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Enrico Triaca scrive ancora al suo torturatore: l’avvocato Nicola Ciocia, conosciuto come professor De Tormentis, uomo di Stato
Da INSORGENZE, il blog di Paolo Persichetti.
Da un «combattente» come lei mi sarei aspettato un gesto “Etico” dell’ultim’ora: «Eccomi qua sono io», e invece niente, ha aspettato fino alla fine nascosto nella sua tana, ha aspettato che la stanassero come un coniglio tremolante ed ora ci racconta che nulla è vero. Dottor Jekyll e Mister Hyde, da latitante rivendica le sue «eroiche gesta» e ora che la sua identità è evidente piagnucola la sua innocenza, la sua correttezza, ci vuole impietosire con la sua cagionevole salute.
Non è dignitoso per funzionario dimostrare che solo in anonimato sa assumersi le proprie responsabilità, che sa solo vivere nell’ombra. Purtroppo nessuno le ha imposto nulla «Professore»; tutto questo casino lo ha combinato lei di sua spontanea volontà rilasciando interviste.
Stia tranquillo «Professore» non le succederà nulla, i reati sono tutti prescritti, il suo Stato continuerà a difenderla. Lo faccia un gesto dignitoso per una volta nella sua vita giunta agli sgoccioli, non ha nulla da perdere, non la sua carriera ormai conclusa, non il suo nome ormai noto.
Io da parte mia le assicuro che non la morderò, non la guarderò con rancore, «Professore», lei mi è del tutto indifferente. Qui non si tratta di trovare un colpevole, di capire chi è il macellaio e chi la vittima, ma di ripristinare una verità Storica, e questo, caro «Professore», dovrebbe essere il suo imperativo come funzionario di Stato che ha giurato sulla Costituzione. Non lasci questa terra da vigliacco. Sono altri i silenzi che fanno rumore, sono quelli di chi le ha dato gli ordini, sono quelli di chi in silenzio, aqquattati nell’ombra aspettano che passi la bufera parlando di Democrazia, Costituzioni e Stato di Diritto.
Il Terroristà sarò sempre io, comunque vada.
“Noi ci sedemmo dalla parte del torto perché gli altri posti erano tutti occupati”
Bertolt Brecht
(E i culi di pietra del potere sono pesanti da scalzare N.d R.)
13 febbraio 2012
Saluti, Enrico Triaca
ELENCO DEI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Enrico Triaca
17) Seconda parte del testo di Triaca
18) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
La Rai si accorge della tortura in Italia e di De Tormentis
AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI
Anche la Rai si accorge che la lotta alle Brigate Rosse non è stata certo quella di uno stato democratico, ma di uno stato di polizia.
Torturatore.
La trasmissione “Chi l’ha visto?” ieri sera ha avviato un’inchiesta sul professor De Tormentis e la sua squadretta speciale che su mandato del governo Spadolini, agì tra questure e caserme d’Italia per estorcere informazioni alle persone arrestate durante le operazioni contro le Brigate rosse ed altre organizzazioni armate, ricorrendo al waterboarding e ad altre tecniche di tortura e sevizie.
Vedremo come la trasmissione manderà avanti quest’inchiesta visto che nell’intervista a Salvatore Genova (allora Commissario della Digos, oggi questore) sono stati fatti molti nomi poi coperti dai Bip del montaggio.
Vi allego la parte di trasmissione in cui c’è l’intervista ad Enrico Triaca (tipografo delle BR, torturato da De Tormentis) e quella a Genova…
Sotto al video troverete i link, numerosissimi, a tutta quest’inchiesta (solo quelli di questo blog, ma ce ne sarebbero molti altri): come vedete i nomi esistono, e son facilissimi da trovare!
ELENCO DEI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Enrico Triaca
17) Seconda parte del testo di Triaca
Cosa accomuna Marcello Basili, pentito della lotta armata e oggi docente universitario, a Nicola Ciocia (alias professor De Tormentis), ex funzionario dell’Ucigos torturatore di brigatisti?
DAL BLOG INSORGENZE di Paolo Persichetti
mercoledì 1 febbraio 2012
La voglia d’oblio. Il tentativo di restare anonimi, di nascondersi tra le rughe del passato sperando di poter cancellare la propria storia. A Marcello Basili, oggi professore associato di Economia politica presso l’Università di Siena, il passato pesa come un macigno.
Nel 1982 fu arrestato per appartenenza alle Brigate rosse, brigata di Torre spaccata. Non attese molto per pentirsi. Vestì subito i panni del collaboratore di giustizia e da bravo «ravveduto» si adoperò nell’arte dell’autocritica degli altri, scaricando sui suoi coimputati accuse e chiamate di correo. Mentre parlava molti dei suoi ex compagni venivano torturati, con le stesse modalità impiegate da quel Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, capo di una squadra (i cinque dell’Ave Maria) specializzata negli interrogatori con l’acqua e sale, la tecnica del waterboarding impiegata per estorcere dichiarazioni.
Il pentito che vuole farsi dimenticare
Scrive Giovanni Bianconi sul Corriere della sera di oggi, 1° febbraio, che Basili ha chiesto attraverso il suo avvocato che il suo passato di militante della lotta armata sia cancellato dagli archivi telematici, invocando la legge sulla privacy e il «diritto all’oblio» per «non vedere incrinata o distrutta la propria riconquistata considerazione sociale».
Questione seria quella del diritto all’oblio che avrebbe meritato tutt’altro dibattito ma che appare del tutto inappropriata in casi come quello di Marcello Basili o di Nicola Ciocia.
Sempre secondo quanto rivela il Corriere, Basili si è rivolto al Centro di documentazione della Fondazione Flamigni intimando di eliminare il suo nome dagli indici e comunicando di opporsi «al trattamento dei dati» connessi ai suoi trascorsi sovversivi. Precedenti che, sostiene sempre l’insegnante universitario, «appartengono ormai al passato, sono già stati resi noti all’epoca e hanno perso quel carattere di attualità che ne potrebbe giustificare l’ulteriore pubblicazione».
A dire il vero la Fondazione Flamigni andrebbe stigmatizzata per altre ragioni, essendo il più grande collettore delle teorie del complotto, la più grande banca dati della menzogna storica sulla lotta armata per il comunismo.
Ma torniamo a Basili: se i dati in questione fossero impiegati con uno scopo discriminatorio, il docente dell’università di Siena avrebbe tutte le ragioni per lamentarsene. Tuttavia non sembra, fino a prova contraria, che Basili ne abbia ricevuto fino ad oggi un qualche svantaggio. I reati per cui subì un processo e la condanna prevedevono, per chi non collabora con la giustizia, oltre ad una lunga reclusione in carceri speciali anche l’interdizione automatica dai pubblici uffici una volta terminata la pena.
Basili al contrario, grazie allo status di pentito che gli ha permesso di esportare ogni responsabilità sulle spalle altrui, mandando in galera altri, ha avuto da parte dello Stato un trattamento di tutto favore: una reclusione breve e l’interdizione venuta meno. Circostanze che gli hanno consentito di svolgere una brillante carriera universitaria, mentre i suoi compagni di brigata erano, e in alcuni casi sono tuttora, in carcere.
Certo Basili potrebbe ricordare le tante amnesie e rimozioni che hanno avvolto e avvolgono le biografie dei molti padri della patria, la lunga fila di redenti con militanze giovanili infrequentabili che riempiono i ranghi della prima e della seconda Repubblica, compreso il nostro attuale capo dello Stato. Ma l’essersi buttato pentito, purtroppo per lui, non gli dà comunque il diritto di vantare un posto di prima classe sul carro dei vincitori.
La storia non si imbavaglia e tantomeno si rimuove: si elabora
La richiesta avanzata da Basili, anche se ha qualcosa di abietto, non deve tuttavia sorprendere più di tanto perché resta coerente con quella cultura del ravvedimento contenuta nella legislazione premiale introdotta dallo Stato per fronteggiare i movimenti sociali sovversivi. Nel corso degli anni 80 e 90 pentiti e dissociati ricevettero il mandato di amministrare la memoria degli anni 70, scritta e divulgata attraverso un fiume di delazioni, ricostruzioni ammaestrate e testimoninaze ammansite.
La magistratura, che ha gestito in Italia lo stato di emergenza, si è servita di questo personale fatto di ex militanti ravveduti e collaboranti, trasmettendo loro un irrefrenabile sentimento d’impunità che oggi porta quelli come Basili, o i funzionari di polizia addetti al lavoro sporco come Ciocia, privi del coraggio delle loro idee e delle loro azioni, a pretendere che la storia resti muta, senza traccia del loro passaggio.
Questa richiesta di trasformare un passato pubblico in un fatto privato è la conseguenza anche di quel processo di privatizzazione della giustizia che ha portato nell’ultimo decennio magistratura e sistema politico a delegare, sovraccaricare sulle spalle delle parti civili, la gestione della sanzione penale nei confronti dei prigionieri politici.
Il torturatore di Stato che continua a nascondersi
Esiste un parallelo tra l’atteggiamento di Marcello Basili è il comportamento di Nicola Ciocia, già funzionario dell’Ucigos e capo del gruppo di torturatori che per tutto il 1982 (ma anche prima per sua stessa ammissione, vedi il caso di Enrico Triaca nel maggio 1978 e ancora prima quello di Alberto Buonoconto nel 1975), ha imperversato tra caserme, questure e chiese sconsacrate d’Italia praticando l’acqua e sale contro persone arrestate con imputazioni di banda armata.
Questo signore, ora pensionato settantasettenne, nonostante sia stato chiamato in causa da un suo collega (Salvatore Genova), nonostante diversi articoli e un libro recente che ne hanno raccontato l’attività di seviziatore agli ordini dello Stato, indicandolo sotto l’eteronimo di professor De Tormentis, copertura sotto la quale lui stesso ha riconosciuto a mezzabocca le sevizie commesse, pur non rischiando più nulla sul piano penale non vuole venire allo scoperto.
Recentemente, dopo un esposto inviato all’ordine, il suo nome è scomparso anche dall’albo degli avvocati napoletani (attività a cui si era dedicato dopo aver lasciato il ministero dell’Interno con la qualifica di questore), dove compariva regolarmente fino a poche settimane fa.
Di “Nicola Ciocia-De Tormentis” ci siamo diffusamente occupati in questo blog (per gli approfondimenti rinviamo ai diversi link) e continueremo a farlo ancora. C’è infatti molto da raccontare: dall’organigramma delle tortrure, alla filiera di comando, al decisivo ruolo di copertura svolto dalla magistratura fino ad un illuminate dibattito sull’opportunità del ricorso alla tortura e sulla particolare forma di stato di eccezione che si è avuto in Italia sul finire degli anni 70. Discussione che si è tenuta alcuni anni fa sui maggiori quotidiani italiani.
La vicenda Basili-Ciocia (alias De Tormentis) dimostra come l’Italia abbia dato forma ad un singolare paradosso: alla memoria storica svuotata dei fatti sociali è stata sostituita la memoria giudiziaria; all’oblio penale si è sovrapposto l’oblio dei fatti sociali. Così un decennio di speranze e di lotte è divenuto l’icona del male contemporaneo, un simbolo negativo che cristallizza odii e risentimenti, sofferenze e malintesi.
A riguardo anche un articolo di Davide Steccanella, avvocato del foro di Milano : LEGGI
LINK SULLA TORTURA di questo blog:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Triaca
17) Seconda parte Triaca
La seconda parte del racconto di Enrico Triaca, tappezziere tipografo torturato
Prosegue (dal blog Insorgenze) la testimonianza di Enrico Triaca dopo il racconto delle torture subite nel maggio 1978 da parte di una squadra speciale della polizia diretta da un funzionario dell’Ucigos conosciuto con l’eteronimo “De Tormentis”. «Lo avevamo fatto anche prima… con Triaca», aveva ammesso lo stesso “De Tormentis” nella testimonianza concessa a Nicola Rao, apparsa in, Colpo al cuore: dai pentiti ai “metodi speciali”, come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, Sperling&Kupfer 2011.
«Sono ancora vivo bastardi»
Steve McQueen nel film Papillon
Le manovre per fare di me un pentito
Continuai a restare in isolamento a Rebibbia per altri due, forse tre mesi, dopodiché sono stato messo in socialità con i miei coimputati ma tempo qualche settimana fui nuovamente trasferito a Volterra, sempre in socialità.
Il 27 dicembre del 1979 su La Nazione di Firenze esce un articolo con tanto di foto che, facendo riferimento a «indiscrezioni non smentite provenienti dal palazzo di giustizia», mi attribuisce confessioni fatte ad Achille Gallucci, con tutta una serie di fatti e circostanze che avevano portato la polizia ad arrestare molti militanti delle Brigate Rosse. Il tutto, secondo il giornale, sarebbe avvenuto nel carcere di Fossombrone nel quale, in realtà, non ero mai stato.
Dopo questo articolo venni impacchettato e trasferito. Appena fuori da Volterra il blindato si fermò. Salì un carabiniere in borghese che fece scendere i due militi di scorta e mi tolse gli schiavettoni. Cominciò una tiritera per convincermi a collaborare con i metodi classici dell’intimidazione: «abbiamo saputo che a Volterra volevano ucciderti», mi disse. Gli risposi che non avevo nessuna intenzione di collaborare e che se mi riportavano a Volterra mi facevano un favore. Replicò che mi avrebbero portato in un carcere tranquillo dove non c’erano altri prigionieri politici, così potevo pensare con calma alla proposta che m aveva fatto. Il segnale sarebbe stato la revoca del mandato ai miei avvocati. Lui avrebbe capito e sarebbe venuto subito. Me lo dovetti cibare per tutto il viaggio. Come provavo a tirare fuori le sigarette, lui pronto mi infilava in bocca una delle sue malboro e l’accendeva…….. non ho mai avuto un compagno di viaggio così premuroso. Finalmente arrivammo a Sulmona, dove prima di entrare nel carcere mi salutò facendo risalire sul furgone i due carabinieri della scorta. Finii nuovamente in isolamento. Dopo due, forse tre mesi e varie proteste mie e degli avvocati, fui trasferito in una sezione dove era possibile la socialità, non prima di subire i soliti avvertimenti: «guarda che qui ti ammazzano. Non è uno Speciale, qui la sorveglianza è scarsa, qui non girano coltelli ma spade», e via dicendo. Tempo un mese, mi trasferirono nel carcere speciale di Trani. Pensai che finalmente si erano decisi a mollarmi, ma mi spagliavo di grosso. Dopo due-tre settimane mi trasferirono di nuovo.
Termini Imerese
A Termini Imerese mi ritrovai di nuovo in isolamento. C’erano pochissimi detenuti, il carcere era in ristrutturazione dopo che era stato semidistrutto da una rivolta. Ai miei avvocati dissero che dovevo stare isolato perché ero pericoloso. Secondo loro a Volterra stavo preparando la fuga. In seguito dissero che era per il mio bene perché volevano uccidermi. Capii che qui sarebbe stata lunga, infatti rimasi fino al processo: 2 anni. Volevano farmi arrivare in aula distrutto fisicamente e psicologicamente. Smisi di fumare e cominciai a fare yoga. Dovevo resistere, non dovevo farmi distruggere. Cominciai a pensare che comunque andasse avevo sempre un’ultima arma per sottrarmi all’abuso, alla sopraffazione: il suicidio, ma solo come ultima ratio.
I primi tempi compravo il giornale e lo leggevo tutto, compresi gli annunci mortuari, i numeri di pagina. Poi lentamente non ci riuscivo più, leggevo la prima riga e quando passavo alla seconda non ricordavo più cosa c’era scritto nella prima. Così mi limitavo a leggere i titoli finché alla fine non lo comprai più. Ho cominciato a dormire di giorno e vegliare la notte; l’unico svago era litigare e provocare i secondini. Una volta diedi dello stronzo a un secondino (che si era comportato male) e per dispetto mi lasciavano la luce accesa anche la notte. Tutte le notti mi arrampicavo sugli stipetti e allungando la scopa appiccicavo un pezzo di carta che spalmavo con il dentifricio sulla plafoniera. Il soffitto era alto 5 metri. Le guardie tutte le mattine passavano con la scala e lo toglievano, ed io la notte successiva lo rimettevo…… una goduria.
Dopo un annetto mi chiamò a colloquio un assistente sociale: decisi di andarci per sgranchirmi le gambe e fare un po’ di ginnastica con la lingua. Cominciammo a parlare del più e del meno, poi mi chiese se volevo stare ancora in isolamento. Gli spiegai che non volevo assolutamente starci. Le avevano detto che l’isolamento era una mia scelta, allora le chiesi come mai mi avesse chiamato a colloquio, visto che normalmente non succedeva mai. All’inizio mi diede delle risposte vaghe, poi si sfogò dicendomi che non poteva in così poco tempo capire le persone. Mi confessò quindi che l’avevano mandata per testare la mia diponibilità a parlare con i giudici; gli dissi di riferire che se volevano togliermi dall’isolamento andava bene, altrimenti in quel posto potevo anche morirci e non avevo intenzione di parlare con nessuno di loro, poi tornai in cella.
Per passare il tempo feci una stella a cinque punte sul muro e delle scritte, il giorno dopo ci fu una sfilata di secondini tutti ad ammirare i miei graffiti: guardavano e confabulavano nonostante io abbia una pessima calligrafia. Mi cambiarono di cella e si trattennero dal libretto i soldi per la riverniciatura delle pareti. Nella nuova cella feci la stessa cosa. Questa volta mi chiamò il maresciallo che mi rimprovero dicendo che non si facevano quelle cose perché «le stanze erano tutte pulite e così dovevano restare per gli altri». «Quali stanze?» – risposi, facendogli notare che stavamo in un carcere e non in albergo e che quelle si chiamavano celle. Il maresciallo iniziò a sfogarsi dicendomi che aveva sempre fatto servizio in carceri minorili, che era stato spedito a Termini Imerese per punizione e che non sapeva nulla di queste cose. Pensai che fare da psicologo a un maresciallo frustrato era troppo; inforcai la porta e tentai di andarmene ma davanti c’era un appuntato che cerco di bloccarmi. Mi voltai a guardare il maresciallo che gli disse di riportarmi in cella. Intanto il tempo passava, finalmente fui trasferito di nuovo a Rebibbia per il processo, ma sempre rigorosamente in isolamento.
L’aula bunker
Il primo giorno di udienza mi ritrovo nella gabbia dei pentiti, ma ben distante dagli altri e tenuto per la catena dai carabinieri. 
Quando entrò la corte cominciai a protestare chiedendo di essere messo con i compagni. Il giudice acconsentì e un carabiniere mi disse: «quelli ti tagliano la testa». Gli risposi di preoccuparsi della sua di testa.
Restava il nodo dell’isolamento, così continuai a protestare con la corte. Dopo un po’ di tempo i giudici accolsero la mia richiesta, visto che oramai il tentativo era fallito. Dal terzo piano del G12, dove ero rinchiuso, scesi al secondo dove c’erano quelli del 7 aprile e alcuni autonomi. Qui la scena fu divertente: quando arrivai davanti al cancello della sezione scoprii che questi detenuti erano tutti liberi nel corridoio, con le celle aperte (condizione di privilegio), ma quando entrai si rintanarono tutti. Fui portato nella cella di Giuliano Naria. Ci salutammo e mi sedetti sul letto, lui mi disse di disfare la zampogna. Gli risposi che era meglio aspettare, infatti dopo 5 minuti arrivò Emilio Vesce a chiamarlo. Dopo un quarto d’ora si presentarono i secondini a dirmi che si erano sbagliati e che dovevo tornare sù. Al terzo piano, dopo un’altro po’ d’isolamento mi misero in cella con altri due compagnucci freschi d’arresto.
Sospeso il processo per il periodo estivo, mi rispedirono a Termini Imerese (sempre rigorosamente in isolamento). Chiamai il direttore e gliene chiesi il motivo e quello mi rispose di stare tranquillo perché aveva già scritto al ministero che in quel carcere non ero gradito. L’isolamento continuò fino alla ripresa del processo, dove protestai di nuovo con la corte. Finalmente mi declassificarono portandomi al secondo piano del G12, dove non c’erano più i signorini del 7 aprile che già facevano gli omogeneizzati nell’apposita area [il riferimento è alla creazione di apposite sezioni carcerarie declassificate, denominate “aree omogenee per la dissociazione dal/del terrorismo” Ndr]. Venni poi a sapere che erano stati loro a pretendere il mio allontanamento dalla sezione perché c’era il rischio che li ammazzassi – sostenevano – in quanto «irriducibile».
Ancora vivo nonostante tutto
Qui finiscono le torture e inizia il tempo della elaborazione degli avvenimenti, lungo il quale finalmente ripercorro gesti e azioni, fino a rendermi conto di aver oltrepassato la linea della pazzia, di aver fatto cose che razionalmente non si farebbero mai per chiedermi come fossi arrivato ad uscirne. Non ho una risposta, l’unica cosa che posso pensare è la forte convizione di ciò che ero e mi consideravo: un militante comunista prigioniero di uno Stato bugiardo e vigliacco che ha ancora paura di affrontare i propri fantasmi, che tenta di giustificarsi parlando di «mele marce».
La consapevolezza che i miei compagni mi credevano e non hanno avuto dubbi.
Ma io so delle torture degli anni 70 e 80,
io so della mattanza di Bolzaneto,
io so dei morti ammazzati nelle caserme e durante l’arresto.
Io so di poliziotti che passeggiano sulla testa di ragazzini alle manifestazioni.
Di tutto ciò, ci sono le prove.
Allora ti volti indietro e ti accorgi che non si tratta di “mele marce” ma che è l’intero frutteto ad essere marcio.
Per questo ancora oggi mi dichiaro prigioniero politico, non più di un potere giudiziario, carcerario, ma di una verità nascosta, insabbiata, di uno Stato che senza merito si fregia del titolo di democratico, di uno Stato reticente, connivente.
2/fine
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Triaca
Enrico Triaca: ecco come mi ha torturato De Tormentis
Un testo che Enrico Triaca, il “tipografo” delle Brigate Rosse torturato, ha inviato al blog di Paolo Persichetti, Insorgenze.
Che non può non esser allegato al lavoro che Polvere da Sparo sta facendo sulla tortura.
Avevo chiesto ad Enrico Triaca, se ne avesse avuto voglia, di raccontare in una intervista le torture subite dopo l’arresto, nel maggio 1978. Enrico mi ha fatto pervenire questa testimonianza scritta di suo pugno dove racconta i due volti della tortura: quella immediata, il supplizio sul corpo, e quella più lunga, sottile, interminabile, realizzata attraverso l’isolamento carcerario in condizioni di detenzioni bestiali. Entrambe finalizzate ad estorcere informazioni, spingere alla delazione, distruggere l’identità politica e personale.
Il racconto è molto lungo per questo sono costretto a suddividerlo in due parti. Non voglio togliere altro spazio a parole che lasciano il segno, aggiungo solo una cosa: “De Tormentis” ha rivelato nel libro di Nicola Rao di essere stato il torturatore di Triaca. Enrico riferisce che questo funzionario di polizia che discuteva da pari a pari con il capo della Digos romana Spinella, dunque aveva un grado elevato, gli si presenta come «compaesano». Enrico Triaca è nato a San Severo, in provincia di Foggia. Il suo torturatore era dunque pugliese come lui. Si tratta di un ulteriore dettaglio che conferma l’identità di “De Tormentis”, nato a Bitonto, provincia di Bari, il 21 gennaio 1934.
“Sono stato arrestato il 17 maggio 1978. Prelevato da casa fui portato in tipografia, in via Pio Foà a Monteverde, per la perquisizione dei locali. Qui appena gli agenti hanno rinvenuto il materiale dell’organizzazione si è precipitata un’orda di poliziotti. A quel punto sono stato portato in questura, a San Vitale, dove venni perquisito come risulta da un verbale firmato da Domenico Spinella (capo della DIGOS). Nel pomeriggio sono stato spostato nella caserma di via Castro Pretorio, dove è cominciato l’interrogatorio. Verso sera è arrivato il “professor De Tormentis” che mi ha indirizzato qualche battuta dicendomi, tra l’altro, che eravamo paesani, dopodiché si appartò con Spinella. I due confabularono qualcosa. Appena finito dissero agli agenti che bastava così e ordinarono di riportarmi in questura. Uscimmo nel cortile dove c’era un furgone. Si aprì lo sportello laterale e si affacciarono due poliziotti con casco antiproiettile e giubbotto suscitando lo stupore degli agenti che mi tenevano, ma “De Tormentis” ordinò di consegnarmi a loro e Spinella confermò l’ordine.
Il trattamento
Fui caricato, mi misero le manette dietro la schiena, mi bendarono steso a terra e il furgone partì. Nessuno parlava, si sentiva solo un leggero bisbiglio e un rumore di armi, caricatori che venivano inseriti, carrelli che mettevano il colpo in canna. Cercavo di capire cosa stava succedendo: “Vogliono farti sparire, eliminarti? Ma sei stato prelevato a casa, portato in tipografia, quindi la cosa e pubblica”. Allora razionalizzavo che la cosa non era possibile. Allora mi chiedevo: “Vogliono pestarti? Ma questo potevano farlo a Castro Pretorio, di certo non sto andando in Questura”. Dopo una mezzora circa, ma calcolare il tempo in certi frangenti è difficile, penso comunque di non essere uscito da Roma, il furgone si fermò. Mi fecero scendere, salimmo delle scale e mi introdussero in una stanza. Lì venni spogliato, mi caricarono su un tavolo e mi legarono alle quattro estremità con le spalle e la testa fuori dal tavolo, accesero la radio con il volume al massimo e cominciò “il trattamento”. Un maiale si sedette sulla pancia, un altro mi sollevò la testa tenendomi il naso otturato, e un altro mi inserì il tubo dell’acqua in bocca.
L’istinto è quello di agitarti nel tentativo di prendere aria ma riesco solo ad ingoiare acqua. Nessuno parla tranne“De Tormentis” che da ordini, decide quando smettere e quando ricominciare, fa le domande. Poi ti viene somministrato qualcosa che si dice dovrebbe essere del sale, ma tu non senti più il sapore, dopo un po’ che tieni la testa penzoloni i muscoli cominciano a farti male e ad ogni movimento ti sembra che il primo tratto della spina dorsale ti venga strappato dalla carne, dai muscoli, dai nervi. Quando l’ossigeno comincia a mancare il corpo si ribella e si manifesta con violenti spasmi, violente contrazioni nel tentativo di prendere ossigeno: uno, due , tre spasmi e “de Tormentis” ordina di smettere. Un paio di respirazioni e si ricomincia: uno, due, tre contrazioni, «Stop»; uno, due, tre, «Stop». Dopo un lasso di tempo indefinito cominci a non reagire più; cerchi di estraniarti ma la testa che viene continuamente mossa e le fitte che ciò ti procura ti costringono a restare lì. All’ennesimo stop entra in campo un’altra voce che dice di smettere, che può bastare. Ne nasce una mezza discussione con “De Tormentis” che invece insiste per continuare, ma l’altra voce ha paura e s’impone e così vengo slegato, messo a sedere sul tavolo. Con l’alcol mi massaggiano braccia e spalle, mi rivestono tra le battute divertite di due maiali. Per accertarsi che la bendatura regga mi fanno uscire sul pianerottolo dove al centro è sistemata una sedia che mi fanno urtare per verificare che non vedo, quindi riscendo una rampa di scale e poi ne imbocchiamo un’altra sulla sinistra, più piccola e meno illuminata che da direttamente nel garage. Qui vengo caricato nel furgone, si sente il rumore di una porta automatica e si parte. Tornati in questura, nel cortile vengo sbendato e consegnato a due guardie che mi portano in cella di sicurezza.“Hanno visto in tanti”
“De Tormentis” ha sparso una quantità di indizi su di sè da essere ormai facilmente identificabile; la voce “fuori campo” presente nella stanza della tortura non è difficile da capire a chi appartenga. Non poteva essere certo un semplice poliziotto ad ordinare a “De Tormentis” di smettere. Nel cortile di Castro Pretorio oltre a Spinella e “De Tormentis” con la sua squadretta c’era una coorte di almeno 10 poliziotti. Erano e sono in molti a sapere.
Come scriveva Pasolini, io so. Io so i nomi dei torturatori, io so i nomi di chi tali abusi ha coperto, ma non ho le prove.Il carcere
Dopo tre giorni di permanenza nelle celle di sicurezza (altro abuso perché le leggi di allora non permettevano di trattenere un detenuto per un tempo così lungo in questura) venni tradotto nel carcere di Civitavecchia, dove sono stato per circa una settimana. 24 ore su 24 chiuso in cella senza possibilità di andare “all’aria”, con un secondino fisso davanti alla cella. Poi trasferito a Sulmona, anche lì 24 su 24 in una cella sotterranea, con una finestrella a sei metri di altezza, una turca, senza lavandino, con un tubo che fuoriusciva sopra la turca da cui sgorgava in continuazione acqua dal quale potevo lavarmi o bere, il letto incementato al centro della cella, e una puzza di muffa che toglieva il respiro……… mi venne in mente Silvio Pellico.
Dopo una settimana circa, sono stato nuovamente trasferito, questa volta a Volterra. Qui ci fu il salto di qualità: la cella era una “normale” cella di isolamento, con letto, bagno, lavandino e due porte una di fronte all’altra. Una di queste portava al cortile dell’aria: una cella un po’ più piccola senza tetto, ma almeno si vedeva la luce del sole, il cielo. Qui riuscii ad avere dopo tanto una sigaretta dal lavorante della sezione, una Stop lunga senza filtro. Me la fumai con un gusto indescrivibile, poi mi sdraiai sul letto perché mi girava tutto. Dopo un’altra settimana circa sono stato nuovamente trasferito, a Rebibbia questa volta, sempre in isolamento. Ricevetti la prima visita degli avvocati, che mi spiegarono come fino a quel momento nessuno era riuscito a sapere dove stavo, che fine avessi fatto (Desaparecidos).
A Rebibbia il passeggio era ampio con tutto intorno vetrate che davano su corridoi interni. Dopo qualche giorno trovai i vetri tappezzati di carta plastificata ed ogni tanto apparivano fessure dalle quali, seppi in seguito, mi spiavano i parenti delle vittime per i confronti.La condanna per calunnia
Ci fu poi l’interrogatorio con il magistrato Achille Gallucci al quale denunciai le torture raccontando come si svolsero i fatti. Lui mi rispose che mi sarei beccato una denuncia per calunnia e così fu. Il giorno dopo, o forse quello ancora, ricevetti il mandato di cattura per calunnia, dopo lunghe e approfondite indagini Sic!.
Venne istruito il processo per direttissima, ed in quella occasione ci inserirono il porto abusivo di armi. Gli avvocati fecero presente che non potevo essere processato per porto d’armi in quel frangente perché i tempi per la direttissima erano scaduti, ma il giudice se ne fregò e andò avanti.
Venne chiamato Domenico Spinella, capo della DIGOS. Il giudice gli chiese il motivo del trasferimento dalla questura a Castro Pretorio, ma lui negò che fossi stato portato in questura ma direttamente a Castro Pretorio. Gli avvocati presentano alla corte un verbale firmato da Domenico Spinella nel quale affermava che alle 12,30 venivo perquisito negli uffici della questura, ma il giudice se ne fregò, non chiese chiarimenti e continuò. Chiese a Spinella i nomi degli agenti di turno alle celle di sicurezza, lui rispose che non poteva ricordarli ma che il giorno dopo avrebbe portato il registro delle presenze. Il giorno dopo venne un agente e disse che il registro delle presenze era sparito, ma il giudice se ne fregò e si convinse, “al di la di ogni ragionevole dubbio”, della mia colpevolezza, così fui condannato.
Tutti i giornali evitarono qualsiasi commento limitandosi a riferire della mia condanna, si distinse L’UNITA’ che ebbe l’ardire di scrivere sul numero dell’8 novembre 1978: «L’avvocato Alfonso Cascone ha invece avanzato apertamente il sospetto che le accuse di Triaca alla polizia fossero false e che il suo assistito avesse mentito poiché – pensando di essere considerato dalle BR un delatore – temeva rappresaglie. Il reato di calunnia, ha detto quindi il legale, sarebbe stato compiuto in “stato di necessità”. Nonostante i dubbi suscitati dal comportamento della polizia durante il processo, dunque, uno scorcio di verità è arrivata inaspettatamente proprio da uno dei difensori del tipografo delle BR».
L’avvocato Alfonso Cascone presentò una denuncia contro il giornale che venne immediatamente archiviata.
CONTINUA…
I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Le torture su Sandro Padula,ancora detenuto, 29 anni fa…
AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI
PROSEGUE LA SERIE SULLA TORTURA, DAL BLOG INSORGENZE
Sandro Padula viene arrestato il 14 novembre 1982 a Castel Madama, in provincia di Roma. L’appartamento che faceva da base-rifugio per alcuni militanti latitanti delle Brigate rosse – partito comunista combattente era stato individuato da alcuni giorni dalla Digos che vi aveva fatto irruzione arrestando i presenti. Alcuni dei quali, Romeo Gatti in particolare, furono sottoposti a tortura. La polizia si istalla nella base e attende l’arrivo di Padula che appena entrato viene bloccato e avvolto in un tappeto per essere trasportato via all’insaputa dei vicini che in questo modo non si accorgono dell’arresto. Caricato all’interno di un furgone civile da finti facchini viene condotto con gli occhi bendati in un luogo imprecisato, forse una caserma della zona. Lì inizia il “trattamento”: spogliato viene appeso per le braccia alla parete e sottoposto ad una infinità di colpi su tutto il corpo e sulla testa fino al punto da non sentire più nulla. «Ad un certo punto – racconta quelle poche volte che riesco a strappargli qualche ricordo dalla bocca – il dolore si anestetizza». I seviziatori non hanno alcun ritegno. Il pestaggio condito dal solito florilegio di minacce non sortisce alcun effetto.
A quel punto gli aguzzini passano alla fase due: quella raccontata decine e decine di volte dagli altri torturati sottoposti all’acqua e sale, testimoniata da Salvatore Genova nelle interviste del 1997 a Matteo Indice e nel libro recente scritto da Nicola Rao, tutti materiali che potete trovare in questo blog. Torture ammesse dallo stesso “professor De Tormentis”, il grande maestro dell’acqua e sale, sempre in una intervista a Matteo Indice e nel libro di Rao.
Sandro viene disteso su un tavolo posto accanto ad un lavandino con una parte del corpo, dalla vita in sù, sospesa all’esterno. In bocca gli viene introdotto un tubo ma prima le labbra vengono cosparse di sale. Uno degli aguzzini gli tiene il naso chiuso. Sandro che non è un eroe e tantomeno un campione di apnea (non sa nemmeno nuotare) tuttavia resiste. «Conta che ti passa», gli aveva detto un compagno pochi mesi prima, Umberto Catabiani, membro dell’esecutivo dell’organizzazione ucciso il 24 maggio precedente dopo un lungo inseguimento, mentre ferito aveva guadato un fiume per tentare di fuggire all’arresto. L’acqua e sale nonostante la sua bestialità non sortisce risultati. Un medico, presente, monitorava il cuore. Alla fine i seviziatori di Stato desistono. Uno di loro dirà con disappunto: «Ma questo conta. Ci sta fregando. E’ esperto di apnea».
Arrivati a quel punto il problema era quello di rendere presentabile Padula, che imputato nel processo Moro in corso avrebbe dovuto comparire immediatamente in aula. Sandro viene “preso in cura” da uno strano personaggio che si qualifica come «massaggiatore di una squadra di calcio» che allevia gli ematomi e le contusioni di cui è pieno il suo corpo con massaggi a base di vegetallumina.
Per tre volte le udienze del processo vengono rinviate tra le proteste degli imputati che denunciano le torture in corso e ricordano al presidente di essere complice di quel che stava accadendo. In aperta violazione della legge Sandro Padula resta nelle mani della polizia anche durante l’interrogatorio del 19 novembre, quando Domenico Sica lo va ad ascoltare in questura. Arriverà in aula solo il 19 novembre. Le cronche deformate delle udienze, raccotate con grande disonestà carica di livore in particolare dall’Unità, le potete trovare qui sotto.
Alessandro Padula è ancora in carcere sottoposto a regime di semilibertà. Dal suo arresto e dalle torture sono passati 29 anni e due mesi.
Assente l’imputato Padula, rinviato il processo Moro
L’Unità venerdì 19 novembre 1982
ROMA — È durata tre minuti l’udienza di Ieri del processo Moro. La Corte è entrata e il presidente Santiapichi ha annunciato che nessuno poteva prendere la parola mancando un imputato che invece aveva diritto ad assistere al processo: il br in questione è Sandro Padula, arrestato nei giorni scorsi vicino Roma e accusato di almeno 7 tra I più efferati delitti delle Brigate rosse. La procedura prevede infatti che se un Imputato appena arrestato non fa pervenire l’esplicita rinuncia ad essere presente, il processo non può andare avanti. E infatti il dibattimento è stato aggiornato a lunedì prossimo. La comunicazione del presidente ha dato il via a una serie di proteste e di pesanti minacce dei brigatisti in gabbia. «Lo stanno torturando – hanno gridato i br – avete chiesto perché Padula non è venuto?». Poi una minaccia diretta al presidente della Corte da parte di Pancelli: «Lei si sta rendendo complice delle torture», ma il giudice Santiapichi ha replicato seccamente. «Non sono complice di nessuno, la legge prevede che non si può fare udienza mancando un imputato». Poi sono arrivate anche le minacce ai giornalisti. Lunedì si dovrebbe quindi riprendere con le audizioni dei collaboratori di Moro Rana e Freato, rinviati da alcune udienze per la discussione sulle richieste (tutte respinte) dì alcune parti civili per l’approfondimento in aula di alcuni scottanti retroscena del caso Moro. L’interrogatorio di Nicola Rana era già iniziato e il teste era stato sentito su alcune registrazioni telefoniche. Con queste deposizioni, a seguito della decisione della Corte di rimandare ogni altro approfondimento a una nuova inchiesta della Procura, il processo entra nella fase finale.
Il Br Padula si rifiuta di rispondere al giudice. Lunedì sarà presente al processo per via Fani
La Stampa Anno 116 Numero 251 – Pagina 6 – Sabato 20 Novembre 1982
DALLA REDAZIONE ROMANA ROMA – Sandro Padula, il brigatista rosso arrestato nel corso dell’ultima operazione della Digos, si è rifiutato di rispondere alle domande del sostituto procuratore della Repubblica Domenico Sica, dichiarandosi «militante comunista». Al magistrato, che lo ha interrogato in questura, Padula ha denunciato di essere stato maltrattato dagli agenti che l’avevano arrestato. Il suo difensore, avvocato Giuseppe Mattina, ha fatto mettere a verbale le accuse formulate dall’imputato, preannunciando una denuncia, che verrà presentata probabilmente oggi alla procura della Repubblica. Il magistrato, prima di chiedergli se volesse rispondere alle domande, ha contestato a Padula le accuse di partecipazione a banda armata e di violazione della legge sulle armi. Al momento dell’arresto gli è stata infatti, sequestrata una pistola. A conclusione dell’interrogatorio, Padula avrebbe mostrato al magistrato, a sostegno della sua denuncia, diversi ematomi sul corpo e sugli arti. Ha inoltre sostenuto di essere stato portato in un luogo di cui non sa indicare l’ubicazione e, una volta bendato, di essere stato steso supino su di un tavolo, legato, e costretto a bere acqua e sale. Padula sostiene anche di aver ricevuto pugni sulla testa e sulle orecchie, e di essere stato trattenuto nella casa in cui venne arrestato per un’intera giornata, ammanettato e bendato. Padula ha poi dichiarato al magistrato che, dopo le percosse, ha ricevuto qualche cura dagli agenti che l’avevano in consegna prima di essere trasferito, nelle celle di sicurezza della questura. L’imputato ha quindi sostenuto che, in cambio di un’ampia confessione e dei nomi di suoi compagni di clandestinità, gli è stato anche offerto un passaporto per espatriare e somme di danaro.
Lunedì, Padula sarà nell’aula del Foro Italico dove si celebra il processo per l’uccisione di Aldo Moro
Processo Moro: Padula dice di essere stato «torturato». I brigatisti lanciano accuse alla DIGOS e lasciano l’aula
L’Unità, lunedì 23 novembre 1982
ROMA — Quasi tutta a porte chiuse la sessantacinquesi-ma udienza del processo Moro. Fuori il pubblico, i giornalisti, i fotografi, i cineoperatori, tutti, insomma, tranne gli «addetti ai lavori» muniti di toga: la corte, il pubblico ministero e gli avvocati. Non perché si dovesse parlare di chissà quali segreti (un processo serve proprio per verificare ogni cosa alla luce del sole) ma semplicemente per poter ascoltare in aula le registrazioni delle telefonate intercettate durante Il rapimento, senza violare la «privacy» di nessuno. L’ascolto di queste intercettazioni ha fatto da base per le domande rivolte a Nicola Rana e a Sereno Freato, che furono – assieme a Corrado Guerzoni – I più stretti collaboratori del presidente democristiano. Freato, ascoltato In serata« ha tra l’altro ricostruito la storia di un incontro tra il sottosegretario agli interni Lettieri e l’avvocato svizzero Payot, il quale aveva promesso, facendosi pagare cinque milioni, un Interessamento risolutore, mediante i suoi supposti agganci con I terroristi tedeschi della RAF. Ma la cosa si sarebbe rivelata un volgare «bidone».
Alle deposizioni dei due testimoni non erano presenti neppure gli imputati, che pure ne avrebbero avuto facoltà: nella tarda mattinata hanno abbandonato le gabbie in segno di protesta, dopo che era scoppiato In aula un nuovo «caso», legato al nome di Alessandro Padula, il brigatista accusato di otto omicidi arrestato dalla polizia nove giorni fa a Roma e comparso ieri per la prima volta al processo. Padula ha dichiarato di essere stato «torturato» dagli agenti della DIGOS ed ha inoltre accusato la polizia di avergli impedito di partecipare alle tre udienze della scorsa settimana (com’era suo diritto) attraverso un «falso». La corte ha passato la denuncia di Padula al pubblico ministero, affinché la procura romana possa vagliare le accuse alla DIGOS con una regolare inchiesta.
Il «caso Padula» non è stato aperto dall’interessato ma dal brigatista Prospero Gallinari, imputato di essere stato il boia di Aldo Moro. Appena la corte si é seduta, in apertura d’udienza. Gallinari si è fatto passare il microfono ed ha affermato che Padula é stato tenuto lontano dall’aula del processo per otto giorni ed è stato lasciato nelle mani dei «torturatori di Stato». Il portavoce dell’ala «militarista» delle Br è stato interrotto dal presidente Santiapichi, ma a questo punto ha incalzato lo stesso Padula, ribadendo le stesse accuse alla polizia e aggiungendo una sequela di slogan brigatisti. L’imputato ha mostrato al giornalisti un livido al polso destro ed ha sostenuto di essere stato appeso per le braccia e di aver ricevuto «il trattamento acqua e sale».
Il legale di Padula, l’avvocato Attillo Baccioli, del foro di Grosseto, ha eccepito la nullità delle ultime tre udienze del processo celebrate in assenza dell’imputato e dopo il suo arresto. Tutti gli altri legali si sono opposti, il Pm pure, e la corte – dopo mezz’ora di camera di consiglio – ha respinto l’eccezione di nullità passando, come si è detto, il verbale dell’udienza al rappresentante dell’accusa, per l’apertura di un’inchiesta da parte della procura. il presidente Santiapichi ha inoltre spiegato l’assenza dell’imputato la settimana scorsa, dichiarando che la DIGOS aveva comunicato di aver Identificato il brigatista per Alessandro Padula soltanto il 17 novembre (aveva in tasca documenti falsi). L’interessato ha smentito, accusando di «falso» la polizia, e anche su questo indagherà la procura.
GLI ALTRI LINK SULLA TORTURA IN ITALIA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
La sentenza di condanna sulle torture a Di Lenardo… un pezzo di NON storia da non perdere
Ancora sulla tortura…in questo post la sentenza contro alcuni torturatori, quelli che De Tormentis, nel libro di Nicola Rao liquida come “poco esperti” al punto che hanno lasciato segni e lesioni che hanno portato a dei procedimenti penali..
lui era più bravo.
“Durante l’ultima guerra mondiale, in Albania accadeva che tanti soldati italiani finivano in infermeria o venivano rimpatriati perché dichiaravano di essere stati azzannati da cani idrofobi. Il fenomeno era così diffuso che ad un certo punto le gerarchie militari vollero vederci chiaro. I segni del morso erano ben visibili sui polpacci dei soldati. Tuttavia nella zona non c’erano torme di cani idrofobi.
Il rebus fu spiegato quando venne trovata la riproduzione anatomica, in legno, di una mandibola canina. Il soldato che aveva fabbricato lo strumento, dotandolo di una “dentatura di chiodi” lo affittava ai commilitoni. I quali, con i segni delle “zanne” sulla pelle venivano subito ricoverati.
La messinscena aveva un inconveniente: ai militari che denunciavano di essere stati morsi veniva praticata una puntura al fegato. Ma per quanto l’iniezione fosse dolorosa, lo era sempre meno di una pallottola in combattimento.”
Con questo aneddoto, tratto dai ricordi paterni, il sostituto procuratore Domenico Sica risponde a chi gli chiede se in Italia i terroristi vengono seviziati dalla polizia.
L’aneddoto è in realtà un apologo: i soldati sono i brigatisti, l’inesistente cane idrofobo la tortura, i segni del morso, le ecchimosi e gli ematomi che vengono mostrati a riprova delle sevizie. Sica non crede alle torture, così come non ci credono i magistrati …
(Tratto da un articolo de Il Paese Sera, 18 marzo 1982, a firma di Guido Rampoldi)
Sentenza n. 743/86 Reg. Sent. – N. 1065/83 R.G. – N. 2816/83 P.M. Depositata il 5 novembre 1986, Tribunale Penale di Padova, sez I°
causa penale a procedimento formale contro Genova Salvatore, (…)

- Una foto che racconta tutto: il torturato Di Lenardo è tra le sbarre, i suoi aguzzini senza alcuna privazione, con strane barbe e occhiali scuri
[…]
A) del reato di cui agli artt. 110, 112 nn. 1 e 2, 605/1°2° co. n 2 CP e 61 n. 2 CP
per aver illecitamente privato Di Lenardo Cesare della libertà personale, perché in concorso con Amore Danilo, Di Janni Carmelo, Laurenzi Fabio e Aralla Giancarlo prelevavano il Di Lenardo dai locali dell’Ispettorato di Zona 2° Reparto Celere, dov’era legittimamente detenuto in seguito all’arresto avvenuto il 28.1.1982, sottraendolo a coloro che erano investiti della custodia, lo caricava con mani e piedi legati e con gli occhi bendati nel bagagliaio di una autovettura e lo trasportavano in una località sconosciuta, dove il Di Lenardo veniva fatto scendere e sottoposto alle percosse e minacce descritte nel capo seguente;
indi lo trasportava nuovamente (sempre nel bagagliaio dell’autovettura) nell’area del 2° Reparto Celere e lo conduceva in un sotterraneo, nel quale il Di Lenardo era sottoposto alle percosse e alle violenze descritte nel capo seguente, al termine delle quali veniva riportato nei locali di legittima detenzione; con le aggravanti di aver commesso il fatto abusando dei poteri inerenti alle funzioni di pubblico ufficiale, in numero non inferiore a cinque persone ed al fine di commettere il reato di cui al capo seguente;
di aver promosso e organizzato la cooperazione nel reato, nonché di aver diretto l’attività delle persone che vi sono concorse.
B) del reato di cui agli artt. 56, 81 cpv, 110, 112 n. 2, 61 n.9, 610/1°e 2° co. CP in relazione all’art. 339 CP, per aver in concorso con Amore Danilo, Di Janni Carmelo, Laurenzi Fabio, Aralla Giancarlo e con altri con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso mediante violenza, consistita in percosse in diverse parti del corpo, e minaccia, consistita nell’esplosione di un colpo d’arma da fuoco e successivamente mediante violenza, consistita nel legarlo su di un tavolo, sul quale era stato steso, facendogli inghiottire sale grosso, di cui gli era stata riempita la vocca, e, permanendo lo stato di costrizione sul tavolo, venendogli inoltre impedito di respirare col naso, facendogli ingoiare una grande quantità d’acqua che veniva in continuazione versata nella sua bocca […]
[…]
LETTI GLI ATTI; VISTA A RICHIESTA DEL PM
ritenuto che Genova Salvatore, tratto a giudizio dinanzi al Tribunale di Padova per rispondere dei reati riportati in rubrica, prima che si celebrasse il dibattimento nei suoi confronti viene eletto deputato;
che fu disposta la separazione del procedimento a suo carico;
che nei confronti del Genova venne richiesta alla Camera dei Deputati l’autorizzazione a procedere prescritta dall’art. 68 Cost;
che come risulta dalla comunicazione in atti, la Camera dei Deputati, nella sua seduta del 5.6.1986, ha negato l’autorizzazione a procedere;
che pertanto, mancando la condizione di procedibilità necessaria per proseguire l’azione penale deve dichiararsi non doversi procedere nei confronti dell’imputato, con sentenza da emettersi (anche d’ufficio) in ogni stato e grado del procedimento;
P.Q.M.
Dichiara non doversi procedere nei confronti di Genova Salvatore in ordine ai reati a lui ascritti, perché l’azione penale non può essere proseguita per mancanza dell’autorizzazione a procedere della Camera dei Deputati
ELENCO DEI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto
Le torture su Alberto Buonoconto, poi morto suicida … 1975, questura di Napoli
RIPORTO PER INTERO, RINGRAZIOLO, DAL BLOG CONTROMAELSTROM , così da integrare la lunga serie sulla tortura presente su questo blog
In questo paese si è sempre usata la tortura, per sopperire alle incapacità investigative degli inquirenti di fronte a fatti che colpivano la cosiddetta “opinione pubblica”. Ma dal 1975, comincia a diventare un metodo centrale dell’attività repressiva dei movimenti politici antagonisti e rivoluzionari.
Nel 1975 succedono fatti nuovi che ne consentono l’applicazione sistematica.
Correva la VI legislatura, era in carica il “IV Governo Moro” (23.11.1974 – 12.02.1976) formato da DC e Pri (presidente del consiglio Aldo Moro, vicepresidente Ugo La Malfa) agli interni, Luigi Gui, alla giustizia, Oronzo Reale (quello della “Legge Reale” ). Nel 1975 inizia la “politica di solidarietà nazionale” (1975-1978), con la collaborazione prevalente tra Dc e Pci che porterà ai governi di “unità nazionale”, caratterizzati dall’assenza di qualsiasi opposizione parlamentare (se non piccole formazioni come Democrazia Proletaria e altre). Sull’esempio della “Grosse Koalition” in Germania Ovest tra Cdu/Csu (cristiano democratici/cristiano sociali) e Spd (socialdemocratici) che era stata formata il 1° dicembre 1966.
Sarà proprio l’unità tra tutte le forze politiche a consentire una “politica controrivoluzionaria” una repressione feroce e totalmente al di fuori del quadro costituzionale e dello “stato di diritto”. Da qui la tortura, introdotta gradualmente ma sempre più massicciamente, le leggi speciali, le carceri speciali, i processi speciali, ecc…
Vedi a questo link la tortura nei confronti del compagno Enrico Triaca nel 1978 e in questo la risposta dello stesso Triaca al suo torturatore
Alberto Buonoconto viene arrestato l’8 ottobre 1975 
Dal comunicato della “Lega per i diritti dei detenuti”
…Due giorni dopo l’arresto nel carcere di Poggioreale, Alberto Buonoconto dichiarava al Sostituto Procuratore della Repubblica, dr. Di Pietro di essere stato interrogato nella Questura di Napoli per 10 ore consecutive, senza la presenza del legale di fiducia o di un difensore di ufficio. Precisava poi che nel corso dell’interrogatorio, aveva subito, da parte di funzionari e d agenti, percosse e violenze fisiche somministrate con sistemi scientifici tali da poter essere qualificate come vere e proprie torture.
Il Sostituto Procuratore dava atto che il giovane presentava escoriazione e contusioni multiple su innumerevoli parti del corpo. Nei giorni successivi 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 ottobre il difensore del Buonoconto, avvocato Senese,vedeva costantemente respinta la richiesta di colloquio con il suo assistito, fino a che il giorno 17 ottobre (10 giorni dopo l’arresto) gli pervenne una denunzia autografa del giovane:
«Nella stanza dove mi hanno condotto ho trovato una decina di poliziotti, tutti in borghese, ed in più Fabbri e, credo, forse Ciocia (due funzionari PS di Napoli della squadra politica. N.d.r.), ed uno che gli altri chiamavano “dottore” mi diceva che lui mi faceva “gettare il sangue e l’anima”. Mi hanno fatto prima sedere normalmente su una sedia, poi, mentre mi schiaffeggiavano abbondantemente mi chiedevano se conoscevo i due che erano con me sulla macchina, mi tiravano cazzotti, e mi chiedevano quale “azione” ero in procinto di fare, mi tiravano la barba e mi strappavano i capelli per sapere dove avevo dormito la notte. Mi hanno tirato i nervi del collo, spremuto il naso, colpito violentemente con i tagli delle mani sul collo, sulle spalle e sulla schiena, stringendo anche le manette (dopo avevo i polsi il doppio di come li avevo entrando in Questura). Mi hanno storto le dita, le braccia, i gomiti, i polsi…poi mi prendono e mi stendono su una sedia. Uno di loro mi afferra con una mano il piede e con l’altra la coscia destra e fa leva col suo ginocchio. Non riuscivo più a tenere la testa alta, allora il sangue saliva e vedevo da questa posizione la dentiera di Fabbri che si apriva in larghi sorrisi di compiacimento per i suoi assistenti che mi tiravano calci sotto la testa per farmela tenere sollevata da terra… Hanno cominciato poi a tirarmi cazzotti nello stomaco, colpi di punta sul fegato, e continuavano in quella posizione distesa a tirarmi i capelli e a schiaffeggiarmi».
Immediatamente l’avvocato presentava denunzia alla Procura della Repubblica… contestualmente veniva richiesta ammissione al carcere di Poggioreale di un medico di parte, per costatare lo stato di salute del Buonoconto e l’entità delle lesioni. In data 20 ottobre il P.M. designato comunicò di non ammettere l’accesso al carcere del medico di parte, in quanto era stata già disposta , ed anche eseguita una perizia d’ufficio. Dichiarò inoltre che era stato omesso l’avviso alla difesa perché «le tracce delle lesioni potrebbero modificarsi durante il tempo necessario per la notifica dell’avviso».
Poiché per i reati commessi all’interno della Questura di Napoli, da alti funzionari, è assolutamente da escludersi la possibilità di reperire una qualsiasi prova testimoniale, appare evidente che privare la difesa del Buonoconto di una perizia medico-legale di parte, significa voler privare la denunzia di ogni elemento di prova . A confermare queste gravi considerazioni, sono venute nei giorni successivi, sulla stampa locale e nazionale, le giustificazioni dei funzionari della Questura di Napoli, che dichiaravano che il Buonoconto… si era prodotto lesioni sbattendosi la testa in un muro , all’atto del trasferimento dalla Questura al carcere. A parte che non esiste nessun referto ospedaliero sottoscritto dal Buonoconto, la stessa perizia eseguita dal medico-legale designato dal tribunale, elenca una lunga serie di lesioni, alcune delle quali localizzate in parti del corpo (fra le quali il collo), tali da dover escludere l’ipotesi dell’autoferimento.
Il prof. Faustino Durante dell’Università di Roma, ha infatti sostenuto in una sua controperizia, eseguita sulla scorta dei dati, di cui alla perizia del tribunale, che le lesioni subite dal Buonoconto gli sono state chiaramente e inequivocabilmente prodotte al seguito di colpi infertigli da terze persone.
Nonostante la controperizia… la Procura della Repubblica non ha ancora ritenuto di dover procedere all’invio di comunicazioni giudiziarie.
Una accorata testimonianza del padre di Alberto:
«…E ancora mi chiedo il perché di tanta crudeltà, di tanto spietato accanimento contro di lui, il perché delle torture che gli hanno inflitto dopo l’arresto, durante e dopo la lunga carcerazione, quel lungo calvario che giorno per giorno ha determinato la distruzione di Alberto.
[…] Ci lasciano per delle ore in una stanza [della Questura] e di tanto in tanto viene un funzionario a chiedermi che cosa so io di mio figlio. Perché non lo richiamo a casa? Da quanto tempo manca da Napoli? Ipocritamente con me insistono per sapere qualche cosa di mio figlio . Sono domande tranello perché Alberto è già nelle loro mani: lo stanno picchiano e seviziando. Sono io che lo ignoro.
Poi vengo a sapere, dagli avvocati e dalla stampa, che Alberto è ferito. Le denunzie fatte sono state archiviate perché contro ignoti. Ignoti!!! le sevizie a lui inflitte, gli sono state fatte in un pubblico ufficio, dove sarebbe stato facile se solo avessero voluto, risalire ai responsabili.
Da quel giorno è iniziata la disperazione di tutti noi. Mio figlio ha pagato con la vita la sua lotta contro la diseguaglianza e l’ingiustizia. Un giorno, mio figlio, il mio Alberto e tanti altri come lui, presenteranno “il conto” a tutti quelli, potenti e indifferenti, che reprimono, schiacciano, uccidono. E il “conto” sarà salato».
Il 20 dicembre 1980, a Napoli, il militante dei NAP Alberto Buonoconto s’impicca a casa dei genitori, mentre ancora sta scontando la pena.
Torture, vessazioni di ogni genere, carcere speciale, isolamento, portano Alberto al suicidio. Ma è un vero assassinio di Stato.
Su Alberto Buonoconto vedi su questo blog anche il post: http://contromaelstrom.wordpress.com/2011/09/07/ancora-tortura-negli-anni-settanta-e-ottanta/
Torture in Italia: chi sarà questo professor “De Tormentis” ? (Nicola Ciocia, attualmente avvocato del foro di Napoli…è il segreto di Pulcinella)
Ci si mette alla caccia degli assassini dopo più di 30 anni dagli omicidi: lo facciamo senza pensare a quel che potrebbe comportare, senza pensare che magari ci rimetterebbero solo i compagni nell’aprire processi a 30anni di distanza.
Ma lo facciamo con un fervore tale che ci fa dimenticare di andare sottobraccio ai ROS, di aiutarli…
Poi ci dimentichiamo dei NOSTRI torturatori, poi non ci interessa sapere il nome di quest’uomo: che ridicoli che siamo!
Inutili, dannosi, ridicoli!
«De Tormentis» è l’eteronimo sotto il quale si nasconde l’identità dell’ex funzionario Ucigos (oggi denominata Polizia di prevenzione) che era a capo della speciale squadretta addetta alle sevizie, in particolare alla tecnica del waterboarding, utilizzate per estorcere informazioni durante gli interrogatori contro i militanti, o supposti tali, delle Brigate rosse. 
In una intervista rilasciata al secolo XIX il 24 giugno 2007, sotto anonimato, “De Tormentis” raccontava di aver prestato servizio in polizia per quasi tre decenni, dove era entrato alla fine degli anni Cinquanta uscendone con il grado di questore per poi esercitare la professione di avvocato (un vero insulto alla categoria) presso il foro di Napoli. Pare, dicono alcune voci, con pessimi risultati; il che non deve certo sorprendere visto il curriculum del personaggio.
Sempre “De Tormentis” aggiungeva di aver lavorato in Sicilia, partecipando alle inchieste che portarono alla cattura di Luciano Liggio e Totò Riina (il primo arresto di quest’ultimo, nel 1963, prima della lunghissima latitanza), poi a Napoli, sia alla squadra mobile sia all’ispettorato antiterrorismo creato da Emilio Santillo per approdare dopo lo scioglimento dei nuclei antiterrorismo di Santillo all’Ucigos (Ufficio centrale per le investigazioni generali e le operazioni speciali), dove ha coordinato i blitz più «riservati».
Nella stessa intervista riferiva di essere raffigurato in una delle foto simbolo scattate in via Caetani, tra gli investigatori vicini alla “Renault 4″ dove si trovava il corpo senza vita di Moro.
Nicola Rao nel suo libro, Colpo al cuore: dai pentiti ai “metodi speciali”, come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, Sperling&Kupfer 2011, racconta così l’incontro con De Tormentis:
[…]
Nella hall di un albergo di Napoli un sabato pomeriggio, il 12 febbraio 2011. Accompagnato dalla sua signora, che ha preferito rimanere in disparte, il «professor de tormentis» (che, dopo essere stato nominato questore, abbandonò la polizia e oggi fa l’avvocato) ha deciso di affrontare la situazione, accettando di rispondere (anche se alla sua maniera) alle mie domande.
Prima di cominciare, gli ho chiesto se avesse nulla in contrario a che il colloquio fosse registrato, e lui ha acconsentito.
Il personaggio ha una sua dignità e un suo mondo. Nel suo esordio c’è tutto: «Io sono stato un combattente, perché quella contro le Brigate Rosse era una guerra. Una vera e propria guerra». E in guerra ogni mezzo è lecito per concluderla e vincerla.
Entro subito nel merito: «Quando è stato deciso di procedere al trattamento? Quando le è stata delegata la gestione di questa pratica? Quando ha cominciato a mettere su la sua squadra? Perché solo dopo il rapimento di un generale americano e non prima?»
Ecco la sua risposta: «Lo avevamo fatto anche prima… con Triaca [esponente delle Br arrestato subito dopo il delitto Moro, N.d.A.]. Comunque il trattamento è anche una cosa molto razionale. Non solo fisica. Nel senso che, se viene davanti a te una persona arrestata che tu, per l’esperienza che hai, ritieni uno che offende la tua intelligenza, perché nega l’evidenza e magari dice evidenti cazzate, non ha senso dirgli: ‘Scusi, è stato lei a commettere quel delitto?’ Così non si ottiene niente. Allora gli chiedi: ‘Ma perché vuoi offendere la mia intelligenza? Non si offende l’intelligenza di un rappresentante dello Stato’. E allora il… ehm… come dire… il contrasto, ecco, sì, il contrasto fra noi e loro entra nella fase… importante».
E ancora: «Se le Br non fossero state affrontate in certi modi, avrebbero continuato ad ammazzare. Più che trattamento, io la chiamerei ‘decisione’».
Gli domando: «Il ministro dell’Interno dell’epoca, Virginio Rognoni, ha più volte detto che il governo italiano ebbe pesanti pressioni dall’amministrazione statunitense, anche perché non era mai accaduto prima che un generale americano venisse rapito in Europa. Immagino che a quel punto il governo abbia a sua volta fatto forte pressione sulle forze dell’ordine per cercare di risolvere la questione…»
Il professore: «Tu (inizialmente aveva esordito chiedendomi se potessimo darci del tu) sei una persona intelligente. Non hai bisogno che te lo dica io. Ma oltre quello che ti ho detto non posso andare, perché non sono segreti che riguardano la mia persona, sono segreti che riguardano qualcosa di ben più grande e di molto più importante: sono segreti che riguardano lo Stato. Devi andare oltre. Sono segreti dello Stato. Quelle richieste ci sono state, ma sono cose che non si possono raccontare… Molto importante è l’ultimo gradino dello Stato, quello che sta in trincea. In casi del genere è l’ultimo gradino, chi fa le investigazioni, che avverte se alle sue spalle c’è qualcuno a coprirlo o non c’è nessuno. E quando si agisce per lo Stato e hai le spalle coperte, la ‘decisione’ aumenta…»
Insisto: «Ma l’acqua e sale, il panno sul viso…»
Mi interrompe subito: «Nooo. Senti, Nicola, non sono cose mie, ma sono cose che riguardano lo Stato, non posso dire nulla di più di quello che ho detto. Me le porterò nella tomba. E poi non è quello che aggiunge qualcosa. E tutto il complesso che deve creare il funzionario responsabile di un’operazione…»
Faccio un ultimo tentativo: «E vero che due funzionari della Cia hanno assistito ad alcuni trattamenti e sono rimasti addirittura meravigliati dalla vostra tecnica?»
«Gli italiani sono i migliori del mondo», mi risponde. «Tu avrai avuto a che fare con tuoi colleghi giornalisti stranieri, immagino. Erano alla tua altezza? Secondo me no. Siamo i migliori, a cominciare da come mangiamo, da come ci vestiamo. Non sono stati gli americani a insegnarci certe cose. Siamo i migliori. Se quindi eravamo autodidatti? Io sono cresciuto in mezzo alla strada, sono abituato a certi discorsi, a certi ragionamenti. Lì, nell’attività di polizia ci vuole stomaco. E gli altri Paesi lo stomaco non ce l’hanno come ce l’abbiamo noi italiani. Siamo i migliori. I migliori! A un certo momento i nostri lacciuoli, che ci comprimono e ci condizionano, sono delle scuse per quelle persone che non hanno stomaco. Questa è la verità.»
Dopo due ore e mezzo di duello dialettico, il «professor de tormentis» mi saluta in compagnia della moglie. Pur non dicendomi niente di esplicito, mi ha detto molto. Mi ha confermato l’esistenza del trattamento da lui gestito. Mi ha confermato che qualche apparato superiore glielo ordinò e che si sentiva coperto dai suoi superiori. Mi ha ribadito che certe cose sono accadute perché era l’unico modo per porre fine, al più presto, alla follia omicida delle Br. Un po’ come gli Stati Uniti, che decisero di ricorrere alla bomba atomica per anticipare la fine della guerra ed evitare altre migliaia di morti nelle proprie file.
Terminato il libro, le domande senza risposta si sono moltiplicate. Chi decise di ricorrere a mezzi non convenzionali per distruggere definitivamente le Br? A quale livello? In quale sede? Chi sapeva e chi non sapeva? E perché fu deciso soltanto quando le Br rapirono un generale americano? Come mai le denunce di decine di brigatisti «trattati» sono cadute nel dimenticatoio, mentre le uniche che hanno avuto una conseguenza processuale sono quelle relative a una brutta imitazione del trattamento vero e proprio? Quanto avrebbero ancora ucciso le Br se non si fosse deciso di ricorrere in alcuni casi al waterboarding? Quanto sangue avrebbero ancora versato? E ancora: Dozier sarebbe stato liberato comunque? E gli americani che ruolo ebbero in questa vicenda? Molti di tali quesiti, probabilmente, sono destinati a rimanere senza risposta per sempre. Ma può anche darsi che qualcun altro, dopo di me, avrà l’interesse, la curiosità, la voglia, la pazienza, gli strumenti per approfondire questa vicenda, e magari anche la fortuna di poterla ricostruire fino in fondo.
[…]
Dal blog INSORGENZE, che ha molto materiale a riguardo! [Chi è De Tormentis?]
Qui invece un po’ di altro materiale sulle opere della cricca del signor De Tormentis: LEGGI
I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis
Amburgo: solidarietà per Sonja Suder e Christian Gauger

AMBURGO _Oggi come allora - mille ragioni per la rivolta! Solidarietà a Sonja e Christian. Dal 1978 Sonja e Christian erano ricercati dallo stato tedesco, con l'accusa di aver preso parte ad attentati contro energia nucleare, bomba atomica e gentrificazione e di far parte delle Cellule Rivoluzionarie (RZ). Entrambi hanno scelto la fuga e una vita in esilio sotto falsa identità e deciso di non scendere a compromessi e cooperazione con lo stato e i suoi aiutanti. _
Christian fortunatamente è stato scarcerato pochi giorni fa, viste le sue condizioni di salute, completamente incompatibili con il carcere.
Sonja malgrado l’età avanzata è di una forza incredibile, vive la sua carcerazione con serenità, scrivendo che l’aveva sempre immaginato che prima o poi l’avrebbero presi, quindi è preparata e sollevata che Christian sia lontano dal carcere.
Informationen:
verdammtlangquer.org/
abc-berlin.net
freilassung.de
Qui un po’ di link sulla lorio storia:
Due estradizioni annunciate
Erri De Luca su Sonja e Christian
Una loro intervista
Estradati Sonja e Christian
Oreste Scalzone commenta l’estradizione
La storia di Maurizio Biscaro, morto per scappare all’arresto nell’83… e di sua madre
Nasce a Milano il 4 maggio 1957
-Frequenta il liceo classico a Milano
-Si diploma all’Istituto linguistico internazionale come traduttore-interpreste nel 1981
-Lavora come precario
-Collabora con la rivista Controinformazione ed è attivo nel consiglio di zona 13 per D.P.
-milita nel movimento dell’autonomia
-milita nelle Brigate Rosse-Walter Alasia
– muore cadendo dal sesto piano, a Cinisello Balsamo, il 13 novembre 1982, quando i carabinieri vanno nella casa in cui vive per arrestarlo.
Avrebbe dovuto essere ucciso e tirato fuori dal mio grembo a pezzi, perché all’ultimo momento il ginecologo si è reso conto che ho l’osso iliaco storto e il bambino non riusciva a venire fuori. Mi hanno tagliata, mi hanno messo metà forcipe da sveglia perché dovevano lasciarmi le forze per le spinte, visto che non si poteva più procedere al taglio cesareo.
E’ nato, e solo la Madonna sa come. Era il 4 maggio 1957 […]
Il ’68 lui lo vive da ragazzo romantico, ammirava i ragazzi del Movimento Studentesco e spesso li seguiva nelle manifestazioni. Per lui erano degli eroi, ma in mezzo alla calca un giorno si piglia una manganellata da un poliziotto. Non doveva essere stato un gran colpo, non m’ha chiesto di fargli impacchi e in più si sentiva importante: aveva partecipato alla guerriglia. […]
Siamo nei primi anni ’70. Il liceo classico Berchet era uno dei più quotati di Milano e nella classe del mio Maurizio c’erano i rampolli delle migliori famiglie della città.
Ogni tanto marinava la scuola perché voleva stare con i facchini, accanto agli uomini di fatica che lavoravano all’ortomercato o trasportava cassette insieme a loro.
Un giorno, dopo tanta fatica il capoccia gli mette in mano la metà della cifra pattuita. Maurizio si ribella ed incita gli altri alla ribellione dicendo che quello era sfruttamento dei padroni verso i lavoratori. Una coltellata gli ha fatto un sette sulla camicia, fortunatamente senza ferirlo. Da quel momento non c’è più stata pace […]
Un pomeriggio, era il periodo della morte di Allende, mio figlio mette le scarpe da tennis e se ne va in fretta prima che gli possa chiedere dove va. Ricordo che il tempo era brutto, pioveva e mi seccava che si andasse a prendere un malanno. Torna per la cena e mi dice che deve uscire di nuovo, di non aspettarlo perché rientrerà tardi. A notte fonda rientra, bagnato come un pulcino.
– Dove sei stato? Che hai fatto?
– Mamma io non ho fatto nulla, però ho assistito ad una cosa grossa, domani lo saprai dalla tv.
In quella notte era avvenuto l’incendio della Face Standard, per protesta contro gli americani che avevano favorito la fine di Allende. Maurizio si rese conto che i compagni non andavano bene, parlavano di rapine per finanziare il movimento e il mio ragazzo non voleva passare da ladro.
Insomma il comportamento degli autonomi lo aveva deluso. […] Io mi ricordo che ogni giorno aumentavano le simpatie e il proselitismo a causa della pubblicità che alcuni giornali davano alle azioni terroristiche.[…]
Durante l’anno faceva il muratore e metteva da parte i soldi per girare l’Europa durante le vacanze.
E’ stato in Portogallo, quando c’è stata la rivoluzione dei garofani, per rendersi conto che nulla era cambiato, la musica era sempre la stessa. La rivoluzione -diceva- non si può farla con i fiori.
Anche in Spagna era stato ospite di ragazze basche, le sue vacanze erano politiche. […]
Intanto è arrivata la cartolina: lo Stato lo chiamava a fare il suo dovere. Mi aspettavo l’obiezione di coscienza, sarebbe stata in carattere con il personaggio, invece fa domanda per entrare nei paracadutisti. Questo suo desiderio di imparare a paracadutarsi e ad usare le armi nasceva da una ormai radicata speranza nella rivoluzione. Mi dispiaceva che fosse così lontano a fare il soldato e che soffrisse per tante cose che non andavano ma per me è stato un periodo di calma. Potevo dormire senza l’angoscia della perquisizione, senza il timore che mio figlio finisse morto ammazzato.
Si vede che io di pace non dovevo averne perché alla fine del servizio militare, quando Maurizio torna, mio marito si ammala e in breve muore.[…]
Maurizio inizia un lavoro politico con i compagni del quartiere. Lavora insieme a Democrazia Proletaria. Scrive articoli, prepara relazioni, alcune sere va alle assemblee e si va avanti così. Per me la scuola e per lui lo studio di giorno e la politica, che non rende niente, la sera.
Gli domando se ha intenzione di farsi mantenere dalla madre per tutta la vita, in attesa di una rivoluzione che non verrà mai.[…] Io con mio figlio ho parlato, ho ricevuto le sue confidenze e ho tentato di convincerlo a considerare pericolose illusioni i suoi ideali ma, alla fine, è riuscito lui a farmi condividere in parte i suoi ideali di giustizia, di uguaglianza, di fraternità.
Comunque io potevo comprendere questo desiderio di pulizia, questa voglia di una società più giusta, questa delusione per il comportamento dei partiti politici, ma le azioni violente no, quelle non le ho mai comprese, non le ho mai giustificate.
[…]Mi stupisce in quel periodo la sua prudenza. Non si faceva vedere in giro, non fa mai una fotografia e si fa crescere i baffi spioventi alla mongola. E’ un comportamento di persona che non vuol lasciare nulla dietro di sé, non vuole essere identificata. […] Maurizio mi sta cercando. E infatti lo vedo. Sono molto brusca, incattivita dal suo comportamento e gli chiedo chi vuol prendere in giro!
– Dove sei e con chi, si può sapere?
– Sono con le Brigate Rosse.
Queste parole mi arrivano come uno schiaffo d’acqua gelida.
– Verrò a riconoscerti all’obitorio- è la mia raggelante profezia.
Ora che Maurizio si è confessato viene spesso a casa, di nascosto dai compagni. Cerca di non incontrare gente, e quando torno da scuola, se non trovo lui in casa, trovo un suo scritto. Le lettere che ci scrivevamo purtroppo le ho distrutte perché temevo da un momento all’altro la perquisizione, ed ora vorrei averle perché erano belle, erano interessanti, anche se per indicare l’organizzazione, scriveva “L’azienda”. In una sua lettera mi dava notizia del suo innamoramento per una compagna di latitanza! Fra tante ragazze che ha conosciuto di bell’aspetto, di buona famiglia, va ad innamorarsi di una brigatista! Così ragionavo sul momento.
Poi, pensandoci bene, dicevo a me stessa che tramite quella ragazza la sua vita di disperato forse diventava più sopportabile, forse riusciva a godere ancora qualche gioia dell’amore e finivo per simpatizzare con questa sua innamorata.
[…]
Prende un libro di poesie di Prévert dalla biblioteca e si confida: 
– Mamma ho bisogno di nutire l’anima e l’intelletto.
Sono le sue ultime parole.
Lo accompagno all’ascensore. Mi abbraccia. Ci scambiamo un bacio e io gli dico:
– Tesoro attento a venerdì, c’è l’allineamento degli astri: porta disgrazia.
Sorride della mia superstizione e, scuotendo la testa, se ne va. […]
Intanto arriva venerdì notte 13 novembre 1982. Verso le sei e mezza suona il campanello. So già chi può essere: c’è una perquisizione in vista, quella è l’ora canonica. Domando: Chi è?
– Carabinieri, aprite!
Prendo fiato, poi apro la porta. Come bolidi si infilano in casa col mitra spianato molti carabinieri in borghese. Girano per tutta la casa, guardano in tutti gli angoli, poi il comandante mi fa sedere e mi interroga.
– Ha una foto di suo figlio?
– No. Ho solo questa che gli è stata fatta da militare, mentre cavalca.
La guarda, e poi mi chiede di telefonare. Sono spaventatissima, hanno individuato Maurizio e lo stanno cercando.
– Dov’è suo figlio?
– In Inghilterra per lavoro, ma per l’amor di Dio che cosa è successo?
– Nulla, signora, solo che suo figlio non è in Inghilterra. Chiami il suo avvocato perché dobbiamo fare una perquisizione.
– No, non ho l’avvocato e non ne ho bisogno, in casa non c’è nulla di compromettente.
Entrano nella camera del mio Maurizio e con un’occhiata il comandante fa capire ai suoi uomini che devono comportarsi educatamente. […]
Lunedì mattina, molto presto, corro a comperare i giornali.
Al ritorno in cortile incontro un vicino di casa che sconsideratamente mi grida:
– E’ suo figlio quello che è caduto dal sesto piano di Cinisello!
Arrivano intanto alcune mie colleghe […] e anche l’alto ufficiale dei Carabinieri che aveva comandato il blitz di Cinisello e che era venuto a far la perquisizione. Gli dico:
– Perché non mi ha detto che mio figlio era morto? Avrei autorizzato il prelievo dei suoi organi, perché lui, che era generoso, ne sarebbe stato contento.
Chissà, forse non sarebbe stato possibile, perché credo che il corpo del mio Maurizio sia rimasto a terra tutta la notte e cioè fino a quando non è arrivato il magistrato per constatarne il decesso. […]
Ho cominciato ad attendere una chiamata per il riconoscimento del cadavere che era stato portato all’obitorio di Monza. Passano i giorni, rotolano via lenti e dolorosi. Nessuno mi chiama. Non so chi mi riferisce che qualcuno a Radio Popolare dice che quel povero cadavere è stato abbandonato, nessuno si presenta per il riconoscimento. ma cosa posso fare io, a chi mi presento? Mentre sono disperata a pensare al da farsi un caro amico mi propone di portarmi a Monza dal mio Maurizio. Abbiamo perduto tutto il pomeriggio, però sono riuscita a fare questo riconoscimento.
I giorni passano e non si riesce a fare il funerale. L’impresa di pompe funebri mi dice:
– Signora, se fosse morto un cane avrebbero più riguardo. Attendiamo l’ordine non so da chi. […]
Trascorrono altri giorni, poi finalmente mi avvertono che il funerale avrà luogo il lunedì mattina. […]
Arrivati a Lambrate, trovo la cassa mortuaria sotto una volta del cimitero, sola, abbandonata.
Con il mio arrivo si avvicinano molte persone, tutte con un garofano rosso in mano. Gli operai che avevano diviso le fatiche con mio figlio, quando faceva il muratore, erano tutti lì, con il pianto negli occhi. Erano stati loro a trovare i fiori e lo sa Iddio dove, perché al lunedì il cimitero è chiuso, per cui non arrivano i mezzi pubblici e non ci sono banchetti di fioristi. Ma loro li avevano trovati e distribuiti alle persone presenti.
Ed erano tante, malgrado le previsioni ed il desiderio delle autorità che avrebbero voluto fare le cose alla chetichella. Ad un certo punto, dopo il lancio dei garofani nella fossa i compagni si sono riuniti, col pugno alzato, a cantare sommessamente l’Internazionale. Allora, in quel preciso istante, molte persone, di idee anche opposte, si sono avvicinate al gruppo e si sono unite con le loro voci al coro.
[…]Spesso pensavo a quella Daniela di cui mio figlio si dichiarava innamorato, avrei tanto voluto conoscerla, parlarle, ma come fare? Fra tutte le brigaste arrestate quale poteva essere? Cercavo di immaginarmela.
Un mattino, precisamente il 22 febbraio 1983, mi arriva una lettera dal carcere di Voghera.
“Gentile signora, se avessi seguito l’istinto avrei scritto questa lettera qualche mese fa ma un sacco di preoccupazioni che mi rimbalzavano nella mente di volta in volta, mi hanno impedito di farlo. La paura più grande è quella di riaprire ferite comunque non rimarginabili, di far riemergere sentimenti e sensazioni incancellabili, le stesse che con grande sforzo si tenta quotidianamente di razionalizzare e nascondere e soffocare nei meandri più reconditi del pensiero e della memoria. Ho amato Maurizio profondamente e questo filo che mi accomuna a lei contiene in sé il motivo che mi ha spinta a scriverle.
La mia intenzione è quella di renderla partecipe dell’amore genuino nato tra me e Maurizio e sviluppatosi nel tempo, nella maniera più felice possibile. Ci siamo conosciuti, amati, plasmati giorno per giorno a vicenda, ci siamo dati e abbiamo dato insieme il massimo di noi stessi e ciò che mi fa felice anche oggi è l’essere stata il soggetto di quell’amore, così come lo è stata diversamente lei. Vorrei trovare altre parole e suoni in grado di comunicare tutta la bellezza di quell’amore ma non le conosco e forse non esistono. Sono sicura, però, che lei saprà cogliere da questa mia il dolore che si sa esiste senza bisogno di dirglielo, ma almeno un po’ della gioia vissuta. Un abbraccio con tanto affetto.”
Dopo questa missiva ci siamo scritte per tutto il tempo in cui è rimasta prigioniera. Non solo, ma ho ottenuto il permesso di andarla a trovare. Non saprei raccontare la prima volta, davanti a quell’immenso carcere bianco, in mezzo ai campi, con un carro armato che faceva il giro dell’isolato e tante guardie carcerarie con grossi cani lupo. Come sono entrata nel cortile, ho sentito un coro di voci:
– Vittoria, Vittoria, ciao!
Le voci venivano da lontano, io non vedevo le ragazze, ma forse loro vedevano me. Mi sono sentita commuovere fino alle lacrime. Erano in sei o sette dietro ai vetri. Le ho guardate tutte: belle, carine, spavalde. […] Per cinque anni sono andata regolarmente a trovare Daniela, prima a Voghera e poi a San Vittore. Mi sono legata a lei come se fosse mia figlia. […]
_Vittoria Dilda Biscaro, “L’ultimo caduto della Walter Alasia”, Milano 1992. Frammenti di un dattiloscritto dell’Archivio Progetto Memoria
Quando entrò in clandestinità non lo vidi più. Lessi della sua morte sul giornale, andai al funerale.
C’erano i garofani rossi e cantammo l’Internazionale. Ma erano gli anni ottanta, tempo di tradimenti.
Il cielo era livido come il cuore di tutti noi.
Là presenti a testimoniare che quel ragazzo che era morto era stato capace di sognare.
Non aveva difetti? Ne aveva. Ma è morto giovane, non ho fatto in tempo a riconoscerli.”
_Rossella Simone, testimonianza al Progetto Memoria_
entrambi i testi sono tratti da “Sguardi ritrovati” , vol. 2 del Progetto Memoria _Ed. Sensibili alle Foglie 1995_
questa canzone la dedico a Vittoria, la mamma di Maurizio
Un audio di Oreste Scalzone sull’estradizione di Sonja e Christian
Noi compagni ne parliamo a malapena, mentre “gli altri”, quelli che ci vorrebbero tutti in galera hanno l’occhio lungo e non si fanno sfuggire nulla:
Il Giornale si è accorto dell’estradizione di Sonja Suder e Christian Gauger, molto più dei siti di controinformazione, molto più dei militanti della sinistra italiana. Sono in grado, meglio di noi, di capire le connessioni e le implicazioni che potrebbero sorgere da quest’estradizione, per i rifugiati italiani in Francia.
Insomma, ancora una volta il nemico è un po’ più avanti di noi. (leggi l’articolo)
Intanto dai microfoni di Radio Onda Rossa, un commento di Oreste Scalzone, che tanto si è battuto per evitare questa “doccia fredda” di Sonja e Christian…così come aveva fatto per Paolo Persichetti, per Marina Petrella e tanti altri…
ESTRADATI SONJA E CHRISTIAN IN GERMANIA! Fate girare la notizia
NE ABBIAMO PARLATO SPESSO SU QUESTO BLOG.
VI HO RACCONTATO LA STORIA DI QUESTI DUE ANZIANI SIGNORI, DI QUESTA BELLA COPPIA CRUCCA, PERCHE’ HO AVUTO IL PIACERE DI DIBATTERE CON LORO, DI SCHERZARE E ABBRACCIARSI.
HANNO CONOSCIUTO IL MIO PANCIONE, SI SON PRESENTATI AL MIO BIMBO NON POTENDO ABBRACCIARE IL SUO PAPA’, ANCHE LUI ESTRADATO DALLA FRANCIA VERSO L’ITALIA.
INSOMMA…SONJA E CHRISTIAN PER ME NON SONO SOLO DUE NOMI, MA SON DUE SORRISI TRA MILLE RUGHE, SON DUE SGUARDI AFFASCINANTI E MOLTO DIVERSI TRA LORO, SONO LA FORZA DI QUELL’ABBRACCIO CHE DOVEVA ARRIVARE FINO AL MIO AMORE PRIGIONIERO, CHE LORO AVEVANO IL TERRORE DI NON VEDERE PIU.
E INVECE OGGI E’ TOCCATO A LORO, MALGRADO L’ETA’, MALGRADO SIANO ABBONDANTEMENTE SUPERATI I 30 ANNI DAI FATTI DI CUI SI PARLA, MALGRADO SIA STATO SENTENZIATO CHE LA LORO NON ERA UNA CONDIZIONE COMPATIBILE CON UN’ESTRADIZIONE E POI UNA DETENZIONE. MA ORA CONTA POCO.
STAMATTINA SONO STATI PRESI E PORTATI IN GERMANIA…DOVE AD OTTANT’ANNI DOVREBBERO ATTENDERE UN NUOVO PROCESSO.
UNA FOLLIA, UNA FOLLIA COLOSSALE…. DA CUI CI AUGURIAMO SOLO DI VEDERLI USCIRE.
VI METTO QUI SOTTO UN MESSAGGIO DI ORESTE… [QUI UN PO’ DI MATERIALE SU SONJA E CHRISTIAN]
Alla fine, oggi gli avvocati tedeschi hanno avvertito che stamattina all’alba hanno estradato Sonja e Christian, che si trovano a Francoforte.
Partito stamattina per Napoli per un dibattito, avevo aperto il computer e internet per mandare l’invito a qualche compagno/a, amici, di Napoli, e ho trovato questa “doccia fredda”.
Mi diranno i compagni di Parigi, pugno di uomini e donne che si son battuti con le unghie e coi denti contro quest’abiezione, resa iperbolica dal fatto che si estradano una donna di 79 anni e il suo compagno che una perizia medica aveva appena definito “incompatibile per stato fisico con un’estradizione”, per metterli in detenzione preventiva in vista di un processo per farri che risalgono a 35 anni fa!!!!
Cio’ che aveva detto Sarkozy a proposito del caso di figura rappresentato dall’affare Polanskij, era colo un argomento surrettizio, una privatizzazione censita ria, discriminatoria – una porcata, insomma – di qualcosa posto come “indivisibile, <eguale-astratto>”, come la presunzione d’innocenza, che vale per sé e la propria cosca, e contro <nemici>, come noi, nonché anche contro cosche concorrenti, o semplici malcapitati…
Penso alla frase di Jean Genet di ritorno da Stammheim nel 79 ( <Non saro’ mai neutrale tra la violenza degli oppressi che si ribellano, e la brutalità degli oppressori>).
Questa estradizione poi non è atto di <ostilità> in qualche modo limpida ; non è forma dell’inimicizia, violenza, guerra : è crudeltà, vendetta da tagliagole, “morto che vuole sotterrare il vivo”…
Noi non ci rinchiudiamo nella “denuncia” frustrata : intanto, esprimiamo tutto il nostro disprezzo anche per figure personali, delle quali si potrà dire, con Joseph K, che “soltanto la vergogna gli sarà sopravvissuta”.
E poi, con “disperata vitalità”, resistenze, persistenza, certo micro-molecolari, ma…altrimenti non c’è aria per respirare.
Un abbraccio, Oreste Scalzone
per scrivere a Sonja Suder: JVA III OBERE
KREUZACKERSTR 4
604350 FRANKFORT
ALLEMAGNE
Tortura e leggi speciali: botta e risposta con Miguel Gotor
AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI
Da uno storico avrei accettato del cinismo, un commento come “infondo facevate la guerra allo Stato e quello non poteva far altro che usare i mezzi che solitamente gli Stati usano per combattere i propri nemici: tortura, galera e morte.
Invece nell’articolo di risposta a Cesare Battisti, comparso sulle pagine di Repubblica il 29 agosto, compie un vero e proprio atto di negazionismo.
ASCOLTA LA CORRISPONDENZA
sperando che il dibattito prosegua
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Una lettera all’albo degli avvocati di Napoli
13) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
14) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
15) La sentenza esistente
16) Le torture su Sandro Padula, 1982
17) La prima parte del testo di Enrico Triaca
18) Seconda parte del testo di Triaca
19) L’interrogazione parlamentare presentata da Rita Bernardini
20) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
21) Due firme importanti: Adriano Sofri e Pier Vittorio Buffa
22) Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto
23) L’interrogazione parlamentare cade nel vuoto
24) L’intervista mia e di Paolo Persichetti a Pier Vittorio Buffa
25) Cercavano Dozier nella vagina di una brigatista
MAELSTROM: ancora una recenzione
Non smetterò facilmente di parlare di questo libro, come non smetto -IMPOSSIBILE- di amare il suo autore,
pezzo di cuore, sangue, vita.
Questa un’altra recensione, di un libro che DOVETE LEGGERE!
Che “botta” sto libro, altro che l’ombra di Banco che ricompare come uno spettro a turbare la mente di Macbeth, qui c’è un signore di 71 anni vivo e vegeto che dopo oltre 30 anni di galera bussa con questo libro alla nostra porta per raccontarci per filo e per segno cosa è successo in Italia e nel mondo in quei 20 anni che hanno preceduto il suo arresto, e che, nei successivi 30 anni, quelli che lo hanno arrestato hanno evitato in tutti i modi di raccontare.
387 pagine di documenti, testimonianze e quant’altro snocciolati con la cura e la inoppugnabilità di chi ha avuto 30 anni di tempo per riordinare e metabolizzare da “dentro” quei 20 anni di vita vissuta mentre “fuori” operava la più assordante delle rimozioni, e che oggi, incredibilmente sopravvissuto (non solo nel corpo ma soprattutto nella mente) a quei tutto, rivendica il diritto del “vinto” ad integrare la storia fino ad oggi scritta, come sempre, dal vincitore, per il semplice motivo che anche lui…c’era.
Dunque “1960-1980 scene di rivolta e di autorganizzazione di classe in Italia” si legge nel sottotitolo perchè l’autore ha vissuto in prima persona e mano a mano sempre più da protagonista quel ventennio di lotte del movimento operaio che ha contrassegnato una rilevante parte della storia del nostro paese nel periodo che va tra l’inizio del cd. boom economico e la stagione del riflusso degli anni ottanta.
In questo lungo percorso l’autore ha direttamente partecipato a molti fatti in qualche modo “collaterali” e “collegati” al suo ventennale impegno di militante operaista, ivi compresi i celebri ’68 e ’77 fino al finale approdo alla più importante organizzazione di lotta armata operante in Italia che questo libro-diario ci spiega come obbligato in naturale continuità con tutto il suo “prima, e che quindi rappresenta solo una tappa finale di un percorso molto più lungo e complesso e che parte da molto lontano.
Quello che più colpisce di questo libro, e che lo rende a mio parere unico, è il fatto che anzichè raccontare, come han fatto tanti altri ex brigatisti, la loro esperienza nella lotta armata per magari richiamare in poche pagine il pregresso che li ha condotti a tale scelta, oppure narrare la propria odissea nel tanti anni di carcere speciale, Ricciardi fa esattamente il contrario.
Salvatore Ricciardi utilizza questo libro per ricostruire nel dettaglio la sua vita di militante a favore delle tantissime lotte operaie del dopoguerra italiano dal 1958 al 1977 fino al suo ingresso nelle BR a seguito dell’ultimo fallimento del movimento del 1977, e quindi riprende il racconto dal suo primo anno di carcere a Trani dove organizza la celebre rivolta del 1980, per quindi chiudere con il suo successivo trasferimento al carcere puntivo di Bad ‘a Carros all’inizio del 1981.
Sul resto nulla, nulla sui suoi 3 anni scarsi di partecipazione alla colonna romana delle BR e nulla sui successivi 30 anni di galera. Perchè dunque, aldilà dell’impressionate lavoro storico di certosina ricostruzione delle lotte operaie italiane e dei tanti tumulti rivoluzionari nel mondo di quegli anni, e che richiama, per ponderosità e completezza il famoso “L’Orda d’oro” di Ballestrini e Moroni di parecchi anni fa, questo libro, dicevo all’inizio, è una “botta” ?
Perchè documenta tanti anni dopo e in modo assolutamente inoppugnabile quello che è accaduto realmente nel nostro paese nel ventennio 1960 al 1980, cosa che nessuno prima d’ora aveva mai osato o forse potuto fare, e questo direi che è motivo più che sufficiente per augurarsi una divulgazione di maelstrom il più estesa possibile presso chi ha potuto ascoltare in questi ultimi 30 anni solo il racconto di chi ha vinto, ma temo che ciò non avverrà. Il che tuttavia non toglie alcun valore, intendiamoci, alla scelta di avere scritto oggi e dopo 30 anni di galera questo importantissimo testo, se non altro perchè, come chiude l’autore citando una frase del drammaturgo Samuel Beckett: “ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio !”.
A proposito di belle frasi, tante debbo dire, il pensiero che più mi ha colpito compare quasi all’inzio del libro, non mi ricordo le parole esatte ma diceva più o meno che diventare “compagni” è operazione che richiede anche un certo… tempo.
In conclusione la mia personale idea, magari sbagliata, di questo libro è che il messaggio dell’autore sia tipo “mi avete catturato e sono stato zitto per 30 anni, ora che sono libero mi pareva giusto riferire prima di ogni altra cosa anche tutto quello che non è mai stato detto su quegli anni, e ora se volete possiamo cominciare davvero a… parlarne”
DAVIDE STECCANELLA
“Maelstrom” di Salvatore Ricciardi: un commento di Marco Clementi
Maelstrom di Salvatore Ricciardi, è un salto nella storia sociale e politica del nostro paese vista con gli occhi di chi, per un quindicennio, ha tentato di mutarne gli assetti istituzionali ed economici. Il sottotitolo è esplicativo: si tratta di «scene di rivolta e autorganizzazione di classe in Italia dal 1960 al 1980» (DeriveApprodi, pp. 369, euro 22).
Ricciardi è stato un militante delle Brigate rosse, ma il suo non è l’ennesimo libro di ricordi sull’organizzazione armata, «versione del militante» che racconta in soggettiva il proprio cammino. L’autore prova a ricostruire, intrecciando ricerca storica e sociologica, il percorso di almeno due generazioni, trovando negli anni Sessanta i prodromi di quello che poi sarebbe accaduto nel decennio successivo, cosa fino ad ora troppo spesso evitata da quanti si sono occupati dei cosiddetti «anni di piombo».
In molte ricerche la complessità dei rapporti sociali e di classe è stata infatti sacrificata in nome di ricostruzioni che passavano da un fatto di sangue all’altro limitandosi all’analisi della spinta personale e usando una categoria, quella di violenza politica, che nulla ha di storico e poco di sociologico. Maelstrom invece corre su un doppio binario, quello dell’esperienza carceraria, che si lega al rapimento del giudice d’Urso operato dalle Br nel 1980 e alla conseguente rivolta nello «speciale» di Trani, e quello delle lotte sociali che toccarono l’Italia a partire dalla crisi del cosiddetto boom economico. Crisi alla quale la classe dirigente non seppe reagire e che innescò una serie di fenomeni inediti che mutarono il volto del paese, dal sindacalismo di base alle rivolte studentesche, fino al periodo delle stragi, segnate dal tragico dicembre 1969. Fu la perdita dell’innocenza, si chiede Ricciardi? La risposta è diretta: «nel paese e in Europa non c’era traccia d’innocenza. Dopo il massacro della guerra ci presentarono l’altra scena, quella della ricostruzione.
L’arrivismo egoistico, l’accaparramento senza timore, il profitto sui morti, la borsa nera, l’affamamento e il supersfruttamento, l’arricchimento sulla pelle altrui (…). Era questo ciò che le generazioni precedenti ci avevano lasciato in dote. Dove stava l’innocenza?». Non è l’unico caso nel quale l’autore rovescia il significato di termini entrati oggi nell’immaginario collettivo con un preciso senso. Per esempio, la «memoria» per un carcerato è qualcosa da evitare: «stop ai pensieri sul passato, e se hai una pena lunga o l’ergastolo, anche quelli sul futuro». Lo «scontro di civiltà», espressione divenuta famosa grazie al libro di Samuel Huntigton, viene visto da Ricciardi come la contrapposizione tra chi era sfruttato e chi sfruttava. Anche l’espressione «morti bianche», usata per i caduti sul lavoro, viene rovesciata. Il ricordo di un giovanissimo collega caduto da un’impalcatura, il colpo secco che gli spezza la schiena e il sangue sparso sulla terra (che una volta uscito non rientra più), danno un senso di rabbia al sentire questa locuzione: si tratta dell’ipocrisia di chi vuole addolcire l’accaduto, mentre la verità è che sono persone uccise, «assassinate». Anche il concetto degli opposti estremismi viene criticato. Altro che «rossi» e «neri»: in quegli anni, per l’autore, era in gioco la rivoluzione proletaria, abbattere il capitalismo e costruire una società diversa, senza le galere, la scuola selettiva, le morti sul lavoro, le gerarchie e le guerre. I «neri», i fascisti, entrarono in quella dinamica «con lo stesso ruolo che hanno i guardioni agli ingressi delle discoteche: aggredire chiunque non si conforma alle regole e all’ordine esistente, alle gerarchie e alla proprietà». Da Piazza Statuto ai morti di Reggio Emilia, dalla strage di piazza Fontana alla bomba alla stazione di Bologna, il libro ripercorre gli strappi che l’Italia ha patito con il distacco dello studioso, senza cercare giustificazioni per le scelte dell’autore, il suo impegno nella guerriglia, la parabola prima ascendente e poi impietosamente discendente dell’organizzazione alla quale è appartenuto.
Ricciardi non racconta però la storia delle Br, ma la inserisce all’interno di quella italiana, evitando di cadere nel tranello teso da anni ai lettori italiani dalla dietrologia, che vede in quella organizzazione armata il braccio esecutivo di un grande complotto finalizzato a fermare l’ingresso del Pci al governo. Eppure il Partito comunista italiano in quel governo c’era stato, dal 1944 al 1947; aveva contribuito a ricostruire il paese, governato importanti città e regioni, sostenuto, infine, esecutivi democristiani nella metà egli anni Settanta in cambio della presidenza di commissioni parlamentari. E non perché ci fossero le Brigate rosse ma perché, come disse in più di un’occasione Aldo Moro, dalle urne nel 1976 erano usciti due vincitori, la Dc e il Pci.
Non si trattava del compromesso storico berligueriano, visto da Ricciardi come il «punto di arrivo di una strategia elaborata dal Pci fin dal dopoguerra», ma di una visione pragmatica della realtà politica. La Dc non poteva governare da sola e solo il sostegno dei comunisti, mantenuti comunque fuori dal governo, avrebbe garantito quella stabilità necessaria a politiche di sacrifici in un paese con una inflazione a due cifre. Il brigatismo cercò di inserirsi in questa dialettica con il rapimento di Aldo Moro, ma non raggiunse lo scopo di una trattativa con i partiti della maggioranza, che si ritrovarono uniti nel rendere inoffensive le parole che il leader democristiano stava scrivendo dal cosiddetto «carcere del popolo». Fu una grande sconfitta politica per le Br e l’uccisione dell’ostaggio riuscì, forse, a dilazionarne lo sfaldamento per un paio di anni. Per Ricciardi, il 1967 è l’anno mirabilis. Perché venne ucciso il Che, perché Israele vinse la guerra dei sei giorni, perché in Grecia un manipolo di colonnelli sovvertì la democrazia, instaurando un regime terroristico, sebbene non fascista e il 2 Giugno a Berlino Ovest la polizia uccise lo studente Benno Ohnesorg durante le proteste per la visita del golpista persiano Reza Pahlavi. Il Pci non riesce a dare risposte esaustive a tutto ciò e slogan prima portati come vessilli diventano logori. 
Quando il giovane Ricciardi scoprì l’inganno del falso mito della Resistenza tradita, la sua delusione fu enorme. Lesse più volte con altri compagni che il Pci, durante la lotta di liberazione non voleva condurre a termine una rivoluzione sociale ma collaborare con le altre forze antifasciste per nascita di una nuova Italia. Era tutto vero: nessuno aveva mai avuto intenzione di trasformare quella lotta in qualcosa di diverso, di fare come Tito in Jugoslavia, e il mito nato con lo scoppio della guerra fredda era dovuto esclusivamente alla scelta di mantenere un rapporto privilegiato con l’Unione Sovietica: una bella storia da raccontare ai giovani, nulla di più. Le risposte, dunque, giunsero da fuori: in Viet-Nam gli Stati Uniti stavano incontrando una resistenza inattesa, mentre in Cina, Mao Tze Dong lanciò la rivoluzione culturale. Tutto ciò si tradusse in Italia nella ricerca dell’indipendenza dal sistema del capitale e nella lontananza proprio dalla politica del Partito comunista. Tutto si mise in movimento e nacquero, da lì a pochi anni, molte organizzazioni, alcune armate, altre no. Ricciardi annota solo che tra la crescita quasi esponenziale delle Br e la la loro repentina caduta passarono pochi anni, ma sembrano decenni. Lo Stato reagì con una legislazione speciale e, in alcuni casi circoscritti e giudicati dalla magistratura, con la tortura. Poi vennero le prime delazioni, il fenomeno del pentitismo e quello della dissociazione, una «diarrea di dissociazioni» le definisce Ricciardi. Furono le dissociazioni a dare il colpo di grazia all’organizzazione, portando via con i protagonisti anche le singole storie, che pezzo dopo pezzo hanno demolito la verità storica e la memoria di quella esperienza. Anche per dire no a tutto questo Salvatore Ricciardi ha sentito la necessità di comporre la propria biografia, ma collocandola con accuratezza dentro il risultato di una ricerca sul proprio passato e su quello del suo paese.
_Marco Clementi_
Ancora tortura, quel rimosso tutto italiano
Tortura, quell’orrore quotidiano che l’Italia non riconosce come reato.
Se c’è stato un motivo per cui ho aperto questo blog è stato pubblicare materiale sulle torture compiute in questo paese, sui corpi dei militanti della lotta armata che nell’ “anno argentino” italiano, il 1982, sono stati catturati e torturati con le più classiche tecniche di tortura usate nel mondo.
Donne e uomini che, privati della loro libertà, bendati e storditi, sono stati torturati da uomini di Stato per ottenere nomi, luoghi, dettagli.
Torture documentate, torture per cui ci son state anche condanne, torture però completamente rimosse dalla tanto brava “società civile”.
Alcuni dei torturati nel 1982 continuano ad essere in carcere, dopo 30 anni, dopo quello che hanno subito, senza aver mai potuto accedere a nessuna cura o conversazione capace di lenire i traumi che la tortura lascia perenni sul corpo e la mente di chi l’ha subita.
Dimenticati dal mondo, torturati nelle nostre caserme, chiusi ancora giorno e notte nella stessa cella.
Non c’è altro da dire, se non che dovrebbero esser liberi. PUNTO.
ELENCO DEI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
In Germania chiudono i conti aperti con la lotta armata: E NOI?
Da noi probabilmente tutto ciò accadrà quando l’ultimo esponente della lotta armata sarà sotterrato.
Solo così si metterà fine a quella stagione, si potrà darle dignità di pagina di storia, si darà a quelle persone dignità di essere umani, prima che di aspiranti rivoluzionari.
La Germania non c’ha messo poco, c’ha messo 18 anni. Questo è quello che è avvenuto in poche parole oggi con la concessione della liberazione condizionale per l’ultima militante della Raf, Birgit Hogefeld, ancora detenuta e condannata a diversi ergastoli.
Ha scontato 18 anni: punto. Ora sta riappropriandosi della sua libertà, quella che agli italiani non è concessa.
E come giustamente specificava oggi Paolo sul suo blog Insorgenze, lui che di carcere se ne intende, le Raf avevano annunciato il loro scioglimento nel 1998 con queste parole “Quasi 28 anni fa, il 14 maggio 1970 , nacque la RAF con un’azione di liberazione. Oggi concludiamo questo progetto. La guerriglia urbana nella forma della RAF fa adesso parte della storia”.
…le Brigate Rosse l’hanno fatto dieci anni prima, tondi tondi.
A quando la condizionale per Moretti?
Vogliamo farlo morire in una cella? Questa è la nostra democrazia?
Ormai pensiamo che difendere la Costituzione sia chiedere galera, invece che l’abolizione dell’ergastolo….
Meglio che vi metto la notizia va…
(ANSA) – BERLINO, 21 GIU – Birgit Hogefeld, ex componente delle Rothe Armee Fraktion (Raf), condannata all’ergastolo nel 1996 per l’uccisione di un soldato americano nel 1985 e la partecipazione a un attentato terroristico contro una base militare Usa in Germania, è libera da ieri. Era l’ultimo membro della Raf, le cosiddette brigate rosse tedesche, ancora in carcere. Hogefeld, 54 anni, che nel maggio 2010 si era vista rifiutare la grazia dal presidente della Repubblica, ha scontato 18 anni di prigione.
http://www.dw-world.de/dw/article/0,,15180037,00.html
Un commento di Oreste Scalzone sulla scarcerazione di Battisti
Un commento a caldo sulla scarcerazione di Cesare Battisti e quindi la sua mancata estradizione, sull’assurdità del concetto di ergastolo, sulla bile italiana ormai quasi ridicola.
Dai microfoni di Radio Onda Rossa, mentre loro si rosicchiano il fegato, ascoltate Oreste!
🙂
Cesare è libero!
“e in culo a tutto il resto” come diceva il buon vecchio Guccini!
Cesare Battisti scarcerato, rifiutata definitivamente l’estradizione. Il governo annuncia un ricorso all’Aja. L’Italia resuscita la linea della fermezza
Paolo Persichetti Liberazione 10 giugno 2011
Battisti non torna e in Italia scoppia l’ennesima bufera mediatica, nonostante fosse ampiamente scontato l’esito finale sfavorevole per le autorità italiane. Non c’era partita. Che in materia estradizionale la decisione finale appartenga alla sfera del politico, e dunque dell’esecutivo, lo sanno anche le matricole di giurisprudenza; sta scritto in tutti i trattati internazionali, vale per l’intera comunità giuridica mondiale. Nemmeno all’interno dello spazio giudizario europeo, nonostante l’introduzione di alcuni micidiali automatismi, come il mandato d’arresto comunitario e il mutuo riconoscimento delle decisioni di giustizia, è stato eliminato del tutto il ruolo giocato dagli esecutivi. E dunque perché in Brasile le cose sarebbero dovute andare diversamente? Tanto più che il governo italiano, in passato, si è avvalso delle sue prerogative rifiutando di attivare le procedure di estradizione per i cittadini statunitensi, tutti agenti della Cia, coinvolti secondo quanto accertato dalla procura di Milano nel rapimento per le vie della città dell’imam della moschea di via Quaranta, Abu Omar. Ragioni di opportunità politica (non certo giuridica), dovute agli accordi segreti e alla sudditanza strategica che lega l’Italia agli Usa, hanno giustificato la scelta dell’esecutivo di non avviare le richieste di estradizione. Circostanza che fece allora infuriare il capo del pool antiterrorismo della procura milanese, Spataro. Negli ultimi sei mesi la coppia di giudici, Mendes e Peluso, di cui sono note le simpatie per la destra, che nel corso del lungo iter estradizionale si sono alternati nella carica di presidente e relatore della causa, è ricorsa ad ogni escamotage dilatorio per ritardare l’udienza finale. In effetti, dopo la decisione di Lula di rigettare l’estradizione, presa il 31 dicembre scorso, l’unico argomento rimasto nelle mani dei sostenitori della consegna di Battisti alla giustizia italiana era lo status quo: congelare la situazione per allungare a dismisura la sua permanenza in carcere, fino a rasentare una sorta di sequestro di persona. Gesto di servile cortesia offerto agli amici della destra italiana e ultimo sgarbo a Lula; prova ormai che in Brasile l’affare Battisti da controversia giuridica si era ridotto a materia di scontro politico. 
Alla fine, quando mercoledì si è tenuta l’udienza plenaria, dopo una discussione di 7 ore tutta in diretta tv, su un canale interamente dedicato ai lavori del Stf (una trasparenza impensabile nelle opache stanze dei tribunali italiani), i giudici hanno prima respinto, ritenendola illegittima, la pretesa delle autorità italiane, formulata in un ricorso, di sindacare la decisione sovrana presa da Lula e quindi ribadito, con 6 voti contro tre (tra cui Mendes e Peluso), l’irrevocabilità della decisione presa dal capo dello Stato. Battisti è stato scarcerato poco prima della mezzanotte. Ora dovrà attendere la regolarizzazione amministrativa essendo venuto meno l’asilo politico inizialmente concessogli del ministro della Giustizia, Tarso Genro. Battisti si ritroverà nella situazione di “rifugio di fatto”, con un normale permesso di soggiorno in tasca come quando viveva a Parigi dopo la decisione di Lionnel Jospin di regolarizzare, nel 2007, la posizione amministrativa dei fuoriusciti italiani degli anni 70. La decisione dei giudici brasiliani ha suscitato in Italia una sorta di revival del film Zombie. Dal cimitero della storia è stato resuscitato il cadavere putrefatto dell’union sacrée vertici istituzionali, Napolitano in testa, maggioranza e opposizioni si sono saldati in un demagogico e ipocrita coro di grida sdegnate e dichiarazioni sgangherate. Il giurista Antonio Cassese (già membro di giurisdizioni internazionali), senza timore di palesare un suo personale conflitto di interessi, ha rilanciato su Repubblica la via del ricorso alla Corte di giustizia internazionale dell’Aja. Intenzione confermata dal governo ma che rischia di provocare l’ennesima figuraccia internazionale dell’Italia. Quella dell’Aja è una corte d’arbitrato che dirime controversie tra Stati. L’Italia non sottoporrebbe mai materie afferenti alla sua sovranità interna ad una controversia arbitrale. Ancora una volta non si capisce perché dovrebbero farlo i brasiliani. Il ceto politico italiano delira e resta drammaticamente incapace di un esame di coscienza serio su quanto è accaduto negli anni 70, proprio quando sul quel periodo si stanno aprendo squarci importanti, come il recente libro di Miguel Gotor, Il memoriale della Repubblica, Einaudi, mostra. Per contrastare la lotta armata, descrive lo storico con impressionate dovizia documentale, si fece ricorso ad uno «stato di eccezione non dichiarato»: corpi speciali, investigatori e magistratura operarono nell’opacità più assoluta e nella sistematica violazione di regole e procedure.
ASCOLTA: Il commento di Oreste Scalzone
LEGGI: Il diritto virtuale italiano
A Margherita Cagol
Nell’anniversario del suo assassinio, questo blog (che ha una categoria dedicata ai compagni uccisi) parla anche di Margherita Cagol, che scelse Mara come nome di battaglia e militò nelle Brigate Rosse dalla loro formazione al sequestro Gancia e alla conseguente sparatoria della cascina Spiotta del 5 giugno 1975, dove venne uccisa dai carabinieri. Il materiale sulla Cagol è tanto e variegato e la scelta è stata difficile … non ho messo le sue lettere alla famiglia perchè sono facilmente rintracciabili in rete, ed ho quindi usato stralci del ricordo presente nel terzo volume del Progetto Memoria, “Gli Sguardi Ritrovati”, Edizioni Sensibili alle Foglie.
[Leggi anche: Quando portai un fiore alla Spiotta]
MARGHERITA CAGOL
– Nasce a Sardagna di Trento l’ 8 Aprile 1945
– Si diploma in ragioneria nel 1964
– milita nel movimento studentesco di Trento
– si laurea in sociologia presso l’università di Trento nel 1969
– milita nel Comitato Unitario di Base della Pirelli, nel Collettivo Politico Metropolitano e in Sinistra Proletaria.
– dal settembre 1970 milita nelle Brigate Rosse
– nell’estate del 1972 si trasferisce a Torino
– viene uccisa dai carabinieri il 5 giugno 1975, ad Arzello d’Acqui (AL)
Loris Paroli, Testimonianza al Progetto Memoria, Reggio Emilia 1995.
“[…] Mara era una dirigente comunista, una delle prime donne emancipate dell’epoca moderna e credeva alla donna come uno dei poli della societa’; determinante per l’emancipazione di tutti gli altri. Un giorno manifestando a lei le mie perplessità sulla poca presenza femminile nella nostra organizzazione, anche in relazione alla durezza del vivere clandestini tra soli maschi, mi disse di essere certa che la componente donna nell’arco di pochi anni sarebbe aumentata enormemente. Aveva avuto ragione. Infatti in pochi anni quasi tutte le organizzazioni armate erano dirette da una elevata componente femminile. E questo è uno degli aspetti più profondi della nostra storia, mai messo in luce da colo i quali hanno riversato su centinaia di libri tutti quei tentativi manipolati e disperati nel volerla spiegare.
Mara era una compagna vera e concreta e sapeva costruire relazioni semplicie complesse con tutti i compagni. Con lei non vedevi mai la rottura tra le discussioni politiche e il momento in cui si poteva suonare la chitarra e cantare, scherzare o ridere, o quando si cucinava o si era a tavola. Il tempo era per lei tutto dentro una scelta di vita e con dolcezza sapeva sempre armonizzare i momenti belli con quelli stressanti e angosciosi.
Sul piano personale è la compagna che mi aspetta all’imbocco dell’autostrada di Reggio Emilia, nel lontano ’74, quando faccio la scelta della clandestinità. Ed è lei che fin dal primo momento sa leggermi dentro e capire quanto per me questa scelta fosse anche una scelta sofferta, dato che avevo lasciato gli affetti personali, soprattutto quelli del figlio.
Questa sua comprensione era importante, per me era liberatoria, non mi costringeva, rispetto a certe persone tutte d’un blocco, a essere quello che non ero…
Sul piano politico sono molti i momenti cruciali dove Mara è esageratamente attiva, propulsiva e stimolante nei confronti di tutti nei della colonna di Torino. Un particolare importante: quando l’esecutivo decide di far entrare ‘Frate Mitra’ nelle BR, lei si oppone, politicamente condivideva il metodo di farlo entrare trasversalmente; asseriva che lui doveva inserirsi nel mondo di lavoro e solo in seguito a verifiche… avremmo valutato se e come farlo entrare nell’organizzazione. Nessuno la ascoltò. Frate Mitra si rivelò una spia facendo arrestare Curcio e Franceschini.
Ma il momento più rivelante, ricco e nel contempo lacerante è quello dei primi mesi del ’75, quando noi di Torino proponemmo di affrontare il problema dei nostri compagni prigionieri. Periodo ricco perché dopo tanti compagni arrestati avevamo rimesso assieme le forze in grado di riprendere l’iniziativa teorica e pratica della propaganda guerrigliera. Lacerante in quanto la proposta di Torino non era condivisa da molti compagni di altre colonne. Infatti alla proposta operativa di liberare Curcio da Casale Monferrato, due compagni scelsero di uscire dall’organizzazione. Altri compagni sospettarono Mara di personalismo, in quanto moglie di Renato (ma se vi fosse stato in lei anche una quota di personalismo affettuoso verso il compagno da liberare era una cosa così grave?) il che non era assolutamente vero: noi di Torino stavamo lavorando da tempo anche su altre prigioni dove erano rinchiusi dei nostri compagni. Solo che proponemmo Casale dove le nostre inchieste avevano individuato dei punti vulnerabili più che altrove. 
Alla fine di una serie di dibattiti riuscimmo a far passare la proposta e facemmo l’intervento alla prigione. La cosa riuscì: fu una delle più belle azioni guerrigliere delle BR, attorno alla quale il consenso e l’entusiasmo si manifestarono a livello di massa. Il giorno prima di quell’azione io e Mara ci appartammo in macchina in un viottolo per attendere il momento di fare un sopralluogo al passaggio a livello… E, in attesa che calassero le sbarre, ricordo quel tempo durato circa un’ora di totale mutismo tra me e lei, mentre ascoltavamo Bob Dylan. […] Di certo avevamo la consapevolezza del fatto che all’indomani dovevamo affrontare per la prima volta un attacco ad una struttura militare dello Stato. E benché il nostro intento fosse quello di fare tutto il possibile per evitare sparatorie, non sapevamo se era realizzabile: potevamo lasciarci anche la pelle. La paura è sempre in relazione a ciò che non sei in grado di prevedere, a ciò che non conosci esaurientemente e temi di non saper affrontare i problemi che ti pone.
Mentre parlo di Mara mi accorgo di avere il pensiero fisso alla cascina Spiotta su quel maledetto lenzuolo bianco che sovrasta il suo corpo. Quello è stato unp dei primi sipari calati sulla nostra storia. Ma la cascina Spiotta di Mara non è solo quel finale. Lei in quella nostra vare con diversi ettari di terra era molto attiva e coltivava di tutto, dalle verdure ai frutti e mi parlava spesso di ogni sorta di piante. Simpaticamente, con gesti rassomiglianti ai contadini, l’ho vista irrorare il vigneto su quella dolce rupe delle Langhe, dove il sole si confondeva sul sorriso del suo viso biondo trentino. Lei era una poetessa della vita, nella vita, per la vita; per cui manifestava sempre quella generosità nel suo essere compagna che oltrepassava tutti i limiti, fino a quello di vent’anni fa dove morimmo un po’ tutti sotto quel lenzuolo bianco, ma anche dove rinascemmo un po’ tutti.”
ANONIMO: Trafiletto senza luogo né data in Rosso contro la Repressione 16, Milano 1975
“Margherita Cagol.
Dipinta come un’appendice del marito, da cui “dovrebbe” aver preso l’ideologia rivoluzionaria più per amore che per la sua reale scelta politica, Margherita Cagol, ora assassinata nello scontro di Acqui, è considerata dallo Stato e dalla stampa borghese come una donna totalmente incapace di scelte personali dettate da una presa di coscienza politica.
La stampa borghese, serva dei padroni, porta nei suoi confronti un duplice abominevole attacco: oltre alla denigrazione personale che colpisce la donna in quanto sottospecie umana incapace di fare scelte rivoluzionarie autonome.
Margherita è morta, assassinata dallo stato della violenza come migliaia di altri ed altre rivoluzionarie, pienamente cosciente della sua
scelta di lotta fatta per abbattere il sistema capitalistico e per eliminare quindi lo sfruttamento di qualsiasi essere umano su un altro essere umano.
Evidentemente non meraviglia affatto i compagni rivoluzionari l’attacco politico della stampa sia di Stato che riformista sulle forme di organizzazione e di resistenza armata oggi esistenti in Italia, ma piuttosto il fatto che a questo si aggiunge l’attacco alla donna che non può fare queste scelte politiche se non in quanto manipolata da un uomo di cui si è innamorata perdutamente e per frustrazioni amorose in generale. E’ il caso anche della compagna Ulrike Meinhof oggi coinvolta nel processo più scandalosamente antidemocratico e illegale dell’occidente capitalistico.
Ulrike Meinhof avrebbe intrapreso all’interno di un’organizzazione armata a causa di sue precedenti delusioni amorose. E’ la disperazione individuale, l’insoddisfazione all’interno dei rapporti personali che muove la donna a votarsi e a sacrificarsi per la causa rivoluzionaria. Noi sappiamo che sia Margherita sia Ulrike hanno fatto le loro scelte di classe e d’organizzazione in base a una presa di coscienza precisa e ad una analisi del momento politico, (fase politica, autonomia della classe, ruolo del riformismo, organizzazione) che pur non condividendo, non possiamo che rispettare.
Nel conto che dovranno pagare i padroni e i loro servi, aggiungiamo anche questo modo di trattare la donna.
Pagherete Caro, pagherete tutto”
BRIGATE ROSSE: Volantino di Commemorazione del 6 Giugno 1975:
“Ai compagni dell’organizzazione, alle forze sinceramente rivoluzionarie, a tutti i proletari. È caduta combattendo Margherita Cagol, “Mara”, dirigente comunista e membro del Comitato esecutivo delle Brigate Rosse. 
La sua vita e la sua morte sono un esempio che nessun combattente per la libertà potrà dimenticare. Fondatrice della nostra organizzazione, “Mara” ha dato un inestimabile contributo di intelligenza, di abnegazione, di umanità, alla nascita dell’autonomia operaia e della lotta armata per il comunismo. Comandante politico-militare di colonna, “Mara” ha saputo guidare vittoriosamente alcune fra le più importanti operazioni dell’organizzazione. Valga per tutte la liberazione di un nostro compagno dal carcere di Casale Monferrato. Non possiamo permetterci di versare lacrime sui nostri caduti, ma dobbiamo impararne la lezione di lealtà, coerenza, coraggio ed eroismo! È la guerra che decide in ultima analisi della questione del potere: la guerra di classe rivoluzionaria. E questa guerra ha un prezzo: un prezzo alto certamente, ma non così alto da farci preferire la schiavitù del lavoro salariato, la dittatura della borghesia nelle sue varianti fasciste o socialdemocratiche. Non è il voto che decide la conquista del potere; non è con una scheda che si conquista la libertà. Che tutti i sinceri rivoluzionari onorino la memoria di “Mara” meditando l’insegnamento politico che ha saputo dare con la sua scelta, con il suo lavoro, con la sua vita. Che mille braccia si protendano per raccogliere il suo fucile!
Noi, come ultimo saluto, le diciamo: “Mara”, un fiore è sbocciato, e questo fiore di libertà le Brigate Rosse continueranno a coltivarlo fino alla vittoria! Lotta armata per il comunismo”
Nessuno sarà padrone di questo corpo di laghi e vulcani
di questa mescolanza di razze,
di questa storia di lance;
di questo popolo amante del mais,
delle feste al chiaro di luna;
del popolo dei canti e dei tessuti di tutti i colori.
Nè lei nè io siamo morte senza un progetto, senza lasciare un’eredità.
Siamo tornate alla terra da dove ancora torneremo a vivere.
Popoleremo di frutti carnosi l’aria dei tempi nuovi.
Colibrì Yarince
Colibrì Felipe
danzeranno sulle nostre corolle
ci feconderanno eternamente.
Vivremo nel crepuscolo della gioia
nell’alba di tutti i giardini.
Presto vedremo il giorno colmo di felicità
le imbarcazioni dei conquistatori allontanarsi per sempre.
Saranno nostri l’oro e le piume
il cacao e il mango
l’essenza dei sacuanjoches.
Chi ama non muore mai.
Da La donna abitata, Gioconda Belli
LA BELLEZZA E’ PER LA STRADA!
COPIO QUESTA PAGINA DA UNO DEI MIEI BLOG PREFERITI
Memoria simbolica
Risate gioiose salgono su col fresco della notte.
Due ragazze si affacciano nella vetrina illuminata della bettola alternativa, giù dall’altra parte della strada. Le due eleganti silhouettes ora si annusano, le mani in tasca. Gli altri passanti sono arredamento che si allontana. Una protende il viso verso l’altro, la bacia, si baciano, e s’incamminano come se il marciapiede fosse improvvisamente diventato un tappeto di nuvole.
La bellezza è per strada.
Era lo slogan apparso in un manifesto del ’68 francese, una di quelle serigrafie che, emulando le scritte murali senza grigi e senza compromessi, dicevano tutto in una botta.
Come il sampietrino lanciato dalla ragazza: la ribellione è giusta, è violenta, è bella, è ciò che conta.
I cubetti di porfido, i selci, il pavé delle strade
ritrovavano la propria storica vocazione a volare. Del resto, come recita l’altro slogan ricordato nei decennali inventari per liquidazione del ’68, quando li si toglie dal suolo, al posto della strada si trova la spiaggia (sous le pavé, c’est la plage). E “chiude la strada ma apre la via”
-che pare una definizione tipo ‘1 orizzontale, nove lettere’- era uno dei modi di celeberare la barricata.
Il ‘piccolo San Pietro’ era ovviamente anche cantato. Tra i pezzi più famosi, quelli di Gianfranco Manfredi sul/nel movimento del 1977:
Ultimo mohicano
sampietrino in mano
solo qui nella via
e la barricata
dove l’han portata? non c’è proprio piùUltimo mohicano
sampietrino in mano
non c’è più polizia
ora a chi lo tiro?
vado a fare un giro,
entro in un caffè
Oggi, la bella lanciatrice di sampietrini dell’ultraquarantenne manifesto francese è ripresa e rieditata in omaggio ad un altro movimento, quello degli studenti iraniani.
Il risultato: fondo verde (in omaggio alla ‘rivoluzione verde’…), pantaloni anziché gonna (adeguamento o moda?), e lingua inglese, dove ‘freedom’ rimpiazza ‘beauté’.
Lo scarto con la reinvenzione della bellezza -identificata con l’immagine dell’azione e del movimento, non con quella di una cariatide- del poster del maggio ’68 (prodotto da un collettivo situazionista a Montpellier, come tra l’altro ricorda la tesi di Master di Victoria Scott), è grosso. E in fin dei conti, non si tratta qui del prodotto di una memoria collettiva che riprende, rielabora o fa tradizione del prodotto di un’altra memoria collettiva. Questo poster non nasce nel movimento degli studenti iraniani, ma su un sito americano, le strade cui è destinato sono solo quelle di facebook…
Buoni Bidelli versus Cattivi Maestri
Accade poi che una ragazza per strada lanci non un sampietrino, ma un ‘fumogeno’.
E subito tutti gridano al terrorismo, ché è ormai chiaro come non occorra impugnare armi di distruzione di massa per farsi etichettare così.
In un editoriale su La Stampa del 30.9.10, brillantemente intitolato “Tornano i cattivi maestri”, Luigi La Spina ci spiega quanto siano confuse le menti di molti giovani che non sanno distinguere la realtà dei nostri giorni dalla memoria degli anni 70 e 80. E che ripetono i “tre perversi schemi mentali che provocarono tanti lutti”. Il primo di quelli che chiama pure ‘tre peccati capitali’, è la “trasformazione di una persona in un simbolo”. Il secondo, è il “pretendere di rappresentare una intera categoria sociale senza averne avuto alcun mandato”. E infine “il semplicismo di chi collega fatti singoli, separati nello spazio e nel tempo (…) in una generica e comoda macchinazione unitaria, sapientemente eterodiretta…”, insomma “l’esagerazione della potenza avversaria”.
Ora, queste ch’egli chiama “catene linguistiche”, sono tratti comuni di qualsiasi attività politica. In politica, tipicamente si fanno analisi, collegando fatti singoli secondo una propria lettura, e se ne produce un discorso in relazione ad un interesse che è necessariamente collettivo. Chi fa e porta questo lavoro simbolico, si presenta come simbolo.
La Spina lamenta che molte menti siano imprigionate da quelle odiose catene linguistiche, che fanno sì che una persona sia “ridotta alla generica categoria di un nemico senza volto”, insomma un simbolo cui si finisce per sparare.
E per dirlo usa una simbologia più trita di una foglia di Betel nella bocca di un paria: quella del ‘cattivo maestro’. Bisognerà ricordarglielo ancora, che i cattivi maestri non tornano, come pretende il titolo del suo articolo, perché I CATTIVI MAESTRI NON SONO MAI ANDATI VIA.
Ci sono sempre, sono sempre presenti perché esistono solo in articoli come questo, spiriti chiamati in ogni occasione in cui non si sa che dire su quanto sostiene o pratica chi nel sistema di potere non è integrato.
L’espressione di ‘cattivo maestro’ non solo non appartiene, né linguisticamante né concettualmente, ad un movimento che rivendica l’egualitarismo, che rifiuta i ruoli gerarchici -padrone/servo, medico/paziente, e appunto maestro che inculca e alunno che esegue-, non solo gli è incomprensibile, ma gli si oppone, esiste solo per stigmatizzarlo. Nasce cucita addosso a Toni Negri, professore universitario che con altri docenti di scienze politiche di Padova viene arrestato il 7 aprile 1979, con l’accusa di essere la mente del terrorismo.
Come ricorda la tesi di laurea di Luca Barbieri, I giornali a processo: il caso 7 aprile, (pubblicata a puntate da Carmilla e che vale la pena di leggersi per intero), “cattivi maestri” è un’espressione che da allora non è mai caduta in disuso.
E tanto per rammentare qualche esempio negli ultimi anni:
Su il Messaggero del 25 agosto 1999, Franco Frattini, allora presidente del comitato parlamentare sui servizi di sicurezza, se la prende con la sentenza di assoluzione di Adriano Sofri, perché distingue la responsabilità dei cattivi maestri “che educavano alla lotta rivoluzionaria e gli esecutori dei loro insegnamenti”. “Come Toni Negri, tra gli altri”. Su questa falsariga, Sofri è dichiarato cattivo maestro da Marco Travaglio (Sette, 15.4.2004); dal procuratore generale al processo di revisione Gabriele Ferrari (la Repubblica 30.12.1999: “cattivi maestri due volte responsabili, per quello che hanno fatto e quello che hanno fatto credere”); da Marcello Veneziani (il Giornale 19.7.2003, “Ritornano i cattivi maestri”) che lo mette accanto a Herbert Marcuse, Eric Hobsbawn e… Toni Negri. Questi, che è il cattivo maestro per antonomasia, si può davvero permettere una rivendicazione, chiamandoli alla moltiplicazione e alla moltitudine. Lo ha fatto in Apologia del cattivo maestro, pezzo tratto da una sua pubblicazione in memoriam del compianto Luciano Ferrari Bravo, e che merita di restare in memoria.
“Il ritorno dei cattivi maestri” è un titolo che ritorna, come un rigurgito di stampa: per esempio quello di un pezzo di Paolo Chiariello, su Roma 14.4.2001, lì in occasione della protesta dei disoccupati napoletani;
Su la Repubblica del 4 marzo 2004 è Mario Pirani che si dedica ai cattivi maestri: sono quelli come Erri De Luca, Daniel Pennac e Philippe Solliers, che hanno osato opporsi alla estradizione di Cesare Battisti dalla Francia;
Su il Sole 24 ore del 21 marzo 2002, Andrea Casalegno ci spiega che “i dirigenti dell’estrema sinistra furono tutti, chi più chi meno, cattivi maestri”;
Ruggero Guarini, su il Tempo dell’8.3.2003, trova una variante ai cattivi maestri che non devono salire in cattedra: dice che non devono più andare in TV “a narrare e interpretare a modo loro questa o quell’altra Notte della Repubblica”.
Questa teoria dei cattivi maestri è una delle più imbecilli che abbiano mai attraversato un discorso pubblico, e che l’espressione piaccia, tra i tanti bidelli della società, anche ai magistrati d’accusa, non è certo una sorpresa, in Italia. Il pubblico ministero Stefano D’Ambruoso ha trovato cattivi maestri in alcuni centri sociali (Avvenire, 30.8.2001), il p.m. Rosario Priore invoca contro di loro il pugno di ferro (il Giorno, 26.8.2001) e così pure il p.m. Antonio Marini, che però ‘non vuole fare nomi’ (il Messaggero, 12.8.2001). Lo stesso recidiva qualche anno dopo sulla ‘tolleranza zero’, e così duetta con la giornalista che lo qualifica di “giudice storico” (?): “-Ci sono ancora 160 primule rosse del terrorismo… -Che possono diventare i cattivi maestri per le giovani leve.” (n.b.: i casi citati sono Cesare Battisti e Alessio Casimirri, il Giorno 21.3.2007: come ‘primule’, piuttosto appassite, ma poco importa a chi ha imparato a scrivere alla sagra del luogo comune).
E, a proposito di Battisti, s’è detto in un altro post di come Arrigo Cavallina si sia rivendicato suo cattivo maestro. C’è però ancora il guru della dissociazione, il Comandante Sergio Segio, secondo cui la teoria dei cattivi maestri è uno scudo giustificazionista; perché a rigor di logica se c’è un maestro cattivo, il pupillo che egli ha traviato non è così colpevole. E no, tuona l’ex-capo di Prima Linea, è una categoria che non va utilizzata (la Repubblica 26.2.2005).
Bisogna precisare che gli articoli qui citati sono solo una minima parte di tutti i pezzi in cui vengono evocati i cattivi maestri, a proposito ormai di ogni genere di occasione e persona: ma di un uso giustificazionista come quello contestato dal superbo Comandante non si trova davvero traccia.
Poco dopo l’episodio del fumogeno lanciato al comizio del segretario CISL Raffaele Bonanni, un altro episodio attizzò la ripetizione del concetto: il non-attentato al direttore del quotidiano Libero, Maurizio Belpietro. I non-fatti, lo si è capito, costituiscono un fondamento perfetto per parlar di cattivi maestri, e permettono pure di accedere all’universo vittimario; così Bonanni: “Io e Belpietro vittime dei cattivi maestri” (Libero, 3.10.2010)
Così conclude l’analisi di Mario Ajello (“I cattivi maestri e l’accusa di ‘servitù’ ritorna la sindrome degli anni di piombo” in il Mattino e il Messaggero del 2.10.2010) su “un allarme che si credeva sepolto nelle caverne della storia” (sic): “La prima riforma da fare -e negli anni di piombo funzionò- sarebbe quella della riconciliazione nazionale fra leader e partiti”.
Fra leader e partiti, appunto.
Tutti gli altri, che non sono né leader né partiti, non appena vedranno un articolo sui cattivi maestri, potranno ricordarsi che, se la monnezza è sulla stampa, la bellezza è senz’altro per strada.
‘Dire che la bellezza è per strada, è essere capaci di recepire tutte quelle pratiche d’invenzione e di libertà che vi nascono’ (L. Sagradini, Théorie critique 2008).
Giornate della memoria e delle vittime…bha
Sono un bel regalo alla storia e all’intelligenza queste righe di Marco, Marco Clementi, giovane storico di infinita lungimiranza e precisione. Un bel regalo perché ci dimostrano come poche righe bastino per chiarire migliaia di pagine di carta straccia scritte a riguardo.
Perché ci fa capire anche come gli istituti, le fondazioni, i centri di ricerca che appartengono anche alla sinistra storica di questo paese da gettare al cesso, facciano solo demagogia utile al potere per girarsi la frittata, e girarla contro di noi. Com’è difficile, anche tra “noi”, trovare chi non cade nei tranelli del vittimismo, del giustizialismo, della visione delirante di quello che sono stati quegli anni e quindi quei morti, di quello che è stata l’Italia delle stragi e quella della lotta al capitale e allo sfruttamento.
Poche parole queste, serie.
E non serve niente più.
Una splendida rassegna di cinema militante…a Torino però!
PRIMA DELLA RIVOLUZIONE
Cinema militante italiano ’60-‘70
Da mercoledì 18 a sabato 28 maggio Unione Culturale Franco Antonicelli con Aamod – Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, A cura di Annamaria Licciardello e Jacopo Chessa.
Mercoledì 18 maggio, 20.30
Movimento studentesco
– Il movimento studentesco al servizio delle masse popolari di Movimento Studentesco dell’Università Statale di Milano (1971, 27′)
– Perché Viareggio di Movimento Studentesco pisano in collaborazione con il gruppo Cinema Zero (1969, 16′)
– Cinegiornale del movimento studentesco n. 1 di Movimento Studentesco dell’università La Sapienza (1968, 53′)
– Della Conoscenza di Movimento Studentesco dell’Università La Sapienza di Roma (1968, 28′)
La proiezione sarà preceduta da un incontro con Bruno Maida (storico)
Giovedì 19 maggio, 20.30
– Cinegiornali liberi di Zavattini, 1968
– Cinegiornale libero n. 0 (1968, 27′)
– Cinegiornale libero n. 1 di Roma (1968, 34′)
– Cinegiornale libero n. xyz (1968, 22′)
– Cinegiornali liberi: incontri (1968, 25′)
– Cinegiornale libero n. 5 (1969, 12′)
– Battipaglia, autoanalisi di una rivolta di Luigi Perelli (1970, 24’)
La proiezione sarà preceduta da un incontro con Corrado Borsa (storico)
Venerdì 20 maggio, 20.30
Antifascismo
– Bianco e nero di Paolo Pietrangeli (1975, 60’)
– Pagherete caro pagherete tutto di Collettivo Cinema Militante di Milano (1975, 45′)
La proiezione sarà preceduta da un incontro con Ranuccio Sodi (regista)

Sabato 21 maggio ore 16.30
Lotte internazionali
– Tall al-Za‘tar di Mustafa Abu Ali, Pino Adriano, Jean Chamoun (1977, 75’)
– Turkije di Gianfranco Barberi (1975, 75’)
La proiezione sarà preceduta da un incontro con Gianfranco Barberi (regista) e Francesco Pallante (Unione Culturale)
ORE 20.30
– La lunga marcia del ritorno di Ugo Adilardi e Paolo Sornaga (1970, 35’)
– Seize the time di Antonello Branca (1970, 90’)
La proiezione sarà preceduta da un incontro con Donatella Barazzetti (presidente Associazione Antonello Branca) e Ugo Adilardi (presidente
Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico) e dalla presentazione del dvd di ‘Seize the time’ (Kiwido)
Martedì 24 maggio, 20.30
Femminismo
– Aggettivo donna di Collettivo Femminista di Cinema (1971, 50′)
– La lotta non è finita di Collettivo Femminista di Cinema (1973, 20’)
La proiezione sarà preceduta da un incontro con Elena Petricola (storica)
Mercoledì 25 maggio, 20.30
Strategia della tensione e repressione
– 12 dicembre di Pier Paolo Pasolini e Giovanni Bonfanti (1970, 43’)
– Tre ipotesi sulla morte di Pinelli di Comitato cineasti italiani contro la repressione (1970, 12′)
– Giuseppe Pinelli (materiali n.1) di Comitato cineasti italiani contro la repressione (1970, 50′)
– Filmando in città di Franco Cignini (1978, 30′)
La proiezione sarà preceduta da un incontro con Marco Scavino (Unione
Culturale)
Giovedì 26 maggio, 20.30
77 e dintorni
– Festival del proletariato giovanile a Parco Lambro di Alberto Grifi (1976, 58’)
– Il manicomio – Lia di Alberto Grifi (1977, 32’)
– Ciao mamma, ciao papà di Dodo Brothers (1978, 17’)
– Macondo di Dodo Brothers (1978, 16’)
La proiezione sarà preceduta da un incontro con Andrea Ruggeri (regista)
Venerdì 27 maggio ore 18.00
Lotte sociali/istituzioni totali
– Policlinico – Comizio Operaio di Circolo La Comune di Roma, Collettivo Policlinico, Il Soccorso Rosso Roma (1973, 60′)
– I poveri muoiono prima di Franco Arcalli, Bernardo Bertolucci, Giuseppe Bertolucci, Lorenzo Magnolia, Giorgio Pelloni, Domenico Rafele, Marlisa Trombetta (1971, 39′)
20.30
– Carcere in italia di Videobase (1973, 60′)
– Policlinico in lotta di Videobase (1973, 60′)
La proiezione sarà presentata da Annamaria Licciardello
Sabato 28 maggio ore 18.00
La fabbrica
– Lotte di classe in Sardegna di Pino Adriano (1970, 30’)
– Incatenati ai tempi di Antonello Branca (1978, 18′)
– Cinegiornale libero n. 2 (Apollon) (1969, 76′)
La proiezione sarà preceduta da un incontro con Pietro Perotti (operaio cineasta)
ORE 20.30
– All’Alfa di Virginia Onorato (1969, 63’)
– Lotte alla Rhodiatoce di Pallanza di Collettivo Cinema Militante di Torino (1969, 25’)
– La fabbrica aperta di Collettivo Cinema Militante di Torino (1971, 30′)
– Mirafiori ’73 di Collettivo Cinema Militante di Torino (1973, 30′)
La proiezione sarà preceduta da un incontro con Gianfranco Torri (CCM di Torino) e Gianni Volpi (presidente Aiace nazionale).
4 Maggio 1978, Roberto Rigobello
Roberto Rigobello
– Nasce a bologna il 25 aprile 1957
– Studia fino a 17 anni
– Lavora come operaio meccanico alla Cesab di Bologna
– Milita in una Formazione Autonoma
– Viene ucciso dalla polizia a Bologna il 4 maggio 1978
Cinzia Bonacorsi Testimonianza al Progetto Memoria Bologna 1993
“Roberto Rigobello, chiamato Rigo dagli amici, muore poco più che ventenne nel corso di una rapina colpito da un proiettile sparato da un agente di PS contro di lui mentre, a bordo di un’auto, cercava di allontanarsi per sottrarsi alla cattura. Non vi fu conflitto a fuoco vero e proprio, sebbene alcune testimonianze dicano che forse da parte di Rigo sia stato sparato un colpo di pistola mentre si dava alla fuga. 
Roberto non era un rapinatore. La sua partecipazione a quell’azione era stata frutto di una scelta; un atto con il quale Rigo rivendicava la sua presa di coscienza di quello che era, allora, il contesto politico nel quale vivevamo.
Una presa di coscienza maturata nel contesto della sua vita quotidiana, nel quartiere dove viveva, nella fabbrica dove lavorava, nelle contraddizioni forti e apparentemente insolubili che specialmente in quegli anni la “politica” mostra apertamente. Una presa di coscienza maturata attraverso la sua breve esperienza fatta di tutto quanto è solidarietà, socializzazione, riappropriazione di tempi e spazi che l’ “ordine” sistematicamente tendeva a reprimere.
Di Roberto come di tanti altri non rimane nelle cronache nient’altro che quel fatto specifico. Ma per lui quell’atto non era altro che un passaggio per dare corpo e forza ad altri valori che con il denaro (inteso come potere, ricchezza…) non avevano nulla a che fare, anzi quel denaro non sarebbe più stato elemento di divisione, bensì di aggregazione.
Roberto per la sua grande sensibilità e disponibilità e il suo desiderio di vivere in un mondo migliore ha scelto di percorrere la strada di una lotta difficile sulla quale non era solo: la sua organizzazione erano i suoi rapporti con i suoi compagni di lavoro, nella vita, la gioia e la voglia che lo univa alle persone, nelle cose che faceva con altri, nell’intenzione di migliorare la qualità di una vita che sapeva importante per sé e per gli altri.
Non ricordiamo Rigo associato a nessuna organizzazione. Lo ricordiamo come nostro compagno quotidiano.[…]
Rigo pur non essendo un militante nel senso stretto, aveva come referente Potere Operaio. La scelta della rapina viene fatta non per motivi strettamente economici ma per fare velocemente un salto di qualità esistenziale e politico. Ma la poca esperienza e la generosità gli fanno perdere la vita. Perde del tempo prezioso per fuggire quando già la polizia è arrivata, per tentare fino all’ultimo di liberare uno dei compagni che erano con lui, che era rimasto intrappolato fra le due porte a scatto della banca.
Quando tenta la fuga è troppo tardi e viene colpito alla schiena dai colpi sparati dalla polizia. Non ci sarà nessuna inchiesta perché la madre rifiuta di costituirsi parte civile.
Il compagno rimasto intrappolato all’uscita della banca (Marco Tirabovi) viene arrestato, si fa qualche anno di galera partecipando attivamente alle lotte in carcere e alla vita quotidiana con i compagni.
Quando esce ricomincia a frequentare i suoi compagni, senza però fare più attività politica, scrive, parla, insomma cerca di essere attivo senza integrarsi comunque nelle cose che aveva sempre rifiutato. Entra in una profonda crisi, ha molto dolore dentro se stesso, e nel febbraio 1990 si suicida.”
«Gli anni 70? E’ ora di affidarli agli storici»
Paolo Persichetti intervista lo storico francese Marc Lazar, curatore de “Il libro degli anni di piombo”
«Gli anni 70? E’ ora di affidarli agli storici».
Il Gruppo 22 ottobre e la morte di Floris
Genova, venerdì 26 Marzo 1971: è la data stabilita dalla “banda 22 Ottobre” per una rapina che andrà a colpire l’Istituto autonomo case popolari (Iacp).

La sera del 25 Marzo il gruppo si riunisce per dividersi i compiti: Mario Rossi e Augusto Viel scipperanno la borsa con le paghe e scapperanno a bordo di una Lambretta rubata in precedenza; ad attenderli su un’auto poco più in là, pronto a ricevere il bottino, ci sarà Malagoli, il quale lo consegnerà poi a Marletti per la custodia.
L’intenzione è di svolgere il tutto senza sparare, lanciando un po’ di pepe negli occhi del capoufficio dell’Istituto, Giuseppe Montaldo, e del suo fattorino Alessandro Floris, ma Rossi è irremovibile sul fatto di recarsi comunque armato all’azione.

Il giorno successivo i giornali operano un vero e proprio linciaggio mediatico nei confronti di Rossi, definito senza esitazioni come un mostro e un omicida volontario; l’obiettivo è raggiunto anche grazie all’uso di alcune fotografie, scattate casualmente da uno studente residente nei paraggi dell’Istituto, che vengono però proposte dalla stampa nell’ordine sbagliato e in modo parziale o rielaborato per avallare ricostruzioni dei fatti affrettate e poco veritiere.
Il 2 Ottobre del 1972 si apre il processo non solo a Rossi, ma anche a quasi tutti gli altri componenti della banda, arrestati nei mesi precedenti con prove spesso labili; tutti i componenti affermano tra l’altro di essere stati trattati in modo feroce durante la detenzione.
Sono mura robuste, ma non possono impedire che la nostra voce vi giunga. Inutilmente le forze coalizzate del potere hanno tentato di serrare intorno a voi il muro ben più tenace della menzogna e del silenzio. L’esercito dei poliziotti che vi controlla e le menzogne della stampa che vi isolano non riusciranno a cancellare il fatto fondamentale che voi, con le vostre azioni, avete iniziato in Italia una tradizione che nessuno più estirperà. Per questo vi temono e continueranno a temervi. Non disperate per le apparenze, oggi i padroni e i loro servi appaiono più forti ma dietro questa forza si nasconde la loro debolezza, la loro insicurezza. Sentono di non avere ormai altro scopo che la difesa del loro miserabile potere, la sua conservazione a tutti i costi e sono certo pronti a distruggere tutto attorno a sè pur di conservarlo, a trascinare tutti nella rovina, ma i proletari non hanno nulla da perdere. Venga pure la loro rovina perché da essa soltanto comincia la nostra vita. Il 22 ottobre ha aperto la via; altre forze lo sostituiranno, alimentate continuamente dalla stessa ferocia distruttiva del potere dominante. Compagni del 22 ottobre, di fronte a voi i padroni di Genova hanno tremato. Voi siete riusciti laddove hanno fallito decine di lotte inutili e perdenti. Non fatevi intimidire, andatene fieri.non c’è miglior corteo di quello che vi accompagna tutti i giorni al processo. NOn c’è ritrovo più adatto per gli uomini veri di un tribunale di giustizia. Sono quelle oggi le vie obbligate per chi rifiuta il compromesso di una lotta politica inutile.
Ben lo sa chi di voi ha scontato anni di galera sotto il fascismo. Andate fieri anche della calunnia che la stampa imbastisce nei vostri riguardi. La verità infatti appartiene solo a noi. Lasciate pure che l’Unità vi chiami fascisti, la calunnia è infatti alimento quotidiano con cui il PCI tiene ancora insieme il corpo putrido del suo apparato. Compagni del 22 ottobre, voi avete scelto la via più difficile e coerente, e con la vostra scelta avete iniziato un processo inevitabile.

Detenuti del carcere di Marassi, solidarizzate con i compagni del 22 ottobre. Per voi come per loro il carcere non è certo il luogo di espiazione.
Da anni nelle carceri si è aperto il fronte di lotta proletario; le grandi rivolte di Genova, Torino, Milano, sono state parte dello stesso movimento rabbioso e cosciente che ha aggredito i centri del potere capitalistico. Anche voi, detenuti del carcere di Marassi, ne siete stati protagonisti. I carnefici del tribunale e delle caserme, i vari Sossi, e Napolitano, i Corallo e i Lo Muscio non sanno immaginare le rivolte che come opera astuta e interessata di alcuni sobillatori, come calcolato disegno di cui voi sareste gli ingannati strumenti e i cui scopi vi sarebbero estranei. Ciò si può ben capire.
Essi hanno paura della realtà. si illudono di poter confinare la marea montante della rivoluzione nell’immagine di uno stato maggiore che azioni a comando l’insurrezione e la resa, di una consorteria di capi che manovrino a loro piacimento una massa inerte. Essi cercano di separarvi dalle ragioni reali del vostro rifiuto, le ragioni della vita umana e della libertà dall’oppressione sociale.
Vi blandiscono con promesse di riforme che ancora oggi non avete visto, vi minacciano di punizioni più dure, aumento delle pene, botte, morte.
E voi sapete purtroppo che non minacciano invano. Chi di voi non ricorda il sadico torturatore Ferrigno? Chi ha dimenticato il massacro a sangue freddo nelle carceri di Rebibbia ordinato dal ministro per dare esempio?
Ora vi chiamano canaglie, ora bravi uomini, per farvi sentire diversi e umiliati; sempre cercano dio coltivare in voi, senza riuscirvi, la figura disperata del delinquente incallito e quella mite e rassegnata del cittadino tornato sulla retta via dell’onestà, del faticoso lavoro che aumenterà i loro profitti, i loro privilegi, la vostra miseria.
A tutto ciò voi avete risposto da tempo con un no deciso e violento. La vostra rivolta sorge come la nostra, come quella di ogni proletario che non vule morire per condizioni insopportabili a cui bisogna porre fine. Il carcere non può essere trasformato, deve essere distrutto anche materialmente.
L’esempio ci viene dai detenuti di Torino che l’anno scorso hanno incendiato e rese inabitabili le carceri di quella città.
W i detenuti di Marassi
W il 22 Ottobre













Quando mi portarono via, appena usciti dalla caserma dissero che mi conveniva collaborare, che altrimenti avrebbero continuato passando ai fatti. Prima di questa frase effettivamente uno di quelli che aveva partecipato al mio arresto aveva parlato via radio con qualcuno, ovviamente non ho capito chi ci fosse dall’altra parte, ma le frasi riportate nella lettera le avevo sentite molto bene.












































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