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La storia di Maurizio Biscaro, morto per scappare all’arresto nell’83… e di sua madre
Nasce a Milano il 4 maggio 1957
-Frequenta il liceo classico a Milano
-Si diploma all’Istituto linguistico internazionale come traduttore-interpreste nel 1981
-Lavora come precario
-Collabora con la rivista Controinformazione ed è attivo nel consiglio di zona 13 per D.P.
-milita nel movimento dell’autonomia
-milita nelle Brigate Rosse-Walter Alasia
– muore cadendo dal sesto piano, a Cinisello Balsamo, il 13 novembre 1982, quando i carabinieri vanno nella casa in cui vive per arrestarlo.
Avrebbe dovuto essere ucciso e tirato fuori dal mio grembo a pezzi, perché all’ultimo momento il ginecologo si è reso conto che ho l’osso iliaco storto e il bambino non riusciva a venire fuori. Mi hanno tagliata, mi hanno messo metà forcipe da sveglia perché dovevano lasciarmi le forze per le spinte, visto che non si poteva più procedere al taglio cesareo.
E’ nato, e solo la Madonna sa come. Era il 4 maggio 1957 […]
Il ’68 lui lo vive da ragazzo romantico, ammirava i ragazzi del Movimento Studentesco e spesso li seguiva nelle manifestazioni. Per lui erano degli eroi, ma in mezzo alla calca un giorno si piglia una manganellata da un poliziotto. Non doveva essere stato un gran colpo, non m’ha chiesto di fargli impacchi e in più si sentiva importante: aveva partecipato alla guerriglia. […]
Siamo nei primi anni ’70. Il liceo classico Berchet era uno dei più quotati di Milano e nella classe del mio Maurizio c’erano i rampolli delle migliori famiglie della città.
Ogni tanto marinava la scuola perché voleva stare con i facchini, accanto agli uomini di fatica che lavoravano all’ortomercato o trasportava cassette insieme a loro.
Un giorno, dopo tanta fatica il capoccia gli mette in mano la metà della cifra pattuita. Maurizio si ribella ed incita gli altri alla ribellione dicendo che quello era sfruttamento dei padroni verso i lavoratori. Una coltellata gli ha fatto un sette sulla camicia, fortunatamente senza ferirlo. Da quel momento non c’è più stata pace […]
Un pomeriggio, era il periodo della morte di Allende, mio figlio mette le scarpe da tennis e se ne va in fretta prima che gli possa chiedere dove va. Ricordo che il tempo era brutto, pioveva e mi seccava che si andasse a prendere un malanno. Torna per la cena e mi dice che deve uscire di nuovo, di non aspettarlo perché rientrerà tardi. A notte fonda rientra, bagnato come un pulcino.
– Dove sei stato? Che hai fatto?
– Mamma io non ho fatto nulla, però ho assistito ad una cosa grossa, domani lo saprai dalla tv.
In quella notte era avvenuto l’incendio della Face Standard, per protesta contro gli americani che avevano favorito la fine di Allende. Maurizio si rese conto che i compagni non andavano bene, parlavano di rapine per finanziare il movimento e il mio ragazzo non voleva passare da ladro.
Insomma il comportamento degli autonomi lo aveva deluso. […] Io mi ricordo che ogni giorno aumentavano le simpatie e il proselitismo a causa della pubblicità che alcuni giornali davano alle azioni terroristiche.[…]
Durante l’anno faceva il muratore e metteva da parte i soldi per girare l’Europa durante le vacanze.
E’ stato in Portogallo, quando c’è stata la rivoluzione dei garofani, per rendersi conto che nulla era cambiato, la musica era sempre la stessa. La rivoluzione -diceva- non si può farla con i fiori.
Anche in Spagna era stato ospite di ragazze basche, le sue vacanze erano politiche. […]
Intanto è arrivata la cartolina: lo Stato lo chiamava a fare il suo dovere. Mi aspettavo l’obiezione di coscienza, sarebbe stata in carattere con il personaggio, invece fa domanda per entrare nei paracadutisti. Questo suo desiderio di imparare a paracadutarsi e ad usare le armi nasceva da una ormai radicata speranza nella rivoluzione. Mi dispiaceva che fosse così lontano a fare il soldato e che soffrisse per tante cose che non andavano ma per me è stato un periodo di calma. Potevo dormire senza l’angoscia della perquisizione, senza il timore che mio figlio finisse morto ammazzato.
Si vede che io di pace non dovevo averne perché alla fine del servizio militare, quando Maurizio torna, mio marito si ammala e in breve muore.[…]
Maurizio inizia un lavoro politico con i compagni del quartiere. Lavora insieme a Democrazia Proletaria. Scrive articoli, prepara relazioni, alcune sere va alle assemblee e si va avanti così. Per me la scuola e per lui lo studio di giorno e la politica, che non rende niente, la sera.
Gli domando se ha intenzione di farsi mantenere dalla madre per tutta la vita, in attesa di una rivoluzione che non verrà mai.[…] Io con mio figlio ho parlato, ho ricevuto le sue confidenze e ho tentato di convincerlo a considerare pericolose illusioni i suoi ideali ma, alla fine, è riuscito lui a farmi condividere in parte i suoi ideali di giustizia, di uguaglianza, di fraternità.
Comunque io potevo comprendere questo desiderio di pulizia, questa voglia di una società più giusta, questa delusione per il comportamento dei partiti politici, ma le azioni violente no, quelle non le ho mai comprese, non le ho mai giustificate.
[…]Mi stupisce in quel periodo la sua prudenza. Non si faceva vedere in giro, non fa mai una fotografia e si fa crescere i baffi spioventi alla mongola. E’ un comportamento di persona che non vuol lasciare nulla dietro di sé, non vuole essere identificata. […] Maurizio mi sta cercando. E infatti lo vedo. Sono molto brusca, incattivita dal suo comportamento e gli chiedo chi vuol prendere in giro!
– Dove sei e con chi, si può sapere?
– Sono con le Brigate Rosse.
Queste parole mi arrivano come uno schiaffo d’acqua gelida.
– Verrò a riconoscerti all’obitorio- è la mia raggelante profezia.
Ora che Maurizio si è confessato viene spesso a casa, di nascosto dai compagni. Cerca di non incontrare gente, e quando torno da scuola, se non trovo lui in casa, trovo un suo scritto. Le lettere che ci scrivevamo purtroppo le ho distrutte perché temevo da un momento all’altro la perquisizione, ed ora vorrei averle perché erano belle, erano interessanti, anche se per indicare l’organizzazione, scriveva “L’azienda”. In una sua lettera mi dava notizia del suo innamoramento per una compagna di latitanza! Fra tante ragazze che ha conosciuto di bell’aspetto, di buona famiglia, va ad innamorarsi di una brigatista! Così ragionavo sul momento.
Poi, pensandoci bene, dicevo a me stessa che tramite quella ragazza la sua vita di disperato forse diventava più sopportabile, forse riusciva a godere ancora qualche gioia dell’amore e finivo per simpatizzare con questa sua innamorata.
[…]
Prende un libro di poesie di Prévert dalla biblioteca e si confida: 
– Mamma ho bisogno di nutire l’anima e l’intelletto.
Sono le sue ultime parole.
Lo accompagno all’ascensore. Mi abbraccia. Ci scambiamo un bacio e io gli dico:
– Tesoro attento a venerdì, c’è l’allineamento degli astri: porta disgrazia.
Sorride della mia superstizione e, scuotendo la testa, se ne va. […]
Intanto arriva venerdì notte 13 novembre 1982. Verso le sei e mezza suona il campanello. So già chi può essere: c’è una perquisizione in vista, quella è l’ora canonica. Domando: Chi è?
– Carabinieri, aprite!
Prendo fiato, poi apro la porta. Come bolidi si infilano in casa col mitra spianato molti carabinieri in borghese. Girano per tutta la casa, guardano in tutti gli angoli, poi il comandante mi fa sedere e mi interroga.
– Ha una foto di suo figlio?
– No. Ho solo questa che gli è stata fatta da militare, mentre cavalca.
La guarda, e poi mi chiede di telefonare. Sono spaventatissima, hanno individuato Maurizio e lo stanno cercando.
– Dov’è suo figlio?
– In Inghilterra per lavoro, ma per l’amor di Dio che cosa è successo?
– Nulla, signora, solo che suo figlio non è in Inghilterra. Chiami il suo avvocato perché dobbiamo fare una perquisizione.
– No, non ho l’avvocato e non ne ho bisogno, in casa non c’è nulla di compromettente.
Entrano nella camera del mio Maurizio e con un’occhiata il comandante fa capire ai suoi uomini che devono comportarsi educatamente. […]
Lunedì mattina, molto presto, corro a comperare i giornali.
Al ritorno in cortile incontro un vicino di casa che sconsideratamente mi grida:
– E’ suo figlio quello che è caduto dal sesto piano di Cinisello!
Arrivano intanto alcune mie colleghe […] e anche l’alto ufficiale dei Carabinieri che aveva comandato il blitz di Cinisello e che era venuto a far la perquisizione. Gli dico:
– Perché non mi ha detto che mio figlio era morto? Avrei autorizzato il prelievo dei suoi organi, perché lui, che era generoso, ne sarebbe stato contento.
Chissà, forse non sarebbe stato possibile, perché credo che il corpo del mio Maurizio sia rimasto a terra tutta la notte e cioè fino a quando non è arrivato il magistrato per constatarne il decesso. […]
Ho cominciato ad attendere una chiamata per il riconoscimento del cadavere che era stato portato all’obitorio di Monza. Passano i giorni, rotolano via lenti e dolorosi. Nessuno mi chiama. Non so chi mi riferisce che qualcuno a Radio Popolare dice che quel povero cadavere è stato abbandonato, nessuno si presenta per il riconoscimento. ma cosa posso fare io, a chi mi presento? Mentre sono disperata a pensare al da farsi un caro amico mi propone di portarmi a Monza dal mio Maurizio. Abbiamo perduto tutto il pomeriggio, però sono riuscita a fare questo riconoscimento.
I giorni passano e non si riesce a fare il funerale. L’impresa di pompe funebri mi dice:
– Signora, se fosse morto un cane avrebbero più riguardo. Attendiamo l’ordine non so da chi. […]
Trascorrono altri giorni, poi finalmente mi avvertono che il funerale avrà luogo il lunedì mattina. […]
Arrivati a Lambrate, trovo la cassa mortuaria sotto una volta del cimitero, sola, abbandonata.
Con il mio arrivo si avvicinano molte persone, tutte con un garofano rosso in mano. Gli operai che avevano diviso le fatiche con mio figlio, quando faceva il muratore, erano tutti lì, con il pianto negli occhi. Erano stati loro a trovare i fiori e lo sa Iddio dove, perché al lunedì il cimitero è chiuso, per cui non arrivano i mezzi pubblici e non ci sono banchetti di fioristi. Ma loro li avevano trovati e distribuiti alle persone presenti.
Ed erano tante, malgrado le previsioni ed il desiderio delle autorità che avrebbero voluto fare le cose alla chetichella. Ad un certo punto, dopo il lancio dei garofani nella fossa i compagni si sono riuniti, col pugno alzato, a cantare sommessamente l’Internazionale. Allora, in quel preciso istante, molte persone, di idee anche opposte, si sono avvicinate al gruppo e si sono unite con le loro voci al coro.
[…]Spesso pensavo a quella Daniela di cui mio figlio si dichiarava innamorato, avrei tanto voluto conoscerla, parlarle, ma come fare? Fra tutte le brigaste arrestate quale poteva essere? Cercavo di immaginarmela.
Un mattino, precisamente il 22 febbraio 1983, mi arriva una lettera dal carcere di Voghera.
“Gentile signora, se avessi seguito l’istinto avrei scritto questa lettera qualche mese fa ma un sacco di preoccupazioni che mi rimbalzavano nella mente di volta in volta, mi hanno impedito di farlo. La paura più grande è quella di riaprire ferite comunque non rimarginabili, di far riemergere sentimenti e sensazioni incancellabili, le stesse che con grande sforzo si tenta quotidianamente di razionalizzare e nascondere e soffocare nei meandri più reconditi del pensiero e della memoria. Ho amato Maurizio profondamente e questo filo che mi accomuna a lei contiene in sé il motivo che mi ha spinta a scriverle.
La mia intenzione è quella di renderla partecipe dell’amore genuino nato tra me e Maurizio e sviluppatosi nel tempo, nella maniera più felice possibile. Ci siamo conosciuti, amati, plasmati giorno per giorno a vicenda, ci siamo dati e abbiamo dato insieme il massimo di noi stessi e ciò che mi fa felice anche oggi è l’essere stata il soggetto di quell’amore, così come lo è stata diversamente lei. Vorrei trovare altre parole e suoni in grado di comunicare tutta la bellezza di quell’amore ma non le conosco e forse non esistono. Sono sicura, però, che lei saprà cogliere da questa mia il dolore che si sa esiste senza bisogno di dirglielo, ma almeno un po’ della gioia vissuta. Un abbraccio con tanto affetto.”
Dopo questa missiva ci siamo scritte per tutto il tempo in cui è rimasta prigioniera. Non solo, ma ho ottenuto il permesso di andarla a trovare. Non saprei raccontare la prima volta, davanti a quell’immenso carcere bianco, in mezzo ai campi, con un carro armato che faceva il giro dell’isolato e tante guardie carcerarie con grossi cani lupo. Come sono entrata nel cortile, ho sentito un coro di voci:
– Vittoria, Vittoria, ciao!
Le voci venivano da lontano, io non vedevo le ragazze, ma forse loro vedevano me. Mi sono sentita commuovere fino alle lacrime. Erano in sei o sette dietro ai vetri. Le ho guardate tutte: belle, carine, spavalde. […] Per cinque anni sono andata regolarmente a trovare Daniela, prima a Voghera e poi a San Vittore. Mi sono legata a lei come se fosse mia figlia. […]
_Vittoria Dilda Biscaro, “L’ultimo caduto della Walter Alasia”, Milano 1992. Frammenti di un dattiloscritto dell’Archivio Progetto Memoria
Quando entrò in clandestinità non lo vidi più. Lessi della sua morte sul giornale, andai al funerale.
C’erano i garofani rossi e cantammo l’Internazionale. Ma erano gli anni ottanta, tempo di tradimenti.
Il cielo era livido come il cuore di tutti noi.
Là presenti a testimoniare che quel ragazzo che era morto era stato capace di sognare.
Non aveva difetti? Ne aveva. Ma è morto giovane, non ho fatto in tempo a riconoscerli.”
_Rossella Simone, testimonianza al Progetto Memoria_
entrambi i testi sono tratti da “Sguardi ritrovati” , vol. 2 del Progetto Memoria _Ed. Sensibili alle Foglie 1995_
questa canzone la dedico a Vittoria, la mamma di Maurizio
Un comunicato da Syntagma sul “partito comunista”
Dopo Varkiza [1], il Politecnico [2], la Scuola di Chimica (1979) [3] il dicembre 2008 [4] e una serie di altri casi, la realtà ancora una volta rivela il ruolo del Partito che tradisce sistematicamente le lotte popolari. E se fino ad ora hanno strangolato, con le loro cariche politiche ogni sciopero generalizzato e determinato in tutti questi anni, se hanno insultato tutte le rivolte come una “provocazione”, d’ora in poi la storia dimostra che non sono “semplici errori politici”, ma una posizione consapevole e coordinata per difendere la dittatura parlamentare e dei rapporti capitalistici finanziari e sociali.
Questo è quello che hanno fatto ieri (20/10), troppo, anche se fino a quel punto hanno chiamato il popolo alle manifestazioni per il rovesciamento del governo. Invece di proteggere chi circondava il parlamento ne hanno protetto il regolare funzionamento, hanno agito ancor più barbaramente della polizia, spaccando le teste e consegnando manifestanti alle forze della repressione. La cosa peggiore che hanno fatto è stato di legittimare lo Stato, che ha ucciso uno dei loro compagni, accusando dell’omicidio una certa violenza parastatale.
Da ieri, in modo definitivo e irreversibile, il cosiddetto “Partito Comunista” non è altro che una barriera contro il tentativo di seppellire il cadavere parlamentare. Qualsiasi essere umano libero che lotta per la propria dignità in questi giorni cruciali deve individuarlo politicamente come un bersaglio. Questa frase non deve essere letta come una scissione nel movimento. Potremmo avere problemi comuni e obiettivi comuni con gli elettori del “Partito Comunista”, ma la politica e la pratica della leadership dalle cui labbra pendono segue gli ordini del governo e degli inviati del FMI e UE della BCE. Non abbiamo mai marciato fianco a fianco con loro, non saranno mai con noi. Dobbiamo tutti tenere presente che il “Partito Comunista” agirà come una quinta colonna del regime dittatoriale, sperando ancora una volta di afferrare qualche briciola dal tavolo parlamentare, proprio come ha fatto nel 1990 [5].
La posizione di tutti i gruppi politici, siano essi parlamentari o non, che ha sostenuto gli atti del “Partito Comunista”, sia indirettamente che con il loro silenzio, o direttamente con le loro dichiarazioni, è altrettanto condannabile. Fino a quando questi partiti rimangono all’interno di un parlamento composto di destinatari degli ordini della Troika e continuano a ricevere i loro stipendi grassi, sono interamente corresponsabili di quello che è successo finora e di quello che verrà. Il loro voto negativo al memorandum e le leggi votate insieme rivelano con precisione il loro ruolo nella dittatura: fornendo l’alibi della democrazia e della pluralità delle voci, sostengono completamente il parlamento di rappresentanti, in modo che il popolo impoverito continui a contare i voti in ogni seduta fissa e predeterminata di voto delle leggi che cancellano il suo futuro – e al tempo stesso, sono alimentati con l’illusione che qualcuno parli in loro nome e nel loro interesse. Così, lasciano l’opposizione ai professionisti della politica, e non sentono il bisogno di reagire immediatamente e di persona. Qualsiasi voto, anche per i partiti extraparlamentari di “estrema sinistra” alle elezioni nazionali e locali non è altro che olio negli ingranaggi [della macchina] e una legittimazione della “correttezza” della dittatura parlamentare.
Dal 25 maggio, quando ci siamo radunati in piazza, abbiamo rivelato che la democrazia diretta è la capacità di ciascuno di noi di partecipare, di consultarci l’un l’altro, di modellare le idee insieme in modo autonomo, lontano dalle etichette ideologiche o parlamentari. Resteremo qui, contro il loro parlamentarismo e la loro burocrazia fallimentari.
Stiamo prendendo NOSTRA VITA nelle nostre mani
DEMOCRAZIA DIRETTA ORA
Assemblea popolare di piazza Syntagma, 21/10/2011
1. Riferimento al trattato del 1945 di Varkiza, dove il Partito Comunista ha tradito la lotta armata e migliaia di combattenti della guerra civile in cambio della sua legalità nel nuovo regime
2. Riferimento alla posizione originale del Partito comunista contro la rivolta del Politecnico del 1973, che determinò l’inizio del crollo della giunta fascista. Allora definì gli studenti, molti dei quali furono uccisi, “provocatori della polizia”
3. Riferimento agli incidenti del 1979 presso la Scuola Chimica di Atene, dove i membri del Partito comunista hanno spezzato l’occupazione della scuola, collaborando direttamente con la polizia
4. Un riferimento, ovviamente, alla più recente condanna della rivolta del dicembre 2008
5. Riferimento all’accordo del Partito comunista due principali partiti parlamentari, ND e PASOK, nel 1990
Cina: una riforma per instaurare lo Stato di Polizia
La Cina avanza a passo spedito verso il capitalismo del nuovo millennio e si conferma tra i portabandiera del massacro delle libertà individuali.

MAELSTROM: ancora una recenzione
Non smetterò facilmente di parlare di questo libro, come non smetto -IMPOSSIBILE- di amare il suo autore,
pezzo di cuore, sangue, vita.
Questa un’altra recensione, di un libro che DOVETE LEGGERE!
Che “botta” sto libro, altro che l’ombra di Banco che ricompare come uno spettro a turbare la mente di Macbeth, qui c’è un signore di 71 anni vivo e vegeto che dopo oltre 30 anni di galera bussa con questo libro alla nostra porta per raccontarci per filo e per segno cosa è successo in Italia e nel mondo in quei 20 anni che hanno preceduto il suo arresto, e che, nei successivi 30 anni, quelli che lo hanno arrestato hanno evitato in tutti i modi di raccontare.
387 pagine di documenti, testimonianze e quant’altro snocciolati con la cura e la inoppugnabilità di chi ha avuto 30 anni di tempo per riordinare e metabolizzare da “dentro” quei 20 anni di vita vissuta mentre “fuori” operava la più assordante delle rimozioni, e che oggi, incredibilmente sopravvissuto (non solo nel corpo ma soprattutto nella mente) a quei tutto, rivendica il diritto del “vinto” ad integrare la storia fino ad oggi scritta, come sempre, dal vincitore, per il semplice motivo che anche lui…c’era.
Dunque “1960-1980 scene di rivolta e di autorganizzazione di classe in Italia” si legge nel sottotitolo perchè l’autore ha vissuto in prima persona e mano a mano sempre più da protagonista quel ventennio di lotte del movimento operaio che ha contrassegnato una rilevante parte della storia del nostro paese nel periodo che va tra l’inizio del cd. boom economico e la stagione del riflusso degli anni ottanta.
In questo lungo percorso l’autore ha direttamente partecipato a molti fatti in qualche modo “collaterali” e “collegati” al suo ventennale impegno di militante operaista, ivi compresi i celebri ’68 e ’77 fino al finale approdo alla più importante organizzazione di lotta armata operante in Italia che questo libro-diario ci spiega come obbligato in naturale continuità con tutto il suo “prima, e che quindi rappresenta solo una tappa finale di un percorso molto più lungo e complesso e che parte da molto lontano.
Quello che più colpisce di questo libro, e che lo rende a mio parere unico, è il fatto che anzichè raccontare, come han fatto tanti altri ex brigatisti, la loro esperienza nella lotta armata per magari richiamare in poche pagine il pregresso che li ha condotti a tale scelta, oppure narrare la propria odissea nel tanti anni di carcere speciale, Ricciardi fa esattamente il contrario.
Salvatore Ricciardi utilizza questo libro per ricostruire nel dettaglio la sua vita di militante a favore delle tantissime lotte operaie del dopoguerra italiano dal 1958 al 1977 fino al suo ingresso nelle BR a seguito dell’ultimo fallimento del movimento del 1977, e quindi riprende il racconto dal suo primo anno di carcere a Trani dove organizza la celebre rivolta del 1980, per quindi chiudere con il suo successivo trasferimento al carcere puntivo di Bad ‘a Carros all’inizio del 1981.
Sul resto nulla, nulla sui suoi 3 anni scarsi di partecipazione alla colonna romana delle BR e nulla sui successivi 30 anni di galera. Perchè dunque, aldilà dell’impressionate lavoro storico di certosina ricostruzione delle lotte operaie italiane e dei tanti tumulti rivoluzionari nel mondo di quegli anni, e che richiama, per ponderosità e completezza il famoso “L’Orda d’oro” di Ballestrini e Moroni di parecchi anni fa, questo libro, dicevo all’inizio, è una “botta” ?
Perchè documenta tanti anni dopo e in modo assolutamente inoppugnabile quello che è accaduto realmente nel nostro paese nel ventennio 1960 al 1980, cosa che nessuno prima d’ora aveva mai osato o forse potuto fare, e questo direi che è motivo più che sufficiente per augurarsi una divulgazione di maelstrom il più estesa possibile presso chi ha potuto ascoltare in questi ultimi 30 anni solo il racconto di chi ha vinto, ma temo che ciò non avverrà. Il che tuttavia non toglie alcun valore, intendiamoci, alla scelta di avere scritto oggi e dopo 30 anni di galera questo importantissimo testo, se non altro perchè, come chiude l’autore citando una frase del drammaturgo Samuel Beckett: “ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio !”.
A proposito di belle frasi, tante debbo dire, il pensiero che più mi ha colpito compare quasi all’inzio del libro, non mi ricordo le parole esatte ma diceva più o meno che diventare “compagni” è operazione che richiede anche un certo… tempo.
In conclusione la mia personale idea, magari sbagliata, di questo libro è che il messaggio dell’autore sia tipo “mi avete catturato e sono stato zitto per 30 anni, ora che sono libero mi pareva giusto riferire prima di ogni altra cosa anche tutto quello che non è mai stato detto su quegli anni, e ora se volete possiamo cominciare davvero a… parlarne”
DAVIDE STECCANELLA
Ancora tortura, quel rimosso tutto italiano
Tortura, quell’orrore quotidiano che l’Italia non riconosce come reato.
Se c’è stato un motivo per cui ho aperto questo blog è stato pubblicare materiale sulle torture compiute in questo paese, sui corpi dei militanti della lotta armata che nell’ “anno argentino” italiano, il 1982, sono stati catturati e torturati con le più classiche tecniche di tortura usate nel mondo.
Donne e uomini che, privati della loro libertà, bendati e storditi, sono stati torturati da uomini di Stato per ottenere nomi, luoghi, dettagli.
Torture documentate, torture per cui ci son state anche condanne, torture però completamente rimosse dalla tanto brava “società civile”.
Alcuni dei torturati nel 1982 continuano ad essere in carcere, dopo 30 anni, dopo quello che hanno subito, senza aver mai potuto accedere a nessuna cura o conversazione capace di lenire i traumi che la tortura lascia perenni sul corpo e la mente di chi l’ha subita.
Dimenticati dal mondo, torturati nelle nostre caserme, chiusi ancora giorno e notte nella stessa cella.
Non c’è altro da dire, se non che dovrebbero esser liberi. PUNTO.
ELENCO DEI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Grecia sotto attacco dalla comunità europea: carceri e Cie come lager!
Sapete che esiste un Comitato per la prevenzione della tortura nel consiglio d’Europa?
Pare che esista si, proprio così, ma il fatto che come nome si sia scelto Cpt non fa ben sperare visto che a casa nostra erano i Centri di permanenza temporanea, poi trasformati negli attuali Centri di identificazione ed espulsione. Lager dedicati a persone che non hanno commesso alcun reato, se non quello di non avere documenti nelle proprie tasche. Questo Cpt, quello europeo, per la prima volta nella sua vita (è nato nel 1989) ha proferito parola attaccando un paese membro della comunità europea, la Grecia.
Il paese viene attaccato per la gestione delle sue carceri, per la condizione che vivono i detenuti: le prigioni greche, è scritto, sono “depositi di carcerati” dove non è garantita una condizione minimamente umana di vita dall’amministrazione penitenziaria che, racconta il documento, in alcuni casi ha completamente lasciato allo sbaraglio e quasi all’autogestione alcuni penitenziari. L’attenzione di questa denuncia pubblica focalizza l’attenzione anche e soprattutto sui centri di detenzione dedicati ai migranti. Un paio di mesi fa una delegazione del Cpt è entrata nel centro di Soufli e per accedere hanno dovuto camminare sulle persone sdraiate a terra, stipati come bestie: 146 persone private della propria libertà in 110 metri quadri, con un solo bagno e una sola doccia…in molti sono rimasti in questa condizione per più di 4 mesi. Ancora i racconti provenienti da Filakio raccontano condizioni similari, riservate a centinaia di adolescenti, famiglie, bambini che non possono uscire dalla loro maledetta gabbia nemmeno per una manciata di minuti al giorno.
Un disastro umanitario indegno, non diverso dal nostro.
Le “donne” dei prigionieri e la storia rimossa, la nostra storia
AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI
Quest’articolo lo lessi che ero poco più di una bambina, a tredici anni, riportato tra le note di un libro che cambiò la mia vita (regalatomi da una mano completamente inconsapevole):
“Dall’altra parte” – l’odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici- di Prospero Gallinari e Linda Santilli.
Un articolo, un “reportage”, una testimonianza scossa di una giornata passata con le “donne dei detenuti” br e non, reclusi nel carcere speciale di Trani dopo appena un mese dalla rivolta. Le compagne di uomini fatti a pezzettini dai GIS, uomini con dita denti schiene e costole spezzate: detenuti politici che avevano messo a ferro e fuoco un carcere e che ora scontavano sulla loro pelle e quella dei loro cari la repressione dello stato.
Uno stato che doveva dimostrare la sua forza: uno stato che aveva mandato i GIS a sedare la rivolta …e c’era riuscito, ovvio!, peccato che al rientro dell’operazione – nei festeggiamenti per il capodanno- il generale che aveva guidato il masssacro è stato ucciso sul pianerottolo di casa.
Quest’articolo racconta il mai raccontato, quello vissuto da chi ha avuto la vita sventrata dal carcere, dalle leggi speciali, dall’ergastolo solo perchè madre, figlio, amore di un compagno prigioniero.
La tradotta di Trani ferma a Barletta. Per Trani si cambia.
Sul marciapiede, alle sette di mattina si riversano i familiari. Perlopiù sono donne, madri, compagne, sorelle. Nei venti minuti d’attesa prima che arrivi il Roma-Bari che bisognerà prendere al volo, di corsa dal giornalaio a raccattare quotidiani, di corsa al gabinetto, di corsa al bar a buttar giù un caffè; poi dieci minuti ancora , questa volta in piedi contro gli sportelli del treno, e giù di nuovo su un altro marciapiede, quello della stazione di Trani.
Qui il femminismo non avrebbe ragione d’esistere.
Le donne dei prigionieri sono forti, gestiscono le loro azioni con autorevolezza, a tratti perfino con allegria. Di fronte al procuratore capo De Marinis, ogni sabato, da quando c’è stata la rivolta, la dignità la chiarezza la determinazione sono loro […].
Il primo sabato: le visite e i pacchi sono sospesi. Il secondo, ancora niente visite e niente pacchi. Le donne si organizzano, attuano il blocco dei cancelli, aspettano dieci ore, circondate dai carabinieri minacciosi, e commettono un peccato d’onestà: credono all’ufficiale che promette un colloquio con il direttore se il blocco viene tolto. Naturalmente l’ufficiale non rispetta la parola. Però i pacchi passano.
Il terzo sabato, ancora visite distanziate, ancora il ritrovarsi davanti al secondo cancello. Per ogni nome chiamato passa un’ora. I colloqui dovranno essere con i vetri. NO, prigionieri e donne dicono no. […]
Si decide di nuovo il blocco dei cancelli. […]
Da tutte le parti piovono autoblindo, e carabinieri, a nugoli come le mosche. Arriva anche un funzionario in borghese, forse Digos. Dice che le manifestazioni sono proibite, dice che bisogna sgombrare se no ci pensa lui, e infatti ci pensa.
I carabinieri si schierano a pochi passi dalle donne, faccia a faccia. Rigidi e neri che sembrano lì come per un film. Comparse che non conoscono tutta la trama, ma solo il povero ruolo che le riguarda. E caricano duro.
Piovono le botte e gli spintoni, ma il funzionario capisce che la loro è solo forza fisica.[…]
Le notizie che filtrano dall’interno sono come sassi in faccia e perdono ordine e priorità, trasformandosi in una sorta di onda d’urto che spinge le donne ad agire. Guardie incappucciate, da Ku Klux Klan, chiamano per nome i detenuti, e a mano a mano che uno viene crocifisso dalla luce dei fari, giù botte. Quindici prigionieri vengono trascinati sul tetto: le guardie che li tengono chiedono alle altre, in basso, se ci sono morti o feriti tra i loro colleghi. Sono pronte, a una risposta affermativa, a buttar giù i detenuti.
Il policlinico di Bari si lascia portari via dai carabinieri i feriti gravi. Ma questo è avvenuto subito dopo la rivolta. Le donne si sono già battute per organizzare una fitta rete di controinformazione, ma tranne le trasmissioni di poche radio libere e qualche stralcio di notizia censurata dagli stessi giornalisti che la passano, all’opinione pubblica non arriva niente.
Altre notizie, sassi in faccia. I prigionieri sono ammassati in cameroni e come unica forma di protesta possibile attuano la “guerra batteriologica”, buttano escrementi e immondizie nei corridoi e dalle finestre. I feriti curati alla bell’e meglio subito dopo la rivolta peggiorano. I punti vanno in suppurazione, alcuni hanno la febbre alta e non si reggono in piedi, altri hanno le ossa rotte, le mani le caviglie, le costole.
Falco il medico della prigione, che nome meglio di così non poteva avere, non si fa vivo. Neanche il Giudice di sorveglianza. […]
Quando vengono concessi i colloqui, le donne e i prigionieri li rifiutano: si vorrebbe ancora farli parlare attraverso vetri e citofoni. Vengono pestati e trascinati all’isolamento, ma non si illudano i carcerieri che questo possa spingere i detenuti o i loro familiari alla rinuncia della propria dignità umana. Le donne stendono una denuncia. La firmano nominalmente, la portano alla procura, la presentano come legge vuole, anche se si immaginano che finirà in un cassetto. Trasmettono altri comunicati attraverso l’Ansa, ma anche su questi cala la nebbia.
Notte e nebbia. Nacht und Nebel sulle carceri speciali.
Notte e nebbia sulle coscienze. Nel paese delle interrogazioni parlamentari non si alza una sola voce, fosse anche semplicemente per chiedere. Ma di quello che accade o che potrebbe accadere nei lager di questa repubblica qualcuno dovrà pur rispondere.
Laura Grimaldi
Il Manifesto
29 Gennaio 1981
[A mamma Clara, a suo figlio Bruno]
I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis
Il boia Kossiga è morto!
E’ morto Cossiga.
Kossiga anzi, quello con le doppie S: “SS”
E’ morto quello che c’ha mandato contro i carri armati, quello che c’ha sparato addosso in pubblica piazza, alla schiena.
E’ morto Cossiga, che sulla coscienza non ha solo Giorgiana e Lorusso.
Ma, cavolo, quello si che è stato un nemico. Un nemico vero, che da nemici c’ha trattati.
Non da criminali, non da provocatori… nessuna dietrologia.
Un uomo che ha riconosciuto una guerra in corso, una vera e proprio guerra allo stato e l’ha difeso con tutto quello che aveva a disposizione: c’ha dato però la dignità dei nemici. Per Cossiga siamo esistiti: ci sparava addosso per quello.
Perchè aveva paura di noi, perchè doveva spazzare via migliaia di persone con una rabbia in corpo inarrestabile e pericolosa, troppo, per l’ordine costituito.
Io quindi, da questo blog, saluto Cossiga. (dai non fate quelle facce)
Lo saluto come si saluta un nemico vero.
Lo saluto, anche se non gli ho mai augurato del bene (assolutamente!), perché ho rimpianto di quel genere di nemici.
E di uno che, a guerra finita, ha detto chiaramente che tutt@ i prigionieri andavano liberati.
Ancora non è successo.
ADDIO BOIA ASSASSINO KOSSIGA
Dai reclusi di Ponte Galeria alla cosiddetta “società civile”
A tutte le persone che vivono in questo paese
A tutti coloro che credono ai giornali e alla televisione
Qui dentro ci danno da mangiare il cibo scaduto, le celle dove dormiamo hanno materassi vecchi e quindi scegliamo di dormire per terra, tanti tra
di noi hanno la scabbia e la doccia e i bagni non funzionano.
La carta igenica viene distribuita solo 2 giorni a settimana, chi fa le pulizie non fa nulla e lascia sporchi i posti dove ci costrigono a vivere.
Il fiume vicino il parcheggio qui fuori è pieno di rane e zanzare che danno molto fastidio tutto il giorno, ci promettono di risolvere questo problema ma continua ogni giorno.
Ci sono detenuti che vengono dai CIE e anche dal carcere che sono stati abituati a prendere la loro terapia ma qui ci danno sonniferi e tranquillanti per farci dormire tutto il giorno.
Quando chiediamo di andare in infermeria perchè stiamo male, l’Auxilium ci costringe ad aspettare e se insistiamo una banda di 8-9 poliziotti ci chiude in una stanza con le manette, s’infilano i guanti per non lasciare traccia e ci picchiano forte.
Per fare la barba devi fare una domandina e devi aspettare, 1 giorno a settimana la barba e 1 i capelli.
Non possiamo avere la lametta.
Ci chiamano ospiti ma siamo detenuti.
Quello che ci domandiamo è perchè dopo il carcere dobbiamo andare in questi centri e dopo che abbiamo scontato una pena dobbiamo stare 6 mesi in questi posti senza capire il perchè. Non ci hanno identificato in carcere? Perchè un’altra condanna di 6 mesi?
Tutti noi non siamo d’accordo per questa legge, 6 mesi sono tanti e non siamo mica animali per questo hanno fatto lo sciopero della fame tutti quelli che stanno dentro il centro e allora, la sera del 3 giugno, è cominciata così:
ci hanno detto: “se non mangi non prendi terapie” ma qui ci sono persone con malattie gravi come il diabete e se non mangiano e si curano muoiono.
Uno di noi è andato a parlare con loro e l’hanno portato dentro una stanza davanti l’infermeria dove non ci sono telecamere e l’hanno picchiato.
Così la gente ha iniziato ad urlare di lasciarlo stare.
In quel momento sono entrati quasi 50 poliziotti con il loro materiale e con un oggetto elettrico che quando tocca la gente, la gente cade per terra.
Le guardie si sono tutte spostate sopra il tetto vicino la caserma dei carabinieri qui dentro, dove sta il campo da calcio.
Dalla parte sinistra sono entrati altri 50 poliziotti.
Quando abbiamo visto poliziotti, militari, carabinieri, polizia, finanza e squadra mobile ufficio stranieri (che sono i più infami) sui tetti, uno di noi ha cercato di capire perchè stavano picchiando il ragazzo nella stanza. «Vattene via sporco » un poliziotto ha risposto così.
In quel momento siamo saliti tutti sopra le sbarre e qualcuno ha bruciato un materasso e quindi i poliziotti si sono spavenati e sono andati fuori le mura per prendere qualcuno che scappava.
Da quella notte non ci hanno fatto mangiare nè prendere medicine per due giorni.
Abbiamo preso un rubinetto vecchio e abbiamo spaccato la porta per uscire e quando la polizia ha visto che la porta era aperta hanno preso caschi e manganelli e hanno picchiato il più giovane del centro, uno egiziano. L’hanno fatto cadere per terra e ci hanno picchiati tutti anche con il gas, hanno rotto la gamba di un algerino e hanno portato via un vecchio che la sua famiglia e i sui figli sono cresciuti qui a Roma, hanno lanciato lacrimogeni e hanno detto che noi abbiamo fatto quel fumo per non far vedere niente alle telecamere. Così hanno scritto sui giornali.
Eravamo 25 persone e alcune uscivano dalla moschea lontano dal casino, ma i giornali sabato hanno scritto che era stato organizzato tutto dentro la
moschea e ora vogliono chiuderla. La moschea non si può chiudere perchè altrimenti succederebbe un altro casino.
Veniamo da paesi poveri, paesi dove c’è la guerra e ad alcuni di noi hanno ammazzato le famiglie davanti gli occhi. Alcuni sono scappati per vedere il mondo e dimenticare tutto e hanno visto solo sbarre e cancelli.
Vogliamo lavorare per aiutare le nostre famiglie solo che la legge è un po’ dura e ci portano dentro questi centri.
Quando arriviamo per la prima volta non abbiamo neanche idea di come è l’Europa. Alcuni di noi dal mare sono stati portati direttamente qui e non hanno mai visto l’Italia.
La peggiore cosa è uscire dal carcere e finire nei centri per altri 6 mesi.
Non siamo venuti per creare problemi, soltanto per lavorare e avere una vita diversa, perchè non possiamo avere una vita come tutti?
Senza soldi non possiamo vivere e non abbiamo studiato perchè la povertà è il primo grande problema.
Ci sono persone che hanno paura delle pene e dei problemi nel proprio paese.
Per questi motivi veniamo in Europa.
La legge che hanno fatto non è giusta perchè sono queste cose che ti fanno odiare veramente l’Italia.
Se uno non ha mai fatto la galera nel paese suo, ha fatto la galera qua inItalia.
Vogliamo mettere apposto la nostra vita e aiutare le famiglie che ci aspettano.
Speriamo che potete capire queste cose che sono veramente una vergogna.
Un gruppo di detenuti del CIE di Ponte Galeria
Rosarno: caporali in manette
Ammazza come sono intelligenti…si sono accorti che a Rosarno i rivoltosi non erano solo immigrati impazziti e violenti a cui hanno iniziato a sparare addosso…
si sono accorti che forse dietro c’era una condizione che non si può nemmeno definire di sfruttamento ma di totale schiavitù. Stiamo parlando di persone, di persone che lavoravano 14 ore al giorno per intascare una decina di euro…di persone che dormivano in baracche, prive di bagni, prive di qualunque cosa, stiamo parlando di persone costantemente minacciate e costrette a condizioni di subordinazione totale. Le agenzie stampa raccontano oggi (OGGI!!!) che oltre alla paga insignificante, dovevano pagarsi anche il trasporto dalla bidonville dove dormivano ai campi: 3 euro al giorno! 
E questa mattina ci siamo svegliati con Rosarno di nuovo in prima pagina per una carrellate di ordinanze di custodia cautelare nei confronti di una trentina di persone (9 sono in carcere e 21 ai domiciliari) a capo di un sistema di caporalato, un “collocamento” illegale in grado di fornire manodopera clandestina destinata all’agricoltura.
I nove in arresto (in realtà due risultano irreperibili) sono tutti migranti, gli altri 21 ai domiciliari sono tutti italiani proprietari dei terreni e imprenditori agricoli: venti aziende e duecento terreni (10 milioni di euro di valore ) sono stati posti sotto sequestro, perchè ritenuti frutto di arricchimento illecito…
Leggere ed ascoltare le testimonianze e i racconti delle condizioni di vita ma soprattutto della rivolta è impressionante: sono ancora tutti estremamente terrorizzati per quello che è successo e molti di loro, scappati dai colpi di pistola e dai pestaggi dei rosarnesi, non hanno più avuto il coraggio di tornare in quelle terre…
gli schiavi del nuovo millennio, braccianti privi di qualunque diritto, sono davanti ai nostri occhi tutti i giorni…
sono quelli che raccolgono le nostre arance, quelli che cadono dai ponteggi per costruire case, sono quelli che oltretutto vengono chiusi in un CIE senza aver commesso alcun reato.
BASTA CON LO SFRUTTAMENTO, BASTA CON LE FRONTIERE
CONTRO PADRONI E CAPORALI CHE SFRUTTANO E UCCIDONO
CONTRO LO STATO CHE CARCERA, ESPELLE, REPRIME E CONTRO TUTTI I SUOI SERVI CHE DENTRO I C.I.E. ESERCITANO IL LORO POTERE ABUSANDO FINO ALLO STUPRO.
Giuseppe Uva: la violenza è a sfondo sessuale
Emergono nuove circostanze che gettano una luce ancora più inquietante sulla morte di Giuseppe Uva, l’uomo di 43 anni morto il 14 giugno del 2008 nell’ospedale di Varese dopo un pestaggio subito nella caserma dei carabinieri.
Sembra che tra lui e uno dei militi che lo avevano fermato la notte precedente ci fossero degli screzi personali legati a una donna. Alberto Biggiogero condotto in caserma insieme ad Uva, e che racconta di aver sentito le grida atroci dell’amico provenire dalla stanza dove era stato rinchiuso tanto da chiamare il centralino del 118 per chiedere un intervento (circostanza che ha trovato piena conferma dalla registrazione della telefonata e dai successivi contatti del 118 con la caserma), ha sostenuto in un’intervista che Uva «aveva avuto una relazione con la moglie di un carabiniere e questo, in seguito, aveva promesso di fargliela pagare». Biggiogero non sa chi fosse questa donna, ma la sera del fermo per schiamazzi notturni accadde qualcosa di molto simile a quanto paventato dall’amico. Nella dettagliata denuncia presentata alla procura di Varese, Biggiogero descrive la scena: «Un carabiniere si avvicina a noi con uno sguardo stravolto urlando “Uva, cercavo proprio te, questa notte te la faccio pagare!”», quindi avrebbe cominciato a spintonarlo e picchiarlo per poi spingerlo insieme con altri colleghi in una delle volanti accorse. Insomma, stando alle parole del testimone, il movente del brutale pestaggio continuato in caserma e finito in tragedia avrebbe potuto essere quello del forte risentimento personale nutrito da un esponente dell’Arma che avrebbe coinvolto altri suoi colleghi. 
La presenza in passato di uno screzio con i carabinieri, sempre per questioni di donne (Uva era incensurato), viene confermato anche dalla sorella dell’uomo, Lucia. D’altronde la descrizione del corpo martoriato di Uva, in particolare le tracce di sangue sul retro dei pantaloni, la scomparsa degli slip, il sangue attorno ai testicoli e alla zona anale, lasciano supporre il ricorso a sevizie di natura sessuale compatibili col movente indicato. L’avvocato Anselmo, legale della famiglia, è più prudente e preferisce procedere con metodo: «Basterebbe poter consultare il traffico delle chiamate in uscita e in entrata sull’utenza del cellulare di Uva per accertare la verità». Per questo nei prossimi giorni depositerà una memoria avanzando diverse richieste per la riapertura delle indagini, tra cui la riesumazione della salma affinché venga realizzata una nuova autopsia finalizzata a nuovi accertamenti medico-legali sulla natura delle ecchimosi e dei lividi raffigurati nelle foto e la presenza di eventuali fratture e altri traumi.
Nel frattempo il procuratore capo di Varese, Maurizio Grigo, ha rivendicato «il corretto operato dei colleghi titolari del procedimento». In un comunicato ha reso noto che «il 30 settembre 2009 la dottoressa Sara Arduini ha aperto un nuovo procedimento proprio per verificare le nuove accuse della famiglia e le dichiarazioni rese da Alberto Biggiogero ed accertare ulteriori ipotesi di determinismo sull’accadimento».
Non vi sarebbero per il momento persone iscritte nel fascicolo degli indagati, ma a detta del procuratore «sono state espletate ulteriori attività istruttorie e altre ne verranno svolte, nel caso con la possibile partecipazione dei difensori». Per quanto riguarda, invece, il procedimento per omicidio colposo nei confronti dei due medici del reparto di psichiatria dell’ospedale di Varese che diedero assistenza a Uva durante il ricovero, il procuratore ha sottolineato che «si è in attesa della fissazione della prima udienza preliminare». A ventuno mesi dalla morte di Giuseppe Uva cominciano a trovare conferma molti elementi che smentiscono la versione ufficiale fornita dalle autorità. Tuttavia numerose domande attendono ancora risposta, tra queste il numero dei militi dell’Arma e degli agenti della polizia di Stato presenti nella caserma la notte tra il 13 e 14 giugno e perché questi non sono mai stati ascoltati.
Giuseppe Uva, altro assassinio per mano dello stato
Non è solo abuso di potere, non è solo infamia dello stato su corpi prigionieri, è sadismo, è una patologia di sopraffazione che ormai pervade le forze dell’ordine.
Eh si, non è un’esagerazione questa frase, proprio no perchè i numeri sono troppi, iniziano ad essere insostenibili anche agli occhi dei più ciechi. Non è possibile.
Non è possibile che si possa morire per un fermo in stato d’ebbrezza.
Non è possibile morire come Stefano Cucchi, o massacrato su un marciapiede come Aldro. Non è possibile morire come Marcello Lonzi, che sembrava inciampato in un secchio di vernice rossa in quella maledetta cella.
Non si può morire come Aldo Bianzino.
Ed oggi scopro che non si può morire nemmeno come Giuseppe Uva, 43enne, fermato da una volante dei carabinieri il 14 giugno del 2008, a Varese.
Ecco la sua storia:
Giuseppe Uva e Alberto Biggiogero vengono fermati in stato di ebbrezza verso le 3 di mattina di sabato 14 giugno 2008 da una volante dei carabinieri, mentre spostano alcune transenne bloccando l’accesso a una strada del centro di Varese. Uno dei due carabinieri all’interno della volante riconosce Uva, lo chiama per nome e inizia a inseguirlo mentre questo tenta la fuga. Alberto Biggiogero cerca di correre in aiuto di Uva, richiamato dalle grida di questo, per impedire al carabiniere di colpire l’amico. L’altro carabiniere, che guidava l’auto, lo immobilizza e gli impedisce di intervenire. Poco dopo sopraggiungono due volanti della polizia di stato, Biggiogero verrà spinto a forza in una di queste, Giuseppe Uva verrà invece costretto in quella dei carabinieri. Le tre macchine arrivano nella caserma dei carabinieri verso le 3.30 (i quattro agenti delle due volanti di polizia vengono raggiunti dall’altra volante in servizio quella notte, tutti e sei i poliziotti restano in caserma per le successive due ore fino a quando Uva non verrà trasportato in ospedale, saranno due di loro, tra l’altro, ad accompagnare in ambulanza Uva al pronto soccorso, secondo una procedura del tutto anomala). I due amici vengono separati, Biggiogero resta in una stanza collocata a sinistra dopo il portone d’accesso alla caserma, controllato a vista da poliziotti e carabinieri. Da lì sente chiaramente le urla dell’amico provenienti da un’altra stanza, posta probabilmente sulla destra del corridoio, per un lunghissimo lasso di tempo. Grida ai presenti di smetterla di “massacrare” l’amico e viene minacciato di subire la stessa sorte.
Verso le quattro del mattino, approfittando degli attimi in cui viene lasciato solo, chiama con il proprio cellulare il 118, chiedendo l’intervento di un’ambulanza in caserma perché lì era in corso un massacro. L’operatore del 118 dice che manderà un’ambulanza, dopo due minuti chiama in caserma per accertarsi che ci sia veramente bisogno dell’intervento del mezzo, riferendo di essere stato contattato da un signore che denunciava un pestaggio all’interno della caserma. Il carabiniere che ha risposto al telefono lo fa attendere in linea per verificare, al suo ritorno all’apparecchio dice che si tratta di due ragazzi ubriachi e che ora si sarebbero occupati di toglier loro il telefonino (la trascrizione delle due telefonate è agli atti e disponibile).
Biggiogero fa anche in tempo a chiamare il padre e chiedergli di venirlo a prendere prima che il cellulare gli venga portato via. Biggiogero dichiara, poi, di non aver sentito le sirene dell’ambulanza ma che dopo circa 20 minuti dalla sua telefonata si è presentato in caserma un uomo in impermeabile con una valigetta che viene indicato come “il dottore”. Nel frattempo arriva anche il padre di Biggiogero che riuscirà a portare a casa il figlio e si dice disposto a portare personalmente Uva al pronto soccorso. I carabinieri diranno che non ce n’è bisogno in quanto l’arrivo del medico è sufficiente. Alle 5 del mattino (presumibilmente mezz’ora dopo che Biggiogero e il padre uscivano dalla caserma) una telefonata dei carabinieri alla guardia medica richiede un’ambulanza e dice che alla persona fermata deve essere effettuato un Tso. Uva viene trasferito quindi al pronto soccorso dell’ospedale di Circolo, dove viene richiesto il Tso e così, dopo circa due ore (verso le 8.30 del mattino), Uva viene trasferito nel reparto psichiatrico presso lo stesso ospedale. Due ore dopo viene constatato il decesso per arresto cardiaco.
Dagli esami tossicologici risulta che gli sono stati somministrati dei farmaci, inequivocabilmente e tassativamente controindicati in caso di assunzione di alcol. L’arresto cardiaco è stato provocato da questo “errore”. La testimonianza del Comandate del posto fisso della polizia di stato ubicato presso il pronto soccorso dell’ospedale di Circolo riporta alcune affermazioni estremamente significative.
La prima: si è venuti a conoscenza della morte di Uva in ritardo “pur non trattandosi come si evince dall’allegato referto medico di evento non traumatico” (si legga: è stato un evento traumatico). La seconda: la salma di Uva giaceva “supina e senza abiti, con la parte ossea iniziale del naso in zona frontale, munita di una vistosa ecchimosi rosso-bluastra, così dicasi per la parte relativa del collo sinistro, le cui ecchimosi proseguivano con discontinuità, su tutta la parete dorsale, lesioni di cui non viene fatta menzione nel verbale medico di accettazione”. Il comandante aggiunge: “che non vi è traccia degli slip del de cuius e su chi abbia provveduto alla loro rimozione dal corpo, indumento tra l’altro, neppure consegnato ai parenti (probabilmente perché intrisi di sangue).
E tuttavia non si può sottacere il riscontro obiettivo di pseudo macchie ematiche riscontrate a tergo sui pantaloni poi posti successivamente sotto sequestro unitamente agli altri capi di vestiario con un particolare inquietante riscontrato anche sulle scarpe di stoffa che stanno verosimilmente ad indicare una estenuante difesa ad oltranza dell’uomo effettuata anche con calci”. Ciò è evidenziato dal fatto che “la parte anteriore di entrambe calzature destra e sinistra, si presenta vistosamente consumata”. L’autopsia è stata fatta in maniere platealmente sbrigativa e parziale, senza gli esami radiologici necessari ad accertare fratture e minimizzando o ignorando l’importanza delle lesioni presenti sul suo corpo, in particolare sul dorso e nella regione anale.
Aldo Bianzino: comunicato stampa
“Arrestati e condotti nel carcere di Capanne – Aldo viene portato in isolamento e Roberta nel braccio femminile – al termine di una perquisizione, firmata dal pm Petrazzini, trovate solo alcune piante di marijuana e 30 euro in contanti”.
E’ l’assurdo inizio della fine di Aldo. Uomo libero, consumatore e coltivatore di canapa che per questo viene arrestato e muore in carcere, in una città che si preoccupa soltanto di reprimere i consumatori e la “manodopera di strada” mentre rimane una piazza centrale del narcotraffico. A più di due anni da questa “misteriosa” morte, si tenta ancora di insabbiare la verità.
Infatti, mentre è stato rinviato a giudizio l’agente di polizia penitenziaria accusato di omissione di soccorso, viene archiviato il procedimento per omicidio, volendo farci credere che Aldo sia “stato ucciso” in carcere da un malore accidentale. L’ipotesi di morte naturale viene però formulata solo dopo la seconda autopsia sul corpo di Aldo.
Và ricordato che nella prima autopsia vengono riscontrate diverse lesioni “compatibili con l’ipotesi di omicidio” e i medici legali dichiarano probabile la sua morte per percosse. Nella seconda, con l’asportazione del fegato e del cervello, la sua morte viene fatta risalire a cause naturali, negando di fatto l’ipotesi delle percosse.
Una terza perizia viene richiesta dal giudice e affidata agi stessi medici legali! Il risultato? Il fegato di Aldo si sarebbe staccato in seguito ad un massaggio cardiaco (effettuato da medici competenti!). Dall’analisi dagli atti che giustificano l’archiviazione permangono diversi dubbi:
– Aldo viene ritrovato rannicchiato nel letto nudo con addosso una sola maglietta (che i familiari affermano non appartenergli) e con la finestra aperta, ad ottobre inoltrato.
– Al momento del ritrovamento del corpo di Aldo non è stata effettuata alcuna ispezione della cella numero 20 nella quale era stato rinchiuso.
– Nonostante viene affermato che dall’analisi delle riprese delle telecamere a circuito chiuso del carcere non risultino elementi rilevanti, non si parla del perché queste all’inizio vengono dichiarate non funzionanti mentre in seguito viene affermato che il loro funzionamento avviene con registrazioni ad intervalli regolari.
Inoltre come è possibile che lo stesso pm Petrazzini che ha ordinato l’arresto di Aldo sia anche quello che ha indagato sulle cause della sua morte? Non è corretto che uno stesso magistrato svolga contemporaneamente il ruolo dell’accusa e della tutela (ruolo della difesa) nei confronti della medesima persona. Al limite il magistrato che ha emesso l’ordinanza di perquisizione nei confronti di Aldo poteva essere sentito come parte in causa all’interno dell’inchiesta sull’omicidio, ormai archiviata. Questa è la “storiella” alla quale vogliono farci credere, dandoci come “contentino” il capro espiatorio di turno. In risposta ad uno stato che vuole controllare i cittadini e reprimere qualsiasi comportamento che sia difforme dalla norma, e ad un comune che non si è mai esposto su questa vicenda continuando invece ad alimentare politiche securitarie attraverso la privatizzazione del controllo sui nostri corpi e le nostre vite, noi continueremo ad opporci a questa sicurezza che vuole limitare le nostre libertà individuali e che allo stesso tempo lascia impuniti casi molto simili a quello di Aldo come quelli di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi e Stefano Frapporti, solo per citarne alcuni, ma che potrebbe capitare a tutti noi in qualsiasi momento. Continueremo quindi a diffondere lotte dal basso e consapevolezza perché non si può finire in carcere per qualche pianta d’erba in nome di una sicurezza che è solo repressione e morte.
Comitato Verità e Giustizia per Aldo
La polizia italiana nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne…le manganella!
Su Indymedia ci sono diverse pagine ormai che parlano di quello che è accaduto a Milano.
Insomma io riesco poco a commentare , perchè che cosa ci dobbiamo raccontare?? Nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne, un presidio di
donne, di femministe e lesbiche, migranti e non, è stato caricato e picchiato: il messaggio è arrivato più che chiaro.
Prendo da Femminismo a Sud questo resoconto, visto che riporta anche il volantino che le compagne stavano distribuendo, volantino che, insieme al comportamento avuto dalla polizia in piazza, è più che emblematico.
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Dalla lista antirazzista milanese riceviamo e giriamo: “Inviamo questa nota urgente per informare tutti che è in corso una pesante carica della polizia contro il presidio organizzato a Milano in occasione della giornata nazionale contro la/e violenza/e sulle donne. Non c’è modo allo stato attuale di restituire l’esatta dinamica degli avvenimenti. Ma è certo che si trattava di un presidio pubblico di contro-informazione e sensibilizzazione su quanto accade, in particolare all’interno dei CIE con un riferimento esplicito alle ultime proteste-rivolte e alle denunce delle donne immigrate contro il responsabile del CIE, Vittorio Addesso. La carica è di per sè un segnale allarmante ed inquietante del clima poliziesco che punta a zittire ogni forma di lotta, protesta e finanche contro-informazione.Saremo più precisi nelle prossime ore sugli avvenimenti e sulle sue conseguenze. […]”
E menomale che era la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Le cariche della polizia cosa sono? Carezze? Alla faccia della “sicurezza” in difesa delle donne…
L’appuntamento per il presidio indetto da femministe e lesbiche e tenuto contemporaneamente in altre città italiane era stabilito sulla frase “Noi non siamo complici”. Da quello che sappiamo la polizia ha caricato violentemente a più riprese il presidio di donne dopo che le donne si sono rifiutate di chiudere lo striscione su cui c’è scritto “In Corelli la polizia stupra”. Ci sono un po’ di contus* e due ferit* gravemente alla testa. Al presidio in Cadorna (organizzato Mai state zitte, Vespe, le donne di Conchetta, alcune del comitato antirazzista…) erano presenti circa settanta persone, non di più, quasi tutte donne, appunto. Causa scatenante sembra essere stato lo striscione, come riportato. E poi il problema è stato il megafono, perché la seconda carica è partita perché le donne megafonavano contro la polizia, denunciando alla gente che passava (e chiedeva) quello che era successo.
Questo il testo del volantino diffuso oggi a Milano alle 18.30 in piazzale cadorna:
25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne
Care signore e signorine,
tutte saprete che il problema della violenza sulle donne è di impellente attualità e si articola sotto svariate forme, dalla più cruenta alla più sottile e quotidiana.
Tutte avrete letto i dati ISTAT e scoperto che la maggior parte delle violenze si consuma tra le mura domestiche e viene compiuta da uomini italiani.
Tutte, una volta nella vita, vi sarete interrogate sull’influenza dell’immagine mediatica su ognuna di noi e sulle vostre bambine, scoprendo quanto il nostro corpo venga sfruttato e mercificato.
Tutte avrete affermato che non basta il 25 novembre, sarete uscite dal silenzio, urlando che è proprio questo a legittimare i sprusi.
Tutte, in questa giornata, avrete chiesto a gran voce più sicurezza, per poter essere libere di agire, senza dipendere dalla paura.
Tante di voi avranno cantato vittoria quando è stato approvato il decreto anti stupri, perchè facilita la denuncia da parte di ogni donna: dovrà essere creduta e, solo in un secondo tempo, smentita. Vittoria!
Oppure quando è stato approvato il pacchetto sicurezza, sono stati messi i militari a pattugliare le strade, hanno approvato le ronde cittadine, hanno aumentato a sei mesi il tempo di permanenza all’interno dei Centri di Identificazione ed Espulsione(CIE). Vittoria?
Eppure alcune non erano d’accordo ed hanno gridato che, in nostro nome, lo stato sdoganava una politica di razzismo e repressione passando senza scrupoli sui nostri corpi, altro che tutela delle sue donne!
Care signore, signorine, ora vi raccontiamo ciò che vi ostinate a non conoscere, rendendovi complici.
Vi ricordate i CIE, quei luoghi nei quali, anche per proteggerci, hanno rinchiuso per sei mesi immigrati ed immigrate, rei di non avere il permesso di soggiorno, grazie all’approvazione del pacchetto sicurezza?
Vi ricordate che, anche a Milano ne esiste uno? (Per chi fosse un po’smemorata e non si orientasse un gran che ricordiamo che si trova in via corelli. )
Ebbene, in questi luoghi vengono rinchiuse anche delle donne. Donne che conoscete: spesso lavorano nelle vostre case, accompagnano i figli nella stessa scuola dei vostri, o magari battono sotto le vostre finestre. Sono accomunate dal reato di non possedere il permesso di soggiorno.
Solitamente, dopo un controllo dei documenti(che non hanno) vengono prelevate dalla polizia e rinchiuse nelle gabbie di qualche Cie. Sono quelle che, d’un tratto, spariscono.
E che vita conducono le donne nei CIE? Questa non la ricordate proprio mai: violenze, soprusi, stupri, botte e minacce.
C’è il caso di Joy ed Hellen, che quest’estate hanno respinto il tentato stupro compiuto proprio dall’ispettore capo nel CIE di via Corelli,Vittorio Addesso, il quale poi, in occasione di una rivolta, le ha arrestate e picchiate, insieme alle altre. Joy ed Hellen hanno denunciato la violenza: Massimo Chiodini, responsabile crocerossa nel CIE, ha coperto Vittorio Addesso e la PM ha chiesto di mettere agli atti le loro dichiarazioni per poter procedere ad una denuncia per calunnia. La giudice ha accolto la richiesta.
E poi c’è Daniela, tuttora rinchiusa nel centro di Corelli: l’ispettore capo Vittorio Addesso, finchè lei non cederà alle sue richieste, la terrà per tutto il tempo che gli è consentito. Daniela, qualche settimana fa, per farsi rilasciare ha tentato di darsi fuoco.
E ce ne sono altre, signore e signorine. Le loro storie non sono giunte fino alle vostre orecchie? Non vi siete mai occupate di loro. Il vostro silenzio si è fatto complicità.
Eppure, tutto questo avviene in nostro nome, questo lo sapevate. Vi siete dimenticate che a uomini come Vittorio Addesso abbiamo delegato la nostra difesa: polizia, carabinieri, soldati. Lo Stato.
Ora lo sapete, signore e signorine. Non ci sono scuse: d’ora in avanti la vostra indifferenza sarà complicità. Scegliete da che parte stare.
Volantinaggio al San Camillo: contro i CIE, contro tutte le gabbie, in solidarietà con FAID
LO STATO UCCIDE: NEI CIE, NELLE GALERE, NELLE QUESTURE
I suoi servi negano, insabbiano, nascondono
C’è tensione nel CIE di Ponte Galeria. Da quando i reclusi non hanno più notizie di un loro compagno, di nome FAID, che nella notte tra venerdì 13 e sabato 14 novembre è stato portato all’ospedale per problemi cardiovascolari. Sembra che l’uomo lamentasse dolori da giorni e che dopo l’ennesima richiesta di soccorso l’abbiamo ricoverato all’ospedale S.Camillo. Già da domenica si era diffusa dentro al CIE la voce che FAID fosse morto ancor prima di arrivare all’ospedale, notizia che era stata confermata anche da un avvocato in contatto con due reclusi, mentre la Croce Rossa, davanti alle domande dei solidali e dei reclusi, ha continuato a negare tutto, come al solito, rifiutandosi di fornire informazioni sulle sue condizioni di salute e sul motivo del suo ricovero.
All’alba di domenica 15 novembre, invece, un altro recluso tunisino, di nome MOHAMED BACHIR, è stato ricoverato all’ospedale Forlanini perché probabilmente affetto da influenza A. E’ quanto hanno ipotizzato i reclusi ascoltando i crocerossini che l’hanno prelevato e che infatti indossavano mascherine su viso e naso. La cosa ha ovviamente diffuso il panico tra i reclusi all’interno del centro, che sono rimasti a contatto per giorni con il virus, al freddo, in spazi angusti e senza alcuna precauzione.
A Ponte Galeria infatti dall’inizio dell’inverno non funziona il riscaldamento e l’acqua calda sembra sia tornata in funzione solo da qualche giorno.
Solo oggi, martedì 17 novembre, apprendiamo che FAID è ancora ricoverato in ospedale in seguito a un’ischemia cerebrale e che fortunatamente, a quanto pare, non sarebbe in pericolo di vita, mentre BACHIR è riuscito a scappare dall’ospedale, ma non ci è dato sapere se sia davvero affetto da influenza A, né se vi sia un reale rischio di contagio all’interno del centro.
Tutto questo non fa altro che mettere nuovamente in risalto la complicità dei crocerossini nella gestione di questi lager e nello stendere un velo d’omertà e di silenzio su quanto succede al loro interno. Insabbiare e negare – che si tratti di torture, stupri o violenze – è quanto fanno la Croce Rossa e chi gestisce questi centri, complici di militari, governi e servi al loro seguito. Diffondere paura – dell’immigrato, del diverso, dell’emarginato – e sventolare il mito della sicurezza è quanto fa lo Stato per legittimare questi lager. La loro panacea è sempre la stessa: repressione e reclusione.
Così, per il silenzio che si stende sulla situazione di FAID e di BACHIR, per protestare contro le condizioni che si vivono in questi lager e contro il prolungamento a sei mesi della detenzione, buona parte dei reclusi della sezione maschile domenica scorsa è entrata in sciopero della fame. Anche se da ieri sera lo sciopero è stato sospeso, da dentro ci chiedono di mobilitarci dall’esterno, visto che loro la lotta la stanno già portando avanti, come ogni giorno, per la libertà.
Per questi motivi l’assemblea cittadina che si è tenuta mercoledì 18 novembre all’Ex Snia ha deciso di lanciare una mobilitazione di fronte all’ingresso principale dell’ospedale Forlanini,(p.zza Carlo Forlanini), per venerdì 20 novembre alle ore 17.00, per un volantinaggio in solidarietà con Faid.
Libertà per tutte e tutti
Contro tutte le gabbie
Chiudere i lager di stato, chiudere i CIE!
Nella tua città c’è un lager!
Chiudiamo il CIE di Ponte Galeria!
Loa Acrobax: Morire di Stato, 14 novembre 2009
Morire di Stato
Salutare un figlio. Rivederlo morto.
E’ il dramma di Patrizia, madre di Federico Aldovrandi, ucciso da quattro poliziotti durante un fermo.
E’ il dramma di Ornella madre di Nike Aprile Gatti, morto nel carcere di Sollicciano (Firenze),
E’ il dramma di Maria, madre di Manuel Eliantonio,morto nel carcere di Marassi a 22 anni.
E’ il dramma della mamma di Stefano Cucchi, morto in carcere a Roma dopo un arresto per pochi grammi di droga.
Uno stato che sottrae un figlio e lo restituisce morto, negando ogni possibilità di avvicinarlo, di esercitare il diritto di ogni madre di constatare la salute e le condizioni del proprio figlio, anche di chi si trovi in carcere.
In ricordo di Renato, accoltellato per odio e intolleranza nel 2006, le Madri per Roma Città Aperta vogliono interrogarsi su questi eventi, su queste maternità negate che calpestano i diritti dell’individuo e rappresentano un gravissimo segnale di deriva della nostra democrazia.
Anche queste morti appartengono al tema della sicurezza.
Sicurezza anche dei cittadini quando hanno a che fare con le istituzioni repressive e carcerarie. Per questo come madri non vogliamo dimenticare Nabruka Mimuni, la donna che si è tolta la vita nella notte tra il 6 e il 7 maggio di quest’anno nel lager di Ponte Galeria, alle porte di Roma.
Abbiamo contestato ai vari sindaci la risposta xenofoba e repressiva delle istituzioni a fenomeni di grave disagio e precarietà, che ha alimentato episodi di razzismo e violenza, opponendo, praticando e sostenendo la cultura della diversità e del rispetto.
Vogliamo affrontare il tema della sicurezza portandolo anche dietro le mura di un carcere o di un CIE. Vogliamo riproporre il tema dei diritti dentro la città e soprattutto nei luoghi dove sembra che rappresentanti dello Stato possano esercitare un diritto di vita e di morte su cittadini italiani e stranieri.
Come le madri argentine di Plaza de Majo, le madri cinesi di Piazza Tien-a-men e le madri iraniane hanno chiesto giustizia e verità per i loro figli, le Madri per Roma Città Aperta vogliono sostenere e dar voce ad ogni madre che voglia rivendicare la dignità e i diritti dei suoi figli strappati alla vita.
Comitato Madri per Roma Città Aperta
madrixromacittaperta@libero.it
Sabato 14 novembre ad Acrobax (ex Cinodromo), Ponte Marconi ore 17,30
– Incontro con avvocati, operatori del carcere, associazioni
– Cena per sostenere la famiglia di Manuel Eliantonio
Corte di Strasburgo su Carlo Giuliani: senza la minima vergogna!
NON RIESCO A SCRIVERE DUE PAROLE IN FILA CHE NON CONTENGANO PAROLACCE O BESTEMMIE.
QUINDI LEGGETE L’ANSA, DIFFONDETE L’ANSA, IMPARATEVELA A MEMORIA
NON SONO UNA PERSONA CHE PENSA CHE LA GIUSTIZIA LA FACCIANO I TRIBUNALI… MA STRASBURGO HA LA VELLEITA’ DI CHIAMARSI “CORTE EUROPEA PER I DIRITTI DELL’UOMO” E ALLORA O FA IL SUO LAVORO, O CHIUDE.
CORTE DEI DIRITTI DI UN NULLA DI NULLA, ANDATEVENE AFFANCULO
Il carabiniere che nel luglio del 2001 uccise Carlo Giuliani durante il G8 di Genova ha agito per legittima difesa.
Questo è quanto ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo in una sentenza resa pubblica oggi. I giudici di Strasburgo hanno quindi accettato la versione delle autorità italiane su come si sono svolti i fatti inerenti la morte del giovane. Secondo la sentenza, infatti, il militare che sparò a Giuliani non è ricorso a un uso eccessivo della forza, ma ha risposto a quello che ha percepito come un reale e imminente pericolo per la sua vita e quella dei suoi colleghi. La Corte ha dato invece ragione ai familiari di Carlo Giuliani riconoscendo come l’Italia avrebbe dovuto svolgere un’inchiesta per stabilire se il fatto potesse essere ascrivibile a una cattiva pianificazione e gestione delle operazioni di ordine pubblico. Per questo i giudici hanno stabilito che lo Stato dovrà risarcire 40.000 euro ai genitori di Carlo Giuliani.
Infine i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che, a differenza di quanto sostenuto dalla famiglia Giuliani, il governo italiano abbia cooperato sufficientemente con la Corte, consentendo di condurre un appropriato esame del caso. Nessuna violazione, dunque, dell’articolo 38 della convenzione che impone agli Stati contraenti di fornire tutte le informazioni richieste dai giudici di Strasburgo
Per amore della storia…
Sono passati diversi giorni dall’editoriale di Magris sul Corriere della Sera e da alcune risposte comparse su altre testate. Volevo riportare questa di Marco Clementi, comparsa qualche giorno dopo sulle pagine de L’Altro. La libertà di parola, la libertà di fare storia va difesa a denti stretti!
La storia è plurale. La memoria vittimaria rientra nella sfera privata e sembra più vicina alla vendetta che alla giustizia, se usata come rivendicazione
Marco Clementi L’Altro 4 agosto 2009
Un’intera generazione italiana, quella che ha fatto la lotta armata negli anni ‘70 e ‘80, scontate quasi tutte le pene dopo i secoli di carcere con i quali lo Stato l’ha punita, deve tacere. Questo, se non ho capito male, è il centro del discorso che sviluppa Claudio Magris sulle pagine del Corriere della Sera del 31 luglio. Lo studioso ammette che il brigatista può recuperare i pieni diritti civili e politici (anche se ciò, una volta scontata la pena, non avviene automaticamente ma bisogna attivare la procedura di “riabilitazione”), può esprimere la sua sulle piattole, se nel frattempo il carcere gli avesse fornito l’istruzione adeguata per farlo, ma non può dire una parola sul suo passato di combattente.
Certo, di fronte ad espressioni come quelle riportate nell’articolo e attribuite al militante di Prima Linea Sergio Segio – giustamente definite «pappa del cuore, vecchio vizio retorico italiano, posta sentimentale rosa vicina al rosso sangue versato» -, consiglierei al suo autore di tacere, ma non si vede perché tale raccomandazione debba essere estesa a tutti gli altri. In letteratura, come nel processo penale, la responsabilità è personale.
E così, il brigatista è un brigatista, e non un SS, un mafioso, uno stragista impunito. A ognuno il suo, per cominciare. E di brigatisti e brigatismo si deve allora parlare visto l’elenco di alcune delle vittime che fa Magris (non tutte peraltro colpite dalle Brigare rosse) considerate «le figure dell’Italia migliore, quella più libera e aperta e democratica, che avrebbe potuto e dovuto essere diversa da quella di oggi». Come se il motivo per cui oggi siamo qui è perché in Italia c’è stata la lotta armata. Intanto mi sembra uno strano recupero dei diritti quello di chi, riabilitato, può andare a votare per il Parlamento italiano ma non deve dire una parola sugli anni in cui fu protagonista. Da sempre i reduci hanno raccontato della propria guerra. Ma c’è dell’altro.
I brigatisti, primi e unici nella storia di questo paese, scelsero di rivendicare i propri delitti e di assumersene la responsabilità di fronte alla legge, indipendentemente dal loro coinvolgimento concreto. Al punto che molti sono stati condannati all’ergastolo per il sequestro Moro senza essere stati in via Fani, né in via Montalcini, né in via Caetani. Se avessero deciso di difendersi singolarmente, senza dichiararsi rei, la storia giudiziaria delle Br sarebbe andata molto diversamente e le condanne si sarebbero contate con numeri più piccoli. Che dire, poi, delle continue riforme del codice penale per adeguare la legge alla nuova situazione creata in Italia dalla presenza di questo gruppo armato? Tutto ciò induce a pensare che si trattò di una storia politica. Nessuno degli uccisori di allora lo fece per questioni personali; nessuno aveva un “conto aperto” da chiudere. Come ipotizza Magris, «pensava di costruire un’Italia migliore».
E le vittime, mi si dirà? E i parenti delle vittime? Perché è questo, in fondo, il contesto all’interno del quale si chiede, ovvero si impone ai brigatisti di tacere. Ma a quali brigatisti ci si riferisce? Ai pentiti, ai dissociati o ai cosiddetti “irriducibili”?
Le confessioni dei pentiti e quelle dei dissociati sono state qualitativamente differenti: i pentiti hanno offerto parole utili alle tesi dell’accusa in sede processuale (oltre che permesso in casi clamorosi l’arresto di decine di militanti), I dissociati hanno fornito ricostruzioni politiche della propria esperienza militante in linea con quella desiderata dello Stato. Lo hanno fatto molti anni dopo il loro arresto, contribuendo alla sconfitta politica della lotta armata, non a quella militare. A quanto risulta a chi scrive, i pochi ex-militanti della lotta armata che hanno partecipato in modo attivo alla memorialistica appartengono in maggioranza alla
schiera dei cosiddetti pentiti o dissociati. Per quanto concerne, invece, gli irriducibili, essi per lo più tacciono (e spesso i commentatori li accusano proprio per questo!) e anche quando parlano, come nel caso di Mario Moretti con un libro sulle Br per nulla apologetico, si sottolinea quello che non sarebbe stato ancora detto, perché è una verità predeterminata, quella che si vorrebbe ascoltare, non il pensiero di Moretti. Veniamo alla questione delle vittime e dei loro parenti. Il 9 maggio è il giorno della memoria delle vittime del terrorismo in Italia. Di tutte le vittime, senza distinzione di matrice, tipologia di attentato, obiettivo. Quest’anno, per l’occasione, la vedova Pinelli è stata invitata al Quirinale, dove ha incontrato la vedova Calabresi. L’iperbole è complessa, e va analizzata e spiegata. Da tempo ormai il calendario italiano si è riempito di giorni della memoria e del ricordo e si cerca di far passare l’idea che la memoria abbia una sorta di dignità parallela a quella della storia. Forse perché la memoria appartiene alle vittime, mentre la storia ai vincitori? In realtà non è così. La differenza è un’altra e ben più sostanziale. La memoria appartiene alla sfera privata, mentre la storia è pubblica. La memoria non si può verificare, laddove la storia attende un riscontro da parte della comunità scientifica. La memoria non sostituisce la storia, né si affianca ad essa; offre delle fonti, tutte da vagliare. Per questo, un incontro tra la vedova Pinelli e la vedova Calabresi può avere luogo solo nel giorno della memoria. Perché nella memoria si perdono i ruoli e Pinelli e Calabresi sono visti semplicemente come vittime. Nella storia, però, i ruoli sono attribuiti in un altro modo. L’assassinio di Pinelli è stato perpetrato all’interno di una struttura dello Stato nel corso di un’indagine sulla strage di piazza Fontana. Quello di Calabresi, in un contesto diverso e qualcuno che potrebbe spiegarcelo non vuole farlo. E, stranamente, a questi non si chiede di tacere. Ora, nel diritto moderno è lo Stato che regola il rapporto tra il reo e la giustizia, tanto che il pubblico ministero non difende i parenti delle vittime, ma sostiene l’accusa in nome del popolo italiano. La vittima, o i suoi parenti, si possono costituire parte civile, con un avvocato a rappresentarli. Il giudice, quindi, è terzo rispetto alle parti e non potrebbe essere altrimenti, da quando la dottrina giuridica e le costituzioni moderne hanno tolto alla famiglia il diritto di vendetta, sostituendolo con quello della giustizia. La memoria rientra nella sfera privata e sembra più vicina alla vendetta che alla giustizia, se usata come rivendicazione. Ovviamente i parenti di una vittima hanno tutto il diritto di scrivere, appellarsi e indignarsi. Non lo ha però lo Stato, che ha compiuto il proprio dovere arrestando i brigatisti e riuscendo a farli condannare, debellando il fenomeno. Dato però che lo Stato non dovrebbe vendicarsi, non può condannare nessuno né al silenzio, né all’oblio. Anzi, ne guadagnerebbe se, ora che la guerra è finita da tempo, si impegnasse per capire il motivo che ha indotto una generazione e una classe sociale a dire «mai più senza fucile», agendo di conseguenza. Gli ex lo possono spiegare, ed è interesse di tutta la comunità che lo facciano.
Link
Magris – Anni di piombo quei terroristi pentiti con la pappa nel cuore
Miccia corta e cervello pure
A Fabrizio Pelli, lasciato morire in carcere…30 anni fa
FABRIZIO PELLI
– Nasce a Reggio Emilia, l’11 luglio 1952
– Lavora come cameriere
– Milita nelle Brigate Rosse
– Viene arrestato a Pavia nel dicembre 1975
– Muore di leucemia nel carcere di San Vittore, Milano, l’8 agosto 1979
Documenti prodotti da organizzazioni armate
– Non ne sono stati prodotti, ma a Fabrizio Pelli vengono intitolate una Brigata e un’organizzazione armata a Salerno
Documenti prodotti da gruppi sociali
– Comitato di lotta del Campo dell’Asinara, “Onore al compagno Fabrizio Pelli” in: Controinformazione 16, Milano 1979
“Per ogni comunista la morte è un evento naturale e Fabrizio Pelli era comunista combattente.
Anche il mare più incurabile per un rivoluzionario è occasione di lotta e Fabrizio, con il suo comportamento, lo ha dimostrato a tutta la sua classe e ai suoi nemici, in quest’ultima, solitaria battaglia.

Fabrizio Pelli _Questa foto aveva le sbarre, quelle che lo hanno tenuto costretto fino alla sua morte: sono state tolto, almeno così è LIBERO_
Invano i corvi borghesi hanno atteso un suo cenno di debolezza per piegarlo, per ricondurlo al compromesso dentro l’ordine dell’oppressione. A nulla è servito tenerlo isolato fino all’ultimo istante, privato della posta e della vicinanza dei suoi compagni, negargli – come neppure il fascismo osava fare – di trascorrere le ultime ore di visita in compagnia dei suoi familiari, a casa sua.
La speranza delle iene è andata delusa di fronte ad un comunista che aveva maturato a fondo un principio essenziale: uomini che si rifiutano di interrompere la loro lotta, o vincono o muoiono, invece di perdere o morire!
Il Tribunale di Milano, così sollecito a concedere la libertà provvisoria per motivi di salute ai fascisti assassini di proletari come Braggion, non è che l’ultimo anello di una catena di infamie, cominciata proprio qui, all’Asinara, dove il medico Silvetti si guardò bene dal rilevare il reale stato di salute del compagno Fabrizio, quando nell’estate dello scorso anno cominciò ad accusare i sintomi della malattia.
I Campi di Trani, Fossombrone e Milano sono altrettanti anelli del suo progressivo annientamento che medici e direttori hanno perseguito con lucida e spietata determinazione in occulta armonia con i funzionari del ministero di Grazia e Giustizia. E non vogliamo dimenticare, in questo elenco di canaglie ancora viventi, carabinieri e poliziotti che hanno sottoposto i familiari di Fabrizio alle perquisizioni più vili e che in ogni modo hanno tramato per interrompere il proseguimento delle cure.
Noi proletari prigionieri del Campo dell’Asinara, che con Fabrizio abbiamo lottato e che, anche per il suo contributo, abbiamo rafforzato la nostra identità e la nostra organizzazione, oggi diciamo, senza alcuna retorica, che i suoi nemici sono anche i nostri, che i suoi assassini non resteranno impuniti!
Onore al compagno Fabrizio Pelli!
Onore a tutti i compagni caduti combattendo per il comunismo!”
Testimonianza al Progetto Memoria
– Renato Curcio, Roma 1994
“Ho conosciuto Fabrizio, Bicio per gli amici, nel 1969.
Aveva 17 anni ma, a Reggio Emilia, già da tempo aveva fatto parlare di sé. “Per un colpo di flobert indirizzato ai glutei di un politico del partito liberale”, mi dissero, tra l’ammirato e l’ironico i suoi compagni di allora.
Non aveva ancora 18 anni quando venne a Milano con tutte le sue curiosità per la metropoli. Ma ciò che veramente lo spingeva, in verità era una cosa sola: l’impegno militante a fianco di studenti e operai, di chiunque in qualsiasi modo lottasse, per cambiare le cose.
Si sentiva un po’ anarchico ma il fascino della rivoluzione bolscevica era su di lui così potente che trascorreva infinite notti a leggere, oltre ai testi canonici, qualsiasi saggio, opuscolo, libello che in qualche modo potesse arricchire le sue conoscenze. E se qualcuno per caso citava un’opera che gli era sfuggita, s’infuriava, non sembrandogli lì per lì possibile che quell’opera esistesse veramente. Se non era a volantinare, in qualche manifestazione o a organizzare qualche azione di lotta potevi star sicure che il suo tempo era speso in letture.
Politiche, s’intende. Una dedizione totale, senza mezze misure. Senza concedere a se stesso nemmeno gli spazi dell’esplorazione della vita.
Quando entrò nella lotta armata, nel 1971, se non era il più giovane certo si contendeva il primato. Proprio in relazione alla sua giovanissima età, con altri due compagni ci chiedemmo se fosse il caso di accoglierlo nella vita clandestina che, per ovvie ragioni, non è tra le più permissive. Ma a Bicio il carattere non faceva difetto e non ne volle sapere di tutti gli argomenti che gli mettevamo davanti per dissuaderlo.
Era molto orgoglioso e un po’ testardo. Capitava così che non accettasse di buon grado che altri gli insegnassero qualcosa. Ricordo che una volta si infuriò con un militante: non ritenendolo adeguatamente colto in dottrina marxista, gli negava il diritto di insegnarli a guidare l’automobile. L’altro, naturalmente, lo mollò giù dalla macchina, in piena campagna, dicendogli “Beh, ora vado a studiare, tu raggiungimi a piedi!”
Quando, nel 1975, dopo l’evasione da Casale, lo incontrai di nuovo, a Milano, Fabrizio si era innamorato. Nella sua vita era la prima volta. E il calore di questa nuova e magnifica esperienza scioglieva tumultuosamente tutte le sue rigidezze. Della sua proverbiale rigorosità, in quei giorni non rimase traccia. A metà della riunione più delicata, lui si alzava e borbottava “Scusate…”, in pieno candore se ne andava a telefonare. Alla vita clandestina il suo stato di grazia causò qualche problema, ma alla sua vita personale certo fece un gran bene.
Ho appreso la notizia del suo arresto alla radio, pochi giorni prima di essere a mia volta arrestato. L’ultimo nostro incontro, dunque, avvenne in carcere, all’Asinara. Alcune divergenze politiche che poco prima del suo arresto lo avevano portato a distaccarsi dalle Brigate Rosse non avevano in alcun modo intaccato il nostro affetto. I giorni trascorsi nella stessa cella, al bunker dell’isola, furono così pieni di confidenze sulla nostra vita privata. Giocammo a scacchi –costruiti con la mollica di pane – ridendocela a più non posso sul nostro incontro qualche anno prima, con quel gioco. Nel tempo della clandestinità, a Torino. Sull’onda del duello tra Carpov e Fisher Bicio aveva deciso di “sapere tutto” sugli scacchi, proprio come qualche anno prima aveva fatto con la rivoluzione bolscevica. S’era quindi comperato una scacchiera , tanti libri, riviste e s’era sprofondato nello studio. Venne finalmente il giorno della prima prova. Si sentiva pronto e col sorriso diceva: adesso ti faccio vedere… Ci provai col fatidico “scacco del barbiere”: scacco matto in pochissime mosse. E la sua inesperienza ebbe la peggio. Come al solito andò su tutte le furie e per un bel po’ di tempo di scacchi preferimmo non parlarne più.
All’Asinara mi disse anche dei malori che poco dopo lo portarono, rapidamente, alla morte. Ma di cosa effettivamente si trattasse, in quel carcere senza alcuna servizio medico, non fu possibile stabilirlo. Non si lamentò mai delle mancate cure: per lui era scontato. E anche questo, ricordando Bicio, non può essere più dimenticato”.

NON DIMENTICARE MAI
Nemesi
Non dimenticare
Non dimenticare mai
Non devi dimenticare
Alekos Panagulis
Carcere di Boiati, isolamento, marzo 1972
Scritta dopo una bastonatura particolarmente selvaggia durante uno sciopero della fame
Ancora con l’Italia delle Torture. Questa vola su militante arrestato il 31 agosto ’79, a seguito di un esproprio attribuito a Prima Linea
ADRIANO ROCCAZZELLA, DENUNCIA ALL’UFFICIO ISTRUZIONE DEL TRIBUNALE DI IVREA, G.I. ANTONIO TISEO, 24 GENNAIO 1980
“Quando fui arrestato nella zona di Alba Adriatica fui malmenato con i calci dei mitra, oltre a calci e pugni con le mani e con i piedi e insieme con me fu malmenata anche l’altra persona che fu arrestata contemporaneamente a me; Cesaroni fernando, il quale fu trattato nella stessa maniera. Fummo catturati contemporaneamente da CC e agenti della PS che, ho saputo dopo, provenivano dalla caserma di Nereto e dalla questura di Ascoli Piceno.
Durante il trasporto dal luogo di cattura fino alla caserma di Nereto, alcuni CC, attaccando i caricatori dei mitra, pieni di pallottole, mentre io ero costretto con le mani legate in modo molto stretto, mi colpivano con i caricatori contro il gomito del braccio destro, ed anche in testa. Riportai là delle lesioni sia al gomito, che divenne blu e mi doleva, tanto che non riuscivo a piegarlo, sia alla testa, dove il medico, intervenuto successivamente, rilevò dei tagli al cuoio capelluto.
Fummo condotti nella caserma di Nereto e nel corridoio della stessa passammo attraverso due ali di militari, che impugnavano mitra ed armi di ordinanza, anzi, preciso, fummo trascinati per le manette, che erano del modello a dentiera e che erano tanto tese da non permettere la circolazione del sangue ai polsi. Condottici in una stanza, volevano sapere le nostre vere identità in quanto noi eravamo forniti di documenti falsi e cominciarono a strapparci di dosso i vestiti con colpi di lamette.
A questo punto ci separarono di modo che ognuno di noi fu messo in una stanza. A questo punto io avevo già dato le mie vere generalità ed avevo dichiarato di appartenere ad un’organizzazione comunista. Nonostante ciò continuavano a malmenarmi per circa mezz’ora con calci dei mitra, colpendomi specialmente alla testa e sul naso. Dopo questo pestaggio ebbi un dolore costale, per cui penso che una costola dell’alto sinistro del torace fosse incrinata. […]
Dopo circa 2 ore che mi trovavo in quella stanza, durante le quali ogni tanto entrava qualche CC e mi appioppava calci e sberle, vennero due uomini in borghese che cominciarono ad interrogarmi, anzi preciso che uno dei due mi faceva delle domande, mentre l’altro mi colpiva con un pugno di ferro alla tempia, all’attaccatura della mandibola e alla nuca. […]
Nell’intervallo tra il pestaggio di cui ho parlato e le soste dovute al fatto che i due si recavano dal mio coimputato, venne nella stanza un carabiniere che indossava un blue-jeans ed una canottiera di lana, con un accento che mi sembrò meridionale, il quale, in un primo momento fece la parte del buono, promettendo che se avessi parlato egli si sarebbe adoperato per evitarmi ulteriori pestaggi.
Dopo 10-15 minuti costui perse la pazienza e, tirata fuori la cinghia dei pantaloni, prima minacciò di impiccarmi poi iniziò a colpirmi sulle spalle con la cinghia piegata in due, mentre io avevo tutto ciò che indossavo ridotto a brandelli. Ogni tanto entrava qualche militare e mi colpiva con calci ai testicoli nudi, mentre mi tenevano le gambe aperte, perchè non potessi ripararmi. […]
Poco prima dell’interrogatorio del giudice, probabilmente un sostituto procuratore, venne a visitarmi un medico, dopo che i CC avevano ripulito il mio corpo dalle tracce di sangue, che tuttavia, rimasero sui brandelli di vestito che avevo addosso. […] Agli atti istruttori esiste un certificato di quel medico che attesta abrasioni da me riportate al volto oltre cha tagli alla testa e una sospetta frattura del gomito destro. Il medico mi medicò sommariamente con un cerotto sul naso disinfettandomi un po’ i vari tagli da me sofferti. Prima che fossi introdotto davanti al giudice, mi misero in una stanza di fronte a quella dove si trovava il magistrato, insieme al mio coimputato, dove ogni tanto veniva l’uomo con il pugno di ferro e ci colpiva alla nuca con il medesimo. In quella stanza c’erano 6-7 militari ed un po’ tutti ci minacciarono di non riferire le percosse al giudice , perchè in caso contrario ci avrebbero eliminati. […]
Dopo mi portarono in una stanza dove mi presero le impronte digitali, dove per la prima volta da quando ero stato di fronte al giudice, davanti al quale avevano tolto le manette, mi tolsero le manette per prendere le impronte, dopo che mi costrinsero a firmare con la forza sul foglio sul quale erano le mie impronte. A questo punto, siccome non ero in grado di camminare da solo, fui trascinato da due uomini a lavarmi le mani e nel corridoio incontrai un altro ufficiale dei CC che mi sembrò un generale e che poi ho saputo essere venuto da Napoli. […]
Dopo che mi lavai le mani mi portarono in una stanza dove mi legarono con uno spago i testicoli e cominciarono a tirare. Successivamente seppi dal Cesaroni che gli avevano legato i testicoli mentre era sulla punta dei piedi e lo spago era attaccato agli infissi delle finestre, in modo che se egli avesse appoggiato i talloni per terra, si sarebbe strappato i testicoli.
Seppi anche da lui che gli avevano stretto i testicoli tra due sbarrette di legno, glieli avevano tagliati con le lamette e precedentemente avevano messo del sale grosso da cucina e dell’aceto sui tagli relativi alle ferite riportate dallo stesso in seguito ai pestaggi e poi avevano strofinato sia il sale che l’aceto sulle ferite ed infine gli avevano bruciato le piante dei piedi con un mozzicone di sigaretta.”
Tratto da “Le Torture Affiorate”. Edizioni Sensibili alle Foglie
I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis
Sparano…
ECCO APPUNTO…TANTO PERCHE’ TRA POCHE ORE SONO DA QUELLE PARTI. Atene, 09:28
GRECIA: ATENE, STUDENTE FERITO A UNA MANO DA PROIETTILE
Mentre in tutta la Grecia continuano le proteste di piazza per la morte del quindicenne Alexis Grigoropoulos, ucciso il 6 dicembre scorso da un proiettile vagante sparato da un poliziotto, alla periferia occidentale di Atene un altro giovane e’ stato raggiunto da una pallottola, che lo ha ferito a una mano: stando a quanto riferito da fonti di polizia, l’episodio e’ accaduto ieri sera davanti a una scuola di Peristeri, municipalita’ sub-urbana della capitale ellenica, mentre lo studente stava conversando con alcuni compagni. Al momento si ignora che possa aver esploso il colpo di arma da fuoco. Le condizioni delle vittima non destano preoccupazione, ma la vicenda rischia peraltro di alimentare ulteriormente la tensione nel Paese.
Nel frattempo è stato attaccato un parcheggio di proprietà della polizia speciale antisommossa e sono state date alle fiamme auto, pullman e jeep. Per le foto: http://lombardia.indymedia.org/node/11780
Il corpo di Manuel Eliantonio
“Mi picchiano ma uscirò”. Invece Manuel muore in cella.
di Valentina Perniciaro, Liberazione, 22 ottobre 2008
Manuel Eliantonio aveva appena compiuto 22 anni il giorno che è stato dichiarato morto, nel carcere di Marassi a Genova,per «dinamica non definita e patologia non identificata» dal medico del carcere. Dal giorno dopo la stampa nazionale racconta di un tossicodipendente deceduto in carcere dopo un’intossicazione da gas butano, sostanza spesso usata dai detenuti per stordirsi, in assenza di altre droghe.
La sera del 23 dicembre dello scorso anno una macchina con a bordo 5 ragazzi, di ritorno da una nottata in una discoteca di provincia, viene fermata dalla polizia stradale in un autogrill della A6 Torino-Savona. I fermati vengono obbligati alle analisi, che risultano positive: hanno assunto cannabis, cocaina e anfetamina. Manuel è l’unico dei cinque a reagire al fermo, fino al momento in cui tenta di fuggire dalla presa della polizia con la scusa di dover andare al bagno. Secondo la versione ufficiale è qui che compie l’ingenuità che lo porterà alla morte: Manuel si illude di poter fuggire, scavalca una rete metallica e si mette a correre tra i rovi che si trovano lungo l’autostrada. Viene ripreso immediatamente e a causa di quel tentativo di fuga è l’unico dei 5 a finire nella caserma di Savona.
Da lì l’immediata traduzione in carcere, con una denuncia per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale.
Il 16 gennaio riesce ad ottenere la scarcerazione e gli arresti domiciliari in attesa di giudizio. L’istanza di scarcerazione si è mossa a rilento per una serie di piccoli precedenti penali: il ragazzo era stato precedentemente condannato per qualche piccolo furto e per ricettazione, reati connessi alla sua dipendenza dalla cocaina.
Dipendenza che stava cercando di combattere con tutte le sue forze, tanto che da qualche mese era in cura al SERT, una cura che lo rendeva nervoso, depresso e spesso fiacco, ma che continuava per poter tornare ad una vita normale.
Rimane in carcere fino al 16 gennaio, quando gli vengono finalmente concessi gli arresti domiciliari in attesa di giudizio.
Il 25 marzo è nuovamente arrestato per non aver rispettato gli obblighi di dimora e a quel punto inizia il suo calvario. Nei 4 mesi di carcerazione che passano dal secondo arresto alla sua morte viene trasferito 4 volte. Dal carcere di Savona viene tradotto a Chiavari, poi a Torino per un’udienza (dove riesce a vedere i suoi familiari), poi di nuovo di passaggio a Savona, per finire , i primi di giugno, nelle celle del carcere genovese di Marassi dove morirà.
La condanna arriva il 4 giugno, durante la sua detenzione: 5 mesi e 10 giorni per resistenza a pubblico ufficiale. Si inizia a fare i conti dei giorni, programma una vacanza di una settimana con la sua fidanzata per la metà d’agosto, quando sarebbe dovuto uscire.
Il 20 luglio però, telefona dal carcere alla nonna: durante la telefonata denuncia di essere stato violentemente picchiato, di avere un occhio gonfio e totalmente nero e segni di botte su tutto il corpo. A quel punto la telefonata viene bruscamente interrotta dal centralino del carcere e la sua famiglia inizia a cercare l’avvocato per presentare un’immediata istanza di scarcerazione.
Appena 4 giorni dopo la mamma riceve una lettera con un timbro postale di due settimane prima, le parole di Manuel sono strozzate e sofferenti, quello che scrive è più che chiaro: «Carissime bamboline mie, mi dispiace che non vi ho fatto avere più mie notizie, ma anche io ho i miei problemi: mi ammazzano di botte almeno una volta alla settimana. Ora ho solo un occhio nero, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li risputo ma se non li prendo mi ricattano. Sono in isolamento almeno 4 giorni alla settimana, è già tanto che ricevo le lettere. Sto mangiando poco.Ho fatto il processo il 4 giugno, mi hanno condannato a 5 mesi e 10 giorni. Facendo i calcoli, con la galera che ho già fatto da dicembre, dovrei essere fuori i primi d’agosto, se Dio vuole.» La mamma, Maria gli scrive subite un telegramma «Resisti, manca poco. Ti aspettiamo» ma Manuel non lo leggerà mai.
«Avevo un brutto presentimento» racconta Maria, «avevo qualcosa dentro che non andava e la sua lettera confermava le mie sensazioni.
Ho provato a chiedere un colloquio straordinario per vederlo prima della fine della settimana ma non me l’hanno concesso.Comunque non avrei fatto in tempo: moriva la mattina dopo.Infatti, il 25 luglio alle 9.25 mi arriva quella maledetta telefonata da Marassi “abbiamo una brutta notizia da darle, suo figlio è deceduto ma lei inutile che viene qui che non c’è più”.
Ho chiuso la comunicazione e sono partita subito per Genova, diretta verso l’obitorio del San Martino. Nel mio cuore speravo in uno sbaglio di persona, pregavo non fosse lui. Non me l’hanno fatto vedere subito, poi sono riuscita ad entrare. Ho trovato mio figlio con una maglietta non sua, che gli stava molto piccola, completamente coperto di lividi su tutto il corpo, con delle chiare tracce di sangue che dal naso salivano verso la fronte e i capelli.
Ho riscontrato diversi segni di percosse sul suo corpo e non mi sono mai stati restituiti i vestiti che indossava mentre moriva.
La pecca di mio figlio era la cannabis e la cocaina, ma era un buono, non faceva male a nessuno. Doveva essere curato e invece me l’hanno ammazzato. I giornali hanno scritto che si è ammazzato da solo col butano, ma lui aveva il terrore del gas da quando aveva 6 anni. E’ l’unica cosa che lo terrorizzava»
Ma forse non serve questo a capire che il butano è stata una scusa di comodo usata per la stampa: perché il butano non uccide lasciando il corpo martoriato, il butano non fa venire emorragie interne, il butano non sfigura il corpo pieno di vita di un ragazzo di appena 22 anni.
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A Fabrizio Ceruso, 19 anni
FABRIZIO CERUSO, 19 ANNI. UCCISO DALLO STATO IL 5 SETTEMBRE 1974
Soltanto 19 anni per loro non eri nessuno
soltanto 19 anni e per loro non eri che uno
uno come tanti, un cameriere, un garzone d’officina
un operaio, un disoccupato un emigrante
eppure quella mattina 8 settembre
a San Basilio hanno mandato
più di 1000 uomini per ammazzarti
più di 1000 uomini che credevano bastasse spararti
e sono stati invece loro ad avere paura di te
Perchè quella domenica giù a San Basilio
eravamo in tanti a non essere nessuno
in tanti a difenderci le case
a farci la storia con le nostre mani
il proletariato sarà sempre per la rivoluzione
lo è stato Fabrizio Ceruso a 19 anni
se credevate di ammazzarlo avete sbagliato
Fabrizio è l’uomo nuovo che non muore mai
Fabrizio vive in tutti noi
nelle lotte del proletariato
altri giovani nel suo nome si preparano già la fossa
Il primo ministro, il presidente a dirigere le operazioni
per il tuo assassinio
lo stato maggiore riformista mobilitato a condannarti
perchè con gli estremisti non volevi sgombrare
una montagna di calugne per prepare, giustificare
la tua condanna, la tua sicura morte
Tanto per ammazzare un proletario
un comunista di 19 anni
per far pesare la sua morte
sulla lotta giusta lotta
Ma tanto sferragliare di truppe non è servito a niente
il sole rosso è rimasto nei tuoi occhi
la rabbia proletaria già l’ha detto
compagno Fabrizio noi ti vendicheremo
assassini di stato la pagherete e pagherete tutto
Ma tanto sferragliare di truppe non è servito a niente
il fiore rosso è rimasto sul tuo petto
il pianto amaro di tuo padre
il rumore prodotto nella coscienza di tanti
anche l’odio è prezioso
quando il popolo prepara la riscossa
na na nanana na na na nanana…
Roma, 5 settembre 1974. La lotta per il diritto alla casa era molto forte a Roma quando, il 5 settembre, nella borgata di San Basilio, all’estrema periferia est della capitale, la polizia interviene con un ingente schieramento, iniziando a sgomberare le quasi 150 famiglie che da circa un anno occupavano altrettanti appartamenti IACP in via Montecarotto e via Fabriano.
L’incontro fra la decisa opposizione popolare agli sfratti e la volontà dei militanti della sinistra rivoluzionaria di difendere una delle più estese occupazioni in atto nella città, portò a organizzare una dura resistenza, che sfociò in vere e proprie battaglie di strada.
Fin dalle prime ore del mattino di venerdì vengono erette barricate agli ingressi del quartiere con pneumatici, vecchi mobili e oggetti di tutti i tipi. La polizia, accolta da sassi, bottiglie incendiarie, bulloni lanciati con le fionde, spara centinaia di lacrimogeni, ma nel pomeriggio è costretta a sospendere gli sfratti.
Sabato, mentre gli occupanti hanno ripreso tutti gli appartamenti, e una loro delegazione si è recata in pretura e allo IACP, vengono di nuovo tentati gli sgomberi.
Questa volta a resistere ci sono centinaia di manifestanti affluiti da tutta la città, tra i quali numerosi membri di consigli di fabbrica.
La giornata trascorre in un susseguirsi di “tregue”, accordate dalla polizia a Lotta Continua, che gestisce l’occupazione, per dare spazio a quella che si dimostrerà una trattativa-truffa, con l’unico scopo di prendere tempo e fiaccare il forte schieramento proletario. La delegazione rientra a San Basilio con un accordo di sospensione degli sfratti fino al lunedì mattina.
Nonostante ciò, domenica 8 i poliziotti irrompono di nuovo nelle case occupate intimidendo le famiglie e abbandonandosi ad atti di vandalismo. Riprendono gli scontri.
L’assemblea popolare nella piazza centrale della borgata, organizzata per le 18 dal Comitato di Lotta per la casa di San Basilio, viene caricata con lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo. Nella battaglia che segue, mentre un plotone di polizia è costretto a ritirarsi, da un altro vengono sparati numerosi colpi di arma da fuoco.
Fabrizio Ceruso, 19 anni, militante del Comitato Proletario di Tivoli, organismo dell’Autonomia Operaia, è colpito in pieno petto da una pallottola.
Caricato su un taxi, giungerà senza vita in ospedale.
Alla notizia della morte del giovane comunista tutto il quartiere scende in piazza. La rabbia esplode in modo violento. I pali dei lampioni vengono divelti e le strade rimangono al buio.
Questa volta è la polizia ad essere presa di mira da colpi di arma da fuoco sparati in strada e dalle case. Otto poliziotti, tra i quali un capitano, rimangono feriti, alcuni in modo grave. Brevi scontri isolati si accendono fino a tarda notte. l giorno seguente avranno inizio le trattative per le assegnazioni di alloggi alle famiglie d San Basilio e agli occupanti di Casalbruciato e Bagni di Tivoli.
Manuel Eliantonio, 22 anni, morto in cella
Aveva 22 anni Manuel.
Aveva una condanna di soli 5 mesi per resistenza a pubblico ufficiale.
Ma non uscirà mai dalla cella dove l’avevano chiuso, nel carcere genovese di Marassi.
Cella dove lo massacravano di botte almeno una volta alla settimana, cella da dove veniva tolto per esser messo in isolamento ogni volta che le loro manganellate lo rendevano impresentabile.
Non tornerà da sua madre alla quale aveva spedito un’ultima lettera pochi giorni prima di morire: lettera agghiacciante, che ora la madre rilegge urlando il suo dolore e il suo odio.
«Cara mamma, qui mi ammazzano di botte almeno una volta alla settimana. Adesso ho soltanto un occhio nero, ma di solito…». E ancora: «Mi riempiono di psicofarmaci. Quelli che riesco non li ingoio e appena posso li sputo. Ma se non li prendo mi ricattano con le lettere che devo fare». E ancora: «Sai, mi tengono in isolamento quattro giorni alla settimana, mangio poco e niente, sto male».
Non solo è morto a 22 anni, ma i giornali si sono anche accaniti a manipolare la situazione facendolo passare per un tossico che si “sballava” con il butano del fornelletto da campeggio che aveva in cella.
Operazione schifosa portata avanti soprattutto da “Repubblica”.
«Mio figlio lo hanno ammazzato. Lo hanno pestato a sangue e lo hanno stordito con psicofarmaci. Lo hanno ucciso, e stanno cercando di coprire tutto. Voglio andare fino in fondo a questa storia. Mio figlio era malato. Non avrebbe dovuto assumere psicofarmaci. Doveva essere curato, non sedato. Avrebbero dovuto portarlo in ospedale se stava male, non abbandonarlo in una cella, solo».
«Doveva essere scarcerato il 5 agosto», racconta. «Quando la lettera è arrivata gli ho subito risposto con un telegramma: “Resisti, figlio mio. Resisti, è quasi finita”. Speravo di rivederlo tra qualche giorno, invece è arrivata soltanto quella maledetta telefonata da Marassi».
Il mio articolo su Liberazione: QUI
ODIO IL CARCERE
SANGUE DEL NOSTRO SANGUE
7 luglio 1960 – 7 luglio 2008
A 48 anni dalla strage di REGGIO EMILIA.
“COMPAGNO SIA BEN CHIARO, CHE QUESTO SANGUE AMARE VERSATO A REGGIO EMILIA E’ SANGUE DEL NOSTRO SANGUE, NERVI DEI NOSTRI NERVI, COME FU QUELLO DEI FRATELLI CERVI”
“Mio babbo aveva 41 anni. E’ morto sui gradini della chiesa di San Francesco, dove cercava riparo. Molto cristianamente il parroco aveva sbarrato le porte” _Oldano Serri, figlio di Marino_
“A mio fratello il proiettile si è fermato sulla spina dorsale, causando una paralisi, ma non era questa la preoccupazione. La preoccupazione era il fatto che si era recisa un’arteria, e con le trasfusioni l’han tenuto vivo fino all’una dopo mezzanotte, cosciente, e noi eravamo lì, io e mio fratello, a darci il cambio al suo capezzale. Io non sono riuscito a dirgli niente. Lui mi ha detto Gianni, mi han mirato come a un uccellino, mi han voluto uccidere.
Ma se muoio, vendicatemi.” _Gianni Tondelli_
1) TONDELLI AFRO, anni 36, ferita da arma da fuoco alla base dell’emitorace sinistro, regione inferiore, deceduto nelle prime ore della notte.
2) FRANCHI OVIDIO, anni 19, ferita d’arma da fuoco penetrante nel cavo addominale, deceduto alle ore 18
3) FARIOLI LAURO, anni 22, due ferite d’arma da fuoco, una in regione ascellare sinistra, mortale, e la seconda nella coscia destra. Giunto cadavere in ospedale
4) SERRI MARINO, anni 40, ferita d’arma da fuoco in regione toracica, deceduto alle ore 18
5) REVERBERI EMILIO, anni 38, ferita penetrante d’arma da fuoco in regione medio frontale e in regione sopraccigliare destra con frattura esposta della volta cranica, deceduto alle ore 21.
Un nastro, registrato durante la sparatoria, raccoglie attimo per attimo le fasi più drammatiche della strage. Dura ventisette minuti, dalle diciassette meno un quarto, alle diciassette e dodici. Si sente distintamente una voce di comando ordinare: SPARATE NEL MEZZO! L’ordine è seguito da una fucileria intensissima. Tra le violente raffiche affiorano grida di aiuto e si odono voci continue gridare: VIGLIACCHI! ASSASSINI! , un’accusa ripetuta instancabilmente mentre gli uomini cadono.
Una lunga assordante sparatoria chiude la drammatica registrazione.
CON QUESTE MAN DA CALLI, NOI LA FAREM VENDETTA!
Deprivazione tattile
“Sottratto al sociale, il corpo del recluso non ha modo di ricevere e cercare stimoli sensoriali. E, fra tutte le privazioni, quella della tattilità è forse la più grave e devastante. Così devastante che un bambino ne può anche morire.
Quando sul finire dell’800 la puericultura americana introdusse il “lettino con le sbarre”, soppiantando la tradizione della culla, cominciarono a verificarsi morti inspiegabili di bambini perfettamente sani. L’evento è passato alla storia come “morte da lettino” o “sindrome mortale infantile subitanea”. L’esperienza umana insegna che il cullamento è un moto di accarezzamento dell’intero corpo in ogni sua funzione.Una condizione essenziale di benessere che viene preclusa al “bambino fra le sbarre”.
Come la deprivazione tattile può far morire, così il toccamento può far rinascere.Il con-tatto umano è infatti una possibile cura in caso di coma irreversibile o per creature con lesioni cerebrali e handicap psicomotori. E’ il caso di quel centinaio di volontari che, a turno, andavano a casa di una bambina perchè potesse avere 24 su 24 l’unica medicina in grado di farla star meglio: il contatto umano: l’incontro e il toccamento di persone di ogni sesso, età, professione, cultura, che l’aiutavano negli esercizi di riabilitazione. La stimolazione è taumaturgica. L’assenza di tatto, invece, è dolorosa.
Tolgo dalle braccia -sotto pelle- frammenti di posate di plastica: le sole che si possono usare. Punte spezzate di forchette di plastica. Bastano piccoli taglietti e questi frammenti entrano sottopelle. Da quegli stessi taglietti, spingendo, tiro fuori le punte di forchette. Non c’è sangue, non c’è una goccia di sangue! Più ne tiro fuori e più, toccando, ne sento! Con un senso di fastidio, ma pazientemente, sto lì a tirar fuori questa plastica. Mi sveglio con un senso di angoscia. Quanta materia inerte ho assorbito in tutti questi anni attraverso i pori della pelle?
Penso al ferro, al cemento, alla plastica che tocco. Ed ai segni devitalizzati che mi invadono.E poi non c’è sangue! Senza che me ne accorgessi la morte mi è entrata dentro impossessandosi del sangue. Scrivo o racconto il sogno a chi posso , per lanciare un allarme. Bisogna avvisare, far presto, prima che l’inerte ci invada totalmente!”
tratto da “IL BOSCO DI BISTORCO”. Renato Curcio, Stefano Petrelli, Nicola Valentino. Edizioni Sensibili alle Foglie
Questo blog, inevitabilmente, parlerà spesso di reclusione, di privazione, di isolamento.
Si parlerà del carcere, dei meccanismi punitivi, di tortura fisica e psicologica, di ospedali psichiatrici giudiziari, di centri di detenzione temporanea per migranti…dei reietti. Di quelli che per lo stato devono marcire da reietti
Del diritto alla libertà, di quanto si può imparare dagli occhi di chi si è visto togliere tutto.
Col vento di questa sera non posso non pensare a chi è chiuso in una cella..con questo fischiare libero del vento, con questo piacere della pelle nel farsi attraversare da tanta forza.
CONTRO OGNI CARCERE, CONTRO OGNI GALERA.
GIORNO DOPO GIORNO!

























































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