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Torture e “De Tormentis”: arriva l’interrogazione parlamentare
L’interrogazione presentata dalla deputata radicale Rita Bernardini
Le torture ai militanti Br arrivano in Parlamento
di Paolo Persichetti
Liberazione 17 dicembre 2011
Approda in parlamento la storia delle torture impiegate da alcune squadre speciali del ministero dell’Interno, indicate dall’ex commissario (oggi questore) Salvatore Genova, uno degli autori delle indagini contro le Br nei primi anni ’80, col nome ripreso da alcuni cult movie del cinema, “I cinque dell’ave maria” e “I vendicatori della notte”, per fronteggiare i gruppi che praticavano la lotta armata come le Brigate rosse, tra la fine fine degli anni ’70 e i primi anni ’80.
Una interrogazione parlamentare al ministero dell’Interno e della Giustizia è stata depositata dalla deputata radicale Rita Bernardini.
Il testo prende spunto dalle rivelazioni contenute nel libro di Nicola Rao, Colpo al cuore. Dai pentiti ai metodi speciali: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, nel quale si riportano le ammissioni del funzionario dell’Ucigos (l’attuale polizia di prevenzione), conosciuto con l’eteronimo di “professor De Tormentis”, che guidava la squadra di poliziotti provenienti dalla mobile napoletana addestrati a varie tecniche di tortura e violenze psico-fisiche, tra le quali il waterboarding, l’annegamento con acqua e sale.
Nel libro di Rao l’ex commissario della Digos Salvatore Genova racconta in questo modo il trattamento riservato a Nazareno Mantovani, uno dei primi fermati durante le indagini per il rapimento del generale Nato Dozier: «Fu spogliato, disteso supino su un tavolo di legno e legato alle quattro estremità, con la testa e la parte superiore del tronco che uscivano fuori. Le persone che lo circondavano erano tutte incappucciate. Urlavano, minacciavano, annunciavano cose terribili […] uno teneva la bocca del prigioniero aperta e gli chiudeva il naso, un altro gli teneva la testa, mentre un terzo cominciò a versare in maniera sistematica, ritmica e controllata acqua e sale, attraverso una cannula inserita in gola in maniera sapiente. Mezzo litro, si fermava qualche decina di secondi per dar modo a Mantovani di non soffocare e poi ricominciava […] Mantovani non parlò. Dopo un’ora e mezzo di trattamento il professore decise di sospenderlo. Il sospetto brigatista era già svenuto due volte e c’era il rischio che ci rimettesse la pelle».
Alla fine dello spettacolo, un paio di uomini di Genova dissero al loro capo che se ne tornavano a casa. Non se la sentivano di assistere ad una cosa del genere.
L’interrogazione della parlamentare del partito radicale si avvale anche dell’inchiesta pubblicata da Liberazione l’11 dicembre scorso riportandone ampi stralci, in particolare la testimonianza e soprattutto la dettagliata descrizione del curriculum professionale, culturale e politico del personaggio, di facile identificazione, che si cela dietro il lucubre soprannome ripreso dal celebre Tractatus De Tormentis, scritto da un anonimo criminalista di scuola bolognese sul finire del 1200 (la datazione tuttavia resta incerta secondo altri studiosi), ultracitato dal Manzoni nella sua Storia della colonna infame, e nel quale si inquadra la tortura all’interno di un sistema di minuziose regole procedurali funzionali a dare corpo alla «regina delle prove»: la confessione del reo.
Nel testo si chiede se il ministro di competenza «non intenda verificare l’identità e il ruolo svolto all’epoca dei fatti dal funzionario dell’Ucigos conosciuto come “professor De Tormentis”» ed ancora se non si ritenga opportuno «promuovere, anche mediante la costituzione di una specifica commissione d’inchiesta», ogni utile approfondimento «sull’esistenza, i componenti e l’operato dei due gruppi addetti alla sevizie, ai quali fanno riferimento gli ex funzionari della polizia di Stato citati nelle interviste».
Rita Bernardini vuole anche sapere dal governo se intenda «adottare con urgenza misure volte all’introduzione nell’ordinamento italiano del reato di tortura e di specifiche sanzioni al riguardo, in attuazione di quanto ratificato in sede Onu» e se non vi sia l’intenzione di «assumere iniziative, anche normative, in favore di risarcimenti per le vittime di atti di tortura o violenza da parte di funzionari dello Stato, e per i loro familiari».
L’obiettivo è quello di arrivare all’adozione urgente di provvedimenti che contrastino ogni manifestazione di violenza non giustificabile sui cittadini da parte di funzionari delle Forze di polizia nell’esercizio delle loro funzioni. Un fenomeno in netta recrudescenza come dimostrano i molti casi di cronaca recenti.
QUI LA SEZIONE TORTURA, con altri articoli su De Tormentis e le sue gesta :LEGGI
Torture: TANA PER “DE TORMENTIS” (Nicola Ciocia)!!! E’ ora che il mastro torturatore d’Italia si faccia avanti!
AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI
Nei primi anni 80 per contrastare la lotta armata oltre alle leggi d’emergenza, alla giustizia d’eccezione e alle carceri speciali, lo Stato fece ricorso anche alle torture
Paolo Persichetti
Liberazione 11 dicembre 2011
«Professor De Tormentis», era chiamato così il funzionario dell’Ucigos (l’attuale Polizia di prevenzione) che a capo di una speciale squadretta addetta alle sevizie, in particolare alla tecnica del waterboarding (soffocamento con acqua e sale), tra la fine degli anni ‘70 e i primissimi anni ’80 si muoveva tra questure e caserme d’Italia per estorcere informazioni ai militanti, o supposti tali, delle Brigate rosse.
Di lui, e del suo violento trattamento riservato agli arrestati durante gli interrogatori di polizia, parla diffusamente Nicola Rao in un libro recentemente pubblicato per Sperling&Kupfer, Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali”: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata. Rivelazioni che portano un colpo decisivo alla tesi, diffusa da magistrati come Caselli e Spataro (recentemente anche Turone) che vorrebbe la lotta armata sconfitta con le sole armi dello stato di diritto e della costituzione. In realtà alle leggi d’emergenza, alla giustizia d’eccezione e alle carceri speciali, si accompagnò anche il più classico degli strumenti tipici di uno stato di polizia: la tortura. Il velo su queste violenze si era già squarciato nel 2007, quando Salvatore Genova, uno dei protagonisti dell’antiterrorismo dei primi anni ’80, coinvolto nell’inchiesta contro le sevizie praticate ai brigatisti che avevano sequestrato il generale Dozier, cominciò a testimoniare quanto aveva visto: «Nei primi anni ’80 esistevano due gruppi – dichiara a Matteo Indice sul Secolo XIX del 17 giugno – di cui tutti sapevano: “I vendicatori della notte” e “I cinque dell’Ave Maria”. I primi operavano nella caserma di Padova, dov’erano detenuti i brigatisti fermati per Dozier (oltre a Cesare Di Lenardo c’erano Antonio Savasta, Emilia Libera, Emanuela Frascella e Giovanni Ciucci)». Per poi denunciare che «Succedeva esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com’era scritto persino su un ordine di servizio, e poi erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale. Una volta, presentandomi al mattino per un interrogatorio, Savasta mi disse: “Ma perché continuano a torturarci, se stiamo collaborando?”». Come sempre le donne subirono le sevizie più sadiche, di tipo sessuale.
Genova si salvò grazie all’immunità parlamentare intervenuta con l’elezione in parlamento come indipendente nelle liste del Psdi del piduista Pietro Longo (numero di tessera 2223). In quell’intervista Genova si libera la coscienza: «Ovunque era nota l’esistenza della “squadretta di torturatori” che si muoveva in più zone d’Italia, poiché altri Br (in particolare Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, bloccati dalla Digos di Roma il 3 gennaio 1982) avevano già denunciato procedure identiche. Non sarebbe stato difficile individuarne nomi, cognomi e “mandanti” a quei tempi». Ma quando il giornalista Piervittorio Buffa raccontò sull’Espresso del marzo 1982 quella mattanza, “informato” dal capitano di Ps Ambrosini (che vide la porta di casa bruciata da altri poliziotti), venne arrestato per tutelare il segreto su quelle pratiche decise ad alto livello.

“Il pene della Repubblica”: Cesare Di Lenardo
Chiamato in causa, una settimana dopo anche il «professor De Tormentis» fece sentire la sua voce. Il 24 giugno davanti allo stesso giornalista disseminava indizi sulla sua reale identità, quasi fosse mosso dall’inconscia volontà di venire definitivamente allo scoperto e raccontare la sua versione dei fatti su quella pagina della storia italiana rimasta in ombra, l’unica – diversamente da quanto pensa la folta schiera di dietrologi che si esercita da decenni senza successo sull’argomento – ad essere ancora carica di verità indicibili. De Tormentis non si risparmia ed ammette “i metodi forti”: «Ammesso, e assolutamente non concesso, che ci si debba arrivare, la tortura – se così si può definire – è l’unico modo, soprattutto quando ricevi pressioni per risolvere il caso, costi quel che costi. Se ci sei dentro non ti puoi fermare, come un chirurgo che ha iniziato un’operazione devi andare fino in fondo. Quelli dell’Ave Maria esistevano, erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” d’interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti». La struttura – rivela a Nicola Rao il maestro dell’annegamento simulato – è intervenuta una prima volta nel maggio 1978 contro il tipografo delle Br, Enrico Triaca. Ma dopo la denuncia del “trattamento” da parte di Triaca la squadretta venne messa in sonno perché – gli spiegarono – non si potevano ripetere, a breve distanza, trattamenti su diverse persone: «se c’è solo uno ad accusarci, lascia il tempo che trova, ma se sono diversi, è più complicato negare e difenderci». All’inizio del 1982 venne richiamato in servizio. Più che un racconto quella di “De Tormentis” appare una vera e propria rivendicazione senza rimorsi: «io ero un duro che insegnava ai sottoposti lealtà e inorridiva per la corruzione», afferma presagendo i tempi del populismo giustizialista. «Occorreva ristabilire una forma di “auctoritas”, con ogni metodo. Tornassi indietro, rifarei tutto quello che ho fatto».
Oggi l’identità di “De Tormentis” è un segreto di Pulcinella. Lui stesso ha raccontato di aver prestato servizio in polizia per quasi tre decenni, uscendone con il grado di questore per poi esercitare la professione di avvocato. Accanto al questore Mangano partecipò alla cattura di Luciano Liggio; poi in servizio a Napoli sia alla squadra mobile che all’ispettorato antiterrorismo creato da Emilio Santillo (sul sito della Fondazione Cipriani sono indicate alcune sue informative del periodo 1976-77, inerenti a notizie raccolte tramite un informatore infiltrato in carcere), per approdare dopo lo scioglimento dei nuclei antiterrorismo all’Ucigos dove ha coordinato i blitz più «riservati».
De Tormentis riferisce anche di essere raffigurato in una delle foto simbolo scattate in via Caetani, tra gli investigatori vicini alla Renault 4 dove si trovava il corpo senza vita di Moro. In rete c’è traccia di un suo articolo scritto nel gennaio 2001, su un mensile massonico, nel quale esalta le tesi del giurista fascista Giorgio Del Vecchio, elogiando lo Stato etico («il diritto è il concentrato storico della morale»), e rivendica per la polizia i «poteri di fermo, interrogatorio e autonomia investigativa». Nel 2004 ha avuto rapporti con Fiamma Tricolore di cui è stato commissario per la federazione provinciale di Napoli e, dulcis in fundo, ha partecipato come legale di un funzionario di polizia, tra l’86-87, ai processi contro la colonna napoletana delle Br, che non molto tempo prima aveva lui stesso smantellato senza risparmio di metodi “speciali”. Una singolare commistione di ruoli tra funzione investigativa, emanazione del
potere esecutivo, e funzioni di tutela all’interno di un iter che appartiene al giudiziario, che solo in uno stato di eccezione giudiziario, come quello italiano, si è arrivati a consentire.
Forse è venuto il momento per questo ex funzionario, iscritto dal 1984 all’albo degli avvocati napoletani (nel suo profilo si descrive «già questore, penalista, cassazionista, esperto in investigazioni nazionali e internazionali su criminalità organizzata, politica e comune, sequestri di persona»), di fare l’ultimo passo alla luce del sole. Sul piano penale “De Tormentis” sa che non ha da temere più nulla. I gravi reati commessi sono tutti prescritti (ricordiamo che nel codice italiano manca quello di tortura).
L’ex questore, oggi settantasettenne, ha un obbligo morale verso la società italiana, un dovere di verità sui metodi impiegati in quegli anni. Deve qualcosa anche ai torturati, alcuni dei quali dopo 30 anni sono ancora in carcere ed a Triaca, che subì la beffa di una condanna per calunnia. Restano da sapere ancora molte altre cose: quale fu l’esatta linea di comando? Come l’ordine sia passato dal livello politico a quello sottostante, in che termini sia stato impartito. Con quali garanzie lo si è visto: impunità flagrante. Venne pizzicata solo una squadretta di Nocs capeggiata da Genova. Condannati in primo grado ma prosciolti in seguito. Di loro, racconta compiaciuto “De Tormentis”: «vollero strafare, tentarono di imitare i miei metodi senza essere sufficientemente addestrati e così si fecero beccare». All’epoca Amnesty censì 30 casi nei primi tre mesi dell’82; il ministro dell’Interno Rognoni ne riconobbe 12 davanti al parlamento, ma il fenomeno fu molto più esteso (cf. Le torture affiorate, Sensibili alle foglie, 1998). La tortura, scriveva Sartre: «Sconfessata – a volte, del resto, senza molta energia – ma sistematicamente applicata dietro la facciata della legalità democratica, può definirsi un’istituzione semiclandestina».
LINK:
Chi è De Tormentis?
Quando si torturavano i tipografi
Sul corpo delle donne
Sul corpo delle donne, fuori dal carcere
e qui tutto ciò che c’è di pubblicato su qeusto blog riguardo la tortura sui corpi dei prigionieri politici italiani: LEGGI!
Torture in Italia: chi sarà questo professor “De Tormentis” ? (Nicola Ciocia, attualmente avvocato del foro di Napoli…è il segreto di Pulcinella)
Ci si mette alla caccia degli assassini dopo più di 30 anni dagli omicidi: lo facciamo senza pensare a quel che potrebbe comportare, senza pensare che magari ci rimetterebbero solo i compagni nell’aprire processi a 30anni di distanza.
Ma lo facciamo con un fervore tale che ci fa dimenticare di andare sottobraccio ai ROS, di aiutarli…
Poi ci dimentichiamo dei NOSTRI torturatori, poi non ci interessa sapere il nome di quest’uomo: che ridicoli che siamo!
Inutili, dannosi, ridicoli!
«De Tormentis» è l’eteronimo sotto il quale si nasconde l’identità dell’ex funzionario Ucigos (oggi denominata Polizia di prevenzione) che era a capo della speciale squadretta addetta alle sevizie, in particolare alla tecnica del waterboarding, utilizzate per estorcere informazioni durante gli interrogatori contro i militanti, o supposti tali, delle Brigate rosse. 
In una intervista rilasciata al secolo XIX il 24 giugno 2007, sotto anonimato, “De Tormentis” raccontava di aver prestato servizio in polizia per quasi tre decenni, dove era entrato alla fine degli anni Cinquanta uscendone con il grado di questore per poi esercitare la professione di avvocato (un vero insulto alla categoria) presso il foro di Napoli. Pare, dicono alcune voci, con pessimi risultati; il che non deve certo sorprendere visto il curriculum del personaggio.
Sempre “De Tormentis” aggiungeva di aver lavorato in Sicilia, partecipando alle inchieste che portarono alla cattura di Luciano Liggio e Totò Riina (il primo arresto di quest’ultimo, nel 1963, prima della lunghissima latitanza), poi a Napoli, sia alla squadra mobile sia all’ispettorato antiterrorismo creato da Emilio Santillo per approdare dopo lo scioglimento dei nuclei antiterrorismo di Santillo all’Ucigos (Ufficio centrale per le investigazioni generali e le operazioni speciali), dove ha coordinato i blitz più «riservati».
Nella stessa intervista riferiva di essere raffigurato in una delle foto simbolo scattate in via Caetani, tra gli investigatori vicini alla “Renault 4″ dove si trovava il corpo senza vita di Moro.
Nicola Rao nel suo libro, Colpo al cuore: dai pentiti ai “metodi speciali”, come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, Sperling&Kupfer 2011, racconta così l’incontro con De Tormentis:
[…]
Nella hall di un albergo di Napoli un sabato pomeriggio, il 12 febbraio 2011. Accompagnato dalla sua signora, che ha preferito rimanere in disparte, il «professor de tormentis» (che, dopo essere stato nominato questore, abbandonò la polizia e oggi fa l’avvocato) ha deciso di affrontare la situazione, accettando di rispondere (anche se alla sua maniera) alle mie domande.
Prima di cominciare, gli ho chiesto se avesse nulla in contrario a che il colloquio fosse registrato, e lui ha acconsentito.
Il personaggio ha una sua dignità e un suo mondo. Nel suo esordio c’è tutto: «Io sono stato un combattente, perché quella contro le Brigate Rosse era una guerra. Una vera e propria guerra». E in guerra ogni mezzo è lecito per concluderla e vincerla.
Entro subito nel merito: «Quando è stato deciso di procedere al trattamento? Quando le è stata delegata la gestione di questa pratica? Quando ha cominciato a mettere su la sua squadra? Perché solo dopo il rapimento di un generale americano e non prima?»
Ecco la sua risposta: «Lo avevamo fatto anche prima… con Triaca [esponente delle Br arrestato subito dopo il delitto Moro, N.d.A.]. Comunque il trattamento è anche una cosa molto razionale. Non solo fisica. Nel senso che, se viene davanti a te una persona arrestata che tu, per l’esperienza che hai, ritieni uno che offende la tua intelligenza, perché nega l’evidenza e magari dice evidenti cazzate, non ha senso dirgli: ‘Scusi, è stato lei a commettere quel delitto?’ Così non si ottiene niente. Allora gli chiedi: ‘Ma perché vuoi offendere la mia intelligenza? Non si offende l’intelligenza di un rappresentante dello Stato’. E allora il… ehm… come dire… il contrasto, ecco, sì, il contrasto fra noi e loro entra nella fase… importante».
E ancora: «Se le Br non fossero state affrontate in certi modi, avrebbero continuato ad ammazzare. Più che trattamento, io la chiamerei ‘decisione’».
Gli domando: «Il ministro dell’Interno dell’epoca, Virginio Rognoni, ha più volte detto che il governo italiano ebbe pesanti pressioni dall’amministrazione statunitense, anche perché non era mai accaduto prima che un generale americano venisse rapito in Europa. Immagino che a quel punto il governo abbia a sua volta fatto forte pressione sulle forze dell’ordine per cercare di risolvere la questione…»
Il professore: «Tu (inizialmente aveva esordito chiedendomi se potessimo darci del tu) sei una persona intelligente. Non hai bisogno che te lo dica io. Ma oltre quello che ti ho detto non posso andare, perché non sono segreti che riguardano la mia persona, sono segreti che riguardano qualcosa di ben più grande e di molto più importante: sono segreti che riguardano lo Stato. Devi andare oltre. Sono segreti dello Stato. Quelle richieste ci sono state, ma sono cose che non si possono raccontare… Molto importante è l’ultimo gradino dello Stato, quello che sta in trincea. In casi del genere è l’ultimo gradino, chi fa le investigazioni, che avverte se alle sue spalle c’è qualcuno a coprirlo o non c’è nessuno. E quando si agisce per lo Stato e hai le spalle coperte, la ‘decisione’ aumenta…»
Insisto: «Ma l’acqua e sale, il panno sul viso…»
Mi interrompe subito: «Nooo. Senti, Nicola, non sono cose mie, ma sono cose che riguardano lo Stato, non posso dire nulla di più di quello che ho detto. Me le porterò nella tomba. E poi non è quello che aggiunge qualcosa. E tutto il complesso che deve creare il funzionario responsabile di un’operazione…»
Faccio un ultimo tentativo: «E vero che due funzionari della Cia hanno assistito ad alcuni trattamenti e sono rimasti addirittura meravigliati dalla vostra tecnica?»
«Gli italiani sono i migliori del mondo», mi risponde. «Tu avrai avuto a che fare con tuoi colleghi giornalisti stranieri, immagino. Erano alla tua altezza? Secondo me no. Siamo i migliori, a cominciare da come mangiamo, da come ci vestiamo. Non sono stati gli americani a insegnarci certe cose. Siamo i migliori. Se quindi eravamo autodidatti? Io sono cresciuto in mezzo alla strada, sono abituato a certi discorsi, a certi ragionamenti. Lì, nell’attività di polizia ci vuole stomaco. E gli altri Paesi lo stomaco non ce l’hanno come ce l’abbiamo noi italiani. Siamo i migliori. I migliori! A un certo momento i nostri lacciuoli, che ci comprimono e ci condizionano, sono delle scuse per quelle persone che non hanno stomaco. Questa è la verità.»
Dopo due ore e mezzo di duello dialettico, il «professor de tormentis» mi saluta in compagnia della moglie. Pur non dicendomi niente di esplicito, mi ha detto molto. Mi ha confermato l’esistenza del trattamento da lui gestito. Mi ha confermato che qualche apparato superiore glielo ordinò e che si sentiva coperto dai suoi superiori. Mi ha ribadito che certe cose sono accadute perché era l’unico modo per porre fine, al più presto, alla follia omicida delle Br. Un po’ come gli Stati Uniti, che decisero di ricorrere alla bomba atomica per anticipare la fine della guerra ed evitare altre migliaia di morti nelle proprie file.
Terminato il libro, le domande senza risposta si sono moltiplicate. Chi decise di ricorrere a mezzi non convenzionali per distruggere definitivamente le Br? A quale livello? In quale sede? Chi sapeva e chi non sapeva? E perché fu deciso soltanto quando le Br rapirono un generale americano? Come mai le denunce di decine di brigatisti «trattati» sono cadute nel dimenticatoio, mentre le uniche che hanno avuto una conseguenza processuale sono quelle relative a una brutta imitazione del trattamento vero e proprio? Quanto avrebbero ancora ucciso le Br se non si fosse deciso di ricorrere in alcuni casi al waterboarding? Quanto sangue avrebbero ancora versato? E ancora: Dozier sarebbe stato liberato comunque? E gli americani che ruolo ebbero in questa vicenda? Molti di tali quesiti, probabilmente, sono destinati a rimanere senza risposta per sempre. Ma può anche darsi che qualcun altro, dopo di me, avrà l’interesse, la curiosità, la voglia, la pazienza, gli strumenti per approfondire questa vicenda, e magari anche la fortuna di poterla ricostruire fino in fondo.
[…]
Dal blog INSORGENZE, che ha molto materiale a riguardo! [Chi è De Tormentis?]
Qui invece un po’ di altro materiale sulle opere della cricca del signor De Tormentis: LEGGI
I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis
Tortura in carcere: è il turno di Asti
Avete i capelli lunghi al punto di poterli legare per un codino?
Provate a immaginarvelo, il vostro amato codino, mentre rimane in mano ad un agente della polizia penitenziaria perché ve lo tira talmente forte da strapparvelo di netto, tutto in un colpo.
Provate ad immaginare il freddo che può fare in pieno inverno a 5 km dal centro di Asti: e allora immaginatevi nudi, in una cella sporca, con una rete priva di materasso ed un finestrone con sbarre ma senza finestre, aperto.
Immaginatevi PER GIORNI, completamente nudi, senza un posto dove poggiarvi perché avete solo delle coperte lerce da stendere a terra, e se provate ad accostarvi all’unica fonte di calore presente, un termosifone, venite immediatamente pestati, da una squadretta di sette otto ceffi, anfibi ai piedi e frustrazioni da sfogare.
Ovviamente non c’è solo quello; c’è mancanza di acqua corrente e di un bagno agibile, c’è il pestaggio almeno tre volte al giorno, c’è il freddo cane che rosicchia le ossa nude, c’è la privazione del sonno, perché appena le palpebre crollano lo spioncino si apre e se ti dice bene sono urla e insulti, altrimenti si ricominciano le danze…e riparte il pestaggio, i calci, le posizioni che ti inventi per salvarti il viso, e i coglioni.
Però non stiamo parlando dell’Asinara o di Palmi negli anni più bui della storia d’Italia.
Parliamo di ieri, di oggi, di questo momento, di sempre.
In questo caso sappiamo qualcosa in più, in questo caso le vittime sono due italiani che hanno un nome e un cognome: Andrea Cirino ha 33 anni e le sue parole non sono facili da ascoltare.
«Non mi facevano dormire.Faceva così freddo che ero costretto a stare tutta la notte per terra, attaccato a un piccolo termosifone. Non appena mi addormentavo, alzano lo spioncino e gridavano: “Stai sveglio, bastardo!”. Poi arrivavano i passi con gli anfibi e allora capivo: mi rannicchiavo. Loro entravano in sette od otto nella stanza e partivano calci, pugni, schiaffi. Speravo solo che la raffica finisse, ma non finiva mai».
Claudio Renne di anni ne ha 37 e non ha più il suo codino oltre ad avere su di se e dentro di se i chiari segni di una tortura. Perché le celle lisce dove sono stati chiusi, affamati, pestati, ghiacciati questi due detenuti (pare avessero aggredito un agente giorni prima) sono un palese simbolo di quello che è la gestione in Italia dei corpi prigionieri.
Sono fatti del 2004, usciti fuori a pochi mesi dalla prescrizioni attraverso l’indagine di due sostituti procuratori che hanno ottenuto il processo contro 5 agenti, mentre setti sono stati prosciolti lo scorso luglio.
L’articolo uscito su La Stampa ci dice di incontrovertibili prove: dalle testimonianze dei detenuti a quelle di ex agenti della Polizia penitenziaria, oltre ad alcune intercettazioni telefoniche.
IN QUESTO PAESE LA TORTURA E’ SEMPRE ESISTITA,
E CONTINUA AD ESSER PRESENTE NELLE NOSTRE CASERME, CARCERI, LAGER DI STATO.
TUTTI COLORO CHE RIEMPIONO LA PROPRIA BOCCA DI GRANDI DISCORSI SULLA NON VIOLENZA DAVANTI ALLA RABBIA DI CHI FRONTEGGIA LA POLIZIA PRENDESSE PAROLA A RIGUARDO,
RIEMPISSE FIUMI E FIUMI DI PAROLE CONTRO LA VIOLENZA DELLO STATO CHE OGNI GIORNO SI COMPIE SUI CORPI DEI PIU’ DEBOLI E DEGLI SFRUTTATI.
L’articolo sul Manifesto con l’intervista ad uno dei due detenuti: LEGGI
Aggiornamenti dalle carceri israeliane: DIFFONDIAMOLI
Il 27 settembre è iniziato uno sciopero della fame dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, per chiedere la fine delle condizioni di detenzione che in migliaia vivono, per chiedere la fine dell’isolamento per Ahmad Sa’adat e la fine delle politiche repressive nei confronti dei familiari e dei visitatori dei prigionieri, costretti a subire costanti vessazioni che spesso rendono impossibile anche solo un’ora di colloquio al mese con i propri cari in regime di detenzione, nelle carceri di un paese occupante.
Chiedono la fine degli abusi durante le traduzioni da un carcere all’altro e molto altro, oltre che la solidarietà internazionale e la diffusione delle notizie sulla lotta che stanno portando avanti, sul proprio corpo, l’unica cosa a loro disposizione.
Ovviamente le autorità israeliane e i funzionari del dipartimento che gestisce le carceri nel paese dell’Apartheid hanno risposto aumentando la violenza psicologica e le condizioni dei detenuti: dal carcere di Nafha i detenuti politici palestinesi raccontano delle minaccie subite sulla negazione dei colloqui con i familiari. Per ogni giorno di partecipazione allo sciopero della fame ci sarà un mese di divieto di incontro con i propri cari. In molti sono stati trasferiti in altri carceri, di cui ancora non si riesce a conoscere il nome.
I membri del F.P.L.P hanno subito tutti il trasferimento in celle di isolamento e la confisca di tutti i loro beni personali, compresi i propri vestiti.
Durante una visita con le famiglia le autorità delle prigioni dell’occupante israeliano hanno sequestrato i documenti di identità di tutti i loro familiari dando come motivazione proprio la partecipazione allo sciopero della fame, che li precluderà per mesi a qualunque incontro, compreso quello con il proprio avvocato.
Nella prigione di Asqelan infatti è stato vietato l’accesso ad un’avvocato che doveva visitare i prigionieri Ahed Abu Ghoulmeh, Allam Al-Kaabi e Shadi Sharafa: gli è stato comunicato che in quanto partecipanti all aprotesta, non potranno incontrare i loro avvocati, non si sa fino a quando.
Oltre ai prigionieri militanti del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, che hanno iniziato questa mobilitazione in nome del loro rappresentante Ahmad Sa’adat (detenuto a Gerico) si stanno unendo molti altri prigionieri, come alcuni componenti di Fatah, tra cui quelli che hanno il triste primato di essere da più tempo in regime di detenzione: Fakhri Barghouti entrato nelle carceri israeliane 34 anni fa, ed Akram Mansour,malato di cancro, detenuto da 33 anni.
Anche molte donne prigioniere stanno partecipando alla lotta: Sumoud Kharajeh, Linan Abu Ghoulmeh, Duaa Jayyousi e Wuroud Kassem sono state trasferite in isolamento totale mentre Linan Abu Ghoulmeh è stata messa in regime di detenzione amministrativa in modo totalmente arbitrario.
PER SEGUIRE GLI AGGIORNAMENTI: The Campaign to Free Ahmad Sa’adat
DIFFONDIAMO QUESTA NOTIZIA, CREIAMO SOLIDARIETA’ ANCHE PER I PRIGIONIERI PALESTINESI, PROPRIO ALLA LUCE DELLE DISCUSSIONI SULLO STATO PALESTINESE.
NON PUO’ ESSERCI STATO SENZA LA LIBERAZIONE DI TUTTI I PRIGIONERI,
SENZA IL DIRITTO AL RITORNO DI TUTTI I PROFUGHI,
SENZA LA FINE TOTALE E DEFINITIVA DEL REGIME DI APARTHEID,
SENZA LA CANCELLAZIONE DELL’OCCUPAZIONE MILITARE E L’ABBATTIMENTO DEL MURO DI SEPARAZIONE E DEGLI INSEDIAMENTI.
PALESTINA LIBERA.
I prigionieri palestinesi in sciopero della fame chiedono solidarietà
SOLIDARIETA’ AI PRIGIONIERI PALESTINESI IN SCIOPERO DELLA FAME
Domani, marted’ 27 settembre 2011 inizierà uno sciopero della fame dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, per chiedere la fine del regime di isolamento per Ahmad Sa’adat, la fine dell’isolamento per tutti i prigionieri politici palestinesi, la fine delle politiche di repressione e umiliazione nei confronti dei parenti e dei visitatori dei prigionieri, incluso la fine del blocco ai colloqui con i familiari, cercata ed impedita già ai checkpoint israeliani.
I prigionieri chiedono anche la fine degli abusi e delle umiliazioni ai prigionieri durante le traduzioni tra carceri.
La campagna per la liberazione di Ahmed Sa’adat è solidale con tutti i prigionieri palestinesi in sciopero della fame e chiede alle persone di tutto il mondo di partecipare a questa campagna per i prigionieri.
Sotto il flyer che racconta la situazione dei prigioneri e poi quella specifica di Sa’adat.
Ahmed Sa’adat, il detenuto segretario generale del Fronte popolare di liberazione della Palestina , è stato catturato dalle forze d’occupazione israeliane il 13 marzo del 2006 e dall’attacco israeliano alla Striscia di Gaza dell’inverno del 2009, quando chiamò alla resistenza popolare, vive in regime di isolamento. Ha una condanna a 30 anni.
Ma è solamente uno dei circa 10.000 prigionieri politici nelle mani di Israele, tra cui ci sono molti minorenni, donne e leader delle organizzazioni politiche.
Liberi dopo 30 anni: per gli scimpanzè commozione, per gli uomini gogna!
Liberi dopo 30 anni: questo video mette i brividi.
Liberi dopo una vita prigionieri, liberi senza aver mai sentito prima la pioggia che scende sulla pelle:
liberi (si fa per dire eh), dopo esser stati infettati dei peggiori mali, dopo esser stati osservati per decenni da bipedi in camice bianco.
Mi ha messo i brividi questo video, soprattutto nel leggere i commenti delle persone qua e là, tra corriere della sera e blog vari:
tutti sconvolti, tutti emozionati e commossi.
Poi voglio proprio vedere quanti di loro sono contro l’ergastolo,
a quanti di loro inchioda il sangue nelle vene quando sentono parlare di privazione di libertà.
Quanti di loro sanno che le migliaia di corpi che ammassiamo nei CIE non hanno nemmeno commesso un reato…
Ma vaffanculo! TUTT@ LIBER@!
Comunicato da Syntagma: NESSUN COMBATTENTE NELLE MANI DELLO STATO
Comunicato dell’iniziativa di solidarietà di supporto economico agli arrestati durante lo sciopero generale del 28 e 29 Giugno :
Questa iniziativa è stata creata Venerdi 1 Luglio in solidarietà verso con le persone arrestate. Il proposito della nostra iniziativa è quello di raccogliere le alte spese delle cauzioni e delle spese legali imposte con tempi ricattatori in una settimana.
Agiamo in via indipendente e non siamo associati con l’assemblea popolare di Piazza Syntagma anche se non agiamo altresi in’contrapposizione con i loro sforzi di raccogliere fondi per aiutare gli arrestati .
Dovremmo ricordare che abbiamo partecipato all’assemblea popolare di piazza Syntagma, abbiamo letto il testo originale della nostra iniziativa e abbiamo girato sul posto con una scatola per raccogliere fondi.
Tuttavia, per ragioni ideologiche, abbiamo rifiutato di sottoporre il testo con una delibera in modo da essere ‘legittimato’ dall’assemblea della piazza e, infine essere inserito come loro procedura.
Un importo di 2.700 euro è stato raccolto finora dalle scatole che abbiamo fatto girare in vari eventi socio-politici, ma anche dai contributi spontanei.
Lo sforzo per gli aiuti finanziari continuerà con una festa Giovedi, 7 Luglio sulla collina di Strefi (Exarchia, Atene).
Cerchiamo di essere tutti lì!
NESSUN COMBATTENTE NELLE MANI DELLO STATO
Iniziativa di aiuto economico per gli arrestati del 28 e 29 Giugno
solidaridad2829@yahoo.gr
Commissione internazionale di inchiesta sulla morte di Ulrike Meinhof: 3° parte
Questo blog ha dedicato spesso dello spazio ad Ulrike Meinhof e alla storia della RAF.
Da secoli dovevo proseguire con il rendere fruibile alla rete, le altre parti del Rapporto della Commissione internazionale di Inchiesta sulla morte di Ulrike Meinhof, così maledettamente identica a quella dei suoi compagni.
Vi lascio i link delle precedenti pagine, comunicandovi che proseguiremo con l’analisi degli accessi al piano delle celle e dei reparti presenti nell’Istituto di pena in quella nottata…
PRIMA PARTE COMMISSIONE INCHIESTA con riferimento alle condizioni di detenzione
SECONDA PARTE COMMISSIONE INCHIESTA e perizie mediche
Inchiesta criminologica
Le perizie mediche, conseguenti all’autopsia del corpo di Ulrike Meinhof, dimostrano che gli elementi a disposizione assolutamente non provano -come pretende la tesi ufficiale- che si tratti di un suicidio per tipica impiccagione. L’ipotesi del suicidio, al contrario, rivela contraddizioni insolubili che si ripetono anche nell’inchiesta criminologica e che il governo e la giustizia, da parte loro, non sono evidentemente in grado di spiegare.
Proprio queste contraddizioni rafforzano il sospetto dell’intervento di terzi.
Oltre alle contraddizioni riscontrate dal dott. Meyer nei suoi accertamenti e confermate dai detenuti di Stammheim (posizione del cadavere, genere dell’oggetto servito allo strangolamento etc..), debbono essere inclusi nell’inchiesta i seguenti dati:
A. L’ASCIUGAMANO E L’OGGETTO TAGLIENTE
La striscia ritagliata da un asciugamano, adoperato per lo strangolamento, non poteva essere fissata alla rete della finestra senza un adeguato strumento ausiliare. “La rete metallica ha quadrati di mm 9×9: senza uno strumento adeguato -una piccola pinza, ad esempio- è impossibile far passare una striscia tale nella maglia della rete e reintrodurla in un’altra maglia tirandola verso l’interno. Una pinza del genere non è stata trovata. Ogni altro mezzo (cucchiaio, forchetta…) è inutilizzabile per una simile operazione poiché le maglie sono troppo piccole” ( dichiarazione dei detenuti di Stammheim) […]
B. SEDIA / MATERASSO
Per quanto riguarda la posizione del corpo, esistono versioni che si escludono reciprocamente.
- Scheritmuller (funzionario della prigione): “Non c’era sgabello. Non ho visto sedie”

- Henck (medico della prigione) : “I piedi erano a 20 cm dal suolo”
- I funzionari di polizia non citano mai sedia o materasso
- La sedia appare per la prima volta in Rauschke, nel suo rapporto di medicina legale e nel rapporto della polizia criminale. Rauschke parla di un materasso; la polizia criminale di un materasso e parecchie coperte. Nel rapporto destinato a Jansenn, Rauschke non parla del materasso; in tal modo Jansenn è costretto a partire da indicazioni inesatte
- “Una sedia posta su una base così instabile si sarebbe immediatamente rovesciata per gli sgambettamenti – di cui si è parlato- che sarebbero stati così forti da provocare le ferite, numerose e profonde, che sono state accertate alle gambe” (dichiarazione dei prigionieri)
C. COPERTA
“Ulrike Meinhof ha sempre dormito con una coperta di pelo di cammello che portava, ricamato, il nome di Andreas Baader. Questa coperta mancava al momento in cui furono consegnati gli effetti personali all’esecutore testamentario. La coperta era ancora nel carcere poco tempo prima. Non è citata nella lista di oggetti presi in consegna dai funzionari della Sicurezza di Stato. Dal registro dell’Istituto di pena risulta che la coperta è stata registrata e quando. Una coperta non poteva lasciare la prigione” [documenti dell’IVK]
D. LAMPADINA ELETTRICA
“Ho aperto ieri sera, alle 22, secondo il regolamento vigente nell’istituto di pena di Stammheim, la cella della signora Ensslin e quella della signora Meinhof, per farmi consegnare, come ogni sera, i tubi al neon e le lampadine elettriche delle celle”. Ecco quanto dichiarava una guardiana ausiliaria, la signora Frede, nel corso del primo interrogatorio della polizia criminale il 9 maggio 1976.
Tuttavia, nel corso dell’inventario ufficiale, il 10 maggio, una lampadina elettrica che recava impronte digitali e che si trovava nella lampada da scrittoio è stata requisita e inviata all’istituto tecnico di criminologia dell’Ufficio federale della polizia criminale. L’istituto rende noti i risultati della perizia dattiloscopica: “Le tracce dattiloscopiche che si trovavano sulla parte esterna della lampadina, rese già visibili dalla polvere nera, sono state fotografate, qui, più di una volta. In ogni caso, si tratta di frammenti di impronte digitali che sono inutilizzabili a scopo di identificazione. Il confronto di questi frammenti con le impronte di Ulrike Meinhof, nata a Oldenburg il 7.10.34, non ha permesso di rilevare alcuna somiglianza.
E. VESTITI
Scaturisce dai verbali, come dalle dichiarazioni di Gudrun Ensslin, che Ulrike indossava la sera dell’8 maggio un jeans slavato e una camicetta rossa. Alla scoperta del cadavere, portava un pantalone di velluto nero e una camicetta di cotone grigia a maniche lunghe. Rimangono dunque due interrogativi: 1. Perchè qualcuno che vuole impiccarsi si cambia d’abito? 2. Perchè la polizia criminale e la Procura non hanno chiesto dove si trovavano i vestiti indossati dalla Meinhof la sera dell’8 maggio? [ Jurgen Saupe, settembre ’76]
F. CONTRADDIZIONI NELLE DEPOSIZIONI Di RENATE FREDE
Durante la sua prima deposizione dinanzi alla Polizia criminale, la guardiana ausiliaria Frede dichiara di aver aperto la porta della cella della Meinhof per farsi consegnare le lampadine elettriche. Senza darne spiegazione, la procura l’ascolta una seconda volta l’11 maggio. La Frede dichiara: “Nel corso della mia prima deposizione, ho dichiarato per errore che avevo aperto la porta della cella della Meinhof; non è del tutto esatto. Non ho aperto la porta della cella, ma lo sportello attraverso il quale vengono passati i pasti. In quel momento, anche i funzionari Walz e Egenberger erano presenti. Lo sportello è chiuso da un catenaccio”.
Cile e Grecia: bollettini e tragedie carcerarie…
Due notizie da due paesi molto lontani: uno bagnato dal mar mediterraneo, culla della cultura e l’altro, il piccolo stuzzicadenti dell’America Latina, stretto stretto tra le Ande e l’Oceano. Grecia e Cile si avvicinano tra le loro sbarre, perché entrambe le notizie parlano di carcere, della maledizione del vivere e morire di carcere, e di chi prova a lottare per avere condizioni migliori.
In Cile è una tragedia: 81 morti per un grande incendio nel carcere San Miguel di Santiago del Cile. Dalle 6 del mattino l’incendio è divampato in un piano di uno degli edifici del grande complesso carcerario che vive uno stato di sovraffollamento allarmante ospitando oggi 1900 detenuti per una capienza massima della struttura di 700. Facile immaginare come possa esser avvenuta la tragedia per gli 81 detenuti morti nelle loro celle, di cui ancora non si riescono a sapere i nomi. : Una ventina di feriti sono stati trasferiti in ospedale, mentre circa duecento prigionieri sono stati per ora portati nei cortili del penitenziario. Un testimone oculare racconta alla televisione cilena che “la polizia non ha consentito ai pompieri di entrare subito nella struttura”. Si spera che il bilancio delle vittime non aumenti.
In Grecia, come un po’ in tutti i paesi magnati dal mare nostrum, le condizioni di vita dei detenuti non sono certo migliori e il sovraffollamento flagella la quotidianità di migliaia di reclusi. Lo sciopero della fame partito la scorsa settimana vede sempre più detenuti partecipare e minacciarlo ad oltranza: i numeri sono spaventosi. Novemila prigioneri su 12.600 partecipano alla protesta astenendosi dall’accettare il vitto e 312 sono in sciopero della fame. Ventisei delle trentatre carceri greche sono in mobilitazione.
Ergastoli, condizionali e perdoni: è il turno di Gallinari!
Posto un’articolo uscito oggi sulla Gazzetta di Reggio. Ancora una volta parliamo di richiesta di libertà condizionale dopo i 26 anni di carcere scontati : questa volta l’istanza di cui si parla è quella presentata da Prospero Gallinari, ergastolano ex appartenente alle Brigare Rosse.
L’intervistatore chiede proprio a lui cosa ne pensa del perdono e delle strumentali richieste dei tribunali di sorveglianza
«Chiedere perdono? Sarei ipocrita».
L’ex Br Gallinari vuole la libertà condizionale: «E’ un mio diritto» di Tiziano Soresina
Prospero Gallinari, l’ex brigatista carceriere di Aldo Moro, ha chiesto la liberazione condizionale. Ha sulle spalle diversi ergastoli, ma ha già scontato i 26 anni di reclusione necessari per l’istanza. La legge richiede il «sicuro ravvedimento», ma il Tribunale di sorveglianza di Bologna avrebbe chiesto ai familiari delle vittime delle Br se sono disposti a perdonare. Partiamo dalla clausola di legge… 
«Il mio ravvedimento? Sono 22 anni – spiega con calma Gallinari – che la storia delle Br è chiusa, cioè quando in otto brigatisti firmammo il documento in cui si sottolineava che la lotta armata contro lo Stato era finita. Le cose fatte per esprimere un processo rivoluzionario si erano concluse. Mi sono assunto la totale responsabilità di quegli eventi e all’interno di questa assunzione di responsabilità è iniziato il mio nuovo cammino».
Di cos’è composto il suo percorso rieducativo?
«Vivo con la mia compagna, ho una famiglia, lavoro da 13 anni in una tipografia in cui ho tanti amici e sono rispettato da tutti, mi sono reinserito socialmente».
Ma lei la scriverebbe una lettera ai familiari delle sue vittime chiedendo loro perdono?
«Sono sincero, la riterrei un’offesa per i familiari stessi andare a porre questo problema umano. La sofferenza dei familiari non nasce con la mia dissociazione, ma quando le cose sono avvenute. Una lettera di quel tipo la riterrei una grande ipocrisia. Che cosa dovrei scrivere? Che soffro per quelle cose? E’ un problema intimo. Sul piano etico il nodo lo sciolsi nel momento in cui decisi di lottare anche con le armi per la rivoluzione. Se fai queste scelte, la politica sta al centro di tutto. L’aspetto politico e quello umano vanno separati».
Ma altri suoi ex compagni di lotta armata hanno compiuto questo passo…
«E’ vero, hanno fatto questa mossa per uscire da determinate situazioni processuali, ma non è il mio modo di muovermi. Lo riterrei offensivo verso le famiglie, una cosa falsa, una recita».
Si è mai trovato a tu per tu con chi ha tanto sofferto per la scia di sangue lasciata dalle Br?
«Solo una volta, alla presentazione del mio primo libro. Contestò il mio ruolo, una discussione in chiave politica, dai toni normali».
La figlia di Rossa e la moglie di D’Antona hanno detto chiaramente che i magistrati devono assumersi le proprie responsabilità, perché non è compito dei familiari delle vittime decidere sulla liberazione dei brigatisti…
«Sono al corrente, ho apprezzato quelle parole».
Perché si è deciso a chiedere la liberazione condizionale?
«E’ un mio diritto. Così potrei muovermi con più libertà e non solo nelle tre ore pomeridiane previste dall’attuale detenzione domiciliare. Sarebbe importante per i miei problemi di salute (conseguenza di crisi cardiache, ndr) potermi allontanare da Reggio e svernare per un periodo in un luogo più adatto».
S’aspettava tanto clamore, le polemiche che tornano a fioccare sugli ex brigatisti?
«Sapevo che la notizia della mia richiesta di liberazione condizionale sarebbe prima o poi uscita. Ammetto lo stress che sto patendo per le polemiche innescatesi».
Quando a svegliarti è un plotone di robocop …
Questa mattina alle 4 la polizia è entrata in forze, caschi in testa e manganelli in mano, nelle camerate del Cie di Gradisca. Ha svegliato i reclusi e per cominciare li ha fatti sdraiare tutti per terra. Dopo questa sveglia, tutti i reclusi (un’ottantina) sono stati concentrati in un’unica camerata (che di solito contiene 8 persone), mentre la polizia effettuava una perquisizione in tutte le altre celle. Al termine delle operazioni, i prigionieri sono stati di nuovo smistati nelle camerate, ma opportunamente rimescolati. Tutto questo gran lavoro da parte delle forze dell’ordine ha ovviamente ritardato la distribuzione dei pasti e delle sigarette. Pare che questa perquisizione sia una rappresaglia per un tentativo d’evasione sventato ieri (l’ennesimo, e nonostante le condizioni di reclusione a dir poco proibitive).
macerie @ Settembre 20, 2010
Le “donne” dei prigionieri e la storia rimossa, la nostra storia
AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI
Quest’articolo lo lessi che ero poco più di una bambina, a tredici anni, riportato tra le note di un libro che cambiò la mia vita (regalatomi da una mano completamente inconsapevole):
“Dall’altra parte” – l’odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici- di Prospero Gallinari e Linda Santilli.
Un articolo, un “reportage”, una testimonianza scossa di una giornata passata con le “donne dei detenuti” br e non, reclusi nel carcere speciale di Trani dopo appena un mese dalla rivolta. Le compagne di uomini fatti a pezzettini dai GIS, uomini con dita denti schiene e costole spezzate: detenuti politici che avevano messo a ferro e fuoco un carcere e che ora scontavano sulla loro pelle e quella dei loro cari la repressione dello stato.
Uno stato che doveva dimostrare la sua forza: uno stato che aveva mandato i GIS a sedare la rivolta …e c’era riuscito, ovvio!, peccato che al rientro dell’operazione – nei festeggiamenti per il capodanno- il generale che aveva guidato il masssacro è stato ucciso sul pianerottolo di casa.
Quest’articolo racconta il mai raccontato, quello vissuto da chi ha avuto la vita sventrata dal carcere, dalle leggi speciali, dall’ergastolo solo perchè madre, figlio, amore di un compagno prigioniero.
La tradotta di Trani ferma a Barletta. Per Trani si cambia.
Sul marciapiede, alle sette di mattina si riversano i familiari. Perlopiù sono donne, madri, compagne, sorelle. Nei venti minuti d’attesa prima che arrivi il Roma-Bari che bisognerà prendere al volo, di corsa dal giornalaio a raccattare quotidiani, di corsa al gabinetto, di corsa al bar a buttar giù un caffè; poi dieci minuti ancora , questa volta in piedi contro gli sportelli del treno, e giù di nuovo su un altro marciapiede, quello della stazione di Trani.
Qui il femminismo non avrebbe ragione d’esistere.
Le donne dei prigionieri sono forti, gestiscono le loro azioni con autorevolezza, a tratti perfino con allegria. Di fronte al procuratore capo De Marinis, ogni sabato, da quando c’è stata la rivolta, la dignità la chiarezza la determinazione sono loro […].
Il primo sabato: le visite e i pacchi sono sospesi. Il secondo, ancora niente visite e niente pacchi. Le donne si organizzano, attuano il blocco dei cancelli, aspettano dieci ore, circondate dai carabinieri minacciosi, e commettono un peccato d’onestà: credono all’ufficiale che promette un colloquio con il direttore se il blocco viene tolto. Naturalmente l’ufficiale non rispetta la parola. Però i pacchi passano.
Il terzo sabato, ancora visite distanziate, ancora il ritrovarsi davanti al secondo cancello. Per ogni nome chiamato passa un’ora. I colloqui dovranno essere con i vetri. NO, prigionieri e donne dicono no. […]
Si decide di nuovo il blocco dei cancelli. […]
Da tutte le parti piovono autoblindo, e carabinieri, a nugoli come le mosche. Arriva anche un funzionario in borghese, forse Digos. Dice che le manifestazioni sono proibite, dice che bisogna sgombrare se no ci pensa lui, e infatti ci pensa.
I carabinieri si schierano a pochi passi dalle donne, faccia a faccia. Rigidi e neri che sembrano lì come per un film. Comparse che non conoscono tutta la trama, ma solo il povero ruolo che le riguarda. E caricano duro.
Piovono le botte e gli spintoni, ma il funzionario capisce che la loro è solo forza fisica.[…]
Le notizie che filtrano dall’interno sono come sassi in faccia e perdono ordine e priorità, trasformandosi in una sorta di onda d’urto che spinge le donne ad agire. Guardie incappucciate, da Ku Klux Klan, chiamano per nome i detenuti, e a mano a mano che uno viene crocifisso dalla luce dei fari, giù botte. Quindici prigionieri vengono trascinati sul tetto: le guardie che li tengono chiedono alle altre, in basso, se ci sono morti o feriti tra i loro colleghi. Sono pronte, a una risposta affermativa, a buttar giù i detenuti.
Il policlinico di Bari si lascia portari via dai carabinieri i feriti gravi. Ma questo è avvenuto subito dopo la rivolta. Le donne si sono già battute per organizzare una fitta rete di controinformazione, ma tranne le trasmissioni di poche radio libere e qualche stralcio di notizia censurata dagli stessi giornalisti che la passano, all’opinione pubblica non arriva niente.
Altre notizie, sassi in faccia. I prigionieri sono ammassati in cameroni e come unica forma di protesta possibile attuano la “guerra batteriologica”, buttano escrementi e immondizie nei corridoi e dalle finestre. I feriti curati alla bell’e meglio subito dopo la rivolta peggiorano. I punti vanno in suppurazione, alcuni hanno la febbre alta e non si reggono in piedi, altri hanno le ossa rotte, le mani le caviglie, le costole.
Falco il medico della prigione, che nome meglio di così non poteva avere, non si fa vivo. Neanche il Giudice di sorveglianza. […]
Quando vengono concessi i colloqui, le donne e i prigionieri li rifiutano: si vorrebbe ancora farli parlare attraverso vetri e citofoni. Vengono pestati e trascinati all’isolamento, ma non si illudano i carcerieri che questo possa spingere i detenuti o i loro familiari alla rinuncia della propria dignità umana. Le donne stendono una denuncia. La firmano nominalmente, la portano alla procura, la presentano come legge vuole, anche se si immaginano che finirà in un cassetto. Trasmettono altri comunicati attraverso l’Ansa, ma anche su questi cala la nebbia.
Notte e nebbia. Nacht und Nebel sulle carceri speciali.
Notte e nebbia sulle coscienze. Nel paese delle interrogazioni parlamentari non si alza una sola voce, fosse anche semplicemente per chiedere. Ma di quello che accade o che potrebbe accadere nei lager di questa repubblica qualcuno dovrà pur rispondere.
Laura Grimaldi
Il Manifesto
29 Gennaio 1981
[A mamma Clara, a suo figlio Bruno]
I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis
“L’unica crisi è Shalit”, alla faccia di un milione e mezzo di persone
Senza vergogna il vice ministro degli esteri israeliano Danny Ayalon ha totalmente negato (poi parlano di negazionismo) la crisi umanitaria che tartassa la Striscia di Gaza e la sua popolazione da decenni. “L’unica questione umanitaria è quella di Gilad Shalit” ha sostenuto in barba alle migliaia di morti dell’ultima incursione, all’embargo, l’assedio, la malnutrizione, la disoccupazione, l’occupazione militare. Niente di tutto ciò esiste: per loro c’è solo 1 soldato del loro esercito rapito da Hamas e detenuto nella Striscia.
Questo è quello che ha dichiarato un vice ministro israeliano: niente mi stupisce delle sue parole, ma trovo necessario pubblicarle, necessario far circolare le sue dichiarazioni. E’ riuscito a dire che Israele aiuta Gaza per il 40% dei beni che riescono a superare il confine e che l’unica condizione umanitaria inaccettabile e assurda è quella che da quattro anni vive Shalit.
Una dichiarazione vergognosa e falsa: una dichiarazione che sputa in faccia a più di un milione e mezzo di persone sequestrate in un carcere a cielo aperto, sottoposti ad ogni tipo di sopruso da parte di un esercito occupante che compie raid quotidiani e tiene migliaia di persone in carcere senza un’accusa. Diecimila sono i detenuti nelle carceri israeliane e il numero di minorenni è raccapricciante: il signor Ayalon non ha occhi per vedere questo.I suoi soldati però, i suoi servi armati, stuprano quotidianamente quella popolazione.
Israele è uno stato assassino (come tutti gli stati mi risponderete correttamente)!
PALESTINA LIBERA!
Arrestato Jamal Juma’, portavoce della campagna contro il Muro
Free Jamal Juma’! – Free the anti-Wall prisoners!
Il 16 dicembre le autorità israeliane hanno arrestato Jamal Juma’. Questo arresto segue quello di Mohammad Othman, un altro attivista della Campagna Stop the Wall, e di Abdallah Abu Rahmeh, una figura di spicco in seno al comitato popolare di Bil’in contro il muro, così come quello di decine di altri che sono attualmente in carcere per la loro azione di difesa contro il Muro. Quest’ultimo arresto è l’ennesima prova dell’escalation di attacchi contro i difensori dei diritti umani palestinesi da parte di Israele che continua a reprimere il diritto alla libertà di espressione e il diritto di associazione.
Aderisci alla campagna per la liberazione di Jamal Juma’ e per la libertà dei prigionieri del movimento contro il Muro! E’ fondamentale che la società civile globale esprima la sua solidarietà alle sue loro controparti palestinesi.
Le azioni raccomandate:
• Incoraggiare i soci a partecipare a questa campagna attraverso petizioni, manifestazioni e/o la scrittura di lettere e chiamate telefoniche. Si prega di fornire loro numeri e indirizzi di contatto.
• Sollecitare i vostri rappresentanti presso gli uffici consolari di Tel Aviv e Gerusalemme/Ramallah a sostenere il rilascio immediato di Jamal Juma ‘, Mohammad Othman, Abdallah Abu Rahmeh e degli altri attivisti contro il Muro. Vedi proforma lettera qui sotto. (Per verificare i contatti della tua ambasciata, vedere: http://www.embassiesabroad.com/embassies-in/Israel # 11725)
• Rendere noto all’Ambasciata di Israele presso il tuo paese a sapere che stai sostenendo una campagna per la liberazione di Jamal Juma’ e degli altri prigionieri contro il Muro.
• Denunciare le misure prese a danno degli attivisti contro il Muro all’attenzione dei media locali e nazionali.
• Consultare e diffondere le notizie che appaiono nell sito, blog e gruppo di Facebook per quanto riguarda la questione:
Sito: www.stopthewall.org
Blog: http://freejamaljuma.wordpress.com/; http://freemohammadothman.wordpress.com/
Facebook: Free Anti-Wall prigionieri
Twitter: http://twitter.com/wallprisoners
Vi invitiamo a coordinare le varie azioni con noi, questo ci permette di sapere se ci sono altri attivisti e organizzazioni che stanno prendendo provvedimenti analoghi. Quanto migliore sarà il livello di coordinamento, tanto più efficace risulterà la nostra azione.
Per maggiori informazioni contattare: global@stopthewall.org
I FATTI
Verso la mezzanotte del 15 dicembre, i servizi di sicurezza israeliani hanno convocato Jamal Juma’ per un interrogatorio. Qualche ora più tardi, lo hanno ricondotto a casa sua. Una volta a casa, Jamal Juma’ è stato ammanettato, mentre i soldati hanno perquisito la casa per due ore, mentre la moglie e i tre figli piccoli stavano a guardare impotenti. Al momento di andarsene, i soldati hanno detto alla moglie che avrebbe potuto rivedere il marito solo attraverso uno scambio di prigionieri. Jamal Juma’ è stato quindi portato via e arrestato, col divieto di incontrare un avvocato o di ricevere familiari, senza che gli fosse fornita alcuna spiegazione per il suo arresto.
Jamal ha 47 anni, è nato a Gerusalemme e ha dedicato la sua vita alla difesa dei diritti umani palestinesi. L’obiettivo principale del suo lavoro è volto alla responsabilizzazione delle comunità locali perché reclamino i loro diritti umani di fronte alle violazioni dell’occupazione. E’ membro fondatore di diverse ONG palestinesi e reti della società civile e coordina la Campagna palestinese contro il Muro dell’Apartheid fin dal 2002. Il suo ruolo è riconosciuto a livello internazionale, è stato più volte invitato a presentare all’estero il dramma rappresentato dal Muro ed è intervenuto anche presso le Nazioni Unite. I suoi articoli e le sue interviste sono ampiamente pubblicate e diffuse e la sua opera è stata tradotta in diverse lingue. Essendo un personaggio di grande visibilità, Juma ‘non ha mai tentato di nascondere o mascherare le sue attività.
Quello di Jamal Juma’ rappresenta l’arresto di più alto profilo all’interno di una crescente campagna di repressione tesa a colpire la base diella mobilitazione contro il Muro e le colonie. Inizialmente sono stati arrestati attivisti locali dei villaggi colpiti dal Muro, ma recentemente le autorità israeliane hanno cominciato a spostare la loro attenzione sui difensori dei diritti umani di fama internazionale, come Mohammad Othman e Abdallah Abu Rahmeh. Mohammad, un altro membro della campagna Stop the Wall, è stato arrestato quasi tre mesi fa, di ritorno da un giro di conferenze in Norvegia. Dopo due mesi di interrogatori, le autorità israeliane non essendo in grado di formulare accuse specifiche contro Mohammad, hanno emesso un ordine di detenzione amministrativa in modo da impedire la sua liberazione. Abdallah Abu Rahma, una figura di spicco nella lotta non violenta contro il Muro a Bil’in, è stato prelevato dalla sua abitazione da soldati a volto coperto nel bel mezzo della notte, e dopo una settimana è seguito l’arresto di JamalJuma’.
Con questi arresti, Israele mira a indebolire la società civile palestinese e la sua influenza sulle decisioni politiche a livello nazionale e internazionale. Questo processo criminalizza chiaramente il lavoro dei difensori dei diritti umani palestinesi e palestinesi, la disobbedienza civile.
E’ fondamentale che la comunità internazionale si mobiliti contro i tentativi di Israele di criminalizzare chi lotta contro il Muro. La politica israeliana mettendo nel mirino le organizzazioni che pretendono che vengano riconosciute le responsabilità dello stato ebraico, intende sfidare le decisioni dei governi e degli organismi internazionali, come la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ), che denunciano le violazioni israeliane del diritto internazionale. Una sfida che non deve vincere
Lettera Pro Forma in italiano:
Cari x,
Vi scrivo per esprimere la mia più profonda preoccupazione per la detenzione di Jamal Juma’, avvenuta in data 16 dicembre. Chiamato per un interrogatorio dai servizi di sicurezza israeliani a mezzanotte, è stato mantenuto in detenzione da allora. Pur essendo in possesso della carta d’identità di Gerusalemme est, a Jamal Juma’ sono stati applicati dli ordini militari vigenti in Cisgiordania, in modo da impedirgli di incontrare un avvocato per la prima settimana del suo arresto.Nessuna accusa è stata fatta contro di lui. Temo che la detenzione di Jamal Juma’ sia il risultato della sua critica pacifica delle violazioni del diritto internazionale da parte delle autorità israeliane. Le accuse contro di lui non sono state chiarite, ma non vi è motivo di credere che si tratta di un prigioniero di coscienza, arrestato solo per il suo lavoro sui diritti umani attraverso le organizzazioni legali. Il suo arresto segue una serie di altri arresti di natura analoga. Questo sembra dimostrare una violazione sistematica palestinese per la libertà di espressione e di riunione e un attacco sistematico rivolto ai difensori dei diritti umani palestinesi da parte delle autorità israeliane. Vi chiedo di prendere tutte le misure appropriate, comprese le inchieste amministrative e di protesta, al fine di garantire il rilascio immediato e incondizionato di Jamal Juma ‘e di ogni altro palestinese, difensori dei diritti umani. presente nelle carceri israeliane. Inoltre, pur essendo detenuto, egli deve essere protetto da ogni forma di tortura o maltrattamenti, e le condizioni della sua detenzione devono soddisfare i requisiti del diritto internazionale.
Grazie per la vostra pronta attenzione a questo problema urgente.
Cordiali saluti,
in inglese:
Dear x,
I am writing to you to express my deepest concern about the detention of Jamal Juma’ on December 16. He was summoned from his home for interrogation with the Israeli security at midnight and has been kept in detention ever since. Though Jamal Juma’ is a Jerusalem ID card holder, West Bank military orders have been applied to bar him for access to legal counsel for the first week of his arrest. No charges have been made against him. I fear that the detainment of Jamal Juma’ is a result of his peaceful criticism of violations of international law by Israeli authorities. The charges against him have not been made clear, but there is reason to believe that he is a prisoner of conscience, arrested solely for his human rights work through legal organizations. His arrest follows a number of other arrests of similar nature. This seems to show a systematic disregard for Palestinian freedom of expression and assembly and a full-scale attack on Palestinian human rights defenders by Israeli authorities. I ask you to take all appropriate measures, including official inquiries and protests, to ensure the immediate and unconditional release of Jamal Juma’ and the other Palestinian human rights defenders in Israeli prisons. Furthermore, whilst being held, he should be protected from any form of torture or ill-treatment, and the conditions of his detention should fulfill the requirements of international law.
Thank you for your prompt attention to this urgent matter.
31 DICEMBRE: TUTT@ SOTTO IL CARCERE DI REBIBBIA
NON VOGLIAMO PIÙ CHE DI CARCERE SI MUOIA MA NEMMENO CHE DI CARCERE SI VIVA!
Da quanto tempo gridiamo queste parole? Da quanto tempo le scriviamo sui muri?
Le abbiamo impresse sulla copertina sin dalla prima Scarceranda!
Eppure di carcere si continua a morire e di carcere donne e uomini continuano a vivere sempre di più.
Nei 206 istituti penitenziari italiani sono stipati 65.719 uomini e donne, 9.000 in più dello scorso anno.
Il 37% ha sul documento di identità un timbro diverso dal nostro: li chiamano stranieri.
Il 25% ha fatto uso di sostanze stupefacente: li chiamano tossicodipendenti.
Quasi la metà, ossia 31.136 sono in attesa di giudizio, dunque innocenti.
Tra i 27 paesi dell’Unione, l’Italia ha il primato per la presenza in carcere di persone non condannate: il 47,3% di fronte a una media europea al di sotto del 20%. Quasi 20.000 persone in carcere hanno condanne inferiori ai 3 anni. E si continua a incarcerare chiunque appartenga alle fasce emarginate e disagiate.
Ma soprattutto in carcere si muore e il numero è in continua crescita. Dall’inizio del 2009 alla fine di novembre sono morte 168 persone detenute, di cui 66 per suicidio; in crescita rispetto allo scorso anno che era di 146 morti di cui 46 suicidi. Le morti in carcere, quando non sono suicidi, vengono definiti “da accertare” secondo la terminologia dei burocrati, in realtà le persone in carcere vengono uccise dalla mancata -assistenza medica, dalle condizioni degradanti del carcere, ma soprattutto dai pestaggi.
Come Stefano Cucchi, un ragazzo di 31 anni, assassinato dalla ferocia di tutte le istituzioni che l’hanno avuto “in consegna”: carabinieri, polizia penitenziaria, magistrati, medici. Perché in Italia si nega ma esiste la tortura che viene regolarmente sperimentata sulle detenute e i detenuti.
Ma quanti Stefano Cucchi vengono uccisi senza che se ne sappia nulla? Come Yassine El Baghdadi di soli 17 anni, registrato come suicidio il 17 novembre nell’Istituto per Minori (IPM) di Firenze, buttato in carcere per tentato furto. Il carcere come discarica dei problemi sociali: solo chi rifiuta o non sottosta alle leggi dei potenti finisce in carcere.
Oltre ai 206 istituti penitenziari, con annessi 6 Ospedali Psichiatrici Giudiziari, ossia i manicomi criminali che annientano 1600 segregati, aumentati del 20% nell’ultimo anno, ci sono gli Istituti Per Minori –IPM- con 530 ragazzi e ragazze, e infine le celle di sicurezza delle questure di PS e delle stazioni dei CC, nelle quali transitano, mai indenni, decine di migliaia di persone.
Ma non basta ancora! Al paesaggio di sbarre, mura, celle e custodia si aggiungono le gabbie dei Centri di Identificazione ed Espulsione, i famigerati CIE, i lager in cui vengono rinchiuse le persone immigrate. Lì dentro donne e uomini subiscono violenze e soprusi, si ammalano e muoiono sotto lo sguardo complice degli operatori della Croce Rossa o degli altri enti gestori. Nell’ultimo anno, solo nel CIE di Ponte Galeria, sono morte per queste cause Salah Soudani e Nabruka Mimuni. Sono 13 le strutture presenti sul territorio nazionale per una capienza massima di 1814 persone ma deportazioni di massa e un’impossibile assistenza legale non permettono tuttora una trasparente stima dei reclusi e delle recluse. Un panorama devastante che è peggiorato in seguito all’approvazione del Pacchetto Sicurezza che ha prolungato fino a 6, i mesi di reclusione.
A questo punto dobbiamo farci delle domande non più rinviabili:
Cosa ne sappiamo di come si vive e si muore dietro quelle mura? Leggi e regolamenti non ci danno la risposta!
Ogni tanto la cosiddetta opinione pubblica viene a conoscenza di questi crimini di stato commessi dietro quelle sbarre e ne resta stupita. Allora sdegnata chiede diritti e garanzie, nuove leggi e regolamenti per chi sta dall’altra parte del muro.
Fino a quando assisteremo a questo massacro, esprimendo solo di tanto in tanto la nostra protesta?
La storia dei supplizi, della segregazione, della libertà tolta, in tutti i paesi e in tutte le epoche ci insegna che soltanto una pressione costante, continua, incalzante, può intaccare la ferocia di quella mostruosità che si definisce sistema di reclusione. Intaccarlo nella prospettiva dell’abolizione definitiva di questa barbarie.
Uno solo è il diritto che dobbiamo rivendicare, il diritto di indignarci e quindi il diritto di lottare!!!
La lotta contro il carcere e gli altri sistemi privativi della libertà va condotta tutti i giorni! Con efficacia e determinazione, unendo tutte e tutti quelli che odiano ogni gabbia.
Contro ogni carcere giorno dopo giorno
IL 31 DICEMBRE TUTTE E TUTTI SOTTO IL CARCERE DI REBIBBIA
dalle ore 11,00 alle 15,00.
Si scioglie il planton Molino de Flores
All’Altra Campagna
Alle organizzazioni, ai popoli, ai collettivi e alle individualita’.
Compagne, compagni.
Come tutt* sapete, a partire dalla repressione del 3 e 4 maggio 2006 a Texcoco ed Atenco da parte dei tre livelli di governo rappresentati dai tre principali partiti politici (PRI, PAN, PRD) contro gli uomini e le donne che lottavano per il proprio diritto al lavoro e contro le organizzazioni solidali, l’Altra Campagna ha intrapreso una serie di azioni e mobilitazioni in varie citta’ del Messico e del mondo per esigire la liberta’ di tutt* i/le prigionier*.
Una di queste azioni e’ stata quella di stabilirci in pianta stabile di fronte alle porte del penitenziario dove si trovavano imprigionati i/le nostr* compagn*, prima a Santiaguito e a partire dal maggio 2007 a Molino de Flores, assumendoci in questo modo la priorita’ di accompagnarli politicamente.
Questo e’ stato un modo di esigere la loro liberta’, e di dargli, nella misura possibile, inizialmente appoggio economico e successivamente, per alcuni prigionieri, del materiale per lavorare; e in maniera costante appoggio materiale (beni di prima necessita’, schede telefoniche), cosi’ come il sostegno alla lotta giuridica dei compagni del Collettivo Avvocati Zapatisti.
Allo stesso tempo come movimento, organizzazioni, collettivi, villaggi, popoli ed individualita’ ci siamo assunti questa responsabilita’ aderendo alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, mano nella mano in una lotta grande ed ardua quale e’ quella di cambiare la realta’, trasformare le nostre vite e costruire un mondo che sia nostro, di tutti/e.
Crediamo che sia importante non dimenticare nessuno di questi due aspetti, e che uno non faccia dimenticare l’altro, perche’ i signori del potere e del denaro cercano distruggerci con le carceri, riempiendoci di paura ed togliendoci la memoria, strozzando le idee e le lotte.
E’ proprio qui che si da l’importanza di non permettere che il carcere divori i/le nostr* compagn*, sapendo che fuori delle sue mura ci siamo noi stess*, in lotta per la liberta’ dei/lle prigionier* e dei popoli.
Durante il processo di lotta, vari/e compagn* hanno ottenuto la liberta’, principalmente i militanti dell’Altra Campagna, e sono rimasti rinchiusi a Molino de Flores i compagni non interni al movimento.
Di conseguenza il Planton ha discusso e deciso di continuare con la sua azione, dato che questa è una lotta per la liberta’ di tutti i nostri compagni e pensiamo che tutte le persone arrestate quel giorno siano tali, perche’ arrestati per una azione politica e catturati durante la repressione contro il nostro movimento.
Con il tempo pero’ ci siamo resi conto che uno dei nostri principali errori e’ stato quello di non aver cercato di concretizzare una relazione politica con i compagni non militanti, errore a cui abbiamo cercato di rimediare provando a tessere tale relazione. Questa relazione risultava vitale, dato che senza di essa il Planton perde molto del proprio senso d’essere. Dobbiamo riconoscere che in questo cammino abbiamo commesso molti errori, e questo ha provocato irregolarita’ nella relazione con i compagni prigionieri, ma nonostante cio’ abbiamo sempre cercato di mantenerla viva senza cadere nella trappola concettuale di considerarli “povere vittime della repressione”, ma trattandoli sempre come compagni con cui si puo’ essere o meno d’accordo, senza promettergli piu’ di quello che era nelle nostre possibilita’, senza sopravvalutarli o sottostimarli, cercando di non imporgli le nostre posizioni e richiedendo da parte loro lo stesso atteggiamento nei nostri confronti.
Questa relazione non è stata intrapresa con tutti i prigionieri, piuttosto con quelli che erano interessati a farlo.
Abbiamo continuato a riflettere sul lavoro politico del Planton e sappiamo che sono stati vari gli errori commessi, tuttavia c’è qualcosa di cui siamo sicuri che non sia stato un errore: abbiamo tenuto fede agli impegni presi al nostro meglio, agendo in modo etico secondo le nostre idee e principi politici anche se per molt* questo possa sembrare un errore.
In questo percorso sono stati parecchi i problemi riscontrati e i disaccordi dati dalle posizioni e concezioni di lotta diverse nostre e dei prigionieri, perche’ sebbene rispettiamo le loro idee, difendiamo anche le nostre.
Questo pero’ non e’ mai stato un motivo che ha condizionato il nostro appoggio nei confronti di nessuno dei prigionieri, a prescindere con chi avesse relazioni e sempre senza imporre le nostri posizioni politiche e rispettando le sue.
Tuttavia, a causa di una serie di malintesi e differenze che si sono dati dal mese di aprile di quest’anno si e’ determinato un allentamento di questa relazione tra il presidio ed i prigionieri. Per questo ci siamo cominciati a interrogare sul senso della permanenza del presidio davanti al penitenziario dato che, come gia’ abbiamo menzionato, per noialtri/e e’ vitale avere, fosse anche solo un tentativo, una relazione politica con i prigionieri per i quali stiamo lottando.
Di fronte alle risposte che sono state date a una domanda specifica che abbiamo posto ( “Volete mantenere un rapporto con il presidio?” ) e’iniziata una riflessione da parte delle organizzazioni presenti al Planton come l’UNIOS, il FPFVI-UNOPII e la Commissione Sesta dell’EZLN, cosi’ come dei/delle compagn* che hanno attraversato questo spazio.
A partire da questo bilancio fatto separatamente è stata presa una decisione congiunta sul fatto che fosse giunto il momento di smobilitare il presidio e promuovere altri spazi di lotta per tutti/e i/le nostri/e prigionieri/e.
In tal senso si e’ deciso di smontare il Planton Molino de Flores il prossimo 30 agosto, senza che questo significhi l’abbandono della lotta per la liberta’ che abbiamo condotto con l’Altra Campagna nei vari stati del paese e nelle differenti citta’ del mondo.
Per piu’ di 3 anni ci siamo sostenuti fuori il carcere, prima a Santiaguito, poi a Molino de Flores, prendendoci l’impegno con l’Altra Campagna di non smettere di lottare per la liberta’ dei nostri compagni. 
Il Planton non e’ stata l’azione di un gruppo di compagn*, ma un’azione condivisa realizzata da tutt* quell* che hanno partecipato con le loro differenti forme di solidarieta’: partecipando al presidio, inviando viveri, appoggiando le attivita’ di raccolta fondi per obiettivi specifici, promuovendo azioni per la liberta’ nei propri territori. Quest’azione è stata realizzata dall’Altra Campagna, non senza errori, non senza inciampare, pero’ siamo sicuri che questo camminare insieme ci abbia aiutato nella lotta e nel portarla a termine ogni volta in modo migliore.
Con l’annuncio in cui i compagni direttamente coinvolti nel mantenimento del Planton hanno deciso di terminare quest’azione, annunciamo anche la conclusione degli ultimi appelli e campagne economiche con cui si sono comprate le tele del presidio e si e’ sostenuto il lavoro legale degli avvocati nella realizzazione del ricorso contro la sentenza dei nove compagni prigionieri a Molino de Flores e del compagno Ignacio del Valle, detenuto nel carcere di massima sicurezza del Altiplano.
Riguardo ciò ricordiamo che si e’ deciso di sostenere il Collettivo Avvocati Zapatisti (CAZ), come sempre abbiamo fatto, essendo il loro lavoro realizzato in solidarietà e senza lucro: al CAZ abbiamo consegnato un contributo economico affinche’ intraprendano il ricorso per i 7 compagni che rappresentano.
Allo stesso modo si e’ deciso di appoggiare con la stessa somma gli altri due compagni che non sono difesi dal CAZ, consegnando il denaro direttamente alle rispettive famiglie; la stessa cifra e’ stata versata anche alla famiglia del compagno Ignacio del Valle per il suo ricorso.
Smantellando il presidio il 30 agosto di quest’anno smetteranno di apparire convocazioni e campagne a nostro nome, cosi’ come consideriamo conclusi i nostri impegni presi con i prigionieri in quanto Planton: a questi impegni cercheremo di dare seguito come Altra Campagna.
Compagn*, con queste parole oltre che informarvi della decisone di smontare questo spazio che abbiamo mantenuto per tutto questo tempo, vogliamo invitarvi a continuare la lotta per tutt* i/le nostr* prigionier*, a costruire e rafforzare spazi e sforzi diretti a questa lotta.
Abbiamo sempre creduto che la forma di ottenere la liberta’ dei compagni sia quella della mobilitazione, del lavoro nelle strade, nelle scuole, nei quartieri etc, e che il presidio in questo senso sia solo una delle tante azioni che si realizzano come Altra Campagna: la lotta va molto oltre l’esistenza del Planton stesso, e’ un arduo lavoro che come militanti ci e’ toccato, quello di non smettere di lottare per la liberta’ dei prigionieri, senza dimenticare le lotte di ognun@.
A riguardo sentiamo il bisogno di costruire spazi di lotta per la liberta’ dei/lle nostri/e prigionieri/e, non solo per i giorni del 3 e 4 maggio 2006, ma per tutt* i/le compagn* detenut* nei diversi luoghi del paese: i compagni incarcerati in Chiapas, Oaxaca, Campeche, Veracruz, stato del Mexico, in ogni angolo di questa terra. Spazi che non permettano l’oblio, dove ci organizziamo nei distinti luoghi per continuare la lotta per i/le nostr* compagn*.
Sappiamo che esistono sforzi diretti a questo fine, compagn* che hanno intrapreso queste lotte; la necessita’ di intrecciarle e’ costante, per cui, stiamo tentando di costruire uno spazio che le accolga, cercando di costruirlo allargato, dentro i parametri della Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona e dell’Altra Campagna, coordinandoci per portare a termine azioni ed attivita’ per la liberazione dei/lle nsotr* prigionier*, cosi’ come per creare e rafforzare dinamiche antirepressive.
E’ per questo che stiamo convocando gli/le aderenti alla Sesta e all’Altra Campagna a una serie di riunioni dalla fine delmese scorso che si stanno realizzando nel locale di UNIOS (Dr Carmona y Valle #32, a un isolato dal metro Cuahutemoc) e che continueremo a realizzare sperando che ogni volta siano sempre di piu’ i/le compagn* che vogliano costruire insieme questo sforzo che ci portera’ a proseguire la lotta per la liberta’ di tutt* i/le nostr* prigionier*.
Compagn*: a tutti quelli che ci hanno accompagnato per tutto questo tempo, sia da vicino che da lontano, rompendo le distanze con la solidarieta’, a tutti quelli che ci hanno accompagnato in quest’azione in un modo o nell’altro, non ci resta altro che ringraziarvi e dirvi che e’ stato un piacere enorme ed un onore avervi con noi, condividendo quest’iniziativa.
A coloro che non sono mai potuti venire vogliamo dire che nonostante le distanze la solidarieta’ ci unisce, facendoci sentire vicini e rompendo le leggi della fisica, lottando, costruendo e sognando, e che la distanza non e’ una barriera quando esiste la solidarieta’. A quelli che ci hanno sostenuto in uno e mille modi, sappiate che la vostra solidarieta’ e’ stata per noi una presenza e che e’ stata usata come di dovere.
Sappiate, compagn*, che ci sentiamo soddisfatt* di questa azione, di voi, di noi, e che gli errori che abbiamo commesso ci aiuteranno a camminare e lottare fino ad ottenere la liberta’ dei/lle nostr* compagn*, ed ad ottenere la trasformazione del mondo.
Sappiamo e facciamo nostre le decisioni, gli errori e le soluzioni. Li facciamo nostri perche’ sono il risultato delle nostre decisioni e posizioni, che magari a molti non sono piaciute. Sappiamo che ci hanno criticato e che continueranno a farlo; a quelli che l’hanno fatto da compagn* diciamo che la loro parola e’ stata ricevuta come un abbraccio.
Allo stesso tempo vi invitiamo a partecipare al Planton Molino de Flores il giorno 29 agosto dalla mattina, visto che realizzeremo un evento politico e culturale sulla lotta del Planton, a partire dalle 11 am, cosi’ come parte dell’inizio di queste attivita’ e questa campagna per i/le nostr* compagn*; allo stesso tempo vi invitiamo lo stesso giorno a cominciare a smontare il presidio fino al 30 agosto.
Planton Molino de Flores
Per la liberta’ dei/lle prigionier* politic*!
Stop alla persecuzione delle Comunita’ Autonome Zapatiste!
Prima di tutto… i/le nostr* prigionier*!
Tradotto da Nodo Solidale
2° parte Commissione internazionale di inchiesta sulla morte di Ulrike Meinhof
Proseguo con la pubblicazione di alcune parti della Commissione internazionale d’inchiesta sulla morte di Ulrike Meinhof. Qui ci focalizzeremo un po’ di più su alcuni dettagli inquietanti sia delle due autopsie a cui è stata sottoposta, sia del ritrovamento del corpo, della sua posizione e della condizione della cella.
Affronteremo, la prossima volta, un accurata analisi degli accessi al braccio dove era detenuta, dell’illuminazione della stanza e dei verbali con gli interrogatori alle guardie penitenziarie che avevano il compito di sorvegliarla quella notte.
Qui la 1° parte della Commissione.
Qui invece la terza parte!
Presa di posizione di medici inglesi, 13 agosto 1976
“Com’è morta Ulrike Meinhof?
Il 9 maggio 1976, il mondo fu informato del ‘suicidio’ a Stoccarda di Ulrike Meinhof, quadro dirigente del gruppo Baader-Meinhof, nel carcere appositamente costruito, con misure di sicurezza particolari, in cui era stata detenuta per molti mesi prima e durante il processo. Da allora, sono venuti alla luce un certo numero di elementi che mettono in dubbio la versione ufficiale degli avvenimenti. Questi elementi hanno sollevato importanti quesiti, non solo per chi è impegnato politicamente, ma per tutti coloro che difendono le libertà civili.
Ulrike Meinhof è davvero morta per suicidi, per impiccagione? Oppure trattasi di morte per arresto cardiaco riflesso in seguito alla pressione esercitata sul suo collo da terzi? Vi è stata una violenza sessuale contro Ulrike Meinhof oppure solo un tentativo? IL significato di una risposta affermativa a una di queste domande non ha bisogno di essere dimostrato.
Sul corpo di Ulrike Meinhof sono state praticate due autopsie. Ci sono pervenuti entrambi i rapporti. Riteniamo necessario dare ampia diffusione all’opinione pubblica di questi risolutati profondamente inquietanti, sia per ciò che dicono, sia per ciò che non dicono.
Prendendo posizione, speriamo di sfuggire alle solite manipolazioni e alle deformazioni dei documenti fornitici; ugualmente desideriamo evitare l’orribile compiacimento “nel sangue dei martiri”, tanto caratteristico delle parrocchie e delle organizzazioni politiche. La linea politica di Ulrike Meinhof non è stata la nostra. Ma non è questo il problema.
L’autopsia ufficiale, nel suo rapporto, indica che il corpo è stato trovato mentre il tallone sinistro toccava ancora la sedia sulla quale sarebbe salita per appendersi. In altre parole, una “caduta” del corpo da una certa altezza non c’è stata. Se c’era stato suicidio, la morte avrebbe dovuto subentrare, verosimilmente, per asfissia e non per rottura della colonna vertebrale a livello delle vertebre cervicali superiori, come è solito nelle esecuzioni legali. (Infatti non c’è stato spostamento violento delle vertebre cervicali).
Uno dei segni più importanti d’asfissia per strangolamento è l’impossibilità per il sangue della testa di ritornare in circolo. Il sintomo di una tale impossibilità è la presenza di emorragie interstiziali nelle congiuntive. Ambedue i rapporti d’autopsia non rilevano simili emorragie. Inoltre, i rapporti non citano nemmeno la protusione degli occhi e della lingua, o la cianosi del viso, segni abituali della morte per asfissia. Nonostante la frattura dell’osso ioide alla base della lingua, non c’era alcuna tumefazione al collo, nella zona interna al segno lasciato dalla “corda ricavata da un asciugamano”, con la quale la detenuta si sarebbe impiccata.
Questi risultati negativi sono insoliti per una morte per asfissia; è il meno che si possa dire. Si inseriscono invece, molto bene nel quadro di morte per compressione del nervo vago, ossia di morte per pressione sulla carotide che può provocare un arresto cardiaco riflesso.
Ci sono altri risultati inquietanti. I due rapporti d’autopsia menzionano un edema importante nelle parti genitali esterne e tumefazioni ai polpacci. Le due perizie parlano di una escoriazione, coperta di sangue coagulato alla natica sinistra. Il rapporto di Janssen menziona anche un’ecchimosi nella zona dell’anca destra. L’esame dello slip della detenuta rileva macchie sospetto. Le analisi chimiche per la ricerca dello sperma, secondo la dichiarazione ufficiale, hanno dato risultati positivi malgrado l’assenza di spermatozoi. (Atti della procura, Istituto tecnico di ricerche criminologiche, rapporto dell’11 maggio 1976)”. 
Negli atti del PM il prof. Mallach constata che, malgrado un test di sperma positivom non sono stati rilevati spermatozoi. Ciò non prova nulla; se nella biancheria esistono tracce di materia fecale o di urina, gli spermatozoi sono disgregati dall’azione dei batteri e spariscono entro qualche ora. E macchie di urina sono state trovate nello slip di Ulrike Meinhof. L’azione di questi batteri attenua anche la reazione positiva dello sperma.
STRALCI DEL RAPPORTO DEL DOTT. HANS JOACHIM MEYER , membro della Commissione internazionale d’inchiesta
[…] Il materiale a nostra disposizione consiste dei rapporti di autopsia dei prof. Mallach e Rauscke e della seconda autopsia eseguita dal prof. Janssen; ambedue i rapporti sono incompleti: mancano i risultati degli esami microscopici e istologici. Inoltre vi sono i risultati dell’esame del cadavere, condotto dal prof. Rauschke il 9 maggio ’76, gli esami dell’Ufficio regionale della polizia criminale del Land di Baden-Wuttemberg e i risultati delle analisi dell’Istituto di Medicina legale a Tubinga.
I tre rapporti arrivano alla conclusione che si tratti di suicidio per impiccagione. Nel rapporto Mallach-Rauschke è detto testualmente: “LA posizione del corpo appeso alla cella, la disposizione e la lunghezza del mezzo servito all’impiccagione, nonché l’analisi degli elementi rilevati sul luogo e dei risultati medici dell’autopsia, corrispondono inequivocabilmente ad una impiccagione che si è svolta nel seguente modo: la signora Meinhof è salita sulla sedia che
aveva disposto sotto la finestra su un materasso; ha fatto passare la striscia ritagliata dall’asciugamano attraverso le maglie del reticolato della finestra, poi, dopo essersi addossata al muro sotto la finestra, ha annodato due volte la striscia sotto al mento e ha lasciato la sedia, facendo un passo nel vuoto. Pendendo liberamente al reticolato della finestra, ha presto perso conoscenza ed è morta per asfissia.”
Ecco alcune osservazioni in merito a questo rapporto:
– la Meinhof non poteva fare questo passo nel vuoto, avendo davanti lo schienale della sedia che glielo impediva
– non pendeva liberamente dal reticolato della finestra perché il piede sinistro era poggiato sulla sedia
Problematica dell’impiccagione:
Abbiamo dall’inizio insistito sul fatto che le circostanze dell’impiccagione sono state falsificate accorciando, di 29 cm, il cappio nel quale era appesa. In realtà è stata messa in un cappio di 80-82 cm che aveva quindi un diametro di 26 cm. Chiunque è in grado di verificare che si può facilmente passare la testa attraverso un cappio di questo diametro e farla uscire senza difficoltà. Per appendersi con un cappio di questo tipo bisogna inclinare la testa leggermente in avanti, appoggiare il mento sul petto, altrimenti il cappio non può sostenere il peso del corpo.
Nei casi di incoscienza, i movimenti dipendenti dalla volontà non sono più possibili, il tono muscolare a poco a poco sparisce e la persona, appesa in questo m odo, cade dal cappio, poiché il peso del corpo tende verso la testa. La testa viene tirata indietro e allo stesso modo, il cappio solleva il mento e la testa. La stretta del cappio intorno al corpo non è più possibile. Il cappio, in queste condizioni, non lascia il segno di strangolamento che aveva la Meinhof, poiché comprime solo la parte anteriore del collo e non i lati, e passa dietro la testa. Questo cappio probabilmente non potrebbe nemmeno garantire la compressione dei vasi sanguigni. 
Del tutto diversa è la situazione con un cappio della circonferenza di 51 cm. La testa non può passarvi, né uscire cadendo. Il punto in cui la corda è annodata non è più allora dietro la testa, ma dietro al collo e, effettivamente, provoca un profondo segno di strangolamento. Ed è questa l’impressione che, accorciando la circonferenza del cappio, si è voluta dare agli esperti. Tutto questo non corrisponde ai fatti.
L’impiccagione, in un cappio così largo (80-82 cm) è un modo poco appropriato per impiccare una persona r improprio per appendere un corpo e mantenerlo per ore in questa posizione. In base alle stesse leggi fisiche, un cadavere cadrebbe fuori dal cappio, come l’uomo ancora in vita che ha perduto conoscenza. Si può appendere un cadavere in un cappio troppo largo, solo se si approfitta della rigidità cadaverica per mettere la testa in una posizione fissa, che non permetta più al cappio di scivolare.
Nel caso di Ulrike Meinhof, coloro che l’hanno appesa, hanno dovuto avere dubbi rispetto alla stabilità dell’impiccagione. Comunque hanno rafforzato questa stabilità, appoggiando il piede sinistro sulla sedia davanti a lei. Quando il corpo è rigido, la gamba tesa ha lo steso effetto di un bastone di legno sul quale si potrebbe appoggiare un peso. In questo modo la pesantezza del corpo è stata alleggerita sostenendolo in parte. Per maggiore sicurezza, le spalle sono state portate in avanti perché facessero da contrappeso. La gamba sinistra è stata appoggiata sulla sedia proprio al momento della rigidità cadaverica. E’ riconoscibile dal fatto che il piede è rimasto nella sua posizione normale. Se il piede, immediatamente dopo la morte, avesse avuto questa posizione, l’avrebbe perduta al momento del rilasciamento del tono muscolare e questa posizione rilasciata sarebbe stata fissata dalla rigidità cadaverica. Non è questo il nostro caso. […]
Per quanto riguarda lo stesso strumento di strangolamento, sembra evidente che una corda di tale lunghezza non poteva essere ricavata da una striscia tagliata da un asciugamano lungo 75 cm, senza ricorrere ad una cucitura.
9 Maggio, Ulrike Meinhof. 1° parte della commissione internazionale d’inchiesta sulla sua morte
Il 9 maggio ricorre (oltre all’anniversario dell’assassinio di Peppino Impastato) l’anniversario dell’assassinio di Ulrike Meinhof, nel carcere di Stammheim. Già in passato questo blog si è occupato di questa figura degli anni ’70 tedeschi, con alcuni stralci presi dalle sue lettere e dai suoi scritti.
E’ il caso, invece, da questo momento in poi (la “serie” sarà un po’ lunga) di mettere in rete un po’ di materiale che dimostra l’assassinio che c’è dietro la sua morte e quella successiva e simultanea di altri 3 prigionieri della stessa formazione , la R.A.F. anche conosciuta come Banda Baader-Meinhof.
, a partire dal Rapporto della Commissione internazionale d’inchiesta sulla morte di Ulrike Meinhof. Fu ritrovata impiccata, con ancora un piede poggiato sulla sedia, morta da ore…ma come vedremo successivamente, l’autopsia dimostra più che chiaramente come non si sia trattato di suicidio…
Prima di affrontare la parte tecnica dell’inchiesta mettiamo la sua dichiarazione d’intenti e una parte della prima inchiesta sulla tortura ‘pulita’ applicata costantemente su tutti i detenuti politici tedeschi, e non solo.
Di tortura non si può smettere di parlare, di indagare, di archiviare e diffondere…
« …anche i giudici che condannavano ai roghi le streghe e i maghi del secolo passato, credevano di purgare la terra di più fieri nemici… » (Pietro Verri –Osservazioni Sulla tortura- 1776)
DICHIARAZIONE DELLA COMMISSIONE INTERNAZIONALE D’INCHIESTA SULLA MORTE DI ULRIKE MEINHOF
A conclusione dei suoi lavori, la Commissione internazionale d’inchiesta Sulla morte di Ulrike Meinhof ha preso atto del rapporto formulato dalla segreteria.Senza far propria ogni singola formulazione, la Commissione sottolinea, tuttavia, che si tratta di un lavoro serio, realizzato grazie alla collaborazione di periti qualificati, che merita di essere preso in considerazione e ampiamente diffuso.
Per riassumere i pareri sui quali i suoi membri hanno trovato un accordo, la Commissione ha constatato :
– che Ulrike Meinhof è stata sottoposta, a più riprese e per lunghi periodi, a condizioni di detenzione che si è costretti a qualificare « tortura ». Si tratta di quel tipo di tortura chiamata isolamento sociale e privazione sensoriale, comunemente applicanto nella Repubblica Federale Tedesca a numerosi prigionieri politici e anche a detenuti comuni ;
– che la tesi delle autorità statali, secondo la quale Ulrike Meinhof si sarebbe suicidata per impiccagione non è provata e che i risultati della Commissione tendono a dimostrare che Ulrike Meinhof non potuto impiccarsi da sola ;
– che i risultati dell’inchiesta suggeriscono che Ulrike Meinhof era morta quando è stata appesa e che vi sono indizi inquietanti d’intervento di terzi in relazione a questa morte. eorge
La Commissione non può esprimersi con certezza sulle circostanze della morte di Ulrike Meinhof. Tuttavia, il fatto che al di fuori del personale della prigione i servizi segreti avessero accesso alle celle del 7° piano attraverso un passaggio distinto e segreto autorizza ogni sospetto. I risultati dell’inchiesta, qui presentati dalla Commissione, rendono più urgente la nécessita di costituire una commissione internazionale d’inchiesta sui morti di Stammheim e di Stadelheim.
La Commissione ringrazia la sorella di Ulrike Meinhof che ha messo a disposizione tutta la documentazione in suo possesso, nonché tutte le persone ed organizzazioni che hanno facilitato il lavoro intrapreso, appoggiandolo e contribuendo al suo finanziamento. Il lavoro è stato finanziato esclusivamente da questi contributi e senza di essi non sarebbe stato possibile realizzarlo. La Commissione ringrazia anche tutte le persone che si sono impegnate nella pubblicazione del presente rapporto.
Parigi, 15 dicembre 1978
Michelle Beauvillard, avvocato, Parigi – Claude Bourdet, giornalista, Parigi – Robert Davezies, giornalista, Parigi – Georges Casalis, teologo, Parigi – Joachim Israel, sociologo, Copenhagen – Panayotis Kanelakis, avvocato, Atene – Henrik Kaufholz, giornalista, Aarhus (Danimarca) – John McGuffin, scrittore, Belfast – Hans Joachim Meyer, neuropsichiatra, R.F.T. – Jeane-Pierre Vigier, fisico, Parigi
[stralci del Rapporto della Commissione]
1. CONDIZIONI DI DETENZIONE
Dopo l’arresto di Ingrid Schbert e di Monika Berberich, nell’ottobre 1970, i prigionieri della R.A.F. sono sottoposti ad un regolamento di detenzione, calcolato fin nei minimi dettagli : il totale isolamento e l’isolamento in Piccoli gruppi.
Rapporto di Jorgen Pauli Jensen, psicologo, Danimarca :
All’indomani dell’arresto, Ulrike Meinhof fu tenuta prigioniera, in condizioni di assoluto isolamento, nel « braccio della morte » del carcere di Colonia-Ossendorf [era in un braccio vuoto, con 6 celle vuote e lei era al centro di queste]. Questo primo periodo di isolamento totale (poi ne seguiranno altri) è durato 237 giorni.
Metodo ed effetto della tortura dell’isolamento sono in diretta interdipendenza : il metodo consiste nell’isolamento assoluto da ogni contatto sociale e nella soppressione di impressioni sensoriali differenziate, che sono una condizione necessaria al funzionamento dell’organismo umano. Rinchiudendo i detenuti in una camera silens, una cella perfettamente isolata, dunque senza alcun rumore ( o una cella nella quale si ascolta un suono incessante), buia di giorno (o dipinta di bianco e illuminata al neon giorno e notte), con ridotte possibilità di movimento e aria viziata, si tenta, in qualche modo, di esasperarne il bisogno umano di contatti e impressioni sensoriali, vale a dire di comunicazione umana. Le ricerche di psicologia sperimentale e, disgraziatamente, anche l’esperienza diretta, ci hanno insegnato con certezza che tali condizioni possono corrodere e annientare, nel giro di breve tempo, gli esseri umani fisicamente e psichicamente
A livello fisico, la funzione vegetativa è distrutta poco a poco (modificazione patologica del bisogno di dirmire e urinare, della famé, della sete, nonchè mal di testa e perdita di peso). A livello psichico si sviluppa instabilità emotiva (angoscia improvisa o collera). Sul piano psichico e su quello della
conoscenza si sviluppa entro brève tempo, un disorientamento nel tempo e nello spazio ; difficoltà di concentrazione, difficoltà nel definire un pensiero , perdita della memoria, déficit del linguaggio e della comprensione, allucinazioni ecc.
Tuttavia, non sempre questo progetto raggiunge il suo scopo : esistono donne e uomini che, malgrado la tortura dell’isolamento, conservano la loro identità politica.
Dal 1972 vengono applicati metodi speciali contro i prigionieri politici nelle carceri della R.F.T.
– isolamento sistematico dei prigionieri in rapporto agli altri ; esclusione da tutte le attività comuni, dalla vita normale della prigione ; divieto di comunicare con altri prigionieri, ogni tentativo di ignorare tale divieto viene punito con la detenzione nelle celle di punizione ;
– l’applicazione di inferriate speciali dinanzi allé finestre delle celle allo scopo di rendere impossibile la vista sull’esterno [bocche di lupo]
– solo un’ora d’aria, soli, con manette ai polsi
– divieto di ricevere visite e lettere, tranne che da familiari
– tutte le visite sono sorvegliate dalla polizia politica, che registra tutta la conversazione e l’utilizza, all’occorrenza, nel processo
– censura totale di libri e giornali
« …Che fare ? E’ chiaro, sporgere denuncia per lesioni fisiche. Allora, dai ! L’ho già detto centinaia di volte : psichiatra e –ormai l’ho capito- otorinolaringoiatra che spieghino, finalmente, scientificamente, come il ‘silenzio’ abbia gli stessi effetti degli elettrochoc, provochi lo stesso tipo di lesioni, di devastazioni nell’organo dell’equilibrio e nel cervello… » Ulrike Meinhof ai suoi avvocati, dal braccio della morte, febbraio 1974
Resisti Abruzzo, RESISTI!

Rientro dall’Abruzzo, ormai terra familiare, solamente ieri sera e poche ore dopo…il terremoto.
Terra di dirupi, di grotte e panorami che cambiano ogni metro, terra di lupi e orsi (stavolta lo posso dire forte), di montagna aspra e colline dolci.
Terra di gente genuina, dal dialetto stretto , simpatico e contagioso; gente generosa, silenziosa e piena di voglia di cantare, ridere e mangiare.
Una terra che sa accogliere e farti tornare indietro nel tempo, come se per bere dovessi risalire dal Calacroce con la conca in testa e l’acqua della fonte, come se la Morgia fosse sempre stata nel mio orizzonte.
Un Abruzzo in ginocchio ad una manciata di ore da quando m’ha salutato, da quando ho riempito di baci quella mamma montagna che ogni giorno svela un ruscello, un fiore, un animale, un lato sconosciuto.
Ogni luce dona alla dolce Majella un colore nuovo, un profilo più dolce del precedente.
Terra di pascolo e mulattiere, di scoppolette e formaggi di pecora, terra genuina che non sembra l’Italia di oggi.
Aspro e dolce Abruzzo, RESISTI.
E DOVRETE RACCONTARCI DI CHI SONO LE RESPONSABILITA’ DI TUTTO QUESTO, CI DOVRETE DIRE COME E’ POSSIBILE CHE CADANO SBRICIOLATI OSPEDALI E PREFETTURE E NON CASE ANTICHE, O ABUSI DI PERIFERIA.
CI DOVRETE DIRE COME COSTRUITE IN UN TERRITORIO ALTAMENTE SISMICO, CI DOVRETE DIRE PERCHE’ SIAMO L’UNICO PAESE AL MONDO DOVE IL CEMENTO ARMATO SI SBRICIOLA COME IL CARTONE.
UN PENSIERO VA A TUTTI GLI SFOLLATI, A TUTTI COLORO CHE LOTTANO PER USCIRE VIVI DALLE MACERIE.
UN PENSIERO PARTICOLARE A TUTTI I DETENUTI DELLA REGIONE ABRUZZO, RICCA ANCHE DI CARCERI DI MASSIMA SICUREZZA, DI CUI NESSUNO CI FA SAPERE NULLA: PERCHE’ TERREMOTO E CARCERE SONO DUE COSE CHE PENSATE INSIEME DOVREBBERO FAR VENIRE VOGLIA A TUTTI, A TUTTI, DI ANDARE LI’ E BUTTAR GIU’ QUELLE MURA, QUEI BLINDATI, QUELLE SBARRE.
NON DIMENTICARE MAI
Nemesi
Non dimenticare
Non dimenticare mai
Non devi dimenticare
Alekos Panagulis
Carcere di Boiati, isolamento, marzo 1972
Scritta dopo una bastonatura particolarmente selvaggia durante uno sciopero della fame
L’ F.P.L.P. denuncia le azioni contro il prigioniero Sa’adat
Urgente: l’FPLP denuncia le azioni arbitrarie di Israele contro il compagno Sa’adat
Tratto da: http://www.pflp.ps/english
Un portavoce del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) ha denunciato le azioni arbitrarie e di ritorsione messe in atto
dalle autorità carcerarie e dalle forze dell’occupazione razzista contro il Segretario Generale dell’FPLP, il compagno leader Ahmed Sa’adat. I continui trasferimenti del compagno Sa’adat da una prigione ad un’altra nelle più dure condizioni, anche alla luce del deterioramento delle sue condizioni di salute, sono un tentativo di isolare Sa’adat e costituiscono un crimine di guerra e la violazione dei suoi diritti. Il compagno Sa’adat viene maltrattato dai sionisti e il peggioramento delle sue condizioni di salute è un risultato diretto delle carceri israeliane, a causa dei quotidiani abusi e delle quotidiane violazioni delle forze d’occupazione, uniche responsabili delle conseguenze di questa situazione. L’FPLP chiede a tutte le istituzioni per i diritti umani ed umanitarie, alla Croce Rossa e all’ONU di intervenire urgentemente per porre dine a queste quotidiane vessazioni israeliane contro il compagno Sa’adat e contro tutti i prigionieri palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane.
Traduzione a cura del Collettivo Autorganizzato Universitario – Napoli coll.autorg.universitario@gmail.com http://cau.noblogs.org
Mammagialla Morning
MAMMAGIALLA MORNING
di Paolo Persichetti
Ore 6.30: gli uccelli già cinguettano fuori. Sono scomparse le cornacchie, mi domando perché. Apro la finestra.
Un’ape proveniente dalle arnie del carcere è venuta a morire sul davanzale. Il loro ciclo vitale è di soli 60 giorni. Una ventina trascorsi allo stato larvale nella celletta dove la regina ha depositato le uova, i successivi 40 vissuti da operaia, con mansioni diverse. Prima la pulizia delle celle, poi la produzione di cera, quindi accudendo la regina madre, infine occupandosi dell’interno dell’arnia dove c’è sempre qualcosa da fare come produrre propoli per saldare ermeticamente gli spifferi d’aria o mummificare i corpi estranei. Solo dopo questa dura corvee viene finalmente il diritto all’agognata avventura: le missioni esterne. Scorazzare tra i prati e i fuori, raccogliere polline e nettare, produrre miele, avvistare altri campi, partire in avanscoperta per scovare nuovi ripari per gli sciami che decidono d’andar via quando una nuova regina vuole fondare famiglia altrove. E quando arriva l’ora fatale, prima che dopo tanto lavoro la stanchezza ti avvinca completamente, c’è il viaggio finale, l’ultimo volo, quello funerario. Nata in una cella la povera ape non poteva che trovare il proprio letto di morte in un’altra cella.
La colazione è già sul ripiano marrone appeso al muro. Sollevo il panno che ricopre lo scaldalatte e m’accorgo che lo yogurt non è venuto. Ieri sera ho atteso troppo e il latte deve aver perso la giusta temperatura. Pazienza. Con i biscotti è buono lo stesso.
Ascolto i notiziari del mattino rigorosamente rete per rete, poi le rassegne stampa televisive e radiofoniche. Alla fine spengo tutto. Di nuovo silenzio. La sezione dorme ancora. Che pace! È il momento migliore della giornata. Passa il carrello dell’infermeria. Come sempre cigola troppo. C’è chi aspetta la terapia. Più tardi arriva il latte caldo dell’amministrazione. Solita trattativa per averne di più, se avanza.
Sono le otto e trenta, da un po’ sto leggendo l’arretrato di giornali che mi sovrasta. Già sono partito con le forbicine chicco che non tagliano nemmeno la carta. Conservo alcuni articoli di “terza pagina”. La guardia apre le celle, c’è il lavorante che raccoglie la spazzatura. Non c’è ancora la posta del giorno prima (in questo carcere tutto viene consegnato con almeno 24-48 ore di ritardo).
Sono quasi le 9. È il momento di prepararsi per scendere all’aria. Oggi ci tocca il campo di calcio. Finalmente usciamo. Solita caciara. Battute, risate, occhi gonfi, visi assonnati. Il terreno è un po’ pesante. Ieri ha diluviato. Incontro Luciano e passeggiamo parlando per una ventina di minuti, quindi incomincio a fare la mia corsa. È dura, ma lentamente arrivo a scaldarmi e trovo finalmente il fiato. Concludo con un paio di scatti da una estremità all’altra del campo. Smetto. Recupero l’ossigeno e mi avvicino ad un gruppo che fa ginnastica. Mi aggrego. Facciamo gli addominali. Serie da venti. Nessun problema. Poi un po’ di flessioni. Qualche problema. Si avvicina il russo.
– Iuo fare luotta libera. Io insegnare te luotta.
– Vabbé, se proprio ci tieni!
Come faccio a dirgli di no? Rischio di sembrare scortese. Poi con quell’accento meglio assecondare. Così fino alla dieci e mezza scopro la differenza tra greco-romana e libera. Mi spiega alcune prese. In genere con Milseu mi capita di fare scherma pugilistica. Quella la conosco bene. Nonostante gli anni passati ho conservato sufficiente dimestichezza.
Salgo in sezione giusto in tempo per la doccia. C’è diversa gente. Solite chiacchiere. Arriva Valerio. Ora ha il pizzetto. Era un po’ che non lo ascoltavo. È di Sezze romano, “l’ultimo degli Angioini” – racconta. Ha una buona proprietà di linguaggio. Sicuramente proviene da una famiglia benestante. Deve aver frequentato il liceo da ragazzo. Forse ha commesso un reato in famiglia. Un parente ucciso probabilmente. Qualcuno dice il padre. Sta in cella con Pino, carcerato da undici anni. Tutti e due con problemi psichiatrici. Pino percepisce una pensione d’invalidità perché schizofrenico. Ha sbudellato un vicino durante una lite sotto l’ingresso della sua casa popolare a Rebibbia. L’altro giorno aveva il ballo di san vito alle mani.
– Cos’hai Pino?
– Il prete mi ha detto che è morta mia moglie. Sarà vero?
– E quando te lo ha detto?
– Ieri, ma non è la prima volta. Che dici, sarà vero?
– Beh, se non è la prima volta, dev’essere vero.
– Anche se eravamo divorziati, mi dispiace. Era la madre dei miei figli.
Pino pare completamente perso. Di lui non si cura nessuno. Ho scritto a qualche associazione, senza risultati. Quando uscirà a fine pena, tra non molto, non avrà nemmeno un letto dove andare a dormire. La famiglia l’ha abbandonato perché lui aveva abbandonato loro. Pino è incapace di qualsiasi cosa. Non sa leggere, non sa parlare. Immagino la scena della sua scarcerazione. Immobile davanti al portone col sacco di plastica nero in mano. Si guarda davanti senza sapere cosa fare, dove andare. Cercherà di raggiungere l’ufficio postale dove sono depositate alcune migliaia di euro. Gli arretrati della sua pensione d’invalidità. Ogni tanto viene e mi chiede:
– Ma sei sicuro che quando esco ci saranno i soldi della pensione?
E magari se li farà pure rubare da qualche altro disperato. Dove andrà Pino quel giorno? Sotto quale ponte? Nella hall di quale stazione? Quanto resterà vivo, Pino?
– Nel 1576 a Sezze sono sbarcati i marziani!
Mi giro per non mostrare che sto ridendo. Valerio adesso parte con una delle sue. Tempo fa sosteneva che sotto la griglia che raccoglie gli scarichi della doccia c’erano le trote.
– Le trote?
– Si, le trote. Non le senti? Ascolta.
E noi ascoltavamo protesi con l’orecchio.
– Beh, allora se le magnamo! E mica le lasciamo qui! Aspetta che mo’ vado a pijà la canna…
Il periodo ittico ora pare terminato. Siamo all’era astrale.
– Una volta ho visto un’astronave. I primi marziani sono scesi a Sezze, poi è arrivato Nakamoto, lo scienziato giapponese con lo skateboard e ha salvato il mondo. Ha creato l’istituto scientifico spaziale. Così a Sezze c’è l’università.
In sezione incrocio Cheng, detto “Liso flitto” perché cucina un ottimo riso cantonese e perché non conosce la erre. Sembra uscito dai fumetti. Parla proprio come fanno i cinesi con i dentoni nelle nuvolette dei cartoni animati.
Liso flitto ride sempre. Ma anche quando sembra allegro è incazzato. Domenica al passeggio dell’una mi ha raccontato la sua ultima lite. C’è voluto un po’ per decifrare, ma alla fine ho capito. Gli hanno messo in cella un detenuto che pare sia omosessuale. Si dice che l’abbiano preso col sorcio in bocca… ma in carcere si dice sempre troppo.
Liso flitto allora è molto incazzato con la direzione per quello che ritiene un affronto alla sua onorabilità.
– Io non volele flocio in cella. Mio paese non succede questo. Flocio con flocio, non mischia. Io denunciale se lolo tenele flocio in mia cella.
– Aspetta Cheng, non è mica così semplice. Non puoi essere razzista. Non puoi denunciare uno perché è omosessuale. Lui avrà anche il diritto di essere frocio.
– No, non in mia cella.
– Scusa Cheng, ma che ti ha messo le mani addosso? Si comporta bene, no? È un bravo ragazzo?
– Cosa? Lui toccale mio culo? Se lui provale, lui molto. Io non potele dolmile la notte con flocio. Io dovele gualdale semple. Io pallato con bligadiele. Io detto: mio palese altla cultula. Divelso da Italia. Flocio con flocio, altlo con altlo. Non mischia. Io volele mia cultura lispettata.
– E cosa ti ha risposto?
– Lolo stlonzi, plendele pelilculo.
– Pule lolo floci? Ho detto, cercando la battuta, non so quanto felice.
– Io salito cella, preso sgabello e lotto testa.
Quindici giorni di cella di punizione e Cheng e ritornato in sezione, dopo aver risolto il problema del cocellante.
P.s.: Liso flitto è uscito con l’indulto ed è tornato dalla famiglia. Pino ha terminato la pena. Ha trovato ad aspettarlo fuori dalla porta del carcere un operatore volontario (sollecitato dai suoi compagni detenuti) che lo ha accompagnato in un centro di accoglienza dove è stato momentaneamente ospitato. Preso in cura dal Centro di igiene mentale ha avuto il tempo di una piccola disavventura. Uscito dal centro di accoglienza dopo la sua prima notte di libertà, Pino si è incamminato per le strade del centro storico di Viterbo dove ha perso l’orientamento fino a perdersi. Nel panico più assoluto e timoroso di avvincinarsi a chiunque per chiedere aiuto, ha passato la notte sulla panchina di un giardino pubblico. All’alba si è nuovamente incamminato riuscendo finalmente a trovare la sede del Cim. Ora vive in una comunità di accoglienza. Pare stia bene.
ANGELA DAVIS: Oltre l’Impero, il carcere e la tortura
INTERVISTA AD ANGELA DAVIS, della quale metteremo diverse cose su questo blog.
Militante nera americana, ex detenuta, è il simbolo della lotta contro il carcere , per l’abolizionismo
“Nel Quaderno 03 di Scarceranda abbiamo pubblicato la traduzione di un brano del libro “Are prisons obsolete?” di Angela Y. Davis (2003) sulle alternative abolizioniste al carcere. Siamo quindi stati contattati dalla casa editrice minimum fax che ci ha annunciato la prossima pubblicazione (gennaio 2009) per i loro tipi della traduzione italiana dell’intero saggio della Davis insieme al suo libro-intervista “Abolition democracy. Beyond empire, prisons, and torture” del 2005 in un’unica pubblicazione in italiano dal titolo “Aboliamo le prigioni?”. Vi presentiamo qui, per gentile concessione dell’editore, un breve estratto dell’intervista di Eduardo Mendieta ad Angela Y. Davis nella traduzione di Giuliana Lupi.”
IL LIBRO E’ STATO PUBBLICATO DALLA MINIMUM FAX ED E’ VERAMENTE STRAORDINARIO.
CON IL LIBRO ANCHE UN SAGGIO IN APPENDICE A FIRMA DI GUIDO CALDIRON E PAOLO PERSICHETTI
• In questo momento abbiamo la globalizzazione della «guerra al terrorismo» e, in successione, dei centri di detenzione e delle prigioni statunitensi creati per eludere la legge statunitense e internazionale. Scorge dei nessi tra la globalizzazione di queste prigioni illegali e il complesso carcerario-industriale interno?
I due processi sono chiaramente correlati. Innanzitutto entrambe le istituzioni appartengono al sistema penale statunitense e sono classificate insieme nel censimento annuale del Federal Bureau of Statistics. Questa classificazione comprende le prigioni statali e federali, le carceri di contea, le prigioni in territorio indiano, i centri di detenzione gestiti dal Dipartimento della Sicurezza Interna, le prigioni territoriali in aree che gli Stati Uniti si rifiutano di riconoscere come proprie colonie e le prigioni militari, tanto all’interno degli Stati Uniti che fuori dei confini nazionali. La crescita della popolazione
carceraria nazionale, la nascita di nuove industrie che dipendono da questa crescita, la riqualificazione di vecchie industrie per adeguarsi al mercato carcerario e trarne profitto, l’espansione dei centri di detenzione per immigrati e l’uso delle prigioni militari come un’arma importante nella cosiddetta guerra al terrorismo, la combinazione della retorica contro la criminalità con la retorica contro il terrorismo sono alcune delle nuove caratteristiche del complesso carcerario industriale.Il complesso carcerario-industriale è un fenomeno globale, che non si può comprendere appieno come uno sviluppo isolato all’interno dei soli Stati Uniti. Ciò che è stato consentito negli Stati Uniti e la proliferazione di strutture e popolazioni carcerarie; la rapidità con cui il capitale è affluito nell’industria carceraria cosicché non è più un settore di nicchia, bensì una componente importante dell’economia statunitense; tutto questo ha implicazioni globali. È lo stesso percorso che ha fatto della produzione militare un settore centrale della nostra economia. È una delle principali ragioni per cui abbiamo scelto di diffondere il termine complesso carcerario-industriale : perché riecheggia per tanti versi il complesso militare-industriale.Così le prigioni, la loro architettura, la loro tecnologia, i loro regimi, le merci che la loro popolazione consuma e produce e la retorica che legittima la loro proliferazione, partono tutti dagli Stati Uniti verso il resto del mondo. Perché un paese come il Sudafrica, che sta costruendo, speriamo, una società giusta – non razzista, non sessista, non omofoba – ha bisogno delle tecnologie repressive del carcere di massima sicurezza? Perché la Turchia ha bisogno di prigioni di tipo F [a celle di isolamento, n.d.t. ] del tipo statunitense? L’introduzione di queste prigioni in Turchia ha provocato nelle carceri di quel paese un lungo sciopero della fame – digiuno fino alla morte – che è costato la vita a un centinaio di detenuti.È importante riflettere sui diversi livelli di questo processo globale. Come riconosciamo che la prigione di Guantánamo, per esempio, o quella di Abu Ghraib, alle porte di Baghdad, riflettono ed estendono la normalizzazione della tortura nelle prigioni all’interno degli Stati Uniti? Per quanto orrende siano le recenti rivelazioni circa il trattamento dei prigionieri di Guantánamo e Abu Ghraib, non è qualitativamente diverso da quanto accade nelle prigioni statunitensi. Prendiamo per esempio l’onnipresenza della violenza sessuale, soprattutto nelle carceri femminili. Le detenute del Michigan hanno intrapreso un’importante azione legale contro lo stato, in cui sostenevano che il governo autorizzava condizioni carcerarie che consentivano molestie e abusi sessuali, implicando con ciò che lo stato stesso fosse colpevole di violenza sessuale. Human Rights Watch ha presentato un rapporto intitolato Un evento fin troppo familiare: l’abuso sessuale nelle prigioni statali statunitensi che documenta questo abuso sistematico.
Perciò le molestie sessuali nella prigione di Abu Ghraib confermano i nessi profondi tra la violenza sessuale e le pratiche sessualizzate di disciplina e di potere insite nei sistemi detentivi. Queste pratiche trasmigrano facilmente da un sistema all’altro: detenzione comune, carcerazione militare e reclusione degli immigrati. In tutti e tre queste tipologie carcerarie, la coercizione sessuale è una tecnica comprovata di disciplina e potere. La tortura e la coercizione sessuale che appaiono così barbare e terribili ai telespettatori quando le vedono trasmesse da 60 Minutes non sono così eccezionali come si potrebbe credere, perché alla loro base c’è la violenza quotidiana, di routine, che è giustificata come un normale mezzo di controllo sulla popolazione carceraria negli Stati
• L’enfasi che lei pone sulla continuità disciplinare m’induce a riesaminare i presupposti su cui si basava la mia domanda, uno dei quali riguardava l’importanza di una discontinuità legale. Il fatto che queste prigioni e questi centri di detenzione gestiti dagli Stati Uniti sfuggano al controllo della legge, dei legislatori e dei media statunitensi…
Ma si potrebbe dire lo stesso delle prigioni sul territorio nazionale.
• Il che solleva la questione del ruolo della legge stessa. La legge fa davvero una differenza significativa in questo caso? Che ne è del suo potenziale di mettere in discussione questi abusi? L’esistenza della legge nel caso del sistema carcerario interno è un argomento su cui potremmo fare leva?
Anche se sarebbe sbagliato considerarla come l’arbitro ultimo dei problemi sociali, la legge ha effettivamente un’importanza strategica nella lotta per il progresso e la trasformazione radicale. Può però anche essere uno degli ostacoli peggiori per il cambiamento, proprio perché le si dà l’ultima parola. In vari momenti, le battaglie legali hanno consentito riforme specifiche del carcere, ma, il più delle volte, quelle riforme hanno fondamentalmente consolidato l’istituzione. Certo, dobbiamo appellarci alla legge, tanto a livello nazionale quanto internazionale, ma ne dovremmo anche riconoscere i limiti. La miriade di battaglie legali contro la pena di morte non sono ancora riuscite ad abolirla
• Posso essere d’accordo sul fatto che la legge non basta, ma abbiamo i mezzi per contestare le azioni, se non abbiamo la legge?
Non lo so. Sono un po’ indecisa su questo punto, perché non so se sono disposta a riconoscere così tanto potere alla legge. Nei casi in cui ci sono state vittorie importanti, nel caso dei detenuti statunitensi, per esempio, quelle vittorie sono state, per la maggior parte, vittorie sulla legge, di solito con l’assistenza cruciale di movimenti organizzati di massa. La legge non opera nel vuoto. Sì, ci affidiamo a essa se la possiamo usare per ottenere quelli che definiamo obiettivi progressisti, ma, di per sé, è impotente. Riceve il suo potere dal consenso ideologico. Avendo combattuto il sistema carcerario da un discreto numero di anni, penso che dobbiamo sollecitare gli individui e le organizzazioni già impegnate nella lotta contro le disuguaglianze di razza e di classe e contro la repressione generalizzata prodotta dalle prigioni comuni a riorganizzare la loro militanza contro il carcere in modo da affrontare e contrastare le atrocità perpetrate nei centri di detenzione controllati dagli Stati Uniti in Afghanistan, in Iraq e nella baia di Guantánamo.
• Per tornare al suo rilascio, è sembrato più il risultato dell’attivismo politico e del conseguente cambiamento nel dibattito nazionale che non il risultato di considerazioni su basi legali.
Sì, e dell’impatto che quell’attivismo politico ha avuto sul procedimento giudiziario. Questa è la dinamica – la dialettica – che vorrei sottolineare.
• Noam Chomsky ha detto che l’agente primario del terrorismo è lo stato…
Sì, è vero. Sono assolutamente d’accordo con lui…
• Concorda anche sul fatto che il complesso carcerario-industriale sia uno dei meccanismi mediante i quali lo stato fa del terrorismo, del tipo di cui parla Chomsky, giustificandolo – nelle prigioni – con il fatto di combattere la criminalità?
C’è un fondo di verità in ciò che lei dice, ma la questione è un po’ più complessa, soprattutto dato che il ruolo delle prigioni nella società statunitense è diventato quello di soluzione di ripiego ai principali problemi sociali del nostro tempo. Perciò èterrorismo, ma terrorismo in risposta a un’economia politica ingestibile. Anziché affrontare seriamente i problemi che affliggono tante comunità – povertà, mancanza di alloggi, di assistenza sanitaria, di istruzione – il nostro sistema getta in prigione le persone che soffrono per questi problemi. Il carcere è diventato l’istituzione per eccellenza dopo lo smantellamento dello stato assistenziale. Perciò parlerei sì di terrorismo di stato, ma è terrorismo con uno scopo, non gratuito o soltanto come reazione a una resistenza politica conscia.
• Nel suo saggio Race and Criminalization lei scrive: «La figura del criminale – la figura razzializzata del criminale – ha finito per rappresentare il nemico più minaccioso della “Società Americana”. Praticamente tutto è accettabile – tortura, brutalità, un grande dispendio di fondi pubblici – fintantoché lo si fa nel nome della sicurezza pubblica». Pensa che il «terrorista» sia il nostro nuovo criminale razzializzato?
Ricordo che quando scrissi quel saggio pensavo al «criminale» come surrogato del «comunista» nell’epoca di «legge e ordine». Pensavo a questa nuova figura teorica del criminale, che aveva assorbito gran parte del discorso a proposito del nemico comunista. Dopo l’11 settembre, la figura del «terrorista» mobilita paure collettive in un modo che richiama e consolida le ideologie precedenti sul nemico nazionale. Sì, il terrorista è il nemico contemporaneo. La retorica, le conseguenti ansie e le strategie diversive prodotte dall’uso della figura del terrorista sono molto simili alla produzione del criminale come minaccia diffusa e fanno affidamento a essa in modi molto concreti.
• Nel ripercorrere il cammino storico dal comunista al terrorista, assistiamo anche a un cambiamento nella dinamica dei rapporti razziali qui in patria, e in particolare dei rapporti razziali tra le comunità afroamericane, musulmane e arabo-americane dopo l’11 settembre. Cosa pensa di questo cambiamento?
Prima di rispondere alla sua domanda, vorrei dire molto semplicemente che il razzismo era un ingrediente significativo delle campagne anticomuniste. Basti considerare che Martin Luther King era descritto spesso dai suoi avversari come un comunista e non perché fosse iscritto al Partito Comunista, ma perché si pensava che la causa dell’uguaglianza razziale fosse una creazione dei comunisti. L’anticomunismo ha consentito di opporsi ai diritti civili in un’infinità di modi, e viceversa; il razzismo ha favorito la diffusione dell’anticomunismo. In altre parole, il razzismo ha avuto un ruolo chiave nella produzione ideologica del comunista, del criminale e del terrorista.
Però vorrei provare a rispondere alla sua domanda sull’impatto della nascita di questa nuova figura di nemico e su quanto le comunità afroamericane siano state coinvolte in questo nuovo razzismo. Subito dopo l’11 settembre, una nuova mobilitazione nazionalista ha fatto affidamento sulla presentazione del nemico terrorista come musulmano, arabo, del Sud dell’Asia, del Medio Oriente, e così via, e per la primissima volta altre persone di colore sono state accolte nell’abbraccio nazionale. E questo fatto, stranamente, lo si è vissuto come la realizzazione di quella nazione multiculturale che era stata l’obiettivo delle lotte per la giustizia sociale – il sogno di Martin Luther King, se vuole – e molte comunità precedentemente escluse hanno avvertito – sia pure momentaneamente – un senso di appartenenza nazionale. Ovviamente il processo si fondava sull’esclusione del terrorista e di quei corpi ai quali era appiccicata quell’etichetta. Siamo ancora alle prese con le conseguenze di quel momento.
Talvolta i neri stentano ad ammettere che sia possibile per loro essere razzisti allo stesso modo dei bianchi. Questa è oggi una sfida importante. Non è più possibile presumere che le vittime del razzismo non siano vulnerabili anche loro alle stesse ideologie che hanno insistito sulla loro inferiorità. Non c’è un passaggio garantito dall’attivismo radicale di un tempo alle posizioni progressiste odierne. La cosa più promettente adesso sono gli attuali sforzi per costruire alleanze tra le comunità nere e arabo-americane. In un momento in cui esponenti di governo neri come Colin Powell e Condoleezza Rice rivestono ruoli di spicco come architetti della guerra globale, queste alleanze saranno fondamentali per la creazione di reti di resistenza. Ma è altrettanto importante cercare alleanze con altre comunità di immigrati, soprattutto quelli originari dell’America Latina e dell’Asia.
• Come per il «comunista» e il «criminale», quando parliamo del «terrorista» finiamo ben presto per parlare della sua carcerazione. Abbiamo visto che la baia di Guantánamo, in particolare, è diventata un simbolo potente della carcerazione. Quale pensa che sia l’opera ideologica svolta dalla prigione statunitense di Guantánamo?
In questo particolare momento, intende?
• Sì.
La storia di Guantánamo è lunga e brutta. Dieci anni fa, la prigione militare di Guantánamo era utilizzata come l’unico centro di detenzione al mondo per profughi sieropositivi. Nel 1993 alcuni prigionieri haitiani fecero uno sciopero della fame per protestare contro la propria detenzione, e un gran numero di persone negli Stati Uniti partecipò al digiuno in un gesto di solidarietà. Ma lei si riferisce alla prigione militare illegale dove all’inizio tutto era possibile perché il governo degli Stati Uniti credeva che una struttura fuori del territorio nazionale potesse essere anche fuori del controllo della legge nazionale. Così, l’amministrazione Bush si è comportata come se potesse agire senza dover rispondere delle proprie azioni.Vorrei sfruttare questa occasione per parlare brevemente delle idee ufficiali di democrazia che circolano oggi e del perché attivisti, intellettuali, studiosi, artisti, operatori culturali devono prendere molto sul serio quelli che sono segnali chiari di imminenti politiche e pratiche fasciste. Uso il termine fascista a ragion veduta. Non è un aggettivo che abbia mai utilizzato con leggerezza. Ma in che altro modo si possono descrivere le torture, l’abbandono e le malvagità inflitti ai reclusi di Guantánamo, persone che sono state arrestate per il solo motivo di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato? Ci sono state famiglie rimaste per anni senza alcun contatto con i propri figli imprigionati che, a detta dei massimi funzionari governativi, non hanno diritto a un avvocato perché non si trovano sul territorio degli Stati Uniti. E Guantánamo è solo uno dei tanti buchi controllati dagli Stati Uniti in cui la gente scompare.Se si prende in considerazione la crescente erosione delle libertà e dei diritti democratici sotto gli auspici dell’ USA PATRIOT Act, per esempio, dovrebbe essere un indizio della necessità di un nuovo movimento di massa. Fortunatamente, grazie ai cittadini britannici che sono stati rilasciati di recente e hanno tenuto delle conferenze stampa ampiamente diffuse, abbiamo potuto ottenere molte più informazioni su ciò che accade a Guantánamo che se non fossero stati cittadini britannici. Il fatto che i media fossero molto più interessati a cittadini del Regno Unito che non a cittadini dell’Afghanistan o del Pakistan è estremamente inquietante, perché implica che gli afgani privi di un passaporto britannico o gli iracheni sottoposti a brutalità e violenze sessuali non sono considerati degni dell’attenzione dei media. Posso soltanto dire che si tratta di segnali davvero preoccupanti di un futuro repressivo che molti di noi hanno paura perfino di immaginare. Dobbiamo però affrontare questa possibilità se ci preme la creazione di un futuro democratico negli Stati Uniti e nel mondo.
• Le sue osservazioni circa il rilascio di cittadini britannici da Guantánamo sembrano illustrare ancora una volta il potere di un’opinione pubblica organizzata nel fare pressioni sul governo, sia britannico che statunitense, per ottenerne la scarcerazione in assenza di meccanismi legali e di giurisdizione…
Proprio così.
• Pensa che Guantánamo abbia soppiantato la prigione di massima sicurezza come minaccia carceraria estrema nell’immaginario sociale?
Le spaventose realtà di Guantánamo hanno effetti materiali ed emotivi per tutti quelli che hanno la disgrazia di esservi detenuti. Ma Guantánamo è anche quell’ambiente sociale immaginario per tutti quelli etichettati come «il nemico». È la tecnologia della repressione che un nemico si merita, a quanto si dice. Le strutture detentive militari come quelle di Guantánamo sono state rese possibili dal rapido sviluppo di nuove tecnologie nelle prigioni su territorio nazionale. Al tempo stesso, le nuove carceri di massima sicurezza sono state rese possibili dalle torture e dalle tecnologie militari.
Mi piace pensarle come simbiotiche. Il centro detentivo militare come luogo di tortura e repressione non soppianta quindi il supercarcere su territorio nazionale (che, per inciso, viene esportato in tutto il mondo); piuttosto, costituiscono entrambi dei luoghi estremi nei quali la democrazia ha perso ogni diritto. In un certo senso, si potrebbe affermare che la minaccia del carcere di massima sicurezza supera perfino quella del centro detentivo militare. Non mi piace creare gerarchie della repressione, perciò non sono neanche sicura che dovrei esprimermi in questi termini. Quello che voglio dire è che la normalizzazione della tortura, la quotidianità della tortura che è caratteristica del supercarcere potrebbe avere un potere più duraturo rispetto alla prigione militare illegale. Nel carcere di massima sicurezza si applica la deprivazione sensoriale e i contatti umani sono così scarsi che spesso i detenuti arrivano al punto di usare le escrezioni del proprio corpo – urina e feci – come un mezzo di azione e libertà. Questa regolarizzazione, questa normalizzazione può essere ancora più pericolosa, soprattutto se la si dà per scontata e quindi non la si reputa degna dell’attenzione mediatica. Le pratiche del supercarcere non sono mai rappresentate come aberrazioni, come è accaduto invece per i fatti di Guantánamo o Abu Ghraib, descritti non come normali o di ordinaria amministrazione, bensì come pratiche eccezionali di cui sono responsabili singoli individui. Il supercarcere non lo si può descrivere come un’aberrazione. È classificato attualmente come il più sicuro tra i sistemi detentivi interni. Una volta, un minimo implicava un medio e un massimo . Ora il minimo implica il carcere di massima sicurezza e chissà cos’altro in seguito. Ma ovviamente con questo non voglio sottovalutare gli orrori delle prigioni militari illegali.
Ancora con l’Italia delle Torture. Questa vola su militante arrestato il 31 agosto ’79, a seguito di un esproprio attribuito a Prima Linea
ADRIANO ROCCAZZELLA, DENUNCIA ALL’UFFICIO ISTRUZIONE DEL TRIBUNALE DI IVREA, G.I. ANTONIO TISEO, 24 GENNAIO 1980
“Quando fui arrestato nella zona di Alba Adriatica fui malmenato con i calci dei mitra, oltre a calci e pugni con le mani e con i piedi e insieme con me fu malmenata anche l’altra persona che fu arrestata contemporaneamente a me; Cesaroni fernando, il quale fu trattato nella stessa maniera. Fummo catturati contemporaneamente da CC e agenti della PS che, ho saputo dopo, provenivano dalla caserma di Nereto e dalla questura di Ascoli Piceno.
Durante il trasporto dal luogo di cattura fino alla caserma di Nereto, alcuni CC, attaccando i caricatori dei mitra, pieni di pallottole, mentre io ero costretto con le mani legate in modo molto stretto, mi colpivano con i caricatori contro il gomito del braccio destro, ed anche in testa. Riportai là delle lesioni sia al gomito, che divenne blu e mi doleva, tanto che non riuscivo a piegarlo, sia alla testa, dove il medico, intervenuto successivamente, rilevò dei tagli al cuoio capelluto.
Fummo condotti nella caserma di Nereto e nel corridoio della stessa passammo attraverso due ali di militari, che impugnavano mitra ed armi di ordinanza, anzi, preciso, fummo trascinati per le manette, che erano del modello a dentiera e che erano tanto tese da non permettere la circolazione del sangue ai polsi. Condottici in una stanza, volevano sapere le nostre vere identità in quanto noi eravamo forniti di documenti falsi e cominciarono a strapparci di dosso i vestiti con colpi di lamette.
A questo punto ci separarono di modo che ognuno di noi fu messo in una stanza. A questo punto io avevo già dato le mie vere generalità ed avevo dichiarato di appartenere ad un’organizzazione comunista. Nonostante ciò continuavano a malmenarmi per circa mezz’ora con calci dei mitra, colpendomi specialmente alla testa e sul naso. Dopo questo pestaggio ebbi un dolore costale, per cui penso che una costola dell’alto sinistro del torace fosse incrinata. […]
Dopo circa 2 ore che mi trovavo in quella stanza, durante le quali ogni tanto entrava qualche CC e mi appioppava calci e sberle, vennero due uomini in borghese che cominciarono ad interrogarmi, anzi preciso che uno dei due mi faceva delle domande, mentre l’altro mi colpiva con un pugno di ferro alla tempia, all’attaccatura della mandibola e alla nuca. […]
Nell’intervallo tra il pestaggio di cui ho parlato e le soste dovute al fatto che i due si recavano dal mio coimputato, venne nella stanza un carabiniere che indossava un blue-jeans ed una canottiera di lana, con un accento che mi sembrò meridionale, il quale, in un primo momento fece la parte del buono, promettendo che se avessi parlato egli si sarebbe adoperato per evitarmi ulteriori pestaggi.
Dopo 10-15 minuti costui perse la pazienza e, tirata fuori la cinghia dei pantaloni, prima minacciò di impiccarmi poi iniziò a colpirmi sulle spalle con la cinghia piegata in due, mentre io avevo tutto ciò che indossavo ridotto a brandelli. Ogni tanto entrava qualche militare e mi colpiva con calci ai testicoli nudi, mentre mi tenevano le gambe aperte, perchè non potessi ripararmi. […]
Poco prima dell’interrogatorio del giudice, probabilmente un sostituto procuratore, venne a visitarmi un medico, dopo che i CC avevano ripulito il mio corpo dalle tracce di sangue, che tuttavia, rimasero sui brandelli di vestito che avevo addosso. […] Agli atti istruttori esiste un certificato di quel medico che attesta abrasioni da me riportate al volto oltre cha tagli alla testa e una sospetta frattura del gomito destro. Il medico mi medicò sommariamente con un cerotto sul naso disinfettandomi un po’ i vari tagli da me sofferti. Prima che fossi introdotto davanti al giudice, mi misero in una stanza di fronte a quella dove si trovava il magistrato, insieme al mio coimputato, dove ogni tanto veniva l’uomo con il pugno di ferro e ci colpiva alla nuca con il medesimo. In quella stanza c’erano 6-7 militari ed un po’ tutti ci minacciarono di non riferire le percosse al giudice , perchè in caso contrario ci avrebbero eliminati. […]
Dopo mi portarono in una stanza dove mi presero le impronte digitali, dove per la prima volta da quando ero stato di fronte al giudice, davanti al quale avevano tolto le manette, mi tolsero le manette per prendere le impronte, dopo che mi costrinsero a firmare con la forza sul foglio sul quale erano le mie impronte. A questo punto, siccome non ero in grado di camminare da solo, fui trascinato da due uomini a lavarmi le mani e nel corridoio incontrai un altro ufficiale dei CC che mi sembrò un generale e che poi ho saputo essere venuto da Napoli. […]
Dopo che mi lavai le mani mi portarono in una stanza dove mi legarono con uno spago i testicoli e cominciarono a tirare. Successivamente seppi dal Cesaroni che gli avevano legato i testicoli mentre era sulla punta dei piedi e lo spago era attaccato agli infissi delle finestre, in modo che se egli avesse appoggiato i talloni per terra, si sarebbe strappato i testicoli.
Seppi anche da lui che gli avevano stretto i testicoli tra due sbarrette di legno, glieli avevano tagliati con le lamette e precedentemente avevano messo del sale grosso da cucina e dell’aceto sui tagli relativi alle ferite riportate dallo stesso in seguito ai pestaggi e poi avevano strofinato sia il sale che l’aceto sulle ferite ed infine gli avevano bruciato le piante dei piedi con un mozzicone di sigaretta.”
Tratto da “Le Torture Affiorate”. Edizioni Sensibili alle Foglie
I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis
E’ uscita SCARCERANDA 2009!
È uscita Scarceranda 2009, l’agenda autoprodotta da Radio Onda Rossa, contro ogni carcere giorno dopo giorno, perché di carcere non si muoia più ma neanche di carcere si viva. Quest’anno Scarceranda celebra la sua decima edizione! Per questo l’abbiamo chiamata Scarceranda X.
È BELLISSIMA!Vedi l’indice dei materiali presenti in questa edizione dell’agenda.
Scarceranda (agenda annuale + libro) è in vendita a 12 euro presso Radio Onda Rossa e negli infoshop, centri di documentazione, librerie.
Scarceranda può essere pagata tramite conto corrente postale e richiesta in spedizione direttamente a Radio Onda Rossa
via dei volsci 56 00185 Roma
Tel 06491750 ondarossa@ondarossa.it
Il versamento di 12 euro a copia va effettuato sul ccp 61804001 intestato a Radio Onda Rossa indicando in maniera leggibile nominativo e indirizzo cui si vuole venga spedita l’agenda. Per chi utilizza il versamento online tramite Bancoposta il versamento va intestato a Cooperativa Culturale Laboratorio 2001 (se si effettua il bonifico l’IBAN è IT15 D076 0103 2000 0006 1804 001).
Scarceranda viene donata alle persone detenute che ne facciano richiesta o segnalate alla Radio. Se avete conoscenti in carcere cui volete far giungere la Scarceranda potete comunicare a Radio Onda Rossa il nominativo e il carcere in cui si trovano.
Se inoltre vi interessa organizzare iniziative di presentazione, prendervene più copie per distribuirla tra compagn@, conoscenti, amici/che… contattate la radio per metterci d’accordo.
Iniziative Scarceranda
- 29 novembre 2008: CSOA Forte Prenestino, via Delpino, Roma




E’ domenica a Volos, nel porto i pescatori espongono il loro pescato giornaliero, che oggi comprende merluzzo, sarde e polpo.
























































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