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30 marzo: la Giornata della terra, libera e palestinese

29 marzo 2009 2 commenti

Il 30 marzo di ogni anno la Palestina e il suo popolo celebrano e festeggiano la giornata della terra. 

yum al ardGiornata per ricordare tutti coloro che sono stati uccisi nel difendere il diritto di vivere nella propria terra per i palestinesi e per lottare e portare avanti la resistenza contro il continuo furto di terre e il trasferimento forzato della popolazione araba. Per dire no allo stato d’assedio, al muro dell’Apartheid, alla perenne perpetrazione di crimini contro l’umanità ai danni di civili arabi.

Il 30 marzo del 1978 sette giovani palestinesi, cittadini dello Stato d’Israele, furono uccisi dal piombo dello Tsahal mentre manifestavano pacificamente contro l’esproprio di terre in Galilea, nel Neghev e nel triangolo

O scolari di Gaza 
insegnateci 
un po’ di ciò 
che noi abbiamo dimenticato

Insegnateci 
a essere uomini
da noi gli uomini 
sono diventati pasta morbida

Insegnateci
come i sassi
tra le mani dei bambini
diventano diamanti preziosi

Insegnateci
come fa la bicicletta di un bambino  a diventare una mina
e il nastro di seta, 
un’imboscata

 Come la bottiglia del lattepal_handapal
se non la imprigionano
diventa un coltello.

O scolari di Gaza
non date retta
alle nostre trasmissioni
non ascoltateci
colpite
colpite
con tutta la vostra forza
occupatevi del vostro lavoro
e non chiedete a noi

Noi siamo la gente dei conti
dell’addizione
e della sottrazione
conducete le vostre guerre
e lasciateci

Noi siamo i disertori
che hanno abbandonato l’esercito
prendete allora le vostre cordepal_disegno48
e impiccateci

Noi siam morti
che non hanno una tomba
e orfani
che non hanno occhi
che restano chiusi nelle loro tane
e vi abbiamo chiesto
di combattere il drago 

Siamo diventati più piccoli davanti a voi
di mille secoli
E voi, in un mese
più grandi di secoli

O scolari di Gaza
non fate ritorno
a ciò che abbiamo scritto e non leggeteci

Noi siamo i vostri padri
non somigliateci, quindi
noi siamo i vostri idoli
non adorateci

Noi pratichiamo
la menzogna politica
e la repressione
costruiamo tombe
e carceri
liberateci 
dai vincoli della paura che è dentro di noi
cacciate via
l’oppio che c’è nelle nostre teste

Insegnatecimanifesto-bimbo-elmetto-sasso1
l’arte di aggrapparsi alla terra
non abbandonate
il Messia sofferente

Piccoli amati
la pace su di voi
che Dio possa fare del vostro giorno
un gelsomino

Dalle fessure della terra in rovina
siete sorti
e avete seminato nelle nostre ferite
la rosa selvatica 

Questa è la rivoluzione dei quaderni
e dell’inchiostro
diventate sulle labbra
melodie
fate piovere su di noi
valore e fierezza

Lavateci via la nostra bruttezzan791717899_766842_6918
lavateci
non abbiate paura del Faraone
né degli incantesimi di Mosè
e preparatevi a raccogliere le olive

Davvero questa epoca ebraica
un giorno si dissolverà
se ne possediamo la certezza

Folli di Gaza
mille volte benvenuti
i folli
se ci libereranno

L’era della ragione politica
se ne è andata da tempo
insegnateci la follia

___NIZAR QABBANI__
Qui il testo da cui è stato tradotto

Marce xenofobe in Israele contro la popolazione arabo-israeliana: che si incazza e si difende la città

25 marzo 2009 1 commento

Foto di David Silverman _Getty Images_  

Foto di David Silverman _Getty Images_

 

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Foto Getty Images _la marcia xenofoba inizia, i tetti brulicano di manifestanti_

Parlavamo, appena due giorni fa, di come s’era spostata verso l’estrema destra xenofoba e confessionale l’asse della politica israeliana. Politica non solo di palazzo, dopo le elezioni di febbraio e gli accodi per il governo di coalizione che da ieri procedono a passo di carica; anche politica di strada, con una manifestazione organizzata dall’estrema destra israeliana, ad Umm al-Fahm (città israeliana, importante centro arabo, situata nel distretto di Haifa, con una popolazione di 45.000 persone, la maggiorparte arabo-israeliani).
Una manifestazione che era stata più volte rinviata per i rischi sulla sicurezza, ma poi autorizzata dalla Corte Suprema, che aveva come obiettivo quello di ribadire la sovranità israeliana della città. Dalle stampa internazionale leggiamo la dichiarazione di Michael Ben-Ari, esponente del partito di estrema destra Unione Nazionale (appena eletto alla Knesset): “Se non isseremo la nostra bandiera a Umm al-Fahm, un giorno avremo uno Stato palestinese che arriverà fino a Tel-Aviv”.
Una marcia vera e propria per provocare la popolazione araba residente all’interno dei confini dello stato ebraico: manifestazione composta da militante provenienti soprattutte dalle colonie israeliane di Hebron (la zona caratterizzata da sempre dagli scontri più feroci tra coloni e popolazione palestinese) e del resto della Cisgiordania. Umm al-Fahm oltre ad essere roccaforte araba lo è anche del partito comunista, tanto che alla contro manifestazione annunciata e violentemente voluta da tutta la popolazione della città, si sono uniti attivisti israeliani appartenenti alla sinistra e al partito comunista. Immediatamente, per poter permettere a tutta la popolazione di partecipare alla contro-protesta, per evitare che la marcia potesse entrare in città, è stato dichiarato uno sciopero generale che ha avuto una partecipazione totale.

Foto di Awad _Getty Images_

Foto di Awad _Getty Images_

La provocazione è scoppiata immediatamente in scontri con i 3000 poliziotti anti-sommossa schierati a difendere le fila fasciste della manifestazione. Poco, molto poco è durata la marcia, all’incirca una mezzora, sufficiente a far scoppiare poi ore ed ore di duri scontri iniziati con un fitto lancio di oggetti dalle strade e dai tetti della città, contro la marcia sionista che avanzava sventolando decine di bandiere con la Stella di Davide. Lancio che come risposta ha ricevuto idranti, granate assordanti ed urticanti che hanno causato 16 feriti tra i manifestanti,15 tra i poliziotti schierati e l’arresto di tre manifestanti (arabi, ovviamente). David Cohen, rappresentante della Polizia israeliana ha dichiarato di aver reagito in difesa della democrazia. Gli scontri sono terminati dopo che diversi agenti hanno riportato ferite a causa del lancio di oggetti e dopo l’uso di vari mezzi per disperdere la manifestazione”.
L’estrema destra che ha marciato è la stessa che sta formando il governo di coalizione che tra una decina di giorni prenderà le redini del potere politico e militare nello stato israeliano: il probabile ministro degli esteri Avigdor Lieberman (un vero e proprio nazista dichiarato, fondatore del partito Yisrael Beitanu) ha già proposto l’obbligatorietà di un giuramento di “lealtà” allo Stato ebraico per tutti gli abitanti di etnia araba. Anfibi sempre più neri marciano sulla terra degli ulivi, sulla terra di Palestina

Foto di Uriel Sinai/Getty Images

Foto di Uriel Sinai/Getty Images

SI VIENE A SAPERE DA POCO DEL FERMO DI 22 ARABI-ISRAELIANI CHE AVEVANO PARTECIPATO AGLI SCONTRI DI IERI CONTRO LA MARCIA XENOFOBA ORGANIZZATA ALLE PORTE DELLA CITTA’ UMM AL-FAHM. ACCUSATI DI AVER FOMENTATO GLI SCONTRI

65 anni fa, le Fosse Ardeatine

24 marzo 2009 2 commenti

65 anni dall’eccidio delle Fosse Ardeatine e i suoi 335 uccisi. Evento la cui memoria è necessaria, a maggior ragione in un presente come questo, dove eserciti indossano magliette che deridono centinaia di civili uccisi, dove si mandano avanti guerre contro popolazioni allo stremo, popolazioni in cattività, derubate della loro terra e della loro cultura, del lavoro e del futuro.
Terre dove non si può essere bambini, terre dove marcia un nemico che professa lo sterminio etnico, l’Apartheid, la segregazione con la scusa del diritto alla sicurezza.
SENZA MEMORIA NESSUN FUTURO, SENZA GIUSTIZIA NESSUNA PACE. 
                    OGGI PIU’ DI IERI, ORA E SEMPRE RESISTENZA
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ANNIVERSARIO DELL’ASSASSINIO DI RACHEL CORRIE. NESSUN PERDONO, NESSUNA PACE

16 marzo 2009 3 commenti

Rachel Corrie, 23 anni, attivista statunitense, è stata assassinata il 16 marzo 2003, schiacciata da una ruspa israeliana. Rachel tentava di evitare che la ruspa demolisse l’abitazione di un medico palestinese nella Striscia di Gaza. 
Nelle sue ultime lettere racconta ai familiari la Palestina che ha conosciuto partecipando alle azioni dell’International Solidarity Movement.

towell_gazaperrachelCiao amici e famiglia e tutti gli altri,

sono in Palestina da due settimane e un’ora e non ho ancora parole per descrivere ciò che vedo. È difficilissimo per me pensare a cosa sta succedendo qui quando mi siedo per scrivere alle persone care negli Stati Uniti. È come aprire una porta virtuale verso il lusso. Non so se molti bambini qui abbiano mai vissuto senza i buchi dei proiettili dei carri armati sui muri delle case e le torri di un esercito che occupa la città che li sorveglia costantemente da vicino. Penso, sebbene non ne sia del tutto sicura, che anche il più piccolo di questi bambini capisca che la vita non è così in ogni angolo del mondo. Un bambino di otto anni è stato colpito e ucciso da un carro armato israeliano due giorni prima che arrivassi qui e molti bambini mi sussurrano il suo nome – Alì – o indicano i manifesti che lo ritraggono sui muri.

I bambini amano anche farmi esercitare le poche conoscenze che ho di arabo chiedendomi “Kaif Sharon?” “Kaif Bush?” e ridono quando dico, “Bush Majnoon”, “Sharon Majnoon” nel poco arabo che conosco. (Come sta Sharon? Come sta Bush? Bush è pazzo. Sharon è pazzo.). Certo, questo non è esattamente quello che credo e alcuni degli adulti che sanno l’inglese mi correggono: “Bush mish Majnoon” … Bush è un uomo d’affari. Oggi ho tentato di imparare a dire “Bush è uno strumento” (Bush is a tool), ma non penso che si traduca facilmente. In ogni caso qui si trovano dei ragazzi di otto anni molto più consapevoli del funzionamento della struttura globale del potere di quanto lo fossi io solo pochi anni fa.y1p_hclsueimo1uzhqg4swvqogy9o08dclnulkosrm98_w7dqpmxeutucuijfbrcxd-o5lykumaxtk

Tuttavia, nessuna lettura, conferenza, documentario o passaparola avrebbe potuto prepararmi alla realtà della situazione che ho trovato qui. Non si può immaginare a meno di vederlo, e anche allora si è sempre più consapevoli che l’esperienza stessa non corrisponde affatto alla realtà: pensate alle difficoltà che dovrebbe affrontare l’esercito israeliano se sparasse a un cittadino statunitense disarmato, o al fatto che io ho il denaro per acquistare l’acqua mentre l’esercito distrugge i pozzi e naturalmente al fatto che io posso scegliere di andarmene. Nessuno nella mia famiglia è stato colpito, mentre andava in macchina, da un missile sparato da una torre alla fine di una delle strade principali della mia città. Io ho una casa. Posso andare a vedere l’oceano. Quando vado a scuola o al lavoro posso essere relativamente certa che non ci sarà un soldato, pesantemente armato, che aspetta a metà strada tra Mud Bay e il centro di Olympia a un checkpoint, con il potere di decidere se posso andarmene per i fatti miei e se posso tornare a casa quando ho finito.

Dopo tutto questo peregrinare, mi trovo a Rafah: una città di circa 140.000 persone, il 60% di questi sono profughi, molti di loro due o tre volte profughi. Oggi, mentre camminavo sulle macerie, dove una volta sorgevano delle case, alcuni soldati egiziani mi hanno rivolto la parola dall’altro lato del confine. “Vai! Vai!” mi hanno gridato, perché si avvicinava un carro armato. E poi mi hanno salutata e mi hanno chiesto “come ti chiami?”. C’è qualcosa di preoccupante in questa curiosità amichevole. Mi ha fatto venire in mente in che misura noi, in qualche modo, siamo tutti bambini curiosi di altri bambini. Bambini egiziani che urlano a donne straniere che si avventurano sul percorso dei carri armati. Bambini palestinesi colpiti dai carri armati quando si sporgono dai muri per vedere cosa sta accadendo. Bambini di tutte le nazioni che stanno in piedi davanti ai carri armati con degli striscioni. Bambini israeliani che stanno in modo anonimo sui carri armati, di tanto in tanto urlano e a volte salutano con la mano, molti di loro costretti a stare qui, molti semplicemente aggressivi, sparano sulle case mentre noi ci allontaniamo.
Ho avuto difficoltà a trovare informazioni sul resto del mondo qui, ma sento dire che un’escalation nella guerra contro l’Iraq è inevitabile. Qui sono molto preoccupati della “rioccupazione di Gaza”. Gaza viene rioccupata ogni giorno in vari modi ma credo che la paura sia quella che i carri armati entrino in tutte le strade e rimangano qui invece di entrare in alcune delle strade e ritirarsi dopo alcune ore o dopo qualche giorno a osservare e sparare dai confini delle comunità. Se la gente non sta già pensando alle conseguenze di questa guerra per i popoli dell’intera regione, spero che almeno lo iniziate a fare voi.

Un saluto a tutti. Un saluto alla mia mamma. Un saluto a smooch. Un saluto a fg e a barnhair e a sesamees e alla Lincoln School. Un saluto a Olympia. 
Rachel

20 febbraio 2003

Mamma,

tempoadesso l’esercito israeliano è arrivato al punto di distruggere con le ruspe la strada per Gaza, ed entrambi i checkpoint principali sono chiusi. Significa che se un palestinese vuole andare ad iscriversi all’università per il prossimo quadrimestre non può farlo. La gente non può andare al lavoro, mentre chi è rimasto intrappolato dall’altra parte non può tornare a casa; e gli internazionali, che domani dovrebbero essere ad una riunione delle loro organizzazioni in Cisgiordania, non potranno arrivarci in tempo. Probabilmente ce la faremmo a passare se facessimo davvero pesare il nostro privilegio di internazionali dalla pelle bianca, ma correremmo comunque un certo rischio di essere arrestati e deportati, anche se nessuno di noi ha fatto niente di illegale.

La striscia di Gaza è ora divisa in tre parti. C’è chi parla della “rioccupazione di Gaza”, ma dubito seriamente che stia per succedere questo, perché credo che in questo momento sarebbe una mossa geopoliticamente stupida da parte di Israele. Credo che dobbiamo aspettarci piuttosto un aumento delle piccole incursioni al di sotto del livello di attenzione dell’opinione pubblica internazionale, e forse il paventato “trasferimento di popolazione”. Per il momento non mi muovo da Rafah, non penso di partire per il nord. Mi sento ancora relativamente al sicuro e nell’eventualità di un’incursione più massiccia credo che, per quanto mi riguarda, il rischio più probabile sia l’arresto. Un’azione militare per rioccupare Gaza scatenerebbe una reazione molto più forte di quanto non facciano le strategie di Sharon basate sugli omicidi che interrompono i negoziati di pace e sull’arraffamento delle terre, strategie che al momento stanno servendo benissimo allo scopo di fondare colonie dappertutto, eliminando lentamente ma inesorabilmente ogni vera possibilità di autodeterminazione palestinese.

Sappi che un mucchio di palestinesi molto simpatici si sta prendendo cura di me. Mi sono presa una lieve influenza e per curarmi mi hanno dato dei image005beveroni al limone buonissimi. E poi la signora che ha le chiavi del pozzo dove ancora dormiamo mi chiede continuamente di te. Non sa una parola d’inglese ma riesce a chiedermi molto spesso della mia mamma – vuole essere sicura che ti chiami.

Un abbraccio a te, a papà, a Sara, a Chris e a tutti. 
Rachel

27 febbraio 2003 
(alla madre)

Vi voglio bene. Mi mancate davvero. Ho degli incubi terribili, sogno i carri armati e i bulldozer fuori dalla nostra casa, con me e voi dentro. A volte, l’adrenalina funge da anestetico per settimane di seguito, poi improvvisamente la sera o la notte la cosa mi colpisce di nuovo: un po’ della realtà della situazione.

Ho proprio paura per la gente qui. Ieri ho visto un padre che portava fuori i suoi bambini piccoli, tenendoli per mano, alla vista dei carri armati e di una torre di cecchini e di bulldozer e di jeep, perché pensava che stessero per fargli saltare in aria la casa. In realtà, l’esercito israeliano in quel momento faceva detonare un esplosivo nel terreno vicino, un esplosivo piantato, a quanto pare, dalla resistenza palestinese. Questo è nella stessa zona in cui circa 150 uomini furono rastrellati la scorsa domenica e confinati fuori dall’insediamento mentre si sparava sopra le loro teste e attorno a loro, e mentre i carri armati e i bulldozer distruggevano 25 serre, che davano da vivere a 300 persone. L’esplosivo era proprio davanti alle serre, proprio nel punto in cui i carri armati sarebbero entrati, se fossero ritornati. Mi spaventava pensare che per quest’uomo, era meno rischioso camminare in piena vista dei carri armati rachelcorrie3id0che restare in casa. Avevo proprio paura che li avrebbero fucilati tutti, e ho cercato di mettermi in mezzo, tra loro e il carro armato. Questo succede tutti i giorni, ma proprio questo papà con i suoi due bambini così tristi, proprio lui ha colto la mia attenzione in quel particolare momento, forse perché pensavo che si fosse allontanato a causa dei nostri problemi di traduzione.

Ho pensato tanto a quello mi avete detto per telefono, di come la violenza dei palestinesi non migliora la situazione. Due anni fa, sessantamila operai di Rafah lavoravano in Israele. Oggi, appena 600 possono entrare in Israele per motivi di lavoro. Di questi 600, molti hanno cambiato casa, perché i tre checkpoint che ci sono tra qui e Ashkelon (la città israeliana più vicina) hanno trasformato quello che una volta era un viaggio di 40 minuti in macchina in un viaggio di almeno 12 ore, quando non impossibile. Inoltre, quelle che nel 1999 erano le potenziali fonti di crescita economica per Rafah sono oggi completamente distrutte: l’aeroporto internazionale di Gaza (le piste demolite, tutto chiuso); il confine per il commercio con l’Egitto (oggi con una gigantesca torre per cecchini israeliani al centro del punto di attraversamento); l’accesso al mare (tagliato completamento durante gli ultimi due anni da un checkpoint e dalla colonia di Gush Katif). Dall’inizio di questa intifada, sono state distrutte circa 600 case a Rafah, in gran parte di persone che non avevano alcun rapporto con la resistenza, ma vivevano lungo il confine.

Credo che Rafah oggi sia ufficialmente il posto più povero del mondo. Esisteva una classe media qui, una volta. Ci dicono anche che le spedizioni dei fiori da Gaza verso l’Europa venivano, a volte, ritardate per due settimane al valico di Erez per ispezioni di sicurezza. Potete immaginarvi quale fosse il valore di fiori tagliati due settimane prima sul mercato europeo, quindi il mercato si è chiuso. 11_fotop6E poi sono arrivati i bulldozer, che distruggono gli orti e i giardini della gente. Cosa rimane per la gente da fare? Ditemi se riuscite a pensare a qualcosa. Io non ci riesco. Se la vita e il benessere di qualcuno di noi fossero completamente soffocati, se vivessimo con i nostri bambini in un posto che ogni giorno diventa più piccolo, sapendo, grazie alle nostre esperienze passate, che i soldati e i carri armati e i bulldozer ci possono attaccare in qualunque momento e distruggere tutte le serre che abbiamo coltivato da tanto tempo, e tutto questo mentre alcuni di noi vengono picchiati e tenuti prigionieri assieme a 149 altri per ore: non pensate che forse cercheremmo di usare dei mezzi un po’ violenti per proteggere i frammenti che ci restano? Ci penso soprattutto quando vedo distruggere gli orti e le serre e gli alberi da frutta: anni di cure e di coltivazione. Penso a voi, e a quanto tempo ci vuole per far crescere le cose e quanta fatica e quanto amore ci vuole. Penso che in una simile situazione, la maggior parte della gente cercherebbe di difendersi come può. Penso che lo farebbe lo zio Craig. Probabilmente la nonna la farebbe. E penso che lo farei anch’io.

Mi avete chiesto della resistenza non violenta. Quando l’esplosivo è saltato ieri, ha rotto tutte le finestre nella casa della famiglia. Mi stavano servendo del tè, mentre giocavo con i bambini. Adesso è un brutto momento per me. Mi viene la nausea a essere trattata sempre con tanta dolcezza da persone che vanno incontro alla catastrofe. So che visto dagli Stati Uniti, tutto questo sembra iperbole. Sinceramente, la grande gentilezza della gente qui, assieme ai tremendi segni di deliberata distruzione delle loro vite, mi fa sembrare tutto così irreale. Non riesco a credere che qualcosa di questo genere possa succedere nel mondo senza che ci siano più proteste. Mi colpisce davvero, di nuovo, come già mi era successo in passato, vedere come possiamo far diventare così orribile questo mondo. Dopo aver parlato con voi, mi sembrava che forse non riuscivate a credere completamente a quello che vi dicevo. fotop8Penso che sia meglio così, perché credo soprattutto all’importanza del pensiero critico e indipendente. E mi rendo anche conto che, quando parlo con voi, tendo a controllare le fonti di tutte le mie affermazioni in maniera molto meno precisa. In gran parte questo è perché so che fate anche le vostre ricerche.

Ma sono preoccupata per il lavoro che svolgo. Tutta la situazione che ho descritto, assieme a tante altre cose, costituisce un’eliminazione, a volte graduale, spesso mascherata, ma comunque massiccia, e una distruzione, delle possibilità di sopravvivenza di un particolare gruppo di persone. Ecco quello che vedo qui. Gli assassini, gli attacchi con i razzi e le fucilazioni dei bambini sono atrocità, ma ho tanta paura che se mi concentro su questi, finirò per perdere il contesto. La grande maggioranza della gente qui, anche se avesse i mezzi per fuggire altrove, anche se veramente volesse smetterla di resistere sulla loro terra e andarsene semplicemente (e questo sembra essere uno degli obiettivi meno nefandi di Sharon), non può andarsene. Perché non possono entrare in Israele per chiedere un visto e perché i paesi di destinazione non li farebbero entrare: parlo sia del nostro paese che di quelli arabi. Quindi penso che quando la gente viene rinchiusa in un ovile – Gaza – da cui non può uscire, e viene privata di tutti i mezzi di sussistenza, ecco, questo credo che si possa qualificare come genocidio. corrie_afterAnche se potessero uscire, credo che si potrebbe sempre qualificare come genocidio. Forse potreste cercare una definizione di genocidio secondo il diritto internazionale. Non me la ricordo in questo momento. Spero di riuscire con il tempo a esprimere meglio questi concetti. Non mi piace usare questi termini così carichi. Credo che mi conoscete sotto questo punto di vista: io do veramente molto valore alle parole. Cerco davvero di illustrare le situazioni e di permettere alle persone di tirare le proprie conclusioni. Comunque, mi sto perdendo in chiacchiere. Voglio solo scrivere alla mamma per dirle che sono testimone di questo genocidio cronico e insidioso, e che ho davvero paura, comincio a mettere in discussione la mia fede fondamentale nella bontà della natura umana.

Bisogna che finisca. Credo che sia una buona idea per tutti noi, mollare tutto e dedicare le nostre vite affinché ciò finisca. Non penso più che sia una cosa da estremisti. Voglio davvero andare a ballare al suono di Pat Benatar e avere dei ragazzi e disegnare fumetti per quelli che lavorano con me. Ma voglio anche che questo finisca. Quello che provo è incredulità mista a orrore. Delusione. Sono delusa, mi rendo conto che questa è la realtà di base del nostro mondo e che noi ne siamo in realtà partecipi. Non era questo che avevo chiesto quando sono entrata in questo mondo. Non era questo che la gente qui chiedeva quando è entrata nel mondo. Non è questo il mondo in cui tu e papà avete voluto che io entrassi, quando avete deciso di farmi nascere. Non era questo che intendevo, quando guardavo il lago Capital e dicevo, “questo è il vasto mondo e sto arrivando!” Non intendevo dire che stavo arrivando in un mondo in cui potevo vivere una vita comoda, senza alcuno sforzo, vivendo nella completa incoscienza della mia partecipazione a un genocidio.

Sento altre forti esplosioni fuori, lontane, da qualche parte. Quando tornerò dalla Palestina, probabilmente soffrirò di incubi e mi sentirò in colpa per il fatto di non essere qui, ma posso incanalare tutto questo in altro lavoro. Venire qui è stata una delle cose migliori che io abbia mai fatto. E quindi, se sembro impazzita, o se l’esercito israeliano dovesse porre fine alla loro tradizione razzista di non far male ai bianchi, attribuite il motivo semplicemente al fatto che io mi trovo in mezzo a un genocidio che io anch’io sostengo in maniera indiretta, e del quale il mio governo è in larga misura responsabile. 
Voglio bene a te e a papà. Scusatemi il lungo papiro. OK, uno sconosciuto vicino a me mi ha appena dato dei piselli, devo mangiarli e ringraziarli. 
Rachel

28 febbraio 2003 
(alla madre)

Grazie, mamma, per la tua risposta alla mia e-mail. Mi aiuta davvero ricevere le tue parole, e quelle di altri che mi vogliono bene.

Dopo averti scritto ho perso i contatti con il mio gruppo per circa dieci ore: le ho passate in compagnia di una famiglia che vive in prima linea a Hi Salam. carlorachelMi hanno offerto la cena, e hanno pure la televisione via cavo. Nella loro casa le due stanze che danno sulla facciata sono inutilizzabili perché i muri sono crivellati da colpi di arma da fuoco, perciò tutta la famiglia – padre, madre e tre bambini-dorme nella stanza dei genitori. Io ho dormito sul pavimento, accanto a Iman, la bimba più piccola, e tutti eravamo sotto le stesse coperte. Ho aiutato un po’ il figlio maschio con i compiti d’inglese e abbiamo guardato tutti insieme Pet Semetery, che è un film davvero terrificante. Penso che per loro sia stato un gran divertimento vedere come quasi non riuscivo a guardarlo. Da queste parti il giorno festivo è venerdì, e quando mi sono svegliata stavano guardando i Gummy Bears doppiati in arabo. Così ho fatto colazione con loro, e sono rimasta un po’ lì seduta così, a godermi la sensazione di stare in mezzo a quel groviglio di coperte, insieme alla famiglia che guardava quello che a me faceva l’effetto dei cartoni della domenica mattina.

Poi ho fatto un pezzo di strada a piedi fino a B’razil, che è dove vivono Nidal, Mansur, la Nonna, Rafat e tutto il resto della grande famiglia che mi ha letteralmente adottata a cuore aperto. (A proposito, l’altro giorno, la Nonna mi ha fatto una predica mimata in arabo: era tutto un gran soffiare e additare lo scialle nero. Sono riuscita a farle dire da Nidal che mia madre sarebbe stata contentissima di sapere che qui c’è qualcuno che mi fa le prediche sul fumo che annerisce i polmoni). Ho conosciuto una loro cognata, che è venuta a trovarli dal campo profughi di Nusserat, e ho giocato con il suo bebè.

L’inglese di Nidal migliora di giorno in giorno. È lui a chiamarmi “sorella”. Ha anche cominciato ad insegnare alla Nonna a dire “Hello. How are you?” in inglese. Si sente costantemente il rumore dei carri armati e dei bulldozer che passano, eppure tutte queste persone riescono a mantenere un sincero buon umore, sia tra loro che nei rapporti con me. Quando sono in compagnia di amici palestinesi mi sento un po’ meno orripilata di quando cerco di impersonare il ruolo di osservatrice sui diritti umani o di raccoglitrice di testimonianze, o di quando partecipo ad azioni di resistenza diretta. Danno un ottimo esempio del modo giusto di vivere in mezzo a tutto questo nel lungo periodo. So che la situazione in realtà li colpisce – e potrebbe alla fine schiacciarli – in un’infinità di modi, e tuttavia mi lascia stupefatta la forza che dimostrano riuscendo a difendere in così grande misura la loro umanità – le risate, la generosità, il tempo per la famiglia – contro l’incredibile orrore che irrompe nelle loro vite e contro la presenza costante della morte. Dopo stamattina mi sono sentita molto meglio.

In passato ho scritto tanto sulla delusione di scoprire, in qualche misura direttamente, di quanta malignità siamo ancora capaci. Ma è giusto aggiungere, almeno di sfuggita, che sto anche scoprendo una forza straordinaria e una straordinaria capacità elementare dell’essere umano di mantenersi umano anche nelle circostanze più terribili – anche di questo non avevo mai fatto esperienza in modo così forte. Credo che la parola giusta sia dignità. Come vorrei che tu potessi incontrare questa gente. Chissà, forse un giorno succederà, speriamo. 
Rachel

Traduzioni di Miguel Martinez, Lucia De Rocco, Silvia Lanfranchini, Nora Tigges Mazzone, Andrea Spila

un fiore rosso per Osvaldo, Giangiacomo Feltrinelli

15 marzo 2009 1 commento

L'ultima carta d'identità falsa di Giangiacomo Feltrinelli

L'ultima carta d'identità falsa di Giangiacomo Feltrinelli

 

15 marzo 1972
Località Cascina Nuova, Segrate, Milano
Ai piedi del traliccio dell’altra tensione n.71, all’alba, viene rinvenuto il corpo di un uomo dilaniato da una carica esplosiva. Dalla carta d’identità che porta con sé, risulta chiamarsi Vincenzo Maggioni. Ventiquattro ore dopo il rinvenimento, gli inquirenti sono però in grado di stabilire che si tratta di Giangiacomo Feltrinelli, militante dei Gruppi d’Azione Partigiana.

NOME DI BATTAGLIA OSVALDO, FORMA LA PRIMA ORGANIZZAZIONE ARMATA CLANDESTINA, CHE COMPARE SULLA SCENA ITALIANA TRA L’APRILE E IL MAGGIO 1970. TRA LA FINE DEL ’70 E L’INIZIO  DEL ’71, I GRUPPI D’AZIONE PARTIGIANA SI PROCURANO UN CERTO NUMERO DI RADIO MODIFICATE PER INTERFERIRE SUI CANALI DELLE RETI NAZIONALI, PER POTER COSI’ INCORAGGIARE ALTRI GRUPPI ALL’AZIONE CLANDESTINA. 

26 MARZO 1972: IL SALUTO DALLE PAGINE DI POTERE OPERAIO 
  

Un rivoluzionario è caduto
Lo dipingono ora come un isolato, un avventuriero, come un deficiente o come un crudele terrorista. Noi sappiamo che dopo aver distrutto la vita del compagno Feltrinelli ne vogliono infangare e seppellire la memoria – come si fa con i parti mostruosi. Si, perchè feltrinelli ha tradito i padroni, ha tradito i riformisti. Per questo tradimento è per noi un compagno. Per questo tradimento i nostri militanti, i compagni delle organizzazioni rivoluzionarie, gli operai di avanguardia chinano le bandiere rosse segno di lutto per la sua morte. Un rivoluzionario è caduto.potereoperaioe28093feltrinelli

Giangiacomo Feltrinelli è morto. Da vivo era un compagno dei GAP (Gruppi d’Azione Partigiana) – una organizzazione politico-militare che da tempo si è posta il compito di aprire in Italia la lotta armata come unica via per liberare il nostro paese dallo sfruttamento e dall’ingiustizia. A questa determinazione Feltrinelli era arrivato dopo una bruciante e molteplice attività – dalla partecipazione alla guerra di liberazione, alla milizia nel PCI, all’impegno editoriale, alla collaborazione con i movimenti rivoluzionari dell’ America Latina. L’indimenticabile ’68, lo aveva spinto ad un ripensamento di tutta la sua milizia politica; la breve ma intensa confidenza con Castro e Guevara gli forniva gli strumenti teorici attraverso cui analizzare il fallimento storico del riformismo e, ad un tempo, la prospettiva da seguire per una ripresa del movimento rivoluzionario in Europa. La forte passione civile, la rivolta ad ogni forma di sopraffazione e di ingiustizia ( si pensi all’ attenzione con cui ha sempre seguito le rivendicazioni autonomiste delle minoranze linguistiche italiane ) lo spingevano a saltare i tempi, a bruciare le mediazioni. E’ l’inquietudine di cui parla oggi con disprezzo misto a compatimento il <<Corriere della sera>>. In realtà è l’inquietudine che porta con sè ogni uomo che non si adatti a vivere come un bue, che nutre un odio profondo per tutti i cani ed i porci dell’ umanità. Certo nell’azione di questo compagno ci sono stati errori, ingenuità, improvvisazioni. Grave soprattutto ci è sembrata e ci sembra, nel programma politico dei GAP, la sottovalutazione delle lotte operaie, della loro capacità di andare oltre il terreno rivendicativo per porre la questione dei rapporti di forza tra le classi cioè del potere politico. Ma i suoi errori, la sua impazienza, appartengono al movimento rivoluzionario e operaio; <<assalto al cielo>> che da qualche anno migliaia di militanti hanno cominciato a ricostruire dopo decenni di oscurità e di paura. Fanno parte di questo cammino che, come diceva Lenin, non è diritto e piano ma tortuoso e difficile, e dove accanto all’estrema determinazione di percorrerlo non v’è alcuna certezza sui tempi necessari a mandare in rovina lo stato delle cose presenti.

Il compagno Feltrinelli è morto. E gli sciacalli si sono scatenati. Chi lo vuole terrorista e chi vittima. Destra e sinistra fanno il loro mestiere di sempre. Noi sappiamo che questo compagno non è né una vittima, né un terrorista. E’ un rivoluzionario caduto in questa prima fase della guerra di liberazione dello sfruttamento. E’ stato ucciso perchè era un militante dei GAP. E carabinieri, polizia, fascisti esteri e nostrani lo sapevano e lo sanno benissimo. feltrinelligiangiacomoE’ stato ucciso perchè era un rivoluzionario che con pazienza e tenacia, superando abitudini, comportamenti, vizi, ereditati dall’ambiente alto-borghese da cui proveniva, s’era posto sul terreno della lotta armata, costruendo con i suoi compagni i primi nuclei di resistenza proletaria.E’ probabilmente vero che la ricerca affannosa che, da mesi, fascisti e servizi segreti vari avevano scatenato per prendere Feltrinelli, si è intensificata dopo il contributo ulteriormente portato dei GAP nello smascheramento dei mandanti e degli esecutori della strage del dicembre del ’69. E’ probabilmente vero che questo compagno ha commesso, per generosità, errori fatali di imprudenza – cadendo così in un’ imboscata nemica la cui meccanica è a tutt’ oggi oscura. Quello che è certo è che di questo assassinio si sono fatti complici tutti coloro che cercavano un <<mandante ed un finanziatore>> per l’attività dei gruppi rivoluzionari. Dal Secolo all’ Unità in una paradossale unità d’intenti dopo la manifestazione del giorno 11 a Milano, tutti hanno latrato : vogliamo il mandante, vogliamo il finanziatore. Come se la lotta di strada, la lotta di piazza avesse bisogno di finanziatori. Le bottiglie <<molotov>> sono generi di largo consumo nell’ Italia degli anni 70. Costano poche centinaia di lire. Come dire alla portata di qualsiasi militante. Sono le attrezzatissime bande fasciste, sono i giornali di partito senza lettori, sono le costose campagne di pubblicità elettorale, sono i mastodontici apparati di Partito che richiedono e trovano i finanziamenti di Cefis, di Agnelli, di Borghi, di Ravelli – oltrechè il generoso contributo delle casse statali e parastatali. Comunque loro – destra e sinistra – volevano il mandante, il finanziatore. Fascisti e servizi segreti glielo hanno trovato. Un cadavere straziato di un pericoloso rivoluzionario che aveva deciso di far sul serio è diventato utile per la bisogna – perchè era Giangiacomo Feltrinelli discendente di una delle famiglie più ricche del paese. Ed i giornali della borghesia si sono affrettati a sputare sopra il cadavere. Con tutto l’odio che si sente per un traditore. Perchè è vero. Giangiacomo Feltrinelli li aveva traditi. Aveva rotto con il suo ed in tre anni densi di attività minuta, continua e coraggiosa era diventato un rivoluzionario. E i miliardari che finanziano i partiti, si drogano al <<Number One>>, vogliono l’ordine e la morale nelle fabbriche e nelle scuole – e per questo utilizzano le bande fasciste – non possono perdonare questo figlio degenere.

 

 

Ode a San Pietro contro lo sciopero virtuale

27 febbraio 2009 Lascia un commento

Jean-Paul Sartre e la guerra d’Algeria…”L’Algérie n’est pas la France”

6 febbraio 2009 Lascia un commento

Jean-Paul Sartre e la guerra d’Algeria

Anche se in Francia, al tempo delle guerre coloniali, prevalevano nettamente il consenso mediatico e la repressione poliziesca, alcuni intellettuali di fama hanno saputo prenderne le distanze e collocarsi risolutamente al fianco dei movimenti per l’indipendenza, soprattutto a partire dalla cosiddetta insurrezione di Ognissanti che, nel novembre 1954, ha segnato lo scoppio della guerra d’Algeria. Jean-Paul Sartre fu tra questi intellettuali. Ad essi si aprirono le pagine di L’Express o di Les Temps modernes, che pure rischiavano di essere proibiti. Con la denuncia della tortura negata dai governi e dai media ufficiali, lo scrittore ha soprattutto smontato i meccanismi del sistema di oppressione coloniale. Un impegno ricco di insegnamenti anche per l’oggi.
 
L’impegno di Temps Modernes nella guerra dell’Algeria è antecedente rispetto a quello del suo fondatore e direttore, Jean-Paul Sartre. 

Algeri, 1960

Algeri, 1960

Nel maggio 1955, la rivista pubblica un numero speciale sul conflitto e, negli scritti di novembre, un articolo intitolato «L’Algérie n’est pas la France». Il tono è inequivocabile, e tale resterà nel tempo.
Les Temps Modernes subiranno una serie di sequestri, fino alla fine della guerra: ben quattro volte in Algeria, una volta in Francia.
Nel marzo 1956 è pubblicato il primo articolo di Sartre sul tema.
Con il titolo «Il colonialismo è un sistema», riprende un intervento effettuato in occasione di un incontro per la pace in Algeria , organizzato nella sala Wagram a Parigi il 27 gennaio 1956, sotto l’egida del Comitato d’azione degli intellettuali contro il proseguimento della guerra d’Algeria. L’articolo smonta i meccanismi politici ed economici del colonialismo e lancia un appello a combattere contro tale «sistema».
E tuttavia, la presa di coscienza anticolonialista di Sartre non risale a quell’occasione né alla rivolta algerina di Ognissanti nel 1954. Già da parecchi anni l’intellettuale sostiene, in Tunisia, la causa del Néo-Destour (1), in Marocco quella dell’Istiqlal (Indipendenza), al cui congresso partecipò nel 1948. Nel 1952, rilascia un’intervista al giornale di Ferhat Abbas, La République algérienne e, nell’autunno 1955, dichiara il suo appoggio al Comitato d’azione degli intellettuali contro il proseguimento della guerra d’Algeria. Francis Jeanson, collaboratore di Temps Modernes, che con la moglie Colette ha pubblicato L’Algérie hors la loi nel dicembre 1955, dà anch’egli il suo contributo all’evoluzione della posizione del filosofo.
Il momento della verità per l’impegno di Sartre in quanto individuo si verifica nel 1956. In gennaio, Guy Mollet, dirigente della Sezione francese guerre_algerie_alger_1957dell’Internazionale dei lavoratori (Sfio), diventa presidente del Consiglio. Due mesi dopo ottiene i poteri speciali, di cui si servirà per intensificare la guerra. Il voto favorevole dei comunisti in tale occasione avvia la rottura di Sartre con il Pcf, rottura che diverrà effettiva nel novembre successivo, allorché il Pcf approverà l’invasione dell’Ungheria da parte dei carri armati sovietici. Mohammed Harbi riassumerà così la situazione nel 1990: «Da questo momento, si verifica in lui uno scivolamento etico che lo conduce, per passi successivi, a scoprire un nuovo soggetto della Storia, più radicale del proletariato: i colonizzati. Ne beneficerà la causa algerina (2)».
Pubblicati tra il marzo 1956 e l’aprile 1962, i testi di Sartre (3) rivelano una vis polemica e un coraggio ben rari nei nostri tempi: la vita del filosofo era minacciata, il suo appartamento di rue Bonaparte è stato attaccato con la dinamite in due riprese per mano dell’Oas (l’Organizzazione dell’esercito segreto). Una cosa ben diversa dalle pseudo-provocazioni di oggi, destinate a lanciare le vendite di un libro o a scatenare gli inviti per parlarne sui media.
Nel 1957, lo scrittore e saggista tunisino Albert Memmi pubblica Portrait du colonisé, preceduto dal Portrait du colonisateur, i cui primi estratti sono pubblicati da Les Temps Modernes e Esprit. Sartre ne scrive sul numero di luglio-agosto di Les Temps Modernes, in un articolo che servirà successivamente da prefazione al libro (4). Un coraggio oggi molto raro Il testo ritorna diffusamente sul problema della violenza, già affrontato nel marzo dell’anno precedente in «Il colonialismo è un sistema». 

Retate e perquisizioni nella casbah

Retate e perquisizioni nella casbah

Sartre sottolinea in particolare: «La conquista è fatta con la violenza; il supersfruttamento e l’oppressione esigono il mantenimento della violenza, e di conseguenza la presenza dell’esercito. […] Il colonialismo nega i diritti umani a uomini che ha sottomesso con la violenza, che mantiene con la forza nella miseria e nell’ignoranza e quindi, come direbbe Marx, in una condizione di “sub-umanità”. Nei fatti stessi, nelle istituzioni, nella natura degli scambi e della produzione, è iscritto il razzismo(5)».
Come osserverà Mohammed Harbi, al binomio oppressore/oppresso ricorrente nel corpus degli articoli di Sartre, si trova qui correlato, implicitamente, il binomio colonizzatore/colonizzato. L’oppressione coloniale sembra estrinsecarsi al tempo stesso sul piano economico e su quello ideologico, e la tematica della «sub-umanità» continuerà ad essere al centro degli articoli che Sartre dedicherà alla guerra d’Algeria. Questa violenza assume di conseguenza diversi volti oppressivi. Il filosofo tornerà su questo punto all’indomani degli accordi di Evian, nell’aprile 1962: in un articolo intitolato «I sonnambuli» si legge la sua amarezza, ma anche la sua collera ancora vigorosa: «È doveroso dire che non è questo il momento di gioire: da sette anni la Francia è un cane impazzito che si trascina una casseruola legata alla coda, e che si spaventa ogni giorno un po’ di più per il suo stesso fracasso.
Nessuno oggi ignora che abbiamo rovinato, affamato, massacrato un popolo di povera gente per costringerlo a cadere in ginocchio. È rimasto in piedi. Ma a quale prezzo!(6)».
Arresti durante la battaglia d'Algeri

Arresti durante la battaglia d'Algeri

L’idea della «sub-umanità» deriva dal fatto che, per Sartre, i colonizzati sono stati «mantenuti da un sistema oppressivo al livello di bestie(7)», il che si è tradotto nella negazione sia del diritto che della cultura, violando il rispetto dei «diritti umani» invocato dalla Francia a ogni piè sospinto. Un famoso testo di Sartre tratta con particolare insistenza queste tematiche della «violenza» e della «sub-umanità»: la prefazione che scrive nel settembre 1961 a I dannati della terra di Frantz Fanon. Psichiatra della Martinica che abbraccia ben presto la lotta indipendentista algerina, membro del Governo provvisorio della repubblica algerina (Gpra), animatore di El Moudjahid clandestino, Fanon si è già guadagnato una certa notorietà scrivendo i saggi Pelle nera, maschere bianche (1952) e L’anno V della Rivoluzione algerina (1959). L’incontro – intellettuale ma anche fraterno fra questi due uomini che diventeranno amici – segnerà profondamente l’itinerario di Sartre.

I dannati della terra, saggio-breviario della lotta anticolonialista e terzomondista, descrive nei più minuti particolari i meccanismi della violenza attivati dal colonialismo per ridurre in schiavitù il popolo oppresso. Nella sua prefazione, Sartre sostiene senza riserve le tesi di Fanon e le fa sue, col suo stile tutto particolare. Scrive fra l’altro: «[…] è stato dato l’ordine di abbassare gli abitanti del territorio annesso al livello di scimmia superiore per giustificare il fatto che il colonizzatore li tratti come bestie da soma. La violenza coloniale non si propone soltanto lo scopo di tenere a debita distanza questi uomini ridotti in schiavitù, cerca anche di disumanizzarli.
guerre-algerie-arrestationNon si lascerà nulla di intentato per annientare le loro tradizioni, per sostituire le nostre lingue alle loro, per distruggere la loro cultura senza dar loro la nostra; saranno abbrutiti dalla fatica (8)». Lo stesso termine di «bestia» sarà utilizzato anche a proposito della tortura: per i carnefici, dirà Sartre, «la cosa più urgente, se c’è ancora tempo, consiste nell’umiliare [le loro vittime], nello sradicare l’orgoglio dal loro cuore, nel ridurli al livello della bestia»(9).
Il primo articolo che Sartre ha dedicato interamente alla denuncia della tortura, «Siete formidabili», esce su Les Temps Modernes nel maggio 1957. In un primo tempo si intitolava «Un’impresa di demoralizzazione» ed era stato commissionato da Le Monde che però lo rifiutò, giudicandolo troppo violento. Appena due mesi prima era stata pubblicata una raccolta di testimonianze di giovani reclute, in massima parte preti ed elemosinieri.
La prefazione collettiva «Testimonianze dei richiamati» porta le firme in particolare di Jean-Marie Domenach, Paul Ricoeur e René Rémond. Sartre commenta l’opera insorgendo contro la complicità dei francesi e dei media, capaci unicamente di portare soccorso in nome dell’umanitarismo, come in una popolare trasmissione di Jean Nohain («Vous êtes formidables»). Sartre denuncia con vigore la tortura, ma anche le altre forme di violenza in atto in Algeria, che «hanno in comune la capacità di rivelare questa cancrena […], l’esercizio cinico e sistematico della violenza assoluta. Saccheggi, stupri, rappresaglie esercitate ai danni della popolazione civile, esecuzioni sommarie, ricorso alla tortura per strappare confessioni o informazioni (10)».9788824505826g
La metafora dalla cancrena – che si inquadra nel campo semantico della malattia, visitato di frequente in questi testi di Sartre – sarà riutilizzata un anno dopo, nella critica del libro di Henri Alleg, La Question. L’opera, pubblicata nel febbraio 1958 per le Editions de Minuit, dà luogo nel marzo di quell’anno a un numero speciale di Temps Modernes. Militante del Partito comunista algerino (Pca), direttore di Alger républicain dal 1950 fino a quando ne sarà vietata la pubblicazione nel settembre 1955, Alleg viene arrestato dai parà nel giugno 1957 e torturato nel centro di smistamento di El-Biar. La Question, primo documento di questo genere a conquistarsi un vero pubblico, viene sequestrato il 28 marzo 1958. A quel punto, André Malraux, Roger Martin du Gard, François Mauriac e Sartre rivolgono un solenne appello al presidente della Repubblica (cui rifiuta di associarsi invece Albert Camus). Il 30 maggio Sartre partecipa, con la moglie di Henri Alleg, Laurent Schwartz e François Mauriac, a una conferenza stampa su «le violazioni dei diritti umani in Algeria».
L’8 marzo precedente, quando era uscita La Question, Sartre aveva scritto su L’Express un articolo intitolato «Una vittoria», che provocò il sequestro del settimanale, allora diretto da Jean-Jacques Servan-Schreiber.
Sartre scriveva in particolare: «Sapete cosa si dice a volte per giustificare i carnefici: bisogna pur decidersi a tormentare un uomo, se le sue confessioni permettono di risparmiare centinaia di vite.
Che ipocrisia. Alleg non era un terrorista così come non lo era Audin (11); prova ne è che è stato accusato di “attentato alla sicurezza dello stato e di ricostituzione di associazione dissolta”. Volevano salvare delle vite umane quando gli hanno bruciato i seni, il pelo del sesso? No, volevano estorcergli a forza l’indirizzo del compagno che lo aveva ospitato. Se avesse parlato, sarebbero riusciti a mettere sotto chiave un comunista in più: tutto qui. E poi gli arresti si fanno a casaccio; qualsiasi musulmano può essere “interrogato” a loro discrezione: la maggior parte dei torturati non dice nulla perché non ha nulla da dire (12)». Ed ecco ora l’intellettuale riprendere la metafora della malattia contagiosa: «E d’altronde la cancrena si estende, ha attraversato il mare: è corsa addirittura voce che gli interrogatori si effettuassero anche in alcune prigioni della “Metropoli” (13)».
Una volta che l’Algeria è diventata un problema di politica interna francese, Sartre allarga l’analogia al di là dei confini del colonialismo, scrivendo nel settembre 1958, a proposito del referendum relativo all’adozione, il mese successivo, della Costituzione della V Repubblica: «Il corpo elettorale è un tutto indivisibile; quando arriva la cancrena, si estende immediatamente a tutti gli elettori» (14). La stessa immagine era stata utilizzata nel 1955 dallo scrittore delle Antille Aimé Césaire nel suo Discorso sul colonialismo: «Sarebbe necessario studiare innanzitutto in che modo la colonizzazione opera per privare della sua civiltà il colonizzatore […] una regressione universale che si attua, una cancrena che si insedia, un focolaio d’infezione che si estende sempre più (15)». Questa immagine assumerà altre forme, come ad esempio questo passaggio della prefazione a I dannati della terra in cui Sartre apostrofa i francesi: jean-paul_sartre«Non è bene, miei compatrioti, voi che conoscete tutti i crimini commessi nel nostro nome, non è assolutamente bene che voi non ne facciate parola con nessuno, neppure con la vostra anima, per timore di dovervi giudicare. All’inizio non sapevate, voglio crederlo, poi avete dubitato, adesso sapete, ma continuate sempre a tacere. Otto anni di silenzio, è degradante.
[…] Oggigiorno, basta che si incontrino due francesi, perché ci sia un morto tra loro. E quando dico uno… La Francia un tempo era il nome di un paese; facciamo attenzione perché non diventi, nel 1961, il nome di una nevrosi (16)».
Fin dal suo primo articolo del 1956, Sartre insiste sul silenzio dei francesi di fronte all’orrore, nella speranza di far loro comprendere che il colonialismo impegna la loro responsabilità collettiva. Attacca con toni martellanti il dominio coloniale che si oppone agli ideali ai quali dichiara di ispirarsi la Francia: «Quante chiacchiere: libertà, eguaglianza, fraternità, amore, onore, patria, e che altro? Tutto ciò non ci impediva di fare nel contempo discorsi razzisti, sporco negro, sporco ebreo, sporco topo (17)» – ma, peggio ancora, sinonimo di fascismo: «È la nostra vergogna, si fa beffe delle nostre leggi o le riduce a una caricatura; ci infetta col suo razzismo […].
Obbliga i nostri giovani a morire loro malgrado per i principi nazisti che combattevamo dieci anni fa; tenta di difendersi suscitando un fascismo perfino a casa nostra, in Francia. Il nostro ruolo è aiutarlo a morire. Non soltanto in Algeria, ma dovunque esista. […]. L’unica cosa che potremmo e dovremmo tentare – ma oggi come oggi è l’essenziale – è lottare al suo fianco per liberare dalla tirannia coloniale al tempo stesso gli algerini, e i francesi (18)».
Dal silenzio alla complicità, il passo è breve, e Sartre lo illustra in «Vous êtes formidables». La sua collera lo spinge a rievocare una storia relativamente recente, quella della seconda guerra mondiale: «Falsa ingenuità, fuga, malafede, solitudine, mutismo, complicità rifiutata e, insieme, accettata, è questo quello che abbiamo chiamato, nel 1945, la responsabilità collettiva. All’epoca non era necessario che la popolazione tedesca sostenesse di avere ignorato l’esistenza dei campi. “Ma andiamo” dicevamo. “Sapevano tutto!” Avevamo ragione, sapevano tutto, e soltanto oggi siamo in grado di comprenderlo: perché anche noi sappiamo tutto. […] Oseremo ancora condannarli? Oseremo ancora assolverci? (19)».
Leggete Fanon. Questa analogia non l’ha vista soltanto Sartre. Si inserisce nel discorso più generale della stampa schierata a favore dell’indipendenza algerina, da L’Express a France Observateur – su cui Claude Bourdet pubblica nel gennaio 1955 «La vostra Gestapo d’Algeria» – passando per Esprit. E Sartre incalza implacabile: «I crimini che si commettono in nostro nome è necessario che ne siamo personalmente complici, perché è ancora in nostro potere fermarli» (20).
y1pxrrxg10mzpv4phj2l8c8b7aarigczkopltrjvmph7fi_gzlz3hj2_vtoo02xxzz5La mistificazione dei governanti sfrutta la complicità del mass media, che desiderano che i francesi non sappiano che cosa succede in Algeria: «Nascondere, ingannare, mentire: è un dovere, per gli informatori della Metropoli; l’unico crimine sarebbe quello di turbarci (21)».
Tutto l’insieme si configura anche come il segno della decadenza di una civiltà: «Febbrile e prostrata, ossessionata dai suoi vecchi sogni di gloria e dal presentimento della sua vergogna, la Francia si dibatte in preda a un incubo indistinto che non è in grado né di scacciare né di decifrare. O faremo chiarezza, o creperemo (22)».
Il filosofo utilizza quest’ultimo verbo, che rinnega qualsiasi litote, per reagire al criminoso cinismo dei dirigenti, a cui fa dire: «Mollet, in nome della Compagnia, ha fatto cadere il fulmine su quei fellah insolenti: che crepino di miseria, purché agli azionisti di Suez arrivino i loro dividendi (23)».
Ma il contagio non si fermerà ai confini dell’Occidente. La malattia dilagherà fra i colonizzati: «L’essere indigeno è una nevrosi introdotta e alimentata dal colonizzatore fra i colonizzati con il loro consenso» (24) scrive Sartre nella prefazione a I dannati della terra. La «follia», ormai intrinseca ai comportamenti della sinistra francese e agli «agenti del colonialismo», colpirà anche i colonizzati. Stavolta, tuttavia, essi se ne impadroniranno, la faranno propria: «Leggete Fanon: saprete che, al tempo della loro impotenza, la folla omicida è l’incoscio collettivo dei colonizzati» (25).
Facendosi garante della loro reazione, secondo l’esempio di Fanon, Sartre opera un ribaltamento assiologico: affida un valore positivo alla «follia», rivolta dall’oppresso contro l’oppressore per sbarazzarsi della sua schiavitù, per sottrarsi al dominio coloniale. E allora Sartre può concludere: «Guariremo? Sì. La violenza, come la lancia d’Achille, può cicatrizzare le ferite che ha inflitto […] È questo l’ultimo momento della dialettica: voi condannate questa guerra, ma non osate ancora dichiararvi solidali con i combattenti algerini; non abbiate timore, fate affidamento sui coloni e sui mercenari: vi spingeranno all’estremo passo. Forse, allora, con le spalle al muro, potrete finalmente dar libero corso a questa violenza nuova che suscitano in voi vecchi misfatti triti e ritriti. Ma questa, come si usa dire, è un’altra storia. Quella dell’uomo. Si avvicina il momento, ne sono sicuro, in cui noi ci uniremo a quelli che fanno la storia (26)».
tikhomiroff_algeriQuella di Sartre durante la guerra di Algeria non è stata esclusivamente una «battaglia di scritti». Impegnato, l’intellettuale lo è stato, e su tutti i fronti che gli imposero gli eventi. Intervenne in numerosi incontri per la pace in Algeria (ad esempio nel giugno 1960 e, nel dicembre 1961, a Roma); partecipò alla manifestazione silenziosa del 1° novembre 1961 dopo i massacri del 17 ottobre, a quella del 13 febbraio 1962 per protesta contro la repressione assassina alla metropolitana di Charonne; testimoniò a numerosi processi di «porteurs de valise», fra cui quello, emblematico, del settembre 1960, noto come «processo Jeanson». «Utilizzatemi come volete», aveva insistito Sartre, che aveva appena firmato il «Manifesto dei 121»(27), prima di partire per l’America latina, per sostenere anche laggiù la causa dell’indipendenza algerina. «Fucilate Sartre!» era lo slogan scandito dai movimenti di ex combattenti in una manifestazione dell’ottobre 1960. Nel luglio 1961 e nel gennaio 1962, il suo appartamento subì due attacchi dinamitardi. «Dove sono adesso i selvaggi? Dov’è la barbarie? Non manca più nulla, neppure il tam-tam: i clacson battono il ritmo “Algeria francese”, mentre gli europei bruciano vivi i musulmani (28)», gridava Sartre nella prefazione a I dannati della terra.
«Quanto è più facile non fare caso agli oggetti pericolosi, lavorare semplicemente per dare un’ultima levigata a quel bello strumento universale che è la Ragione! Riposare nel silenzio, nel felice dormiveglia conformista durante il quale lo Spirito metterà tutto in ordine», esclamava Paul Nizan, compagno di Sartre all’Ecole normale, ne I cani da guardia, nel 1932 (29). «Non recuperabile», la voce di Sartre disturba ancora. Ci permette di osservare con minore vergogna questo periodo della nostra storia. Un intellettuale, fedele alla sua concezione dell’impegno del chierico, mise la sua penna e la sua notorietà al servizio di una causa che riteneva giusta. Per lui, come d’altronde per Jeanson, quella battaglia meritava ancor più di essere combattuta, perché avrebbe permesso agli algerini di non avere come unica immagine della Francia quella di uno stato che con i suoi parà infliggeva la tortura nelle carceri.
La riconciliazione franco-algerina esigeva agli occhi di Sartre che i francesi si confrontassero con la realtà della loro storia algerina: «Sapete benissimo che siamo degli sfruttatori. Sapete benissimo che abbiamo preso l’oro e i metalli, poi il petrolio dei “nuovi continenti”, e li abbiamo riportati nelle vecchie metropoli. […] L’Europa, ingozzandosi di ricchezze, ha accordato de iure l’umanità a tutti i suoi abitanti: un uomo, da noi, vuol dire un complice, perché abbiamo tutti approfittato dello sfruttamento coloniale (30)». Non siamo sicuri che queste parole si possano ascoltare più facilmente oggi che non nel 1962.
 
di Anne Mathieu *
* Direttrice della rivista Aden.
 
(1) Destour: «Costituzione»; partito dell’indipendenza tunisina, scisso in due rami, una islamizzante, il Vecchio Destour, e l’altra più modernista, il Neo Destour.
(2) Mohammed Harbi, «Una coscienza libera», Les Temps Modernes, Parigi, ottobre-dicembre 1990, p. 1034.
(3) Tutti pubblicati su Situations V, Gallimard, Parigi, 1964. Vedere Michel Contat e Michel Rybalka, Les Ecrits de Sartre, Gallimard, Parigi, 1970.
(4) Nel 2004, Albert Memmi pubblicherà Portrait du décolonisé arabo-musulman et de quelques autres, Gallimard, Parigi, 2004.
(5) Les Temps Modernes, luglio-agosto 1957 e Situations V, op. cit., pp. 51-52.
(6) «I sonnambuli», Les Temps Modernes, aprile 1962, in Situations V, op. cit., p. 161.
(7) «Ritratto del colonizzato», Situations V op. cit., p. 56. 
(8 ) In Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, 2000.
(9) «Una vittoria», L’Express, 6 marzo 1958; in Situations, V, p. 86.
(10) «Vous êtes formidables», p. 57.
(11) Ndr: Maurice Audin, matematico e universitario comunista è assassinato dai parà francesi il 21 giugno 1957, strangolato da uno dei suoi aguzzini durante un interrogatorio.
(12) L’Express, 6 marzo 1958. In Situations, V, p. 81.
(13) Ibidem, p. 80.
(14) «La Costituzione del disprezzo», L’Express, 11 settembre 1958.
In Situations, V, p. 105.
(15) Aimé Césaire, Discours sur le colonialisme, Présence africaine, 1955, p. 11. Nel 1959, questa metafora della malattia darà il suo titolo a una raccolta di testimonianze di studenti algerini torturati a Parigi nel dicembre 1958. L’opera (La Gangrène, Parigi, Editions de Minuit; trad.it. La cancrena, Einaudi, 1959) sarà anch’essa sottoposta a sequestro.
(16) I dannati della terra, op. cit.
(17) Situation V, p. 187.
(18 ) «Il colonialismo è un sistema», op. cit., pp. 47-48. Le sottolineature sono opera di Sartre
(19) «Vous êtes formidables», op. cit., p. 66.
(20) Ibidem, p. 59.
(21) Ibidem, p. 59.
(22) Ibidem, p. 58.
(23) «Il fantasma di Stalin», Les Temps Modernes, novembre-dicembre 1956-gennaio 1957. In Situations VII, p. 153. Qui Sartre evoca la spedizione franco-britannica del novembre 1956 contro l’Egitto, poco dopo la decisione di Nasser di nazionalizzare la compagnia del Canale di Suez.
(24) I dannati della terra, op. cit., p. 181. Le sottolineature sono opera di Sartre.
(25) Ibidem, p. 179.
(26) Ibidem, pp. 192-193.
(27) «Dichiarazione sul diritto alla non sottomissione nella guerra d’Algeria». Esponendo così le loro posizioni i firmatari provocarono direttamente lo stato francese. Leggere Laurent Schwartz, «In nome della morale e della verità», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2000.
(28 ) Situations V, op. cit. p. 190.
(29) Paul Nizan, I cani da guardia, La Nuova Italia, 1970.
(30) Situations V, p. 187.
(Traduzione di R. I.)
da LE MONDE diplomatique – Novembre 2004
 

PROSEGUE RAPIDA LA COSTRUZIONE DI INSEDIAMENTI ISRAELIANI IN TERRITORIO PALESTINESE

28 gennaio 2009 Lascia un commento

La colonizzazione della West Bank continua a passo rapido. Gli insediamenti israeliani nei Territori Occupati crescono a vista d’occhio con una percentuale molto più alta dello scorso anno, cosa che alimenta l’impossibilità di vivere per i palestinesi, cosa che continua ad annullare qualunque idea di una continuità geografica del territorio palestinese ridotto a Bantustan circondati da un muro alto otto metri.
Un’agenzia stampa di pochi minuti fa dice: Nel 2008 il numero di nuove abitazioni negli insediamenti ebraici in Cisgiordania è cresciuto del 69 per cento rispetto all’anno precedente: lo rivela un rapporto dell’organizzazione ‘Peace Now’. In particolare sarebbero 1.518 le abitazioni realizzate lo scorso anno contro le 898 del 2007. Tale sviluppo si riflette sulla popolazione ebraica nella West Bank salita dalle 270 mila unità del 2007 alle 285 mila dello scorso anno, con un tasso di crescita superiore a quello di Israele. Sulla questione degli insediamenti, inoltre, pesa la promessa elettorale del leader del Likud Benyamin Nethanyahu che – in caso di vittoria nelle elezioni di febbraio – si è impegnato a permetterne lo sviluppo, considerato da molte parti come uno dei principali ostacoli alla definizione di un accordo di pace con i palestinesi.

POI CI PARLANO DEL PROCESSO DI PACE, DI HAMAS CHE CON I RAZZI BLOCCA QUALUNQUE POSSIBILITA’ DI TREGUA.
MA L’UNICA TREGUA DI ISRAELE E’ QUELLA DELL’OCCUPAZIONE MILITARE, DELLA CRESCITA DEGLI INSEDIAMENTI, DEL FURTO DI RISORSE IDRICHE E DI TERRA FERTILE. UNO STATO OCCUPANTE NON E’ DIFENDIBILE: QUELLA CHE LORO CHIAMANO PACE NON E’ ALTRO CHE APARTHEID, INACCETTABILE APARTHEID.
NESSUNA PACE SOTTO OCCUPAZIONE, NESSUNA PACE CON CHI RUBA LA TERRA ALTRUI, CON CHI STUPRA LA TERRA E UN INTERO POPOLO DA 61 ANNI!

CONTRO L’OCCUPAZIONE MILITARE DELLA CISGIORDANIA E DELLA STRISCIA DI GAZA
PER IL DIRITTO ALLA VITA DEL POPOLO PALESTINESE, PER L’ABBATTIMENTO DEGLI INSEDIAMENTI ISRAELIANI!

Comunicato del braccio militare del FPLP

14 gennaio 2009 Lascia un commento

Il braccio militare del FPLP: la Resistenza è impegnata in una dura battaglia in tutta Gaza

Tratto da: http://www.pflp.ps/english/

Il 10 gennaio 2009, le Brigate Abu Ali Mustafa (AAMB), il braccio armato del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, hanno affermato che, l’intera Resistenza palestinese è impegnata in duri scontri in tutta Gaza, sottolineando le forze d’occupazione hanno usato quasi tutto il loro imponente arsenale militare contro il nostro popolo, ma ancora falliscono miserabilmente di fronte alla fermezza della nostra gente e alla nostra Resistenza.
Le AAMB hanno affermato anche che l’attivo coordinamento tra i vari bracci armati della resistenza deve svilupparsi al fine di costituire un comitato per le azioni congiunte in grado di continuare la battaglia contro l’occupante e capace di impattare il più possibile con le forze nemiche.fplpcorteo
Le AAMB hanno affermato inoltre che la Risoluzione 1860 del Consiglio di Sicurezza ONU tenta di porre sullo stesso piano i carnefici e le loro vittime, e che il nostro popolo ha il diritto di resistere e di rispondere all’aggressione, in quanto non ha altre alternative se non la continuazione della resistenza fino alla fine dell’aggressione.
Le AAMB hanno riportato gli avanzamenti della resistenza, sottolineando che, sabato 10 gennaio, i combattenti delle Brigate sono stati impegnati in duri scontri con le forze occupanti a Jabal al-Rais con 3 pesanti esplosioni, effettuate utilizzando un tunnel nella serata del 10 Gennaio, attaccando i mezzi militari degli occupanti col risultato di danneggiarli gravemente.
In più, le AAMB hanno annunciato che hanno sparato colpi di mortaio a Azata e due missili Grad a Bir Saba nella prima parte del giorno, oltre ai 32 missili che la resistenza palestinese ha diretto verso il cuore dell’occupazione. Le forze della Resistenza palestinese hanno sottolineato inoltre che i loro missili sono arrivati a colpire una delle principali basi aeree israeliane a 45 km di distanza, il punto più lontano raggiunto dai missili della Resistenza. Imboscate e attacchi contro i soldati israeliani e feroci scontri con le forze occupanti si stanno tenendo in tutta Gaza da parte di tutte le forze della Resistenza, comprese le Brigate al-Qassam, Saraya al-Quds, Brigate Al-Aqsa, Brigate della Resistenza Nazionale, Brigate Nasser Salah ad-Din, i Comitati di Resistenza Popolare e tutte le forze.

Verso la vittoria!
 

 

Il compagno Taher: la strada dei “negoziati” è chiusa, quella aperta è l’unità basata su resistenza e diritti

Tratto da: http://www.pflp.ps/english/

Il 15 gennaio 2009, il compagno Maher Taher, membro dell’Ufficio Politico del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e leader della sua sezione in esilio, ha dichiarato, in un’intervista con Al-Jazeera, che “Israele può assassinare i martiri di Gaza, uccidere donne e bambini, distruggere i nostri edifici pietra per pietra con gli aerei e le bombe statunitensi, ma non è e non sarà mai capace di distruggere la nostra volontà di combattere, la nostra resistenza e la nostra vita.”
Il compagno Taher ha proseguito: “Dico ai martiri che ciò che l’occupante vuole da questa battaglia è condurci sulla via della capitolazione – farci accettare la Road Map, Annapolis e le decisioni del Quartetto, costringere il popolo palestinese su questa strada con concessioni politiche. La nostra risposta è l’unità nazionale palestinese su basi reali e solide, non sulle basi di Oslo, Annapolis, e con gli U.S.A. e l’amministrazione Bush come riferimento. Questa strada è chiusa. Quella aperta è la via dell’unità nazionale sulla base della resistenza, della tenacia e del sostegno ai pieni diritti del nostro popolo.”
A nome del FPLP ha fatto appello per un comando nazionale unificato che comprenda tutte le organizzazioni palestinesi, da costruire sulla forza di Hamas, Fatah, FPLP, Jihad islamica e di tutte le organizzazioni del nostro popolo, affermando che quanti hanno fiducia in accordi politici con gli assassini e i criminali sionisti dovranno rivedere le proprie politiche. Ha sostenuto che il popolo palestinese non tollererà ancora a lungo questi massacri e questi crimini.
Il compagno Taher ha avvertito che la cooperazione con l’occupante in materia di sicurezza deve cessare subito e che altrettanto deve accadere con le detenzioni politiche. Ha chiesto la fine immediata degli arresti dei figli della resistenza in Cisgiordania, ribadendo che una simile cooperazione col nemico è assolutamente inaccettabile. Invece, ha sostenuto, una leadership nazionale unificata ed un chiaro programma politico possono consolidare l’energia del nostro popolo che non ha alzato bandiera bianca anche dopo 20 giorni di massacri a Gaza, né lo farà in futuro.
fplpIl compagno Taher ha poi affermato che l’assassinio di Said Siyam non permetterà all’occupante di raggiungere il suo obiettivo criminale, e che il suo sangue è insieme a quello di Yasser Arafat, Abu Ali Mustafa, Ahmad Yassin, Ghassan Kanafani, Fathi Shikaki, Khalil al-Wazir e a quello di molti altri martiri del nostro popolo e di tutti i nostri coraggiosi martiri – bambini, uomini, donne, vecchi – che hanno reso l’estremo sacrificio per la libertà della nostra gente. Ha ribadito che la nostra risposta ai massacri e agli assassini sono la resistenza e la fermezza e che il sangue dei martiri non sarà versato per nulla. Ha avvertito che quello israeliano è uno sforzo per costringere il popolo a concessioni politiche, e alla rinuncia ai nostri diritti nazionali all’indipendenza, al ritorno, alla sovranità, all’autodeterminazione, ad uno stato palestinese con Gerusalemme capitale; ma accadrà l’esatto opposto: l’unità di tutte le organizzazioni sulla base di salde convinzioni politiche e l’appoggio ai diritti nazionali del nostro popolo.
Discutendo sulla natura dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), il compagno Taher ha asserito che i membri del Consiglio Legislativo ed il governo non possono lasciare la Palestina senza l’assenso di Israele e che la pratica dei “negoziati” dell’ANP ha solo danneggiato la causa palestinese. Ha invece fatto appello all’unità, basata sul documento dei prigionieri per una riconciliazione nazionale, che sostenga il diritto alla resistenza, i principi nazionali palestinesi e che ricostruisca l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) con la partecipazione di tutte le forze nazionali ed islamiche.

Infine, il compagno Taher ha dichiarato, parlando a proposito dell’iniziativa egiziana: “Noi vogliamo fermare l’aggressione e questi massacri; dopo il ritiro da Gaza, l’apertura dei confini e la fine dell’assedio potremo discutere di qualsiasi questione, ma non possiamo rinunciare e non rinunceremo al nostro diritto a resistere”. L’occupante crede, ha sottolineato, che attraverso il terrore e gli omicidi può annichilire la nostra resistenza, ma il nostro popolo non si arrenderà: ha combattuto per oltre 60 anni e continuerà a stringersi saldamente alla nostra resistenza e così farà fino alla vittoria.

Traduzione a cura del Collettivo Autorganizzato Universitario – Napoli

coll.autorg.universitario@gmail.com
http://cau.noblogs.org

sempre dall’Ellade

19 dicembre 2008 1 commento

Sono tutti molto stanchi…dopo 13 giorni di battaglia giorno e notte, quello che si nota da lontano è l’infinita stanchezza di un’intera generazione che sa di non potersi fermare.

Foto di Valentina Perniciaro _lacrime e macerie_

Foto di Valentina Perniciaro _lacrime e macerie_

Una generazione che almeno non voleva la provocazione di quell’albero di nuovo acceso, di quelle casse che sparano a tutto volume OH HAPPY DAYS, mentre accanto si lavora per rimettere i vetri delle banche, delle gioiellerie, mentre le ruspe  portano via brandelli di automobili bruciate, distrutte, ridotte in un nulla.
Le facoltà non sanno se riusciranno a portare avanti le occupazioni ancora per molto: l’organizzatissima facoltà di economia ha deciso di chiudere l’occupazione domenica sera, perchè assolutamente privi di altre forze.
E poi anche perchè le feste sono ormai arrivate, molti dovranno lasciare la città per tornare nei propri paesi.
Atene è una città che incamera praticamente tutta la Grecia…qui si studia, qui si lavora, qui ormai si combatte la battaglia contro questo stato corrotto, sfruttatore e soprattutto armato.
I reparti speciali anti sommossa (M.A.T.) fanno paura, non tanto per il numero perchè i drappelli non sono così numerosi, ma per il modo in cui si muovono e agiscono.

_dsc0667Camminano tutti in fila indiana per poi scattare all’improvviso con quello strano fucile spara gas…non caricano mai…sparano lacrimogeni e si divertono a spuntare dal nulla, per prendersi qualcuno.
Ieri hanno arrestato anche un militare in licenza… sono brutti e estremamente giovani, la loro età impressiona non poco.

Tra poco concentramento al Syntagma..un concerto riunirà il movimento, le varie facoltà occupate e le strutture che in questi giorni si sono riunite.
Si spera che quell’albero di natale non continui ad illuminare quella piazza..
ci si aggiorna in nottata.

La più grande prigione del mondo

14 dicembre 2008 Lascia un commento

La mega-prigione della Palestina

di Ilan Pappe (1)

In diversi articoli pubblicati da The Electronic Intifada, ho affermato che Israele sta attuando una politica di genocidio contro i palestinesi nella Striscia di Gaza, mentre continua la pulizia etnica della Cisgiordania. Ho affermato che la politica di genocidio è il risultato di una mancanza di strategia. L’argomento è il seguente: poiché la classe dirigente politica e militare non sa come gestire la Striscia di Gaza, essa ha scelto una reazione

Foto di Valentina Perniciaro

Foto di Valentina Perniciaro

automatica consistente nell’uccisione massiccia di cittadini ogni volta che questi osano protestare per forzare [in qualche modo] il loro strangolamento e il loro imprigionamento. Il risultato è stato finora un’escalation di uccisioni indiscriminate dei palestinesi – più di cento nei primi giorni del Marzo 2008 – giustificando sfortunatamente l’aggettivo “genocida” che io ed altri abbiamo utilizzato per definire questa politica. Ma non era ancora una strategia.
Tuttavia, nelle settimane più recenti, è emersa una strategia più chiara da parte di Israele nei confronti della Striscia di Gaza e del suo futuro, e questa strategia è parte della nuova impostazione complessiva riguardante il destino dei territori occupati in generale. Si tratta, nell’essenziale, di un affinamento dell’unilateralità adottata da Israele sin dal fallimento dei “colloqui di pace” di Camp David nell’estate del 2000. L’ex Primo Ministro d’Israele Ariel Sharon, il suo partito Kadima, e il suo successore Primo Ministro Ehud Olmert, hanno delineato molto chiaramente quello che l’unilateralità comportava: Israele avrebbe annesso circa il 50% della Cisgiordania, non come estensione omogenea ma come lo spazio complessivo degli insediamenti, delle strade separate, delle basi militari, e dei parchi nazionali (che sono aree interdette ai palestinesi). Questo è stato più o meno attuato negli ultimi otto anni. Queste entità puramente ebraiche hanno frammentato la Cisgiordania in 11 piccoli cantoni e sotto-cantoni, separati gli uni dagli altri da questa pervasiva presenza coloniale ebraica. La parte più importante di quest’invasione è il cuneo più grande di Gerusalemme, che divide la Cisgiordania in due regioni separate senza collegamenti di terra per i palestinesi. Il muro viene così allungato e reincarnato in vario modo per tutta la Cisgiordania, accerchiando a volte singoli villaggi, quartieri e città. L’immagine cartografica di questo nuovo assetto dà un’indicazione della nuova strategia nei confronti sia della Cisgiordania che della Striscia di Gaza. Lo stato ebraico del 21° secolo sta per completare la costruzione di due mega-prigioni, le più grandi – nel loro genere – della storia umana.

Foto di Valentina Perniciaro _Alture del Golan dopo il passaggio dell'Esercito israeliano

Foto di Valentina Perniciaro _Alture del Golan dopo il passaggio dell’Esercito israeliano

Esse sono fatte in modo differente: la Cisgiordania è fatta di piccoli ghetti e quella di Gaza è da sola un gigantesco mega-ghetto. C’è un’altra differenza: la Striscia di Gaza è adesso, nell’immaginazione distorta degli israeliani, la prigione dove sono imprigionati i “detenuti più pericolosi”. La Cisgiordania, d’altro canto, è ancora gestita come un gigantesco complesso di prigioni all’aria aperta sotto forma di normali agglomerati umani, come villaggi o città, collegati e supervisionati da un’autorità carceraria dotata di una forza militare enorme e violenta.
Secondo gli israeliani, la mega-prigione della Cisgiordania può essere definita uno stato. Yasser Abed Rabbo, consigliere del Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmud Abbas, ha minacciato – negli ultimi giorni del Febbraio 2008 – gli israeliani [dell’eventualità] di una dichiarazione d’indipendenza unilaterale, ispirata dai recenti avvenimenti del Kosovo. Tuttavia, sembra che nessuno da parte israeliana abbia avuto molto da ridire su quest’idea. Questo è più o meno il messaggio che uno sbalordito Ahmed Qurei, il negoziatore palestinese per conto di Abbas, ha ricevuto da Tzipi Livni, il Ministro degli Esteri israeliano, quando le ha telefonato per rassicurarla che Abed Rabbo non stava parlando a nome dell’Autorità Palestinese. Egli ha avuto l’impressione che la di lei preoccupazione principale era in realtà quella opposta: che l’Autorità Palestinese non sia d’accordo nel chiamare “stato”, nel prossimo futuro, le mega-prigioni.

Questa riluttanza, insieme all’insistenza di Hamas di voler resistere al sistema della mega-prigione con una guerra di liberazione, ha costretto gli israeliani a ripensare la loro strategia verso la Striscia di Gaza. Quello che trapela è che neppure i membri più disponibili dell’Autorità Palestinese sono disposti ad accettare la realtà della mega-prigione offerta come se fosse la “pace” o persino come se si trattasse della “costituzione di due stati”. E Hamas e la Jihad islamica sono arrivati a tradurre questa riluttanza negli attacchi con i razzi Qassam contro Israele. Così il modello della più pericolosa delle prigioni è andato avanti: gli strateghi dell’esercito e del governo si sono imbarcati in una “gestione” a lungo termine del sistema da essi messo in piedi, nel momento stesso in cui dichiaravano di impegnarsi in un “processo di pace” sostanzialmente insignificante, con molto poco interesse da parte della comunità internazionale, e una continua lotta dall’interno [dello Stato d’israele] contro di esso.

In questo quadro la Striscia di Gaza viene ora vista come la prigione più pericolosa, e quella contro cui impiegare i mezzi punitivi più brutali. Uccidere i “detenuti” con bombardamenti aerei o di artiglieria, o per mezzo dello strangolamento economico, sono i risultati non solo inevitabili dell’azione punitiva che è stata scelta, ma anche quelli desiderati.

Quello che lascia Israele_

Foto di Valentina Perniciaro _GOLAN:Quello che lascia Israele_

Il bombardamento di Sderot è la conseguenza inevitabile ma anche, per certi versi, desiderabile, di questa strategia. Inevitabile, perché l’azione punitiva non può distruggere la resistenza e molto spesso genera una rappresaglia. La rappresaglia fornisce a sua volta la logica e il presupposto per l’azione punitiva successiva, nel caso qualcuno, nell’opinione pubblica interna [israeliana], dovesse dubitare della giustezza della nuova strategia.
Nel prossimo futuro, ogni resistenza analoga proveniente dalla mega-prigione della Cisgiordania verrà trattata in modo simile. E queste azioni molto probabilmente avranno luogo in un futuro molto vicino. In realtà, la terza intifada sta per iniziare. E la risposta israeliana sarebbe un’ulteriore elaborazione del sistema della mega-prigione. Ridimensionare il numero dei “detenuti” sarebbe ancora una priorità molto alta in questa strategia, per mezzo della pulizia etnica, delle uccisioni sistematiche e dello strangolamento economico.

Ma ci sono ostacoli che impediscono alla macchina distruttiva di mettersi in moto. Sembra che un numero crescente di ebrei in Israele (la maggioranza, secondo un recente sondaggio della CNN) desiderano che il loro governo inizi a negoziare con Hamas. Una mega-prigione va bene, ma se le aree residenziali dei coloni verranno prese probabilmente di mira in futuro, allora il sistema fallirà. Ahimè, dubito che il sondaggio della CNN rappresenti esattamente l’attuale orientamento israeliano; ma esso indica una tendenza incoraggiante che conferma la convinzione di Hamas secondo cui Israele capisce solo il linguaggio della forza. Ma tutto ciò potrebbe non essere sufficiente e la perfezione del sistema della mega-prigione continua nel frattempo senza tregua, e le misure punitive del suo potere si stanno prendendo le vite di un numero sempre maggiore di bambini, donne e uomini nella Striscia di Gaza.

Come sempre è importante ricordare che l’occidente può porre fine, anche domani, a questa disumanità e criminalità senza precedenti. Ma finora questo non è avvenuto. Sebbene gli sforzi per rendere Israele uno “stato paria” [uno stato messo al bando dalla comunità internazionale, come il vecchio Sudafrica dell’apartheid] continuino a tutta forza, essi provengono ancora solo dalla società civile. Speriamo che questa energia venga un giorno tradotta in politiche governative effettive. Possiamo solo pregare che, quando questo avverrà, non sia troppo tardi per le vittime di questa orrenda invenzione sionista: la mega-prigione della Palestina

[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo:
http://electronicintifada.net/v2/article9370.shtml 

L’O.N.U. e il boicottaggio ad Israele …e Napolitano??

8 dicembre 2008 3 commenti

IL PRESIDENTE DELL’ASSEMBLEA GENERALE DELL’ONU INVITA AL BOICOTTAGGIO DEL REGIME ISRAELIANO DELL’APARTHEID.
MA IN ITALIA TUTTO TACE…NON SI PUO’ DIRE, NON SI PUO’ SAPERE!

“Sono stupefatto che si continui ad insistere sulla pazienza mentre i nostri fratelli e le nostre sorelle palestinesi sono crocifissi. La pazienza è una virtù nella quale io credo. Ma non c’è alcuna virtù nell’essere pazienti con la sofferenza degli altri”.

L’Assemblea generale dell’ONU ha esaminato il 24 e 25 novembre 2008 il rapporto del Segretario generale sulla situazione in Palestina.

Il Presidente dell’Assemblea, Miguel d’Escoto Brockmann (Nicaragua), ha fatto di questo dibattito una questione di principio. Aprendo la seduta, ha dichiarato: « Io invito la comunità internazionale ad alzare la sua voce contro la punizione collettiva della popolazione di Gaza, una politica che non possiamo tollerare. Noi esigiamo la fine delle violazioni di massa dei Diritti dell’uomo e facciamo appello ad Israele, la Potenza occupante, affinché lasci entrare immediatamente gli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Questa mattina ho parlato dell’apartheid e di come il comportamento della polizia israeliana nei Territori palestinesi occupati sembri così simile a quello dell’apartheid, ad un’epoca passata, un continente più lontano. Io credo che sia importante che noi, all’ONU, impieghiamo questo termine. Non dobbiamo avere paura di chiamare le cose con il loro nome. Dopotutto, sono le Nazioni Unite che hanno elaborato la Convenzione internazionale contro il crimine dell’apartheid, esplicitando al mondo intero che tali pratiche di discriminazione istituzionale devono essere bandite ogni volta che siano praticate.

FRONTE POPOLARE DI LIBERAZIONE DELLA PALESTINA

FRONTE POPOLARE DI LIBERAZIONE DELLA PALESTINA

Abbiamo ascoltato oggi un rappresentante della società civile sudafricana. Sappiamo che in tutto il mondo organizzazioni della società civile lavorano per difendere i diritti dei Palestinesi e tentano di proteggere la popolazione palestinese che noi, Nazioni Unite, non siamo riusciti a proteggere. Più di 20 anni fa noi, le Nazioni Unite, abbiamo raccolto il testimone della società civile quando abbiamo convenuto che le sanzioni erano necessarie per esercitare una pressione non violenta sul Sud Africa. Oggi, forse, noi, le Nazioni Unite, dobbiamo considerare di seguire l’esempio di una nuova generazione della società civile chef a appello per una analoga campagna di boicottaggio, di disinvestimento e di sanzioni per fare pressione su Israele. Ho assistito a numerose riunioni sui Diritti del popolo palestinese. Sono stupefatto che si continui ad insistere sulla pazienza mentre i nostri fratelli e le nostre sorelle palestinesi sono crocifissi. La pazienza è una virtù nella quale io credo. Ma non c’è alcuna virtù nell’essere pazienti con la sofferenza degli altri. Noi dobbiamo agire con tutto il nostro cuore per mettere fine alle sofferenze del popolo palestinese (…) Tengo ugualmente a ricordare ai miei fratelli e sorelle israeliani che, anche se hanno lo scudo protettore degli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza, nessun atto di intimidazione cambierà la Risoluzione 181, adottata 61 anni fa, che invita alla creazione di due Stati. Vergognosamente, oggi non c’è uno Stato palestinese che noi possiamo celebrare e questa prospettiva appare più lontana che mai. Qualunque siano le spiegazioni, questo fatto centrale porta derisione all’ONU e nuoce gravemente alla sua immagine ed al suo prestigio. Come possiamo continuare così?».

L’ambasciatore Miguel d’Escoto Brockmann è un sacerdote cattolico, teologo della liberazione e membro del Comitato politico del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN). Personalità morale riconosciuta, è stato eletto per acclamazione, il 4 giugno 2008, Presidente dell’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

L’Anti-Defamation League (ADL) è stata la prima organizzazione sionista a reagire, chiedendo al Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki Moon, di mettere fine a questo « circo » così come alla « cosiddetta giornata di solidarietà con il popolo palestinese ». Infine, ha denunciato il carattere a suo dire « antisemita » delle proposte del Presidente Miguel d’Escoto Brockmann che essa ritiene ispirate da un secolare antigiudaismo cattolico.

Foto di Valentina Perniciaro _Betlemme in corteo_

Foto di Valentina Perniciaro _Betlemme in corteo_

SONO PASSATI QUASI DIECI GIORNI DA QUESTE DICHIARAZIONI, MA LA STAMPA ITALIANA, QUELLA “UFFICIALE” E LETTA DA QUESTO MISERO POPOLO CHE SIAMO NE HA CONTINUAMENTE TACIUTO. 

FORSE NAPOLITANO DOPO IL VIAGGIO IN ISRAELE, MOLTO RECENTE, NON HA AVUTO MODO DI REALIZZARE LA DITTATURA MILITARE CHE E’ L’OCCUPAZIONE ISRAELIANA DEI TERRITORI PALESTINESI.

NON SI PUO’ STARE DALLA VOSTRA PARTE..CHI APPOGGIA ISRAELE HA LE MANI SPORCHE DI SANGUE.
DI SANGUE INNOCENTE, SANGUE DI UN POPOLO STUPRATO DA OLTRE 60 ANNI, SANGUE DI UNA TERRA MASSACRATA.
PALESTINA LIBERA….STOP OCCUPATION
IL MURO CADRA’ SUI VOSTRI CARRIARMATI, SULLE RUSPE, SULLE SEGHE CHE TAGLIANO ULIVI MILLENARI. 

Al-khalil. Il dramma di Hebron, la città divisa

20 novembre 2008 2 commenti

La situazione della città di Hebron, Al-Khalil, sta nuovamente precipitando senza che nessuno o quasi se ne accorga. La città della divisione, la città simbolo delle violenze dei coloni, di come uno Stato sia nato sulla pelle di un popolo, di come una terra sia stata stuprata, giorno dopo giorno da più di 60 anni.

Il centro storico di Hebron

Dalla rete: Il centro storico di Hebron

Prima di passare ai fatti di questa notte bisognerebbe scrivere cosa il mondo ha permesso ad Israele in quella città, ciò che si sono presi, strappandolo via ad un popolo che non aveva certo gli strumenti per capire, per organizzarsi, per difendersi e contrattaccare come sarebbe naturale fare.
Facile, troppo facile per un pachiderma foraggiato da tutti, calpestare le umili aiuole di qualche pastore, di qualche contadino che aveva come sola ricchezza il succo prezioso delle sue olive.
Erano 5000 anni che la vita procedeva in quel modo, ad Hebron.

Dal 1967 in poi, dopo periodi di violenti scontri tra il 1929 e il ’36, la situazione muta completamente. Un gruppo di coloni si finge gruppo turistico ed occupa il principale albergo della città, per poi occupare una base militare abbandonata che trasformeranno in poco tempo nel primo “mattone” dell’insediamento Kyriat Arba. Saranno le donne israeliane, colone illegali, ad occupare un’altra parte della città e a strappare l’appoggio assoluto dell’esercito che ha poi sempre coperto e legittimato il processo di espansione ebraica, mai terminato. Se guardiamo i dati del 2005 possiamo capire facilmente come è mutata la vita dei palestinesi residenti nel centro di Hebron o nelle aree limitrofe: ora sono più di 20 gli insediamenti, per un numero di coloni sempre più alto.
s7301137I coloni sono diversi dai normali cittadini. I coloni sono militanti di estrema destra (nella maggior parte dei casi), che soprattutto nel caso del centro di Hebron, occupano passo passo quel che riescono, girano armati fino ai denti permettendo che i loro figli prendano a sassate le case e le scuole dei loro coetanei arabi.
La parte palestinese della città è facilmente riconoscibile.
E’ un carcere. Un carcere vero e proprio, dove tutte le case, le finestre e le porte di ogni edificio pubblico e privato, le strade percorse….tutto è avvolto da fitte reti metalliche, per salvarsi dai ripetuti lanci dei coloni, soprattutto di donne e bambini. 
La vita di queste persone è distrutta da qualche decennio, il commercio è inesistente, le saracinesche tutte abbassate, i bambini vivono come piccoli detenuti, impossibilitati anche a giocare per strada, per le loro strade, le poche che gli sono concesse…. «Le violenze contro le famiglie arabe sono all’’ordine del giorno», racconta un ’attivista statunitense per i diritti umani. «I palestinesi hanno le inferriate alle finestre perché erano puntualmente prese a sassate dai coloni. I soldati dovrebbero intervenire, ma si limitano a raccogliere a voce le denunce». Idris, un macellaio che vive  nella zona alta di Tel Rumeida, mostra la bocca senza denti. «La mia vicina israeliana è entrata nella mia casa e mi ha colpito più volte con un bastone, accusandomi di occupare la sua terra», dice. «Quando sono arrivati i soldati hanno portato via uno dei miei ragazzi dicendo che l’’aveva provocata»

Hebron è un caso unico nell’assurdo conflitto israeliano. La città della divisione, delle reti metalliche, dell’odio infinito verso un popolo gemello, abitante delle stesse colline. Da troppo tempo.

Ma passiamo ai fatti di questa notte:
decine di coloni e di attivisti di estrema destra si sono scontrati la scorsa notte a Hebron con palestinesi e con soldati e poliziotti israeliani:  hanno sconsacrato tombe in un antico cimitero musulmano, scritto sul muro di una moschea slogan offensivi contro la religione musulmana “Maometto maiale” e “Morte agli arabi”,  danneggiato automezzi dell’esercito e della polizia.

Ovviamente la polizia e l’esercito sono intervenuti per calmare la situazione, sono impegnati a togliere le scritte e ripristinare l’ordine: nessuno è stato arrestato fino ad ora, malgrado questi scontri siano stati provocati dai coloni dopo che l’Alta Corte di Giustizia israeliana aveva imposto lo sgombero di uno stabile di quattro piani, illegalmente occupato. Da tutto lo stato israeliano, decine di attivisti di estrema destra stanno raggiungendo Hebron per aiutare i coloni  ad impedire lo sgombero.

Tutto tace da questa mattina: questo blog proverà a seguire gli sviluppi della situazione.

Aboliamo il carcere -un testo di V. Guagliardo-

27 ottobre 2008 5 commenti

ABOLIZIONISMO di Vincenzo Guagliardo

 

Per fortuna ormai un pò di gente arriva a dire che è in atto da anni una regressione dallo Stato sociale allo Stato penale, criminalizzando la miseria, ovvero mettendo in galera il diseredato solo perché è tale e neanche più per quello che ha potuto fare. Tendere a imprigionare la gente per quel che è a prescindere da quel che ha fatto, è anche un passaggio, come alcuni ricorderanno, dalla logica penitenziaria a quella del lager, dove si finiva in quanto ebrei, zingari, omosessuali … 

la cella "liscia"

la cella "liscia"

Questa tendenza, auspicata da tanti e denunciata da pochi, vive dagli anni di Reagan, in pratica da un ventennio, e ha invaso tutto l’Occidente. Essa richiede una riflessione che non si limiti a dire che è in atto una svolta repressiva contro i poveri; richiede una riflessione in grado di capire che questa è la conclusione di una lunga storia. Quanto avviene in questi due decenni è l’epilogo grave, l’ultima evoluzione d’una civiltà fondata sul dominio ed è perciò che bisogna cominciare a parlare di abolizionismo: di movimento per l’abolizione di tutto il sistema penale, dal diritto penale alle prigioni; e non nella società del domani in testa a qualcuno, ma in questa. 
    
Almeno in Italia, l’attuale svolta non cominciò considerando ogni emarginato un potenziale colpevole, ma colpendo con meccanismi inquisitoriali. Tizio e Caio vennero puniti più di altri se volevano pensare con la loro testa. Già qui non importava più quel che si era fatto; fu l’epoca dei pentiti e delle dissociazioni, ovvero delle delazioni e abiure a pagamento, in nome dell’emergenza antiterrorista. E’ da quella fase tipo gulag che si è poi arrivati all’inizio di questa nuova, tipo lager. Naturalmente i due principi continuano a coesistere; se il primo storicamente prepara il secondo, il secondo comprende il primo. E se ci si pensa, non è la prima volta che questo processo si verifica nella storia della nostra civiltà. Solo che questa volta, tale processo, unito ad altri fattori degenerativi, rischia di travolgere tutto e tutti con beate incoscienze e diffuse partecipazioni. 
Il rito del capro espiatorio è stato e resta a fondamento della nostra cultura, la base su cui si è costruito ogni potere prima, quindi ogni dominio e infine ogni sistema di sfruttamento. E’ la costante, il fattore K. E’ utile rileggersi cosa fu il massacro degli eretici fino alla definitiva sconfitta dei catari nel Duecento, e poi vedere non già esaurirsi, ma rilanciarsi l’Inquisizione che lì era nata, per darsi al massacro nella cosiddetta “caccia alle streghe” durante i secoli successivi. Vi si scopre che tante novità non sono tali, appunto. Anche allora ci fu un passaggio dal modello tipo gulag verso gli eretici e i mondi sociali che rappresentavano, a quello tipo lager contro le streghe, donne mandate al rogo non più per quello che pensavano (se non nell’immaginario degli inquisitori) ma per ciò che costituivano: l’indipendenza di un mondo fondato sulla sussistenza, fuori dalla logica invadente del mercato. Oggi, nel regno liberista, tutto questo avviene però in un giorno, invece che in qualche secolo. Ecco che chi fa l’abiura delle lotte per la liberazione sociale – riducendola a vicende da KGB e di subordinazione al regime dittatoriale dell’URSS – manda negli stessi giorni il grande messaggio della lotta alla criminalità: in pratica contro i più deboli dei deboli, quei 50 mila in carcere che sono già, comunque, il doppio di alcuni anni fa. 
Ancora una volta, dunque: ancora una volta vediamo che offrire vittime sacrificali serve ad ogni potere a “limitare” la violenza e a controllarla a suo uso e consumo. La si indirizza contro qualcuno per evitare che tutti si scannino contro tutti mossi dall’invidia, dal risentimento, dato che comunque si tratta di salvare un sistema basato sull’ingiustizia e non certo sull’amorevolezza … Questo antichissimo meccanismo permette di cooptare chiunque, anche il ribelle, perché è la via più facile per spiegarsi le cose. E’ infatti più facile vedere la pagliuzza nell’occhio altrui che la trave nel proprio; soprattutto è più comodo. E non è forse vero che anche i rivoluzionari hanno spesso mantenuto questo vizio, “tradendo” così ogni volta ogni rivoluzione? In un breve scritto poco conosciuto, Gramsci si entusiasmò per la nuova profonda autenticità della rivoluzione bolscevica perché il primo atto che la contraddistinse fu la liberazione dei prigionieri a Riga. La rivoluzione francese ha ancora oggi come simbolo la presa della Bastiglia. Ma poi arrivano quelli della rivoluzione diventata potere … e sappiamo che Stalin fece fuori per primi proprio i bolscevichi suoi compagni, e poi instaurò un immenso sistema penale che giunse a incarcerare anche i dodicenni (sì, come Blair). E nella rivoluzione francese quando, pochi anni dopo, furono assalite delle carceri, fu per massacrare i prigionieri! 
Il principio della pena è l’unico valore, il centro della morale di questa società. Essa non ha altro, e praticamente tutti partecipano al suo sistema, da cui discendono modelli educativi, teorie psicologiche, concezioni filosofiche, ecc. Quella della pena è la lingua in cui parliamo tutti, e fin da piccoli. I benpensanti vogliono in galera i poveracci, gli altri i ricchi o i “fascisti”, ma tutti accettano quel centro, i ruoli previsti dalla tragica sceneggiatura, il cui perno è la vittima sacrificale, demone per l’ uno o eroe per l’altro. La pena non è mai servita a reprimere realmente i colpevoli; ogni storico serio lo riconoscerà. Serve a gratificare, a cementare il senso d’appartenenza di quelli che la vogliono applicata ad altri. La pena è dunque “inefficiente” per definizione, per la sua stessa natura; e proprio così unisce tutti, amici e nemici. 
    
Ma ora che, nella vita sempre più atomizzata del mondo attuale, tutte le sue istituzioni implodono, è come se – per reazione – si tornasse sempre più alle origini con l’esplosione del sistema penale. E’ come se, dopo aver distrutto via via tutto, non restasse più altro, come valore morale, che questo atto fondatore di una comunità linciante. Perciò oggi la violenza insita nel rito della vittima sacrificale non incontra più i confini, i “limiti” stabiliti nel sacro da cui è nata e vediamo anzi la logica del sistema penale diventare sempre più invadente: dominando la politica interna (questione sociale = questione criminale), quella internazionale (dalla crisi della diplomazia verso l’esaltazione di un tribunale penale internazionale permanente), fino ad aver pericolosamente rovesciato recentemente lo stesso senso “tradizionale” della guerra. Le guerre non sono mai state definite come delle sentenze. La guerra convenzionale è una sanzione violenta che pretende di raggiungere l’ordine che si è dato, come è in fondo altro tipo di lotta violenta e non, dallo sciopero al boicottaggio. Solo l’incarcerazione e la pena di morte hanno generalmente lo scopo di punire la disobbedienza a un ordine e non di raggiungere l’obbiettivo per cui esso è stato dato. Ma la guerra Nato condotta nei Balcani è stata frutto di un ragionamento penale invece che guerresco vero e proprio. 
 In questo nuovo contesto, parlare di abolizionismo significa anzitutto guardar se stessi prima di mettere in croce un altro (o volere che ci resti come martire e faro di ribellione … futura): perché si vada alla radice della pena come centro della morale comune, onde definire una nuova strategia dei conflitti non più fondata su una loro prevalente riduzione a reati. 
 Tutto ciò apre il campo a molte riflessioni che non si possono affrontare qui per ragioni, se non altro, di spazio. Ma una cosa mi è chiara: non tutti gli abolizionisti saranno necessariamente dei rivoluzionari; ma, di sicuro, chi non è abolizionista, rivoluzionario da oggi in poi non potrà più esserlo.

Vincenzo Guagliardo

Carcere di Opera, ottobre 1999

Spike Lee e la storia violentata

1 ottobre 2008 2 commenti

Mi piacerebbe chiedere a Spike Lee cosa pensa della guerriglia.
Come si farebbe secondo lui ad attaccare un esercito nemico, occupante?
Si stupisce, il grande storico (!), che i partigiani colpivano per poi fuggire…
Cosa avrebbero dovuto fare?Mai sentito parlare di Mordi e fuggi?
Le conosce minimamente le tecniche possibili in simili situazioni?
Che facevamo..gli schieravamo l’esercito contro? Quale?
Un film che poteva risparmiarsi..un film che avrebbe dovuto sottintendere  degli studi, non dico specifici sulla resistenza italiana, ma sulla resistenza in generale.
Sulla guerriglia, sulle lotte di liberazione che sono mandate avanti da popoli armati e non certo da eserciti che si possono permettere di scegliere campo di battaglia, durata e scopo di un attacco.
Se lo poteva risparmiare…buono l’articolo di Giorgio Bocca uscito oggi su Repubblica.

“Non bisogna” il vecchio disse, “piangere per loro”.
“Non bisogna piangere?” disse Berta.
“No figliola. Non del sangue che oggi e’ sparso”.
“Non dell’offesa? Non del dolore?”
“Se piangiamo accettiamo. Non bisogna accettare”.
“Gli uomini sono uccisi e non bisogna piangere?”
“Certo che no! Che facciamo se piangiamo? Rendiamo inutile ogni cosa che e’ stata”.
[…]
“Ma che dobbiamo fare?”
“Oh!” il vecchio rispose “Dobbiamo imparare”.
“Imparare dai morti?”
“Si capisce. Da chi si puo’ imparare se non da loro? Loro soltanto insegnano”.
“Imparare che cosa?” chiese Berta. “Cos’e’ che insegnano?”.
“Quello per cui” il vecchio disse “sono morti”.
____Elio Vittorini___

Come corrono!!!

21 settembre 2008 1 commento

Sarei proprio voluta esserci…perchè l’idea che se la sono data a gambe in questo modo rocambolesco mi mette proprio di buon umore. Poi proprio a Koln, una città che ho visto con i miei occhi come convive con le tante etnie rifugiate. Una città che mi ha accolto per un mese, avvolta da migranti kurdi, e che ha dimostrato ogni momento la piena tolleranza, l’amichevole convivenza, l’ospitalità che ha stupito anche me.
Una città dove sono più i migranti dei tedeschi, dove si vive bene, dove si respira un’aria piacevole, assolutamente non razzista, xenofoba, conflittuale.
E sono proprio scappati, usando i battelli, salpando con la coda tra le gambe: da buoni fascisti.
Scappano si, perchè non hanno altro da fare su questa terra, loro, feccia immonda di quest’Europa medievale e reazionaria.
La sola trentina che si è presentata in piazza ieri erano italiani, capitanati da Borghezio che si aggirava con la sua “bibbia”, -La Rabbia e L’Orgoglio- di Oriana Fallaci.
Solo loro, nascosti da una parte, circondati da migliaia di antifascisti.
Pubblico sul blog quest’articolo preso da PeaceReporter perchè m’ha fatto sorridere..
i miei complimenti all’autore
e buon divertimento a chi li può veder correre, tornare nelle fogne.
Solidarietà ai topi di Colonia, che forse non accettano nemmeno loro questi nuovi amici tra la merda. 

COLONIA, I FASCISTI INVISIBILI

 

Hanno giocato al gatto col topo per tutta la mattinata. Inseguiti da polizia, giornalisti e movimenti antifascisti. La conferenza stampa di presentazione della grande manifestazione anti-islamizzazione prevista per domani a Colonia, nel Nord Reno-Westfalia, era fissata per le 11 di mattina nella circoscrizione di Nippes, vicino alla grande cattedrale gotica, unica vestigia della città medievale rimasta in piedi dopo i bombardamenti della Seconda Guerra mondiale. Pro-Koeln, questo il nome dell’organizzazione ‘civica’ populista formatasi cinque anni fa per protestare contro la costruzione della più grande moschea tedesca nel quartiere di Ehrenfeld, ha preso tutti di sorpresa. Per evitare le contestazioni degli anti-fascisti (ne sono attesi 50 mila domani nella piazza del mercato), ha deciso all’insaputa di tutti di tenere la ‘conferenza stampa internazionale’ cinque chilometri più a sud. La nuova sede avrebbe dovuto essere la circoscrizione di Roedenkirchen, sulle sponde del Reno. Qui si sono radunati tutti, soprattutto una manciata di militanti antifascisti che, precedendo persino i giornalisti della Ard, il canale nazionale tedesco, della Zeit e vari altri, li hanno accolti con slogan e fischietti, minacciando di aggredirli fisicamente. La fuga, a quanto racconta l’unico giornalista che ha assistito alla scena, il corrispondente locale della Tageszeitung, Pascale Beucker, è stata precipitosa. La decina di politici e attivisti di Pro-Koeln ha in fretta e furia lasciato Rodenkirchen per salire su un battello sul Reno e dirigersi verso il porto fluviale di Nihl, sei chilometri più a nord. Beucker è l’unico ad aver assistito agli insulti e alla sassaiola degli antifascisti, che ha costretto quelli di Pro-Koeln a mollare gli ormeggi più in fretta che potevano.
A Colonia, la maggioranza della popolazione è favorevole alla moschea, e non nutre alcuna ostilità nei confronti degli immigrati. I musulmani sono il 12 percento, su un  milione di abitanti, ma la loro presenza è stata da sempre caratterizzata dal dialogo e dall’integrazione con i residenti. Fino a quando la lista civica di Pro-Koeln non ha messo i bastoni tra le ruote al progetto dell’architetto tedesco Paul Bohem di una grande moschea che, secondo gli oppositori di destra, avrebbe ‘oscurato’ la grande cattedrale gotica e ‘stravolto lo skyline’ di Colonia.
 
Tre settimane fa il via libera del sindaco della Cdu, Fritz Schramma. La moschea si farà. A Ehrenfeld, storico quartiere musulmano a maggioranza turca. A finanziarla saranno proprio i turchi. La Commissione per gli affari religiosi del governo turco, con una sua ‘branca’ nell’organizzazione Ditib, che opera a Colonia, verserà la gran parte dei 20 milioni di euro destinati a edificarla. Tra gli altri finanziatori, oltre 800 donazioni da varie altre organizzazioni musulmane. In risposta alla delibera comunale, Pro-Koeln ha chiamato a raccolta una messe di politici di estrema destra da ogni parte d’Europa: da Jean Marie Le Pen (che ha poi declinato l’invito), a Heinz-Christian Strache, austriaco dell’Fpo (Partito per la libertà), a Filip Devinter del belga Vlaams Belang (Interesse fiammingo), all’italiano Mario Borghezio della Lega. Sono tutti attesi nella piazza del mercato, a pochi metri dalla cattedrale, domani alle 11, dove, assieme a un migliaio di neo-nazi, naziskin e varie altre sigle fasciste, dovrebbero tenere l’annunciata adunata di piazza.
 
Il problema è che la mobilitazione antifascista è stata talmente rumorosa e imponente (50 mila persone, nella contro-manifestazione dei sindacati, per non parlare dei movimentisti-antagonisti-belligeranti antifascisti che, in un tam-tam generale, cercheranno in ogni modo di impedirne lo svolgimento), che neanche la polizia sa più che pesci prendere. 

25 aprile 2005, Roma

Foto di Valentina Perniciaro: 25 aprile 2005, Roma

Stamani, decine di camionette attendevano il battello, che ironicamente si chiamava ‘Moby Dick’, per l’attracco. Ma il capitano Achab-Marcus Wiener, leader di Pro-Koeln, eludeva giornalisti e agenti rimanendo al largo. Per tre ore, invano, tutti attendevano lo sbarco, in un gioco dell’oca che aveva come percorso la mappa della città di Colonia. I politici locali di Pro-Koeln hanno dovuto aspettare a lungo in mezzo al fiume. Finchè non hanno attraccato a Bastion, un molo vicino allo zoo comunale. Blindati e cinturati dai poliziotti, sono rimasti invisibili ai più, noi compresi. Forse solo i pochi giornalisti rimasti, pazienti e irriducibili, senza poterli avvicinare più di tanto hanno potuto vederli da lontano. Come si guarda un animale esotico dentro una gabbia dello zoo.

” ‘na dissenteria di bombe”

19 agosto 2008 2 commenti

L’estate del ’43 gli eserciti spediti sulla neve di Russia, 
nella sabbia di Egitto, sbandavano all’indietro.
La guerra dei fascismi andava alla malora,
ma una pace: lontana. “Finché non bombardano Roma”,
“Finché non bombardano Roma”, la frase girava a bassa voce,
pericoloso dirla per intero, la milizia aveva cento orecchie,
qualcuna di meno ultimamente, che la guerra falliva.

Finché non bombardano Roma, non finisce.
Strano vaccino per l’epidemia, che razza di siero antiguerra.
Si era ficcato in testa per le città d’Italia
bombardate a martello, prima solo di notte,
poi pure a mezzogiorno, e a Roma niente. 
“Ce sta ‘o papa, nun ponno mena’ bbombe ‘ncopp’ o papa”.
A Napoli spiegavano così la malasorte,
la più bersagliata dall’alto dei cieli, e Roma niente.
“‘O papa, ce sta ‘o papa, nun le ponno fa’ niente, sta San Pietro.”

Nel luglio del ’43 il cielo sopra Napoli era un campo di croci con le ali,
altissime passavano e sganciavano,
sopra obiettivo libero, a terra senza allarme,
senza sirena in mezzo alla città.
Sono più avvelenate di terrore le bombe a mezzogiorno.
Di notte è già normale correre al rifugio,m dentro il buio
a ripararsi, ma di giorno è peggio. “Quanno fernesce? Mai?
E il caldo, ‘o calore, d’o mese ‘e luglio d’o ’43”.

 Mia madre teneva diciottanni, legati stretti
per non farseli scippare, passava per la piazza
della posta centrale dopo una delle scariche,
e s’accorse che non c’erano le mosche,
erano morte pure quelle per lo spostamento dell’aria.
“Sui corpi scamazzati, scarognati, nun ce steva ‘na mosca.
Nun era manco nu bumbardamento,
ma ‘na dissenteria di bombe, ci cacavano ‘n capa.
E a Roma c’era il cinema, la guerra la sentivano per radio,
la gente la sera usciva, ieva a teatro,
nun le mancava niente. Tenevo diciottanni,
due fratelli nascosti,
i tedeschi fucilavano i guagliuni che non si presentavano”.

“No, ma’, questo è successo dopo, nel settembre,
quando gli americani ancora non entravano
e i tedeschi mettevano le mine in mezzo al golfo.
Stavamo ricordando ‘o mese ‘e luglio”.
“Senza pute’ durmi’ manco ‘na notte,
a sirena sonava doie, tre vote,
andavamo a durmi’ coi panni ‘ncuollo,
manco le scarpe mi toglievo, pronta pe’ n’ ata corsa,
giù per le scale, ‘a sirena int’e rrecchie
che m’afferrava i nervi, spìcciati, presto, curre,
le posate d’argento nella borsa, la ricchezza nostra,
mammà che mi sttrillava dietro: “Piglia i posti buoni”.
C’erano i posti buoni e quelli malamente, comm’a teatro”.

“Finché nun bumbardano Roma, ‘sta guerra fetente nun fernesce.
La milizia mo’ sente e fa finta ‘e nun senti’,
o’ ssape che è fernuta ‘a zezzenella
(lo sa che è finita la pacchia).
‘O fascismo per me è stato ‘a guerra. Tenevo quindicianni,
‘a meglio età, quanno ‘o fascismo s’affacciaie ‘o balcone:
vincere e vinceremo. Se credeva di fa’ ‘na guapparia,
quattro mosse dietro ai tedeschi e subito vinceva.
In capo a qualche giorno a Napoli sentéttemo  ‘a sirena,
‘a primma sirena d’allarme. Ancora me la sogno la sirena.
Dentro ai sogni nun m’arricordo ‘e bbombe, ma ‘a sirena.
Tenevo quindicianni all’inizio d’a guerra, ‘a meglio età.
‘O fascismo me l’ha inguaiata fino a diciottanni.

Niente sapevo, niente m’importava, d’a politica,
io vulevo fa’ ammore, uscire colle amiche mie,
ballare, andare al mare. Si m’o ffaceva fa’,
si ‘ o fascismo me faceva campa’, bene per lui e bene pure a me.
Invece niente, s’è arrubbat’a giuventù,
ha mandato a muri’ ‘i meglio guagliuni pe’ na guerra fetente,
se ne futteva ‘e me, ‘e Napule, ‘e l’Italia. Stava a Roma
arriparato sotto ‘a tonaca d’o papa,
a Roma non gli succedeva niente.”

“E com’è stato lo strillo, la voce che hai sentito
all’uscita del ricovero, quel giorno?”
“Sarà stato mezzogiorno, o primo pomeriggio,
nun saccio di’, ce stava ‘o sole, da due ore
schiattavamo ‘e calore int’o ricovero.
Sunaie ‘a sirena di cessato allarme, ascèttemo all’aperto,
tossivo per la polvere alzata dalle bombe,
m’abbruciavano gli occhi per la luce potente dopo il buio,
mezzo stordita m’arrivaie ‘nu strillo: “Roma!
Hanno colpito Roma! Hanno menato ‘e bbombe
             ‘ncopp’ o papa”.
E doppo ‘ o strillo ne venette n’ato: “E’ ‘m mumento,
fernesce ‘a guerra, mo’ fernesce ‘a guerra”.
La gente usciva dai ricoveri scunfusa, stupetiata,
e tutt’insieme dietro a quello strillo
s’abbracciava, chiagneva, alzava ‘e manne ‘o cielo.
“Fernesce ‘a guerra” e : “Roma bombardata” erano ‘o stesso strillo.
E a me, che manco me pareva overo che puteva fini’,
si gelò il sangue a vedere quella festa
perché Roma era stata bombardata.
Noi che sapevamo che malora era,
ce mettevamo a fa’ chell’ammuìna?
Che t’aggia di’, ‘a guerra è ‘na carogna
e ‘o fascismo ci aveva incarogniti.
Poi uscì la milizia e tutti quanti ce ne tornammo a casa
a senti’ ‘a radio: Roma era stata bombardata
la mattina, da ‘e pparti d’a stazione, no a san Pietro.

E così fu che cadett’ o fascismo.
o’ rre fece arrestare Mussolini
e ‘a ggente se credeva che ferneva tutte cose,
‘a guerra, ‘a carestia, tornava il pane bianco, veneva ‘a libbertà.
Fuie ‘na fantasia, nun era tiempo.
A Napoli finì due mesi dopo, a fine settembre,
‘o popolo s’arrevutaie isso sulo contro i tedeschi,
quattro giorni e tre nottate sane,
al buio in mezzo agli spari, pieni di volontà,
quattro giornate per levarsi gli schiaffi dalla faccia.
Finché non se ne uscirono i tedeschi,
entrarono i guagliuni americani, figli ‘e napoletani d’oltremare.
Cominciò quel po’ di gioventù che mi avanzava.
Mi so’ sposata nel ’46, perciò la gioventù durò tre anni.

E di tutto il fascismo mi rimane il peggio di quell’ora
di festa per Roma bombardata.
Anche se in quella polvere di luglio, ‘ calore, ‘o sudore,
non mi sono abbracciata con nessuno,
è per la gente mia che mi dispiace.
Allora fu normale, perciò chist’è ‘o fascismo pe’ mme,
la fetenzia che ci ha portato a quello, di applaudire.
Ti parlo de ‘sti ccose addolorate pecché tu saie senti’,
ma nun pozzo permettere a nisciuno di voi venuti dopo
di giudicare Napoli in quell’ora, 
pecché ‘o fascismo vuie nun ‘o ssapite”.

                             L’Estate del ’43.   ERRI DE LUCA, “L’ospite incallito”  -Einaudi Editore-

Haret Hreik_Beirut_settembre 2006

Beirut, Libano. Quartiere sciita di Haret Hreik, dopo i bombardamenti israeliani Settembre 2006. Foto di Valentina Perniciaro

Napoli, primavera 2006 Foto di Valentina Perniciaro

Napoli, passeggiando nei vicoli del centro. Foto di Valentina Perniciaro

Il nostro seme

17 agosto 2008 Lascia un commento

Dalle parole di Alcide Cervi, il padre dei 7 fratelli Cervi:

“Mi hanno sempre detto…tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta.
La figura è bella e qualche volta piango… ma guardate il seme, perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme è l’ideale nella testa dell’uomo”.

“Per nessun motivo”

11 agosto 2008 1 commento

Lui si incamminò verso la cresta della collina, lassù doveva esserci il cippo, perché lassù c’era il grosso della gente, tanta e disposta come intorno a una grande disgrazia. Aveva anche la curiosità di vedere il cippo, l’aveva già sentito nominare un cippo, ma non sapeva immaginarsene la forma. Arrivò e lo vide, era una specie di enorme paracarro, piantato proprio sul bordo della strada e con sopra dei segni neri  che non erano i chilometri e il nome del paese più vicino ma i nomi dei morti e la data della battaglia. Ettore sapeva che quei morti erano seppelliti altrove, eppure sentiva come se i loro cadaveri fossero  murati in quella specie di paracarro  e così fissava il cippo con grande speciale attenzione. E tremò, lì, di colpo, come se gli si fosse parato davanti un pericolo di morte così preciso ed avanzato che il terrore era già agonia e come sotto i piedi si sentisse aprirsi la terra della collina, pronta per il suo cadavere.
Mentre gli stava passando un po’, una voce cominciò a parlar forte dall’alto della collina, era l’esponente del Comitato di Liberazione che faceva il discorso.
Va bene che io non credo mai niente di quello che dicono questi uomini qui in queste circostanze qui, ma non voglio nemmeno correre il rischio di ascoltarlo. C’è un solo discorso che voglio ascoltare, e questo discorso me lo faccio io, c’è solo una lezione che voglio tenere a mente, e mi odio se penso che l’avevo già imparata bene e poi col tempo me la sono dimenticata. Non finire sottoterra. Per nessun motivo.
Non finire sottoterra. Né in galera.

tratto da  “La Paga del sabato” di Beppe Fenoglio

Foto di Valentina Perniciaro, una lapide per ricordare l'eccidio di Gessopalena, Chieti.

Lo avrai, lo avrai

6 luglio 2008 1 commento

 

Lo avrai,
camerata Kesselring,
il monumento che pretendi da noi italiani,
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.

Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio;
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità;
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono;
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire,

ma soltanto col silenzio del torturati,
più duro d’ogni macigno.

Soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi,
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio,
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade, se vorrai tornare,
ai nostri posti ci ritroverai:
morti e vivi collo stesso impegno,
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama,

ora e sempre,

RESISTENZA

Piero Calamandrei

Il lavoro “giusto” per me

6 luglio 2008 2 commenti

“Oggi guardo indietro, a quei tempi, e misuro il distacco, la strada percorsa e sento che senza quell’esperienza forse non sai in galera, ma sento pure che se non fossi diventato comunista, l’intera mia viata non avrebbe avuto senso. E per me essere comunisti è l’unico modo di essere uomini. 
Il futuro, vada come vada, ma le cose giuste della mia vita non posso rifiutarle, respingerle, neppure per rendere più tollerabile la mia situazione: vada come vada, sono stato e sono un comunista.
Dicano quel che gli pare, i fottuti borghesi, me ne sono sempre sbattuto di loro, in modo giusto o sbagliato gli ho sempre sputato in faccia. E ora più che mai.
A maggior ragione ora che li conosco meglio, ora che ho conosciuto le loro galere, ho visto ciò che fanno ogni giorno ai poveri cristi. Non rimpiango di essermi ribellato contro i padroni, rimpiango di averlo fatto fuori tempo, in modo sbagliato.
Se fossi nato dieci anni prima forse sarei stato un gappista. Avrei vissuto la Resistenza, probabilmente, e l’avrei vissuta in un certo modo. Anche il tempo, la situazione in cui si vive, contano, nel determinare un uomo e la sua sorte. Legati a un movimento partigiano, in un momento in cui erano validi il sabotaggio e il terrorismo, noi avremmo potuto compiere azioni utilissime, decisive per la lotta in una città come Torino o Milano. Fare il partigiano in montagna non sarebbe stato affar nostro, ma in una città avremmo dato del filo da torcere a tedeschi e fascisti.
Se i partigiani erano in certo qual modo organizzazioni “regolari”, con una divisa, un territorio proprio, un confine sia pure labilissimo che li divideva dal nemico, un retroterra sia pure minimo in cui il nemico per inoltrarsi doveva impiegare forze massicce e poteva farlo solo in certe occasioni, per i gappisti si trattava di sparare proprio in mezzo al nemico, in casa sua.
Erano i partigiani dei partigiani.
Un lavoro durissimo, la tensione era continua, in genere gli uomini duravano solo pochi mesi. Ogni soldato, e anche il partigiano, quando non è impegnato nell’azione , ha la possibilità di scaricarsi, di vivere qualche giorno o anche solo qualche ora “fuori pericolo”, in mezzo ai suoi. Può parlare, cantare, dormire in un’atmosfera amica.
Per il gappista non c’è un momento solo in cui possa abbandonarsi, ogni faccia ce vede può essere il nemico, ogni parola nasconde un’insidia, chiunque lo avvicina può essere un delatore.
Ogni suono di campanello alla porta può essere il nemico che l’ha individuato e non c’è salvezza, in questo caso non ci sono azioni di difesa, non c’è strada di fuga, non c’è retrovia, non ci sono i compagni che possono intervenire. Quando si viene identificati è la fine, senza mediazioni, senza la possibilità estrema del combattimento o dello sganciamento.
Se fossi nato prima, quello sarebbe stato il lavoro “giusto” per me, ognuno è fatto in un certo modo e per un certo tipo di azione.”
__________SANTE NOTARNICOLA_________ “L’evasione impossibile”

Il libro che ha cambiato la mia vita, molto tempo fa. 
 

 

mutammo in caserme le vecchie cascine

5 giugno 2008 2 commenti

Dalle belle citta` date al nemico

fuggimmo un di’ su per l’aride montagne

cercando liberta` fra rupe e rupe

contro la schiavitu’ del suol tradito.

Siamo i ribelli della montagna

viviam di stenti e di patimenti

ma quella fede che ci accompagna

sara` la legge dell’avvenir.

Lasciammo case, scuole ed officine

mutammo in caserme le vecchie cascine

armammo le mani di bombe e mitraglia

temprammo il cuore e i muscoli in battaglia.

Siamo i ribelli della montagna …

E` giustizia la nostra disciplina

liberta` e` l’ideal che ci avvicina

rosso sangue il color della bandiera

d’Italia siam l’armata forte e fiera.

Siamo i ribelli della montagna …

Sulle strade dal nemico assediate

lasciammo talvolta le carni straziate

provammo l’amor per la patria nostra

sentimmo in cuor l’ardor della riscossa.

A te, quel fiore rosso sbocciato!

W la resistenza

1 giugno 2008 1 commento