovani? Anche i giovani palestinesi incarcerati mantengono quest’impegno?
Ci sono due generazioni in carcere. C’è la generazione della resistenza armata e ci sono i bambini dell’intifada. Mentre la coscienza della prima generazione è nazionalista globale e integrale, quella dei giovani dell’intifada ha una maggiore tendenza verso il particolare, verso il proprio gruppo, verso la propria forma di portare avanti concretamente la lotta. Noi apparteniamo ad una tappa che si vuole eliminare. Il sionismo si è applicato per cercare di aprire questa spaccatura generazionale. Viviamo una situazione simile a quella del Titanic: colui che è sulla nave affonda e colui che si getta in mare muore. È in atto un chiaro tentativo accelerato di liquidare la tappa rivoluzionaria palestinese. Purtroppo le nuove generazioni che sono incluse negli accordi di Dayton non sono coscienti di questa situazione si cerca di separarli dai ‘vecchi’ per evitare che abbiano una visione d’insieme della lotta.
L’altro giorno è accaduto un fatto utile a capire questa situazione. C’era un concentramento contro il processo di negoziazioni dirette e i giovani palestinesi hanno pestato i membri dell’esecutivo dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Quando abbiamo chiesto loro se conoscessero i dirigenti palestinesi che avevano attaccato, se conoscessero i loro nomi, non conoscevano nessuno, lo stesso Arafat sembra un ricordo lontano. Manifestavano contro i negoziati diretti e quando uscirono i membri del comitato esecutivo li hanno picchiati senza conoscerli. Manca la comprensione del significato storico della lotta palestinese.
– Quali credi siano i passi da fare, tanto per le organizzazioni che sono fuori quanto per quelle di appoggio ai prigionieri?
Non è facile dire quale sia la tappa in cui ci troviamo e quale debba essere la strategia da seguire. Credo che si debba seguire la massima di Gramsci quando parlava di pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà. Ci troviamo in un villaggio globalizzato e tutto è strettamente legato. La lotta non è tanto semplice da poter sapere in anticipo che una strada è migliore di un’altra, ma la cosa certa è che bisognerebbe iniziare ad agire e che questa situazione dovrebbe sboccare nella creazione di una serie di forze che sappiano cogliere il momento storico e tracciare una linea strategica determinata per una via di uscita globale, non solo in relazione alla questione palestinese. Dalla preistoria allo spazio c’è un lungo percorso che non è paino, ma in salita. Io continuo a credere che ci sia una via d’uscita. È come per le navi, bisogna procedere a zig-zag ma senza perdere d’occhio la meta.
– Che pensi di Hezbollah? Credi possa assolvere un ruolo nel processo di unità del mondo arabo e nella causa palestinese?
Gli Stati Uniti continuano ad essere un impero e vogliono farla finita con Hezbollah perché vogliono farla finita con la Siria, il Libano… Gli USA non cesseranno di impegnarsi per colpirli. Ma all’impero rimangono al massimo 25 anni per cercare di distruggere tutte le resistenze. Finché Hezbollah è parte dell’asse costituito dalla resistenza del mondo arabo sarà un alleato fondamentale contro l’occupazione; ha una grande influenza in tutto il mondo arabo ma non possiamo sapere quale sarà la sua evoluzione. L’assenza delle forze della sinistra laica aggrava molto le cose. Siamo intrappolati tra una destra collaborazionista e una sinistra incapace. Abbiamo molti anni di lotta alle spalle e non abbiamo raggiunto obiettivi concreti e questo ha portato al disincanto tra le masse che si sono rifugiate nella religione. Quando fallì la rivoluzione del 1905 molti appartenenti ai settori popolari russi si rifugiarono nella religione, esattamente come accade ora. Dovremmo studiare come superare questa situazione.
Palestine: diario per immagini da Freepalestine
Per capodanno una delegazione di Freepalestine si è recata nei Territori occupati dall’esercito israeliano.
Questo un racconto-diario.

Siamo partit* in quattro di Free Palestine Roma ma all’aereoporto di Tel Aviv due di noi sono stati fermati e successivamente rimpatriati con un’espulsione per 5 anni. L’arbitrarietà e l’arroganza con cui questo è avvenuto sono tipici di Israele. La motivazione è stata che una dei due era stata già stata espulsa in aprile (cosa non vera perchè era stata fermata a casa di una signora sotto sgombero, ma aveva ricevuto solo un’ammonizione a stare fuori da quella zona per una settimana ma non un’espulsione) e per lui perchè viaggiavano insieme.

Con una buona dose di incazzatura siamo arrivate nella casa rimasta tagliata fuori dal muro che in quel punto separa la zona di Betlemme da quella di Gerusalemme, tutta la vita degli abitanto di questa casa la famiglia, il lavoro, sono al di là del check point. Questo chech point in 10 gg l’abbiamo passato tantissime volte, mettendoci ore o minuti a discrezione del soldato di guardia. Da una parte si esce a piedi e da una parte in macchina.

Dopo le 10 di sera, dalla parte pedonale, quasi sempre la guardia fa finta di non esserci, così aspetti un’ora chiamando inutilmente prima che qualcuno decida di premere il pulsante che apre il primo tornello e da’ accesso alla zona del metal detector, dove perdi almeno altri 10 minuti perchè continua a suonare e tu non sai più che cazzo devi toglierti .. I palestinesi devono infilare la mano in una gabietta e compare la loro faccia sul monitor della guardia, a noi basta mostrare il passaporto, ci rivestiamo bestemmiando e usciamo dall’altra parte.

Il centro Amal al Mustakbal di Aida Camp funziona bene, la mattina c’è la scuola per i bambini fino a tre anni, il pomeriggio i corsi di dabka (la danza tradizionale che si balla a tutte le età) e inglese per quelli più grandi. Con i soldi raccolti in italia si stanno facendo molti lavori di ristrutturazione e messa a norma, si pagano le bollette, si cerca di dare un rimborso alle volontarie che ci lavorano. Insieme ai bambini facciamo 2 murales

Radio Voce Unita è nata da pochi mesi a Deisheh Camp. Ci lavorano compagni con tanti anni di prigione alle spalle. La loro idea è fare una radio di tutti, lontana dalle influenze dei partiti, ma vicina ai bisogni dei palestinesi. E che dia un apporto culturale alla Palestina di oggi che invece vede sempre più nella religione le uniche risposte alle tante domande disattese. Tutti i venerdì in molti villaggi della Palestina i comitati di resistenza non violenta organizzano manifestazioni e azioni contro il muro che li isola e frammenta. Bil’in, 800 persone, un pezzo di terra rossa e ulivi, pietre, una rete lunga come l’orizzonte, dietro a questa una strada sterrata su cui passano solo mezzi militari, qualche altro centinaio di metri e il muro vero e proprio. Poi dietro ancora, in cima a una cava la colonia di Kiryat Sefer.

Venerdì 31 dicembre è anche il 6° anniversario del comitato del villaggio di Bil’in, la manifestazione si prevede più partecipata, i compagni sono organizzati per tagliare la rete con delle tronchesi. Sulla strada che congiunge Ramallah a Bil’in e altri villaggi, spunta un posto di blocco, un check point volante con tanto di spunzoni in mezzo alla strada per impedire il passaggio. Il nostro taxi viene fermato. Siamo 3 italiane un basco e un palestinese col documento verde (cioè che si può muovere abbastanza liberamente nei territori). Un ventenne con mitra molto più grosso di lui dice che la zona è chiusa per 2 o 3 ore. Non da spiegazioni e non sente ragioni. Proviamo l’altra strada, stessa scena. Niente corteo per noi. .

La manifestazione si è fatta però, con 800 persone, la rete è stata tagliata in alcuni punti. L’esercito ha reagito con lacrimogeni, bombe sonore e gas. A causa delle inalazioni due giorni dopo morirà Jawaher Abu Rahmah, sorella di Bassem, diventato un po’ il simbolo della resistenza di Bil’in, ucciso 2 anni fa da un lacrimogeno ad altà velocità. Siamo state a Bil’in qualche giorno dopo a portare la nostra solidarietà e abbiamo deciso di tornarci per il corteo del venerdì successivo

Il campo profughi di Balata è sempre particolarmente sofferente e segnato dalle numerose incursioni militari che ci sono state negli anni, ha un gran numero di morti ammazzati per mano israeliana di cui molti bambini. Abbiamo incontrato i volontari dell’Happy child wood club e con loro abbiamo immaginato la possibilità di tornare. Nablus rimane una delle città più belle e più accoglienti della Palestina. Consigliamo sempre una visita in questa città resistente circondata dall’alto da sempre più colonie. Sulla strada tra Balata e Nablus l’Autorità Palestinese sta costruendo uno dei più grossi carceri che la storia della Palestina ricorsi. Questo per rendervi l’idea di cosa si respira oggi in quella terra repressa anche da questo. Silwan è un quartiere palestinese di Gerusalemme Est dove ogni giorno ci sono sgomberi e demolizioni per insediare nuove famiglie di israeliani, poi costrette a vivere sotto scorta sotto lo sguardo giustamente ostile dei residenti. Abbiamo incontrato il comitato, che tra i molti problemi ha denunciato una fortissima repressione soprattutto verso i ragazzini che cercano di contrastare l’occupazione.

Abbiamo deciso di tornare a Bil’in il primo venerdi del nuovo anno. La comunità è molto piccola e ruota intorno a due famiglie. Sono tutti molto ospitali e gentili. E sorridono e scherzano nonostante la brutalità esistenziale a cui sono costretti. Cantiamo bella ciao, balliamo, mangiamo i felafel più buoni di tutto il viaggio. Al corteo c’è un sacco di gente, ci sono i comitati delle donne di diversi vilaggi e città. Si arriva come sempre fino alla rete che viene tagliata in alcuni punti. Poi i lacrimogeni, le bombe assordanti, delle palle di ferro che piovono dal cielo cambiando direzione grosse come un pugno che sprigionano gas, e un idrante tutto bianco che spara per centinaia di metri un liquido nauseabondo che fa immediatamente vomitare, liquido che poi si è rivelato essere acqua di fogna addizionato con agenti chimici. Un venerdì come tutti gli altri negli ultimi 6 anni a Bil’in.
Palestina: ancora un’intervista che si trasforma in testamento dopo 5 minuti.
Da Vittorio Arrigoni ci arriva questo testamento.
Doveva essere un’intervista, ma in pochi minuti è diventata un testamento. Accade spesso in terra di Palestina
Il mio nome è Mohammed Shaban Shaker Karmoot. Sono nato nel 1964.
Ho iniziato a lavorare come agricoltore quando ero giovane, prima di sposarmi, più di 35 anni fa.
Quanti figli hai?
Ho sei figli maschi, questo è qui Kamal (indica il ragazzo), nato dalla seconda moglie. Ho quattro figli e tre figlie dalla mia prima moglie, e tre figlie e due figli dalla mia seconda moglie.
Ho comprato due dunam (un dunam equivale ad un chilometro quadrato)accanto alla via comunale più vicina alla buffer zone nei pressi Al Basayna. Qui ho desiderato e costruito una casa nella quale vivere con la mia famiglia.
Accanto a questo muro?
A 22 metri di distanza da quel muro. Queste due dunam sono mie, le ho comprate.
Quanto ti sono costate?
Le ho comprate per 7500 dinari giordani (circa 8 200 euro)
E dimmi, può raggiungere quei due ettari della tua terra?
Sì, certo, ma è molto rischioso, perché i soldati sparano.
Quindi non la puoi coltivare e neanche costruirci sopra?
Esatto, non posso fare nulla nella mia terra.
E’ stato così fin dall’inizio?
Una volta non era così. La mia terra era piena di alberi: palme, limoni, arance, clementine e altri frutti. Era piena di tutti i tipi di frutta possibili e immaginabili la mia terra. L’albero di mandorle che mi permetteva di riempire sacchi e sacchi di mandorle quando c’erano frutti, (i soldati israeliani) me l’hanno sradicato proprio nel momento in cui ero pronto a raccogliere. Sono venuti di notte con i bulldozer e lo hanno sradicato.
Come è stata la tua vita? Come hai fatto per mantenere la tua famiglia?
Eravamo abituati a vivere una vita felice, lavorando su queste terre riusciamo a fare 650 NIS ogni mese (circa 150 euri), più il lavoro nei campi altrui, riuscivamo a cavarcela bene.
Questo in che anno è accadeva?
Prima che mi distruggessero le terre, credo nel 2003, all’inizio dell’ultima intifada.
Come ti sei sentito in quel momento?
Beh, come pensi che mi sia sentito? Mi sentivo come qualcuno a cui stavano strappando via il mio cuore, mentre coi bulldozer gli israeliani distruggevano le mie terre. Ho assistito alla distruzione tutta una notte. Là c’era un grande albero di sicomoro, quando è arrivato il bulldozer e ha distrutto e sradicati tutto sono uscito con una torcia e ho visto che almeno mi avevano lasciato quell’albero dopo essersi ritirati. Era una notte di Ramadan, quando è successo, e poi le ruspe sono tornate di nuovo all’alba e hanno distrutto ciò che era rimasto dell’albero. Hanno impiegato solo tre ore per distruggere tutto la zona, utilizzando 8 bulldozer per distruggere tutta la zona.
E oggi continui a vivere in questa zona?
Quello che faccio qui o che si suppone io faccia, lo si può capire guardando questi alberi verdi qui. Sono io che lo ho coltivati, come ho coltivato il grano e l’orzo che al momento del raccolto è stato bruciato dall’esercito israeliano. Quest’anno quando siamo venuti a semonare i campi i soldati ci hanno sparato addosso.
5 MINUTI DOPO AVER RILASCIATO QUESTA INTERVISTA ALL’ONG ITALIANA GVC, UN CECCHINO ISRAELIANO A SPARATO E UCCISO MOHAMMED SHABAN SHAKER KARMOOT. Quest’ultimo assassinio è una sorta di avvertimento mafioso per quanti solidarizzano con i lavoratori palestinesi che resistono, gli ultimi veri uomini in questi tempi anonimi.
Territori Occupati: Israele demolisce pozzi e cisterne d’acqua
QUESTO VIDEO E’ FATTO DA UN GRUPPO DI PACIFISTI CATTOLICI.
MERCOLEDI 14 dicembre.
Khashem ad-daraj-hathaleen, colline a sud di Hebron, nei Territori Palestinesi Occupati.
L’esercito israeliano demolisce tre cisterne d’acquq e due pozzi nei villaggi beduini della zona.
I villaggi in questione si trovano in Area C, dove, secondo gli accordi di Oslo, Israele ha il totale controllo militare e civile.
Tra le strutture abbattute ci sono anche due pozzi, costruiti una 70ina di anni fa, colmati di terra dai bulldozer israeliani: trattandosi di strutture costruite prima dell’occupazione israeliana dei Territori del 1967. La loro demolizione risulta una palese violazione del diritto internazionale e della stessa legge militare israeliana riguardante la salvaguardia delle proprietà nei Territori Palestinesi Occupati.
L’impatto sulla comunità palestinese a sud di hebron e la sua sopravvivenza della distruzione di pozzi e cisterne è enorme.
La politica portata avanti da israele in Area C è quella di impedire lo sviluppo delle comunità palestinesi, negando ogni permesso di costruzione e demolendo ogni struttura considerata “illegale”.
Allo stesso tempo, gli insediamenti ed avamposti israeliani presenti nella stessa area, pur essendo illegali secondo il diritto internazionale, continuano ad espandersi senza sosta, mentre i coloni continuano ad attaccare impunemente la popolazione autoctona.
Questa politica di restrizioni, chiusure, demolizioni, evacuazioni e soprusi, unita alle continue violenze da parte dei coloni israeliani presenti nell’area, nega di fatto i diritti umani dei palestinesi, ostacolando la possibilità di vivere nei propri villaggi e coltivare le proprie terre, impedendo lo sviluppo delle comunità locali.
Nuove costruzioni a Gerusalemme Est, soliti uccisi a Gaza
E’ di questa mattina la notizia, passata alla radio israeliana, dell’autorizzazione data alla costruzione di ben 625 nuove unità abitative nell’insediamento di Pisgat Zèev, a Gerusalemme Est. Ci specificano che il ministero degli interni ha finalmente dato il via libera definitivo: che la danza del cemento e dell’occupazione abbia di nuovo inizio, senza che si sia mai fermata.
Tutto fermo, i negoziati iniziati il 2 settembre e miseramente falliti nemmeno tre settimane dopo, per non dire già prima di partire, si sono arenati proprio sulla richiesta di congelamento delle nuove costruzioni di colonie in Cisgiordania.
Cosa che Israele non può accettare.
Figuriamoci qualunque tipo di moratoria sulle costruzioni a Gerusalemme Est, impensabile!
Quella è la sua natura: demolire, distruggere, eliminare ogni traccia, occupare, cancellare.
Nel frattempo nella Striscia di Gaza sono stati uccisi due palestinesi dal fuoco dei soldati israeliani, mentre tentavano di infiltrarsi in Israele la comunicazione è arrivata dal sito di Hamas e poi è stata confermata anche da fonti militari israeliane che specificano di aver trovato sui corpi armi leggere e materiale esplosivo.
Diversi tank israeliani e mezzi blindati sostano nella zona del cimitero di al-Shuhada, ad est di Gaza.
Completamente raso al suolo villaggio in Cisgiordania
Oggi Tsahal s’è mosso con i piedi di piombo: la devastazione portata oggi dai bulldozer israeliani ha superato il livello solito di media devastando diverse cose in Cisgiordania. E’ avvenuto tutto in una regione della valle del Giordano adiacente alla città di Gerico e molto vicina al confine giordano: il fatto più grave è avvenuto nel villaggio di Abu al-Ajaj, letteralmente raso al suolo.
I due bulldozer che sono entrati, coperti da 200 soldati, hanno abbattutoTUTTE le casi del villaggio, che ora ha 1000 persone per la strada, private per sempre di qualunque loro bene. Non è ancora chiaro se l’area appena demolita, evacuata, sgomberata e rastrellata sia destinata per l’edificazione di nuove colonie, l’allargamento di Masua (colonia illegale nelle vicinanze) o per qualche avamposto militare.
Sempre forze di sicurezza israeliane hanno poi abbattuto diverse costruzioni palestinesi nella zona, tra cui anche una tenda e due rifugi per il bestiame, che l’esercito d’Israele considerava illegali, forse perchè troppo vicini all’insediamento (quello si illegale) di Masua. Poi terrazzamenti, palizzate e sistemi d’irrigazione: tutto spazzato via.
Ynet news, importante sito d’informazione israeliano ci informa di scontri scoppiati dopo le demolizioni, ma che per ora non risultano arresti né feriti.
“Fino a quando avrò un ulivo…”
Fino a quando avrò pochi palmi della mia terra!
Fino a quando avrò un ulivo…
un limone…
un pozzo…un alberello di cactus!..
Fino a quando avrò un ricordo,
una piccola biblioteca,
la foto di un nonno defunto.. un muro!
Fino a quando nel mio paese ci saranno parole arabe…
e canti popolari!
Fino a quando ci saranno un manoscritto di poesie,
racconti di ‘Antara al-‘Absi
e di guerre in terra romana e persiana!
Fino a quando avrò i miei occhi,
le mie labbra,
le mie mani!
Fino a quando avrò… la mia anima!
La dichiarerò in faccia ai nemici!..
La dichiarerò… una guerra terribile
in nome degli spiriti liberi
operai.. studenti.. poeti..
la dichiarerò.. e che si sazino del pane della vergogna
i vili… e i nemici del sole.
Ho ancora la mia anima..
mi rimarrà… la mia anima!
Rimarranno le mie parole.. pane e arma.. nelle mani dei ribelli!
SAMIH AL-QASIM
PALESTINA
[Trad. di Antonietta Giampaglia]
Mossad: il sesso per la sicurezza nazionale è Kosher
Le donne che lavorano per il Mossad hanno ottenuto l’ennesima e definitiva “benedizione” dai rabbini del loro paese, il democraticissimo Stato Ebraico d’Israele, fondato sulla pulizia etnica della terra di Palestina a partire dal 1947, un abbondante semestre prima della proclamazione del loro stato elitario.
Qualche giorno fa Haaretz riportava gli studi del rabbino Ari Schvat titolati “Il sesso illegale per questioni di sicurezza nazionale”, pubblicato dall’Istituto Tzomet, che studia i rapporti tra religione e modernità.
La definizione ufficiale delle missioni del Mossad in cui sono inseriti rapporti sessuali per l’ottenimento delle informazioni ricercate è Honey Pot, barattolo di miele. Ora le donne agenti hanno avuto la benedizione ufficiale: è kosher avere rapporti sessuali per il bene del paese, nessun peccato. Gli ortodossi sono gli stessi che recitano al risveglio, ogni sacrosanta mattina, una preghiera di ringraziamento a Dio perchè NON li ha fatti nascer donna…insomma gente da prendere d’esempio, che ha il medioevo nel patrimonio genetico, oltre che il desiderio di supremazia in una terra occupata manu militari, con la Torah alla mano.
Ma la cosa più bella di questo delirante studio è che, come la pulizia etnica e l’occupazione delle terre più fertili della Palestina, tutto è giustificato perchè GIA’ SCRITTO SULLE SACRE SCRITTURE. Così anche il coito delle spie ci viene raccontato che vien da molto lontano, che il Mossad l’ha solo preso ad esempio dal suo libro sacro. Ed ecco Ester che nel 500 A.C va a letto col re persiano Serse per salvare il suo popolo; o Yael, moglie di Hever, che va a letto con il capo delle truppe nemiche Sisra per poi tagliargli la testa.
Consiglia però, di usare agenti segreti che siano donne possibilmente non sposate, altrimenti il bravo maritino ha diritto a divorziare e a riprendersi la moglie dopo la missione.
Coloni israeliani assaltano e danno alle fiamme una scuola
Una di quelle notizie che non sai nemmeno come riportare, tanta è la rabbia. Sempre i “coloni”, maledettissimi coloni, che da decenni tentano di portare avanti il loro piano di terrore, un terrore che porti alla fuga, alla rassegnazione, alla fine del popolo palestinese. Oggi l’attenzione è focalizzata su un villaggio del distretto di Nablus, as-Sawiya. La notizia è riferita all’agenzia stampa Maan dallo stesso preside della scuola colpita: un gruppo di coloni israeliani ha fatto irruzione nella scuola femminile. La porta principale e quella del magazzino avevano la serratura rotta e tutto il contenuto all’interno era stato dato alle fiamme: molti mobili contenenti materiale didattico e tutta l’attrezzatura sportiva sono andati perduti. “Siamo stati fortunati, se non è andata a fuoco tutta la struttura è perchè il deposito d’acqua principale è proprio adiacente al magazzino e ha bloccato l’avanzata delle fiamme” dice Maysoon Sawalha, preside dell’istituto che è stato completamente cosparso di scritte xenofobe contro la popolazione araba, e con la firma “saluti dalle colline”. “Non è la prima volta che la nostra scuola viene attaccata; l’ultima di queste è avvenuta meno di un anno fa quando i coloni hanno assaltato le aule con lacrimogeni e spari.
Alcuni portavoce degli insediamenti vicini, intervistati da Maan, hanno risposto alle accuse dicendo che non c’erano prove per accusare i coloni e che se la tensione è alta nella zona è per la presenza di molti attivisti internazionali venuti ad aiutare i palestinesi per la raccolta delle olive. Nel frattempo un’associazione israeliana per i diritti umani fa sapere che il 90% delle denunce depositate contro i coloni per assalti contro persone e proprietà in Cisgiordania rimangono impunite. Lo scorso mercoledi, giorno dell’inizio della raccolta delle olive, sono stati incendiati molti ettari di terreni agricoli e due settimane fa una moschea è stata incendiata in un villaggio vicino a Betlemme.
Sconcertante: arrestato il bambino palestinese investito da un colono
Non avevo pubblicato la foto di quel bimbo di 8 anni investito a Silwan, quartiere arabo di Gerusalemme, teatro di numerosi scontri.
Non l’avevo pubblicata perchè mi faceva schifo, perchè non volevo vederla sul mio blog, malgrado ci sia di peggio da digerire.
Ma quel colono che investiva un bambino non riuscivo a metterlo.
Oggi però la situazione è diversa, perché c’è una novità non da poco. Mufid Mansur, di -ripeto- 8 anni è stato prelevato dalla sua casa dalla polizia israeliana che oltretutto ha impedito al padre di accompagnarlo.
Il colono invece, uomo più che noto, è libero. Si chiama David Beeri ed è il leader di un’organizzazione di estrema destra israeliana -ELAD- impegnata nell’acquisto di immobili per colonizzare Gerusalemme Est. E’ stato rilasciato immediatamente dopo l’incidente, perchè “si stava difendendo da una sassaiola”.
Cercheremo di aggiornarci tra poco su Mufid.
Tanto per farvi capire l’atmosfera che si respira a Silwan: oggi si tiene la riunione dei capi dei coloni presenti in Cisgiordania proprio lì.
Cecchini sono posizionati sui tetti, i carri armati circondano tutta la zona. Il vertice è previsto nell’insediamento di Beit Jonathan, costruito più di un anno fa nel quartiere Batn al-Hawa di Silwan.
Passa la legge in Israele: si giura fedeltà ai VALORI EBRAICI.
Al governo c’è Bibi Netanyahu e si vede! Il gabinetto israeliano l’ha già approvata con 22 voti favorevoli ed 8 contrari..ora bisognerà vedere cosa accadrà nella Knesset, ma è facile intuirlo. Stiamo parlando di una legge altamente preoccupante, che lascia andare alla deriva forse definitivamente qualunque possibilità di dialogo con Israele. Un giuramento di lealtà ai “valori ebraici” dello Stato d’Israele per poter ottenere la cittadinanza. Un bombardamento a tappeto sui concetti di democrazia e cittadinanza, già perennemente calpestati all’interno e all’esterno dei confini di quello stato. “GIURO DI ESSER FEDELE ALLO STATO D’ISRAELE IN QUANTO STATO EBRAICO E DEMOCRATICO E DI RISPETTARNE LE LEGGI”.
Vi rendete conto? Per diventare cittadino siriano, libanese, iraqeno, giordano, yemenita, egiziano, sudanese, palestinese (continuo?) nessuno ti chiede di giurare sul Corano…proprio nessuno. Invece il democratico stato israeliano, come anche la sinistra del nostro paese ama definirlo, pretende che i suoi cittadini credano in valori ebraici… OH MAMMA! E Saviano, Raiz e tutti i 5000 partecipanti alla vergognosa manifestazione romana di qualche giorno fa cosa rispondono? Come commentano? E’ stato proposto anche di TOGLIERE, REVOCARE, la cittadinanza a chiunque “appoggi organizzazioni terroristiche come Hamas” … tra i nomi proposti già c’è anche una deputata araba del governo israeliano che ha tentato di rompere il blocco navale di Gaza a bordo della Freedom Flottiglia, attaccata dalla marina israeliana in acque internazionali manu armata.
Il Corriere della Sera, che almeno ha il buon gusto di riportare la notizia, commenta indignato sulla “deriva fascista” delineata da questa legge, e compie un processo ancora peggiore, quello di rimozione storica e occultamento della verità (verità di cui tanto parlano). E’ riportata la Dichiarazione d’Indipendenza del 1948, come baluardo di democrazia ed uguaglianza. MA COME SI FA? Nel 1948 si assisteva già da 7 mesi al compimento del Piano D (Piano Dalet) deciso (spesso in riunioni a casa sua e meticolosamente riportato nel suo diario personale) direttamente da Ben GUrion e dai suoi collaboratori. Un piano di pulizia etnica ben dettagliato, con operazioni chiamate “Ramazza” “Eliminazione del PUS”, TIHUR (trad. PULIZIA/PURIFICAZIONE) che hanno portato all’eliminazione a freddo di centinaia di persone e la distruzione di centinaia di villaggi.
Centinaia di villaggi dati alle fiamme o minati: Ayn al_zaytun viene distrutta il 2 maggio insieme ad altri villaggi in una delle giornate dell’operazione Ramazza, 13 giorni prima della dichiarazione d’esistenza dello Stato d’Israele (quella tanto elogiata oggi dal corriere): “il villaggio era stato completamente distrutto e tra le rovine c’erano molti cadaveri. IN particolare trovammo molti corpi di donne, bambini e neonati vicino alla moschea. Io convinsi l’esercito a bruciare i cadaveri” (Hans Lebrecht nei suoi diari). Per mesi e mesi la pulizia etnica è andata avanti, con l’ordine dato dalla stesso Ben Gurion di DEARABIZZARE tutto il territorio! Solo a Tantura, il 22 maggio, furono tra i 110 e 130 (la cifra non è certa) le persone giustiziate, con le mani legate, a sangue freddo, sulla spiaggia.
Centinaia e centinaia gli esempi che potrei fare, riportati con gioia sul diario di uno dei padri fondatori dello stato EBRAICO d’Israele (scrivo maiuscolo almeno son contenti).
LA PULIZIA DELLA PALESTINA RIMANE L’OBIETTIVO PRINCIPALE. Con l’utilizzo del termine BI’UR, traducibile con sradicare, eliminare. [BEN GURION, 11 maggio 1948]
Iniziamo a fare un po’ di storia: è necessario. LINK
Munizioni DUM DUM, adolescenti e barriere illegali: Arrigoni da Gaza
Ha lottato tutta la notte in un letto d’ospedale in bilico fra la vita e la morte, ma alla fine pare averla scampata Sliman, lo studente palestinese di vent’anni colpito ieri al confine da un cecchino israeliano.
L’ultima vittima civile di un confine a Est della Striscia di Gaza che pressoché quotidianamente s’inghiotte vite umane, tramite le torri di sorveglianza munite di mitragliatrici dal grilletto facile, i carri armati, le jeep, i droni, gli elicotteri Apache, i caccia F16. Saliman Abu Hanza di Abbasan Jadida è stato centrato da un tiratore scelto durante le manifestazioni che ieri mattina hanno visto riversarsi dinnanzi al reticolo di filo spinato centinaia di palestinesi accompagnati da alcuni giornalisti e dagli attivisti dell’International Solidarity Movement, per chiedere a gran voce la fine dell’assedio criminale, lo stop al proliferare delle colonie israeliane illegali in West Bank, e per rivendicare il diritto a calpestare la loro legittima terra dinnanzi al confine.
Le manifestazioni non violente si sono svolte in contemporanea alle 11 in tre diverse aree della Striscia: a Nord-Est a Beith Hanoun, e nel centro-Est ad Al Maghazi, i militari israeliani hanno sparato a in direzione dei dimostranti fortunatamente senza ferirne alcuno, mentre ad Faraheen vicino a Khan Younis i cecchini entravano in azione. Kamal, un amico di Sliman, descrive l’accaduto: “Ero con Sliman e stavamo camminano assieme verso la linea di confine con in mano le nostre bandiere. Quando le jeep sono accorse i soldati israeliani hanno iniziato immediatamente a spararci addosso e io sono fuggito indietro cercando un riparo. All’improvviso ho visto il mio amico cadere colpito allo stomaco. E’ stato un colpo singolo, chiaramente mirato, partito dal fucile di precisione di un cecchino.”
Con altri ragazzi Kamal si è preso in spalle il corpo dell’amico ferito che perdeva copiosamente sangue e per 500 metri lo hanno trascinato fino ad un motocarro, sul quale Sliman è stato trasportato fino all’ospedale Europa di Khan Younis. Entrato in sala operatoria verteva in una situazione critica: “Seri danni interni al suo addome, tre lesioni all’ intestino, alla vena iliaca sinistra e al retto. Ha subito giù una serie di operazioni chirurgiche e molte trasfusioni di sangue, le prossime 24 ore sono cruciali.” A detta del dottore che lo ha preso in cura. Come avvenne perl’omicidio di Ahmed Deeb, il 28 aprile scorso sempre durante una manifestazione non violenta al confine, anche contro Sliman Abu Hanza. Il cecchino israeliano ha utilizzato un particolare tipo di proiettile, comunemente detto “dum dum”, che si frantuma al momento dell’impatto producendo gravissime lesioni interne e causando spesso la morte della vittima. L’uso dei dum dum è stato vietato dalle Convenzioni di Ginevra dopo la prima guerra mondiale, così come il fosforo bianco, le bombe dime e le “flechettes”, armi illegali che l’esercito israeliano non lesina di adoperare contro la popolazione civile di Gaza, come dimostrato ampiamente dalle maggiori organizzazioni per i diritti umani.
Interpellato questa mattina un dottore dell’ospedale Europa mi ha confermato che Sliman è in cura intensiva e le sue condizioni sono stabili.
Sliman è la soltanto l’ultima vittima dell’esercito israeliano dal 2 settembre, data che se da un lato ha visto la ripresa dei colloqui fra Netanyahu e Abu Mazen, qui Gaza è coincisa con una escalation di violenza contro la popolazione civile. Sono sette morti ammazzati dai soldati israeliani dall’inizio di questo mese nella sola Striscia. Venerdì, il giorno dopo il verdetto con cui la Commissione per i Diritti Umani dell’ONU condanna Israele per “omicidio e tortura” in riferimento al massacro della Freedom Flotilla, un giovane pescatore, Mohamed Bakri, è stato assassinato dalla marina di Tel Aviv mentre con la sua minuscola imbarcazione stava pescando poco distante dalla costa.
Una ulteriore riprova di ciò che andava affermando il compianto Edward Said: “I negoziati di pace sono i primi ostacoli alla pace“. Dopo oltre 15 anni di colloqui farsa, che hanno sortito come unico risultato meno terra e meno diritti per i palestinesi e il proliferare delle colonie illegali israeliane, non è più riposta molta fiducia nella comunità internazionale e nei giochi politici.
Semmai i palestinesi guardano con più speranza verso le mobilitazioni della società civile mondiale in loro sostegno, alla campagna di boicottaggio del BDS Movement, alle missioni umanitarie che cercando il modo con cui spezzare l’assedio riportano la tragedia di Gaza in auge sui media occidentali, come il convoglio Viva Palestina attualmente in viaggio, e l‘Irene, l’imbarcazione di pacifisti ebrei in navigazione in queste ore verso Gaza.
Restiamo Umani.
Vittorio Arrigoni da Gaza city
Gli scontri si spostano sulla Spianata delle moschee
Di solito quando camionette e lacrimogeni si avvicinano ad Al-Aqsa c’è aria di Intifada, vuol dire che alla Palestina inizia a mancar la terra sotto i piedi, che il tutto sta per scoppiare definitivamente, ancora una volta. Pochi minuti fa sono entrati nella spianata delle moschee, a Gerusalemme… ma procediamo con ordine.
Stamattina un guardiano di un convoglio di coloni ha ucciso un ragazzo palestinese e ne ha feriti altri cinque nel quartiere di Silwan, già teatro di ripetuti scontri negli ultimi mesi. L’area di Silwan, quartiere arabo di Gerusalemme Est, dove risiedono più di 12000 palestinesi sarebbe destinata, nei progetti israeliani, ad un parco archeologico e naturalistico dedicato al re Salomone. Per questo motivo sono state destinate all’immediata demolizione 22 palazzine palestinesi. Per tutta la mattinata fitti lanci di pietre e ripetuti scontri ci son stati tra la popolazione palestinese e la polizia israeliana.
Alle 16, poco più di mezzora fa, le prime agenzie dicono che la giornata di scontri si sta allargando, ed ha appena sfiorato il punto più caldo del medioriente, simbolo dello scoppio dell’Intifada.
La polizia israeliana è entrata nella Spianata delle moschee: fino a questo momento i manifestanti sono rifugiati all’interno della moschea di Al-Aqsa dove la polizia non è entrata, almeno per ora. Si parla di una quindicina di feriti tra manifestanti e poliziotti.
Proviamo ad aggiornarci tra un po’.
E’ caduta la testa del boia: SHARON E’ MORTO!
PARE CHE SHARON SIA MORTO.
SU TWITTER LA NOTIZIA VIAGGIA DA QUASI UN’ORA…
NON HO PAROLE PER COMMENTARE QUESTA NOTIZIA.
TOCCHERA’ UBRIACARSI ALLE DUE DEL POMERIGGIO!!!
VORREI CREDERE NELL’INFERNO OGGI, NON SAI QUANTO BRUTTO MACELLAIO ASSASSINO!

EMILY, COLPITA AL VOLTO DALLA POLIZIA ISRAELIANA HA PERSO UN OCCHIO
EMILY, COLPITA AL VOLTO HA PERSO UN OCCHIO
Il dramma di una giovane americana ferita da un candelotto lacrimogeno sparato dai poliziotti israeliani a Qalandiya.
DI BARBARA ANTONELLI
Ramallah, 07 giugno 2010, (foto dal sito http://www.stopthewall.org), Nena News –
Il 31 maggio Emily Henochowicz, una artista americana 21enne, era scesa in strada come tanti altri, palestinesi e stranieri, per partecipare a una delle manifestazioni spontanee organizzate nelle ore successive all’uccisione di 9 attivisti turchi della «Freedom Flottiglia» da parte dei soldati israeliani. A Qalandyia, il grande posto di blocco che divide Ramallah da Gerusalemme, erano più o meno le 12 quando un candelotto di gas lacrimogeno sparato dalla polizia israeliana, l’ha colpita in pieno volto, distruggendole letteralmente l’occhio sinistro e provocandole diverse altre fratture al viso. Ricoverata all’ospedale di Hadassah, di Gerusalemme, Emily ha subito l’asportazione del bulbo oculare il giorno dopo. Ora l’ambasciata Usa a Tel Aviv ha chiesto alle autorità israeliane di aprire subito un’indagine che chiarisca come sia avvenuto il ferimento grave di Emily.
Secondo diversi testimoni la guardia di frontiera israeliana (un corpo paramilitare della polizia) avrebbe sparato in successione tre candelotti di alluminio ad alta velocità mirando direttamente ai manifestanti. Come sempre accade in questi casi, la versione della polizia è diversa: secondo una nota diffusa dalle autorità israeliane oggi, una indagine interna avrebbe accertato che il candelotto avrebbe colpito prima il muro e poi Emily.
Jonathan Pollack, un attivista israeliano contro l’occupazione, che era presente alla manifestazione, al contrario sostiene, insieme ad altri manifestanti, che «Emily era a soli 10 o 15 metri di distanza dalla polizia, il che indica che l’impatto è stato fortissimo e che il candelotto sparato da così breve distanza ha colpito la giovane americana ad alta velocità». Il codice di condotta militare israeliano – ha aggiunge Pollack – prevede in questi casi che il gas lacrimogeno deve essere lanciato con una traiettoria di 60 gradi, ma in molti casi questo non avviene e l’esercito spara direttamente sui dimostranti e a distanza molto ravvicinata».
Altre testimonianze sono state raccolte dallo studio legale dell’avvocato Michael Sfard. L’avvocato, che rappresenterà Emily, ha chiesto che il distretto di polizia competente per la Cisgiordania, apra subito un’indagine. Nipote del famoso sociologo Bauman, Sfard assiste legalmente da anni diverse associazioni pacifiste israeliane e ha rappresentato presso le corti israeliane molti casi di violazioni di diritti umani a danno di palestinesi. In passato ha curato gli interessi legali delle famiglie di tre cittadini stranieri uccisi dall’esercito israeliano: la famiglia di James Miller, il fotografo inglese ucciso a Gaza, e quelle di due attivisti dell’ «International Solidarity Movement» entrambi uccisi dall’esercito israeliano a Gaza, Tom Hurndall e Rachel Corrie.
«I testimoni che si trovavano a Qalandyia – riferisce Sfard – hanno detto tutti che il lancio del gas lacrimogeno è avvenuto a distanza molto ravvicinata». Il caso di Emily Henochowicz si aggiunge a una lunga lista di altri attivisti, che hanno subito ferite, in alcuni casi gravissime e con conseguenze irreversibili, durante manifestazioni pacifiche. A maggio, Hasen Brejieyah del villaggio di Al Masara, vicino Betlemme, è stato colpito da un candelotto in testa. Lo stesso per Imad Rizka palestinese con cittadinaza israeliana, di Jaffa, ferito al viso nella manifestazione conclusiva dei tre giorni della Conferenza sulla resistenza popolare non violenta a Bi’lin. Bassem Abu Rahma, sempre di Bi’lin,è morto nel 2009, ucciso da un candelotto di gas che gli ha perforato il torace.
Tristan Anderson è ancora in coma con danni irreversibili al cervello e impossibilitato ad essere rimpatriato negli Stati Uniti, dopo che l’esercito gli ha sparato un candelotto di gas lacrimogeno in testa.
Emily era arrivata da New York a Gerusalemme 6 settimane fa, per studiare arti visuali alla Bezalel Accademy, un istituto di arte e design a Gerusalemme. Il suo lavoro più recente trova proprio ispirazione dall’esperienza di vita vissuta nei Territori occupati palestinesi.
Nakba e sangue: 15enne ucciso da un colono vicino Ramallah
Il “bollettino di guerra” più costante della storia dell’uomo è ormai quello proveniente dalla terra di Palestina, terra stuprata da un’occupazione militare di cui domani si “festeggia” l’anniversario.
La NAKBA, catastrofe del popolo arabo di palestina, catastrofe mai terminata dal 1948.
Quella di oggi è stata l’ennesima giornata insostenibile per quel popolo e quella terra: sono 60 anni di nomi di morti, di martiri bambini, di fanciulli falciati su una strada assolata.
Nemmeno 15 anni aveva Ayssar Yasser al-Zaben, residente nel villaggio di Mazra Ash-Sharquieh, a pochi kilometri da Ramallah, sulla maledetta statale numero 60.
Ucciso non dall’esercito e nemmeno dalla polizia israeliana: ucciso da un solo colpo che l’ha centrato al cuore, colpo partito dall’arma di un colono israeiano.
La sparatoria (se così si può chiamare l’uccisione con un colpo al cuore di un fanciullo di 15 anni, classe 1994) sembrerebbe partita dopo un lancio di sassi in direzione di una macchina con dentro due coloni israeliani. L’assassino, occupante integralista di quella porzione martoriata e ridicola che ormai è la West Bank, si è fermato sul ciglio della strada ed ha aperto il fuoco con la sua arma personale.
Normale amministrazione.
Normale amministrazione soprattutto da quando il governo israeliano è guidato da Bibi Netanyahu e dal ministro Avigdor Liebermann: la loro politica sugli insediamenti israeliani a Gerusalemme e in Cisgiordania è palese ed ha legittimato una pericolosa escalation di attentati contro proprietà arabe, moschee e campi coltivati.
Shilim Eren, prigioniera politica kurda condannata a morte
Shirin Elem prigioniera politica kurda condannata a morte, ha scritto una lettera all’opinione pubblica.
Nella lettera racconta le condizioni della prigione e la ragione del suo arresto.
Quella che segue e’ una parte della sua lettera:
E’ da tre anni che sono stata incarcerata,tre anni di agonia e di dolore dietro le mura della prigione di Evin.Per i primi due anni della mia incarcerazione non ho potuto sentire,niente avvocati, la mia accusa e’ stata sospesa.Mi hanno tenuto in isolamento in modo arbitrario senza traccia. Nei due anni in cui la mia accusa e’ stata sospesa ho avuto veramente un periodo duro a causa del maltrattamento delle Guardie Rivoluzionarie.
Mi sto ancora chiedendo come mai sono stata imprigionata o perche’ devo essere giustiziata?Se la risposta e’ a causa della mia identita’,quindi voglio dire che sono nata kurda e a causa del mio essere kurda sono stata soggetto a dolore,agonia e isolamento!
La mia lingua e’ il kurdo e ho comunicato con gli amici e la mia famiglia con questa lingua e sono anche cresciuta con questa lingua. Questa lingua e’ stata un ponte tra me e il mio ambiente.
Cio’ nonostante non mi e’ consentito usare il mio linguaggio per comunicare. Non mi permettono di parlare nella mia lingua madre. Non mi permettono di scrivere nella mia lingua nativa.
Sono condannata a negare il mio essere curda e a rinnegare il fatto che sono kurda, ma mi sono detta che se avessi fatto tutto questo avrei rinnegato me stessa.
Onorevoli giudici,cari interrogatori!
Quando mi stavate interrogando io non ero in grado di parlare la vostra lingua.Ho appreso il persiano negli ultimi due anni della mia detenzione nella prigione di Evin.Ho imparato il persiano dai miei compagni di prigionia. Ma mi avete interrogato con la vostra lingua mentre non ero in grado di comprendere una parola di quello che stavate dicendo.
Non avevo alcun idea di quello che stava succedendo nel giorno del processo e non potevo parlare per difendere me stessa;Io non capivo la vostra lingua!
Tutte le torture alla quale sono stata soggetta sono state un incubo per me.Sto vivendo ora con un tormento quotidiano e una sofferenza che nessuno puo’ sopportare. I forti colpi che ho ricevuto mentre mi torturavate hanno danneggiato fatalmente la mia testa.
Alcuni giorni sento un’orribile dolore nel mio corpo,il dolore nella mia testa cresce in modo tale che io non distinguo cosa stia accadendo nel mio ambiente ed io divento incosciente per qualche ora. A causa della gravita’ del mio dolore il mio naso comincia ad insanguinare; e dopo aver provato tutto questo, ritorno al mio stato naturale.
Un altro dono che l’accusa mi ha concesso e’ che la vista dei miei occhi e’ stata significativamente danneggiata e si deteriora costantemente. Avevo chiesto degli occhiali che non mi hanno ancora fornito.Quando sono stata arrestata non avevo un filo grigio nei miei capelli,ma ora dopo tre anni di prigione ogni giorno vedo parti grigie nei miei capelli.
Io sono ben consapevole che voi non non avete commesso questi atti solo contro di me e la mia famiglia, ma avete torturato tutti gli attivisti kurdi,e tra questi Zeyneb Celalayan e Runak Sefazade.
Gli occhi in attesa delle madri kurde spargono lacrime. Loro sono terrorizzate da quello che sta per succedere.Con ogni telefonata possono essere informate sulle condanne a morte comminate ai loro figli e alle loro figlie.
Il 2/05/2010 dopo un lungo periodo mi hanno chiamato alla cella,numero 2009; loro hanno ripristinato le loro accuse infondate contro di me. Mi hanno chiesto di cooperare con loro e avrebbero ritirato la mia condanna a morte. Io non ho idea di quale tipo di cooperazione intendessero perche’ non c’e’ altro che io non abbia gia’ detto. Allora mi hanno chiesto di ripetere quello che avevano detto, ma io mi sono rifiutata. Quelli che mi hanno interrogato avevano detto inoltre che mi volevano liberare lo scorso anno ma che non avevano potuto perche’, secondo loro, la mia famiglia non ha collaborato.
Chi mi ha interrogato ha confermato che io sono solo un’ostaggio nelle loro mani e fino a quando non avranno raggiunto i loro scopi, o mi giustizieranno o non vorranno mai liberarmi.
Shirin Elem Holi
Beit Jala, ancora una volta
22 Aprile 2010
Oggi a Beit Jalla vicino a Betlemme, cittadini palestinesi con alcuni internazionali hanno dato vita ad una manifestazione di protesta contro il muro dell’apartheid in costruzione in quella zona. Per diverse ore l’esercito ha sdradicato decine di ulivi centenari e buttato giù il portico di una cosa perchè proprio li soergerà la continuazione del muro dell’apartheid. I manifestanti hanno tentato di avvicinarsi alle case ma i militari li hanno respinti sparando lacrimogeni e proiettili di gomma. Sono state fermate 6 persone, tra cui 2 italiani, che ora sono nelle mani dell’esercito israeliano. Le accuse sono di violazione di una zona militare chiusa perchè, in maniera simbolica, hanno piantato una bandiera palestinese sul perimetro del futuro muro, dove era appena stata distrutta una parte di una casa di palestinesi.
Ascolta la corrispondenza di Radiondarossa e gli aggiornamenti
Il secondo giorno della V Conferenza Internazionale di Bil’in sulla Resistenza Popolare Palestinese comincia con la brutta notizia del riavvio dei cantieri per la costruzione del muro attorno a Betlemme. Numerosi bulldozer e circa dieci jeep dell’IDF sono entrati a Beit Jalla e Al Walaja per sradicare gli ulivi lungo il tracciato del muro e demolire il cortile di una casa palestinese.
Diversi attivist* internazionali (tra cui alcun* del nostro gruppo) e israeliani sono andati sul posto per portare la solidarieta’ attiva alla famiglia di Beit Jalla e, eludendo la sorveglianza, sono riusciti a rimanere al fianco dei palestinesi mentre procedeva inesorabile la demolizione. I militari israeliani sono intervenuti trascinando brutalmente gli/le attivist* per centinaia di metri, picchiandone e ferendone tre. Due attivisti israeliani sono stati arrestati.
Questa casa e’ stata al centro di un processo completamente falsato dalla giustizia israeliana: il terrazzamento del cortile era stato demolito qualche mese fa e poi ricostruito in seguito alla sospensione del processo stesso. Due giorni fa, il 20 Aprile, il tribunale ha definitivamente autorizzato il governo israeliano a dare inizio ai lavori di costruzione del muro che passera’ a pochi metri dalla casa stessa, isolandola e usurpandone la terra.
Nel frattempo, a pochissimi chilometri da li’ e a pochi metri dalla terra di Abed, nel villaggio palestinese di Al Walaja,altri bulldozer hanno sradicato almeno 50 ulivi e 50 alberi da frutta. Gia’ la settimana scorsa nello stesso villaggio ci sono stati 3 arresti e varie minacce e pestaggi intimidatori da parte dell’esercito; anche stavolta hanno minacciato di arrestare i membri del comitato popolare locale se avessero continuato a protestare contro il muro e la demolizione delle case.
Nel primo pomeriggio, terminati i lavori della conferenza internazionale, altr* attivist* internazionali sono tornat* a Beit Jalla per cercare di raggiungere la famiglia rimasta isolata dalla mattina, rompendo la zona militare chiusa.
Quando siamo giunti sulla strada che conduce alla casa i militari hanno messo di traverso i loro mezzi e steso il filo spinato per impedirci il passo. Abbiamo provato a forzare il blocco in maniera pacifica ma i soldati hanno reagito nervosamente puntando i mitra e minacciandoci con le granate in mano. Ne e’ seguito un tafferuglio e dopo 2 ore di blocco stradale, durante le quali i militari hanno impedito il passaggio di qualsiasi veicolo – compresa un’ambulanza -, un piccolo gruppo e’ riuscito ad aggirare lo schieramento e a raggiungere la famiglia portandogli da mangiare e piantando simbolicamente una bandiera della Palestina. Perche’ questa terra non appartiene alla prepotenza sionista.
Sei persone sono state fermate, ammanettate e portate alla stazione di polizia di Gush Ezion (una delle tante colonie israeliane in Cisgiordania) e stiamo attualmente in attesa della loro liberazione. Nel gruppo ci sono quattro ragazze e due ragazzi, tra questi un compagno e una compagna del nostro gruppo.
In seguito agli arresti i soldati hanno sparato lacrimogeni sul resto dei manifestanti, disperdendoli. Alcuni ragazzi palestinesi hanno iniziato a lanciare pietre, rovesciando cassonetti, e l’esercito ha sparato alcuni colpi.
WITHOUT YOUR FREEDOM WE’LL NEVER BE FREE
PALESTINA LIBERA
Per gli aggiornamenti seguire Freepalestine ed ascoltare Radio Onda Rossa
Sono passati 8 anni da quando ero per i vicoli di Beit Jala, caricati dall’esercito! Quella terra è dentro di me…
sono stretta ai compagni presenti nei Territori Occupati, stretta stretta a quella terra resistente






















































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