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“Se un canto non saccheggia una stazione,a che serve la corrente alternata?”
Cantilenano le brigate dei vecchi
la stessa litania.
Compagni!
sulle barricate!
Barricate di cuori e di anime.
è vero comunista solo chi ha bruciato
i ponti della ritirata.
Basta con le marce, futuristi,
un balzo nel futuro!
Non basta costruire una locomotiva:
fa girare le ruote e fugge via.
Se un canto non saccheggia una stazione,
a che serve la corrente alternata?
Ammonticchiate un suono sopra l’altro,
e avanti,
cantando e fischiettando.
Ci sono ancora buone consonanti:
erre,
esse,
zeta.
non basta allineare,
adornare i calzoni con le bande.
Tutti i soviet insieme non muoveranno gli eserciti,
se i musicisti non suoneranno la marcia
portate i pianoforti sulla strada,
alla finestra agganciate il tamburo!
Il tamburo
spaccate e il pianoforte,
perché un fracasso ci sia,
un rimbombo.
Perché sgobbare in fabbrica,
perché sporcarsi il muso di fuliggine,
e, la sera,
sul lusso altrui sbattere gli occhi sonnacchiosi?
Basta con le verità da un soldo.
ripulisci il cuore dal vecchiume.
Le strade sono i nostri pennelli.
Le piazze le nostre tavolozze.
Non sono stati celebrati
dalle mille pagine del libro del tempo
i giorni della rivoluzione!
Nelle strade, futuristi,
tamburini e poeti!
VLADIMIR MAJAKOVSKJI
Aggressione al centro Ararat di Roma
Il giorno 26 novembre, tra le 22.30 e le 23.00, una trentina di uomini armati di bastoni di ferro a volto scoperto ha tentato di fare irruzione nel centro Ararat di Testaccio a Roma, entrando nel cortile antistante al centro, rompendo tavoli, sedie e vetri e costringendo i rifugiati politici kurdi lì ospitati a chiudersi dentro la sede.
Gli aggressori hanno ripetutamente minacciato i kurdi intimandogli di non uscire più da Ararat e di non farsi vedere per il vicino quartiere di Testaccio, che ospita numerosi locali notturni.
Solo il sangue freddo mostrato da alcuni dei rifugiati presenti ha impedito il precipitare degli avvenimenti.
L’episodio sembrerebbe una “spedizione punitiva” organizzata dal giro dei buttafuori di alcuni tra questi locali, infastiditi dalla presenza di alcuni rifugiati nelle vicinanze.
I carabinieri, accorsi sul posto dopo che queste persone si erano dileguate, hanno potuto accertare i danni e accompagnato i testimoni nei locali notturni della zona. Non è possibile tollerare o minimizzare questo atto gravissimo che ha avuto come obiettivo dei rifugiati, visti evidentemente come persone deboli che si può impunemente colpire. Chiediamo alle istituzioni e alla società civile di vigilare per evitare che episodi come quello di ieri sera abbiano a ripetersi con conseguenze non prevedibili.
Comunicato stampa della Rete Kurdistan Roma
Per info: 3498327322 – retekurdistanroma@gmail.com – ass.senzaconfine@gmail.com
Magari un po’ meno di fiducia nelle istituzioni e nella “società civile” sarebbe utile, ma vabbhé, poca polemica in questi casi.
Arrestata e liberata @angryarabiya
Zeinab al Khawaja è una donna straordinaria, che vive in Bahrain.
Un’attivista incredibile, istancabile, forsennata quasi nel suo non mollare mai, per la strada come in rete, nei tribunali come nelle carceri.
Si perché la storia di Zeinab, che conosciamo tutti grazie all’enorme e unico lavoro che fa in rete attraverso il suo twitter e il suo blog, è una delle più tristi di quel paese, il Bahrain, che sta massacrando la sua popolazione da mesi.
Da sempre: ogni volta che s’è provato ad alzare la testa per liberarsi del regime.
Il Bahrain però non molla, molla meno di molti altri paesi che in qualche modo hanno dovuto affrontare la primavera araba e il desiderio inarrestabile di farla fine con i regimi.
Zeinab ha suo padre in carcere, suo marito in carcere, suo zio in carcere: ma non la fermano lo stesso, anzi.
Se sappiamo qualcosa del Bahrain è grazie a questa donna, privata dei suoi affetti e di qualunque libertà, ma con un coraggio e una forza rara.
Oggi c’ha fatto decisamente prendere un colpo, durante l’ennesima manifestazione con scontri nella piazza delle Perle, a Manama, capitale del Bahrein: presa dalle forze di sicurezza, per un po’ non ha dato suo notizie, facendo mobilitare immediatamente migliaia dei suoi lettori.
Forse è stato questo il motivo, ma fortunatamente è tornata presto libera, almeno lei, di tornare a casa.
Bentornata alla libertà, cara @angryarabiya e non stare lì a scervellarti sul fatto che si più fortunata di altri, che il tuo nome risuona nel mondo e quindi non è facile impallinarti o darti il carcere a vita come è per gli altri: facciamo in modo che questo clamore abbracci anche tutti gli altri che lottano su quella rotonda, e per tutto il paese.
LIBERTA’ PER TUTTI I PRIGIONIERI DEL BAHRAIN
FREE BAHRAIN
QUI UN PO’ DI LINK DI QUESTO BLOG SUL BAHRAIN E LA SUA LOTTA PER LA LIBERTA’
Nel video le immagini di Zeinab, oggi
Ventiquattro anni, attivista in Bahrein, donna. Irriducibile.
di Annalena Di Giovanni
dal Bahrain
«Scendo in strada a protestare da quando avevo diciassette anni, ma il titolo di attivista di diritti umani me lo sono guadagnato soltanto l’anno scorso: finalmente la polizia mi ha picchiata. Qui, la gente è abituata che se sei un attivista devi aspettarti il manganello della polizia e finchè non ti capita, nessuno ti prende sul serio». Zeinab Al Khawaj, classe 1983, ha fatto il giro del mondo nelle foto che la ritraevano per le strade del Bahrein, munita di cartelli e megafono, a rivendicare i diritti della sua gente. Il padre, Abdelhadi al Khawaj, è tuttora sulla lista nera del governo al Khalifa, entrando ed uscendo dal carcere mentre la figlia si arrangia quotidianamente cercando di fare la giornalista in un paese in cui la stampa è cosa del re.
«Sono nata lontana dal Bahrein. Mio padre aveva studiava a Londra, poi ci siamo trasferiti in Danimarca. La pressione sulla mia famiglia era tale che mio zio venne arrestato per aver visto mio padre all’estero, e suo cugino sempliemente per avergli telefonato una volta. Sapevamo che rientrare nel paese sarebbe costato l’arresto a mio padre, e l’unica volta in cui ci ha provatoè stata quando è morto mio nonno; lo trattennero all’aereoporto per 14 gorni stracciandogli il passaporto ma non poterono arrestarlo e torturarlo perchè ormai era una figura troppo nota nelle associazioni per i diritti umani. Quel che faceva era semplicemente redigere rapporti per un’associazione di diritti umani su quanto accadeva in Bahrein. Negli anni novanta il notro paese era sottosopra, c’erano proteste e scontri con la polizia tutto il tempo. La gente del Bahrein, in genere, è molto sveglia dal punto di vista politico. E quando la gente conosce i propri diritti, difficilmente se ne sta zitta. Inoltre, al contrario degli altri paesi del Golfo – come gli Emirati arabi, dove i cittadini possono contare sul sostegno dello stato – , la povertà in Bahrein è altissima, e la minoranza sunnita governa una popolazione originaria sciita. E le ineguaglianze sono sotto gli occhi di tutti: ci sono i troppo ricchi e i troppo poveri, senza casa, senza lavoro e senza niente di cui sfamare la famiglia in una piccola isola che produce gas, petrolio e che è il centro mondiale delle banche islamiche. Anche adesso, quella del Bahrein rimane una dittatura. Ma è lontana dagli eccessi del precedente re Issa. Ai suoi tempi, la polizia semplicemente arrestava tutti, chiunque fosse in strada, compresi bambini di dieci o dodici anni. Le torture erano orrende: strappavano le unghie, usavano il ferro da stiro sui corpi, oppure li trapanavano. Alcuni torturatori erano personaggi molto noti, lo sono tuttora, sono sempre qui ed in genere fanno affari d’oro, ma per legge non li puoi processare o accusare di niente.»
«Non avevamo passaporto, nei paesi arabi eravamo sulla lista nera e il nostro solo documento d’identità era un pezzo di carta del governo danese, l’unico disposto ad accoglierci, che ci dichiarava profughi politici. Quindi sono cresciuta in Danimarca, ma sono venuta sù con la testa in Bahrein. Senza averlo mai visto. Frequentavamo soprattutto i profughi come noi, ci facevamo spedire le cassette della televisione del Bahrein, e a casa mia si poteva parlare solo arabo. E quando siamo arrivati qui per la prima volta,avevo diciotto anni. Per me è stato un ritorno a casa. Ho ritrovato una famiglia che non sapevo di avere: centinaia di cugini, zii, nonne. In Danimarca, non ero nessuno. Qui sono Zeinab alKhawaj, e so da dove viene la mia famiglia. Qui, so chi sono.
Qui sono diversa da tutti, perchè sono cresciuta in Europa. Ma infondo sono diversa da quando sono nata. Portare il velo, in Danimarca, mi aveva già resa diversa da tutti. Anzi, il trauma di tornare qui è stato proprio il ritrovarmi uguale a centinaia di altre ragazze! In Danimarca era difficile: piangevo tutte le notti dicendo che volevo tornare al mio paese. C’è un gran razzismo, la gente ti urla contro in strada a volte, non è cosa comoda essere musulmani e portare il velo da quelle parti. Devi essere forte, saperci passare sopra. Adesso che sono tornata qua, so che sono quella che sono anche perchè sono cresciuta là».
Il Golfo sta cambiando in fretta. Sotto una pioggia di milioni e cemento, la cultura araba lascia il posto ad un retaggio artefatto nel quale al Bahrein – una piccola isola forte di una cultura millenaria meticcia, pescatrice e sciita – si cerca di sovrapporre una storia inesistente, fatta di cammelli e gente del deserto. Qualcosa che la avicini a Dubai, insomma. «C’è grande eccitazione nel Golfo, senza che nessuno si fermi a chiedere chi pagherà il prezzo del cambiamento. In Bahrein la gente non si pone il problema perchè la lotta è quotidiana, ogni giorno qualcuno finisce in prigione sotto elettroshock e tortura, non hai tempo di chiederti come stia cambiando la regione. Potrei accettare quello che il Bahrein sta diventando se fosse ciò che la gente vuole. Ma sento che ci sono categorie non rappresentare. Il governo vuole far sembrare il paese qualcosa che non è. Come i villaggi, dove la gente povera è nascosta da una facciata di belle case per impressionre i turisti. Una maschera. Anche Dubai ha spazzato via la cultura che c’era. Se parli con la gente degli emirati, te lo confermeranno. Tutto nuovo, tutto grande, tutto straniero. Quando vado là, sento che non c’è alcuna cultura, puoi soltanto fare shopping. Voglio dire, anche New York è una città recente piena di nuovi grattacieli, ma ha una sua cultura no? Per questo preferisco il Bahrein, anche se il resto del mondo non sa dove sia e pensa soltanto a Dubai. Ma negli Emirati i cittadini non sono poveri, il governo li mantiene, quindi là non trovi la lotta sotterrnea che agita il Bahrein, diviso com’è fra una maggioranza sciita povera ed oppressa ed una minoranza sunnita che ha in mano il paese, il petrolio, che manipola la storia e cancella la nostra identità persino nei testi scolastici. Passiamo il tempo a chiederci se faremo la fine dei nativi americani! Uno dei problemi che abbiamo, ad esempio, è che non abbiamo più accesso al mare, perchè la speculazione edilizia ha venduto tutte le spiagge agli stranieri. Ma noi siamo isolani, abbiamo bisogno del mare! Se vivrei a Doha o Dubai? Questo è il mio paese, e sento di avere degli obblighi nei suoi confronti. Mio padre dice sempre “Più cose sai, più resonsabilità sulle tue spalle”. E io sento la responsabilità di dover cambiare il mio paese, anche se è talmente frustrante».
Se nel Golfo stiamo diventando più religiosi? Credo che sia un fenomeno locale, non soltanto ristretto alla questione sciiti-sunniti in Bahrein. è un discorso identitario: vuoi cercare di preservare quello che sei. Ovunque vai, in Bahrein, trovi un Pizza Hut o un Macdonald. Ogni cosa è americana, film compresi. A volte ti fermi e pensi: io non sono così, non provego da questo mondo. Credo che per questo molta gente ricorre alla religione. Perchè, almeno nel nostro caso, la cultura popolare si è formata intorno alla religione. una questione culturale. In più, c’è il fattore dell’islamfobia mediatica, il fatto che noi musulmani siamo ritenuti tutti terroristi. Più hai l’impressione che la gente abbia dei pregiudizi su ciò che sei o credi, più ti ci attacchi».
«Poi c’è la questione dei diritti delle donne. Non siamo abbastanza protette dalle istituzioni, eppure la gente è ossessionata soltanto dalla questione del velo e dell’abbigliamento perde di vista i veri problemi. Ad esempio, le corti religiose (che regitrano matrimoni e divorzi, nda) qui sono molto ingiuste. Ti chedono tante di quelle prove, se vuoi divorziare da tuo marito. Eppure il divorzio, nell’Islam, è un diritto, tantopiù se tuo marito ti maltratta. Invece qui senti un sacco di aneddoti su donne che vanno in corte, dopo essere state picchate diverse volte, magari con un braccio rotto, e si sentono dire: “torna a casa e risolvila con tuo marito”. Poi ci sono le donne divoriate, spesso emarginate o lasciate senza alimenti. Ma la gente perde di vista questi problemi e si concentra sul velo. Adesso c’è tutta questa moda di attivismo in stile: “Vogliono obbligarci a portare il velo, ha ragione l’Occidente!” il fatto è che qui la questione non è il velo. Il velo è soltanto un pezzo di stoffa in testa. Puoi metterlo o non metterlo, non è una questione di diritti civili. I problemi, per le donne, sono ben altri. Ma la stampa occidentale ha trasformato il velo in un simbolo di oppressione. Ed è andata a finire che un sacco di gente, ormai, quando sente le donne rivendicare diritti la boccia come propaganda occidentale anti-velo, e il discorso si chiude lì.»
Siria e l’esercito di italiani che sostengono la repressione
Non posso non girare quest’articolo, perché è una boccata d’aria.
Grazie di cuore, veramente
mentre a quelli che nei forum rivoluzionari mi danno della refardita perché ho pubblicato quest’articolo argomentando che siccome Trombetta scrive sulla Stampa sia per forza un venduto..ehehe, teneteve diliberto, la repressione, i cecchini e i carri armati, altro che le scintille rosse.
la sola cosa sana che ho letto in quelle righe è che è proprio dura star nel movimento: vero, è durissimo se voi siete la compagnia!
Siria, un esercito di Italiani sostiene la repressione
di Lorenzo Trombetta, Europa Quotidiano)
Preti, monaci, diplomatici, lettori di arabo nelle università, accademici, presidi di facoltà, giornalisti, segretari di partito, deputati. In Italia un vero esercito di insospettabili sostiene a spada tratta la tesi del Complotto ai danni del regime di Damasco, finendo colpevolmente a sostenere la repressione in atto in Siria da oltre otto mesi e che ha causato finora l’uccisione documentatadi oltre 4.000 persone.
La loro tesi è che la Siria in rivolta non esiste. Esiste un popolo in ostaggio di uno scenario reale (il regime degli al-Asad in piedi da 41 anni) e di due potenziali minacce: l’invasione della Nato e la conseguente occupazione americano-sionista o l’avvento di un emirato salafita oscurantista anti-tutto.
Il compito di questa legione di sostenitori italiani di al-Asad – tra cui spiccano numerosi esponenti più o meno noti del fronte antagonista trasversale tra destra e sinistra – è delegittimare la rivolta in corso. Descriverla come una montatura delle due principali tv satellitari arabe (al-Jazira e al-Arabiya), parte di un complotto americano per contrastare l’ipotetico fronte irano-russo-cinese, simbolo per loro della Resistenza al Male.
Questi lealisti italiani diventano improvvisamente esperti di linguaggi mediatici, arabisti provetti, studiosi di Islam, professori di storia del Medio Oriente. Altri ammettono più candidamente la loro ignoranza, affermando di voler raccontare la Verità dopo un breve soggiorno nelle tranquille vie di Damasco, visitata per la prima volta senza conoscere una qaf di arabo.
Ciascuno per la propria parrocchia: dai Musolino e i Diliberto dei Comunisti italiani fino a quelli di Progetto Eurasia, passando per tanti altri con cui ho avuto in questi mesi occasione di confrontarmi direttamente o indirettamente, o di cui ho letto in Rete le loro riflessioni.
Accomunati dall’antagonismo all’imperialismo americano e dalla ricerca di visibilità, parlano moltissimo di Stati Uniti, di Israele, di al-Jazira e di salafiti, e pochissimo invece degli oltre 22 milioni di esseri umani che abitano la Siria. E visto che sulla questione siriana, i grandi gruppi editoriali italiani oscillano tra l’indifferenza e il sostegno alla tesi della rivolta di popolo contro il regime, per gli anatagonisti “esser contro” oggi significa anche esser contro i rivoltosi siriani. Che mentre si fanno ammazzare come mosche, sono a loro insaputa difesi dai grandi media del sistema. Agli occhi di questi professori, giornalisti, intellettuali e docenti, la morte dei civili siriani uccisi dalle forze di al-Asad non vale, ad esempio, come quella dei civili di Gaza uccisi da Israele. Semplicemente perché la questione palestinese serve la provinciale causa antagonista italiana. Mentre quella siriana li costringerebbe a mettere in discussione il loro credo ideologico.
Si negano così le uccisioni, gli arresti, le torture. Pratiche non certo nuove nel panorama siriano dell’ultimo mezzo secolo (dall’avvento del Baath, di fatto il partito unico, nel 1963), ma inedite per la vastità delle aree del Paese in cui vengono compiute e per la sistematicità ormai giornaliera con cui vengono commesse. Una realtà negata affermando che le decine di migliaia di testimonianze video non sono autentiche. Da otto mesi ho potuto visionare centinaia degli oltre 73.000 filmati amatoriali postati sui vari canali Youtube della rivolta. Non sono artefatti negli studi televisivi di Doha o Dubai, come molti antagonisti sostengono. Non sono registrati a Tripoli in Libano o a Falluja in Iraq negli anni passati come i lealisti affermano. Si riconoscono le strade delle principali località siriane. Si ascoltano i vari accenti locali. Si leggono targhe delle auto e le prime pagine dei giornali del giorno. Si vede con chiarezza il sangue schizzare dal foro della pallottola sotto la nuca di un bambino o sullo sterno di un giovane. Sono filmati autentici e sono un prodotto dei civili siriani in rivolta.
Gli analisti del Complotto e i paladini della Verità non sanno cosa rispondere alla domanda sul perché siamo costretti a basare gran parte dei resoconti su quanto avviene negli epicentri della repressione sui filmati amatoriali di Youtube. Né sanno rispondere alla questione sul perché in Siria non esista una stampa non controllata dal regime, sul perché numerosi giornalisti siriani non sono liberi di circolare e lavorare liberamente nel loro Paese. Sul perché è molto raro che un giornalista straniero – arabo o non arabo – possa documentare, anche e soprattutto visivamente, cosa sta accadendo a Idlib, Homs, Daraa, Hama.
Mazen Darwish, direttore del Centro siriano per la libertà giornalistica e di espressione, da anni impegnato nella lotta contro le violazioni contro gli operatori dell’informazione, ha documentato dal 15 marzo al 9 novembre, 117 casi di arresto e maltrattamento di giornalisti in Siria
Lo ha fatto presentando una lista completa di nomi, cognomi, affiliazione professionale, date e – ove possibile – luoghi di detenzione, tipo di maltrattamento e procedura giudiziaria seguita nei confronti di giornalisti siriani, e arabi e non arabi.
La realtà viene negata anche sostenendo che sono false o gonfiate tutte le testimonianze raccolte finora da noi reporter che non possiamo andare in Siria. Si tratta di racconti ascoltati e registrati dai profughi fuggiti in Libano, in Giordania e in Turchia.
Sommando il numero di siriani fuggiti in questi tre Paesi otteniamo la cifra approssimativa di 20.000 persone, per lo più civili. Sono tutti agenti del Complotto? Sono tutti sul libro paga dei sauditi, per conto degli americani e dei sionisti? E noi giornalisti siamo tutti prezzolati e in malafede oppure grandi ingenui pronti a riportare ogni parola senza verificare?
Altri analisti lealisti italiani affermano che l’Osservatorio per i diritti umani in Siria (Ondus), una delle principali fonti di informazioni sulle violazioni giornaliere commesse nel Paese, diffonde ogni giorno menzogne e che riceve soldi dall’estero, perché il suo presidente trasmette le notizie da Londra.
E’ vero: Rami Abdel Rahman è ora basato nella capitale britannica ma nessuno si chiede perché non possa lavorare e vivere nella sua Siria? L’Ondus è comunque attiva e opera in Siria con una rete in loco di attivisti e ricercatori nel campo della difesa dei diritti umani – ora anonimi per ovvie ragioni di sicurezza – da almeno dieci anni. Di loro davo notizie ben prima che i vari analisti e turisti per caso si scoprissero difensori degli al-Asad.
Che dire poi del pestaggio subito dal vignettista Ali Farzat a Damasco? Dello sgozzamento del poeta Ibrahim Qashush a Hama? Dell’uccisione del fotoreporter Farzat Jarban a Qseir, vicino Homs? A Farzat hanno spezzato le dita con cui disegnava le caricature contro il regime. A Qashush hanno tagliato le corde vocali con cui aveva cantato la canzone “della rivoluzione”. A Jarban hanno cavato gli occhi. Gli abitanti di Qseir lo hanno trovato morto domenica 20 novembre fuori città dopo appena 24 ore dal suo arresto.
Chi è responsabile di questi crimini? Gli antagonisti sono pronti a dire che le bande di terroristi armati sono dietro il pestaggio di Farzat, lo sgozzamento di Qashush e la barbara uccisione di Jarban. Per dare la colpa – affermano – al governo di Damasco.
Domanda: perché avventurarsi in una simile e improbabile acrobazia logica, inventando entità (“bande armate di terroristi”) di cui nessuno ha ancora mai dimostrato l’esistenza pur di salvare un regime, i cui crimini sono invece noti da decenni e sono così simili a quelli commessi dal 15 marzo ad oggi?
Chi si ostina a voler credere alla retorica del regime, deve però avere la coerenza di andare fino in fondo. Qualche esempio: il presidente Bashar al-Asad continua a ripetere che sì, sono stati commessi “alcuni errori” dalle forze dell’ordine, ma che di questi “errori” terrà conto la Commissione d’inchiesta incaricata di far luce sugli “eventi in corso”. Sin da metà aprile, a circa un mese dall’inizio delle proteste e della repressione a Daraa, le autorità – Bashar in testa – hanno annunciato la creazione di una commissione d’inchiesta, che non aveva però la possibilità di lavorare se non sotto lo stretto controllo del regime. Da mesi non si ha più notizia dei risultati, seppur parziali, del suo lavoro. Perché?
Analogamente, a metà maggio, le autorità siriane annunciavano la creazione di una commissione d’inchiesta sul ritrovamento di una fossa comune a Daraa, contenente i corpi di almeno cinque persone, tutte membri della famiglia Abazid. Da allora, più nessuna notizia. Perché?
Un’altra commissione d’inchiesta è ufficialmente a lavoro, sempre da maggio, per alcuni “errori” commessi dalle “forze dell’ordine” a Banyas, sulla costa. Nessun’autorità siriana o media ufficiale ne parla più. Perché?
Su più larga scala, non si ha notizia alcuna dei processi a cui dovrebbero esser sottoposti le centinaia di terroristi che ogni giorno, sugli schermi della tv di Stato e sulle pagine del sito Internet dell’agenzia ufficiale Sana, vengono mostrati come rei confessi di aver compiuto ogni tipo di barbarie contro i civili e “le forze dell’ordine”. Perché?
Si tratta sempre di siriani (per la prima volta il 22 novembre si è appreso che un saudita di madre siriana è stato ucciso a Homs. Un po’ poco per denunciare orde di sauditi salafiti in Siria), molto spesso con la barba (“fondamentalisti”…) e originari delle zone rurali (“arretrati”…). Ma non si capisce perché mai da otto mesi siano in attesa di giudizio. Non è stato forse abolito lo stato d’emergenza? O forse i processi sono già iniziati, o addirittura le condanne sono state emesse, senza che la stampa “libera” di Damasco ne abbia dato conto?
A proposito dei fermati dal 15 marzo ad oggi: il 20 novembre gli attivisti fornivano una lista di oltre 14.000 persone ancora in stato di arresto, moltissimi in luoghi di detenzione sconosciuti ai parenti dei fermati. Il regime non ne dà conto. Perché?
Eppure, tra il 5 e il 15 novembre scorsi, le autorità hanno liberato – dandone notizia sulla Sana e sulla tv di Stato – circa 1.800 “fermati che non si sono macchiati di crimini di sangue”. Su che basi li hanno liberati?
Se fosse così – oh antagonisti e lealisti – non è forse questa una violazione della sovranità della Siria di fronte alle ingerenze esterne? Rimaniamo all’interno della logica del regime: anche se non hanno commesso crimini di sangue, quei 1.800 saranno pure stati fermati con un motivo valido, perché sospettati di aver commesso qualche crimine. Perché rilasciarli? Non sono più “terroristi”? Non sono più “agenti del Complotto”? Non sono più un pericolo alla sicurezza pubblica?
E ancora: la sera del 15 novembre, la tv di Stato ha trasmesso le immagini di alcuni di questi fortunati “terroristi” tornati in libertà: ripresi in quella che sembra essere un’aula scolastica, sono apparsi i volti di queste decine di ragazzi e uomini, quasi tutti con la barba, e nessuno con segni di percosse o tortura sul volto, tutti con l’aria di provenire da sobborghi degradati o dalle campagne.
Tra loro, si è appreso l’indomani, c’erano anche il medico Kamal Labwani, prigioniero politico di lunga data, e Rafah Nashed, psicanalista siriana arrestata ad agosto. Perché il fermo di questi due siriani non era mai stato ammesso dalle autorità.
La Nashed, che dopo un mese dall’inizio delle proteste e della repressione aveva avviato a Damasco un laboratorio di terapia di gruppo ”per sconfiggere la paura”, era stata accusata di incitamento al sovvertimento del sistema politico e violazione dell’ordine pubblico, e rischiava una pena di circa sette anni di detenzione. Né la Sana né la tv di Stato hanno mostrato le immagini della Nashed e di Labwani rimessi in libertà. Forse perché non avevano la barba? (Pubblicato su Europa Quotidiano il 25 novembre 2011).
Tahrir e la marcia del milione contro lo SCAF … un po’ di immagini di questi giorni

La piazza, che da una settimana porta avanti la più dura delle battaglie, contro quello stesso esercito di cui si son fidati una manciata di mesi fa

Quasi 40 i morti fino a questo momento, tra colpi di fucile e soffocamento da gas di cui non c'è ancora dato sapere la composizione, ma i cui effetti abbiamo visto tutt@

La sinistra, i salafiti, gli ultras, gli studenti, copti e molte organizzazioni hanno chiamato alla grande marcia per questa mattina. I Fratelli Musulmani, ormai completamente collusi nelle dinamiche pre-elettorali, boicottano la piazza...

Forza Egitto, oggi può essere una grande occasione, anche per rispondere alla nomina di Ganzouri di ieri sera, ennesima presa per il culo dello SCAF

CONTRO L'ESERCITO, CONTRO I TRIBUNALI MILITARI, CONTRO LA GRANDE PRESA PER IL CULO A CUI NON VOGLIONO ASSOLUTAMENTE STARE! W LA RIVOLUZIONE EGIZIANA, CHE NON SI LASCIA PRENDERE IN GIRO
Noi, giovani palestinesi, rifiutiamo che Al-Aqsa e la causa palestinese vengano utilizzate come strumento per colpire la grande rivoluzione egiziana.
L’Egitto è testimone di una nuova ondata rivoluzionaria condotta da coraggiosi/e giovani egiziani/e che rifiutano che lo SCAF dirotti la loro rivoluzione. Mentre i/le giovani stanno resistendo all’oppressione delle forze di sicurezza, i Fratelli Musulmani hanno chiamato ad una marcia milioni di persone in solidarietà con Gerusalemme.
Consideriamo questo appello come una deviazione rispetto tutti i movimenti e settori egiziani che hanno annunciato per domani, venerdì, un corteo enorme per far cadere il Generale Tantawi.
I Fratelli Musulmani hanno il diritto di prendere le loro decisioni nelle questioni interne all’Egitto. Ma rifiutiamo che i Fratelli Musulmani prendano la testa dei tiranni arabi che sistematicamente usano la causa palestinese come strumento per praticare la loro oprressione.
La libertà di Al-Aqsa e della Palestina non arriverà passando sopra la dignità delle popolazioni arabe.
Siamo solidali con gli eroi di Piazza Tahrir e di tutte le città dell’Egitto.
La Palestina è più forte con un Egitto libero.
Tahrir si prepara al grande venerdì: oggi è stata un’altra lunga giornata
Dispiegatevi in marcia!
Non c’è posto per cavilli di parole.
Oratori, silenzio!
(Vladimir Majakovsij)
Sarà Kamal Ganzouri l’incaricato a formare il nuovo governo egiziano, su richiesta del Consiglio Supremo delle Forze armate del paese, che negli ultimi 6 giorni è stato responsabile della morte di 38 persone e 2256 feriti.
Oggi è stata una giornata relativamente più calma di quelle precedenti: tutto si muove intorno all’organizzazione della piazza di domani, forse il più importante venerdì da quando è iniziata l’avventura di Tahrir, cioè l’esplosione del desiderio di abbattere il regime, che ha coinvolto ogni provincia e villaggio del paese.
Il regime è solidissimo al suo posto, malgrado Mubarak e figli siano in attesa di giudizio in stato di detenzione; la transizione garantita dall’esercito s’è trasformata nel solito carnevale di repressione, tortura, tribunali e carceri militari per centinaia di attivisti.
E per attivisti non intendo i blogger, gli intellettuali, o chi cellulare alla mano guida le rivolte, come sento dire spesso anche dalla compagneria italiana: vuol dire anche occupanti di casa, lavoratori che scioperano, e tanto altro.
Domani sarà una grande giornata, una giornata che riempie di speranza almeno quelli come me che hanno sempre desiderato veder la rivolta egiziana trasformarsi in vera e propria rivoluzione: domani sarà una giornata che rideterminerà le presenze in questa battaglia e probabilmente sancirà nuovi nemici, nuove spaccature, nuove alleanze strategiche.
La piazza è stracolma di compagni, appartenenti alla sinistra più radicale e non…e di salafiti.
Son pochi i copti, molti meno di quelli che c’erano nei 18 giorni di Tahrir (tra gennaio e febbraio), molti meno di quelli che hanno riempito le mobilitazioni in questi mesi, fino al massacro del Maspero. Sarà dovuto a quello?
Oppure, come la fratellanza, giocano un gioco che non vuole più svolgersi in piazza, sull’asfalto, tra i sassi e il gas tossico,
tra i blindati che sfrecciano e le pallottole di gomma sparate da tre metri in piena faccia…
oggi gli Ikhwan (proprio poco fa) si son schierati su Mohamed Mahmoud per cercare di evitare, con metodologie via via più arroganti e violente, che la gente affluisse verso la prima linea delle barricate e degli scontri: cercano di limitare la partecipazione…
chissà cosa faranno domani.
domani sarà una giornata lunghissima: che speriamo porti a compiere l’ennesimo balzo in avanti.
Che speriamo porti alla consapevolezza di quanto sia necessaria un’organizzazione capillare ora: per far cadere meno persone possibile sul selciato, per conquistare legittimità sasso dopo sasso, per gettar le basi vere di un nuovo Egitto.
Che rifiuta il regime e tutti quelli che tentano di mascherarlo.
Kamal Ganzouri era un uomo di Mubarak, un primo ministro di Mubarak, un suo servo.
Ora è stato nominato alla guida del nuovo governo: l’ennesima presa per il culo, utile solo a convincere definitivamente gli egiziani a non tornare a casa, finchè non si sarà costruito, tenendolo stretto in mano, il futuro.
La possibilità di autodeterminarsi.
La giornata di oggi è stata caratterizzata anche dall’attacco ai giornalisti: la storia che più ha fatto scalpore è accaduta alla nota giornalista Mona Eltahawy, con doppio passaporto (usa-egitto).
Il suo arresto è durato fortunatamente solo 12 ore, all’interno della sede del ministero degli Interni, molte delle quali bendata: quel che più schifa son le metodologie usate nei suoi confronti, tutte a sfondo sessuale.
“In 5 o 6 mi son saltati addosso, mi hanno stretto il seno e afferrato con violenza la zona genitale. Non so quante mani hanno tentato di infilarsi all’interno dei miei pantaloni!” Dopo poco è stata rilasciata con tante scuse e le braccia spezzate: il suo passaporto con stelle e strisce le ha salvato la vita. A lei, non a tutte le altre che combattono in quella piazza e nel resto del paese.
Processo alle nuove BR: salta l’impianto accusatorio. Bellomonte scarcerato dopo 29 mesi di carcere: MALEDETTI
E pure in questo caso non riesco a trovare tempo di scrivere mai quello di cui ho voglia:
che vita demmmmerda!
Rubo interamente da Contropiano..e ringrazio
senza riuscire a smettere di pensare che LUIGI FALLICO, ieri, avrebbe potuto brindare alla sua assoluzione,
se il carcere non l’avesse ammazzato prima.
LINK precedenti a riguardo:
Gli arresti
Trovato morto Luigi Fallico, gli è scoppiato il cuore
Il comunicato dei suoi compagni
Dopo ore di camera di consiglio la Corte d’Assise di Roma ha assolto Bruno Bellomonte e altri due imputati dalle accuse di terrorismo. Smontato un teorema accusatorio inconsistente e tutto politico. Applicato comunque nei confronti di 3 imputati condannati…
Commozione ed entusiasmo tra i compagni e gli amici di Bruno Bellomonte.
Dopo alcune ore di Camera di Consiglio i giudici della Corte d’Assise del Tribunale di Roma hanno finalmente assolto il ferroviere arrestato 29 mesi fa e accusato di banda armata a fini terroristici. Cessa quindi lo sciopero della fame di solidarietà di Nicola Giua, portavoce dei Cobas della Sardegna, che lo aveva intrapreso sei giorni fa, al quale si era poi aggiunto il giorno successivo Antonello Tiddia, RSU della Carbosulcis e animatore insieme ad altri esponenti del sindacalismo di classe di un comitato di solidarietà che sabato scorso aveva realizzato un presidio sotto al Palazzo di Giustizia di Cagliariper denunciare la vera e propria persecuzione giudiziaria ai danni del dirigente dell’organizzazione politica sarda ‘A Manca pro s’Indipendentzia’ (A Sinistra per l’Indipendenza).
Chi conosceva Bellomonte aveva fin da subito scommesso sulla sua innocenza denunciando il carattere inconsistente e fantasioso delle accuse nei suoi confronti. «Bruno è stato arrestato 29 mesi fa con l’accusa di preparare qualcosa di grosso per il G8 di La Maddalena – ha spiegato Giua – l’accusa si è basata su una indecifrabile intercettazione fatta in un ristorante romano da cui si è desunta l’intenzione di attaccare il G8 con aeromodelli».
Il rappresentante dei Cobas ha ricordato, inoltre, che Bellomonte «è stato licenziato da Trenitalia oltre un anno fa per assenza dal posto di lavoro». “Smontato finalmente un teorema accusatorio inconsistente e tutto politico teso a criminalizzare l’indipendentismo sardo di sinistra in un momento in cui nell’isola si moltiplicano le lotte” commenta al telefono Cristiano Sabino, dirigente di A Manca. “Voglio ringraziare tutti coloro che in questi anni si sono spesi per diffondere la verità su questa vicenda dando voce a Bruno” ha aggiunto.
Il clima in cui i giudici di Roma sono stati chiamati a decidere non era certo dei migliori. Proprio alcuni giorni fa alcuni media sardi e ‘Il Fatto Quotidiano’ avevano riportato con grande evidenza e, come al solito in maniera acritica, la notizia che la Direzione Distrettuale Antiterrorismo di Cagliari aveva riaperto le indagini sulla cosiddetto ‘operazione Arcadia’. Secondo la Direzione cagliaritana i militanti di A Manca si sarebbero responsabili, nella prima metà degli anni 2000, non solo di una generica «propaganda sovversiva», fatta di volantini e proclami, ma «atti di terrorismo – li chiama la magistratura – compiuti da una banda armata organizzata per sovvertire l’ordine costituito». Accuse pesantissime che l’organizzazione politica rigetta in toto rivendicando, come del resto ha sempre fatto anche Bellomonte, la propria militanza politica e sociale comunista e indipendentista svolta alla luce del sole.
Quell’inchiesta, coordinata dal Pm Paolo de Angelis, condusse l’11 luglio del 2006 all’arresto di dieci tra attivisti e attiviste e dirigenti di A Manca. Tra questi c’era anche Bruno Bellomonte, poi scarcerato prima di essere arrestato di nuovo in conseguenza della nuova inchiesta sul ‘tentativo di attaccare il G8 della Maddalena attraverso l’uso di un aeroplano telecomandato’ (!) in ‘combutta con alcuni complici’ sparsi in varie città italiane (!!). Tra questi il 59enne romano Luigi Fallico, morto a causa di un infarto all’interno della sua cella nel carcere di Mammagialla, a Viterbo. Una morte che, alla luce dell’assoluzione di oggi di Bellomonte, genera ancora più rabbia e sconcerto.
Così come qualche dubbio, per lo meno, genera la condanna a 7 anni e 6 mesi di Massimo Riccardo Porcile (per lui il Pm aveva sollecitato la condanna a 15 anni), a 8 anni e 6 mesi Gianfranco Zoja (15 anni) e Bernardino Vincenzi a 4 anni e 6 mesi (il Pm aveva chiesto 12 anni e 8 mesi). Tutti – giudicati dalla sentenza responsabili del fallito attentato del 26 settembre 2006 alla caserma Vannucci di Livorno, rivendicato da «Per il comunismo Brigate Rosse» – erano stati arrestati il 10 giugno del 2009. Assolti invece, insieme a Bellomonte, anche Costantino Virgilio e Manolo Pietro Morlacchi (scrittore, figlio di “Pierino” e Heidi Ruth Peusch, una vita tra carcere e conglitto sociale), nei confronti dei quali la corte ha deciso l’immediata scarcerazione. Per Manolo, da subito indicato come assolutamente innocente da tutti, unidici mesi di detenzione solo per il cognome che porta.
I fascisti all’università di Tor Vergata
Oggi, 21/11/2011, nelle facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali e di Lettere e Filosofia si sono presentati individui legati agli ambienti neo fascisti di Roma (Blocco Studentesco) volantinando e organizzando un banchetto divulgativo. Nonostante, presenti nei volantini, vi fossero alcune rivendicazioni legate alle proteste studentesche degli ultimi anni non possiamo non notare la natura dell’organizzazione che li ha distribuiti ovvero un’organizzazione con un passato e un presente violenti, “aiutata” tanto da Veltroni quanto e più da Alemanno, entrambi parte di formazioni politiche che sorreggono il nuovo governo tecnico e che hanno avallato il massacro dell’istruzione pubblica degli ultimi anni. Da notare che i neo fascisti si sono fatti forti anche dell’autorizzazione ottenuta dalle burocrazie dell’università di Tor Vergata. In attesa di un’assemblea che riteniamo urgente per lo stato di cose venuto a crearsi ci limitiamo a chiedere e chiederci: davvero vogliamo lasciare spazio di manovra a simili soggetti politici nella nostra università?
Studenti e Studentesse Antifasciste
DOVREBBERO FAR LA STESSA FINE DEL SITO DI CASAPOUND! 😉
Comunicato sulla condanna a Giovanni Caputi: COLPIRNE UNO PER RI-EDUCARNE MIGLIAIA
Colpirne uno per…ri-educarne migliaia
E’ arrivata la prima condanna per le\gli arrestate\i del 15 ottobre. Una condanna pesante che ci sembra essere, ancora una volta, la vendetta della Legge nei confronti di chi ha poco o niente per difendersi.
Sembra che abbiano deciso di far pagare tutto a lui.
Dopo tutto l’insopportabile marasma mediatico creatosi subito dopo gli scontri del 15 ottobre, la repressione continua a colpire, sempre più seriamente.
Giovanni Caputi, l’unico che era ancora in stato di detenzione, dentro Regina Coeli, proprio perché senza alcuna dimora, è stato condannato con il rito abbreviato dal Tribunale di Roma a tre anni e 4 mesi di detenzione per resistenza pluriaggravata a pubblico ufficiale.
Ma la procura fa già sapere che forse non basta e, ora che ha ottenuto la trasmissione degli atti dal tribunale, vuole indagare anche per il reato di devastazione.
Vogliamo continuare a sostenere chi si è trovato prima colpito da accuse pesanti e poi da una condanna che trasforma una persona nel capro espiatorio delle migliaia che c’erano in piazza.
Ora che il governo dei banchieri si è insediato, crediamo che sia ancora più importante sottolineare contro chi continueremo a scagliare la nostra rabbia: i padroni, le banche, la classe politica tutta. Tutti pronti ad abbracciare il commissariamento de facto delle istituzioni europee, per un modello economico giunto al capolinea.
Noi, però, abbiamo un’arma che loro non hanno.
Quella solidarietà che si mette in moto quando sentiamo che uno spirito affine è in difficoltà. E allora il nostro impegno deve essere quello di far sentire a Giovanni tutta la nostra solidarietà.
Lanciamo un appello alla Roma solidale, se ancora esiste: cerchiamo collettivamente un domicilio per Giovanni, affinché almeno possa uscire da quell’infame luogo che è Regina Coeli, seppur in regime di arresti domiciliari.
Raccogliamo dei soldi, affinché possa fare un minimo di spesa.
Mandiamogli dei vestiti, al contrario di quello che credono i buoni cittadini, in carcere fa molto freddo.
Regaliamogli dei libri, senza di loro dentro il tempo può sembrare infinito.
Scriviamogli lettere, per far sentire a Giovanni che fuori ci sono delle persone che lottano anche per lui.
Facciamogli sentire la nostra voce fuori dal carcere di Regina Coeli, e facciamola risuonare nelle strade.
Partecipiamo in massa il prossimo 5 dicembre all’udienza del processo contro Ilaria, Robert, Stefano.
Continuiamo a sottoscrivere per le spese legali presso il c\c di Radio Onda Rossa: conto corrente postale CCP n. 61804001 intestato a: Cooperativa Culturale Laboratorio 2001, Via dei Volsci 56 – 00185 Roma. Causale: “15 ottobre”; effettuando un bonifico bancario intestato a: Cooperativa Culturale Laboratorio 2001 Codice IBAN: IT15 D076 0103 2000 0006 1804 001 Causale: “15 ottobre”.
Se il silenzio è il primo sintomo della loro vittoria, noi continueremo sempre a gridare.
Le nostre lotte camminano con Giovanni e per Giovanni.
Libere/i tutte/i
I compagni e le compagne
Urgent appeal to OWS about Roberto Saviano – please circulate, share, twit
Dear sisters and brothers in Zuccotti Park;
it is with deep dismay that we learn of today’s appearance on your stage of Roberto Saviano, best selling author of Silvio Berlusconi’s editorial group Mondadori. We are ashamed of having such an impostor to be the first Italian to represent us in this day. And yet we are not surprised, because misinformation – or hijacking truths – is the first weapon of oppression we have to fight against. That misinformation about Saviano still tricking so many well-meaning Italians thanks to a mediatic empire, Berlusconi’s owning pretty much all mainstream information channels, from tv to right and left wing
press, is now apparently trying to sneak onto your stage. We expect it to be for need of self-advertisement on behalf of Saviano; we cannot understand what this man might have in common with the fight against that 1% he himself is part of. It’s years we fight against a corrupted government and its speculators, an organized crime stronger than ever, a piloted media, a growing oppression of freedoms; and in this struggle, we always found Saviano to be on the other side of the barricade, stressing our differences, judging us from his columns on
repubblica while enjoying the millions he made out of a book far less courageous than hundreds of others – but backed by Berlusconi’s editorial group, and therefore sold in all his supermarkets.
Freedom of speech is paramount, and never we would ask to prevent anyone from saying anything, let alone from stepping in Zuccotti park. Censorship is a weapon of those powers we are all trying to fight, no doubt. But still, we ask you all to listen to his words today with
double care. Don’t let the usual Saviano circus deceive you. Don’t let his mask trick you.
When today he will jump on your stage, beware of his words about oppression. For these are the words of a self-declared supporter of neo-fascism (april 2010), who always distanced himself by the culture of the Left praising the deeds of Almirante – frontman of a neo-fascist party which did not hesitate to arm its own ranks, in the 70ies, in order to shoot and beat those 99% who would go down in the streets during protests. And when we would go down in the streets these years to fight against the government, austerity, and corruption, finding ourselves beated and tear-gassed by the police; it would be Saviano who would lead the trashing campaign against us, defending law and order to the point of calling us criminals. Ourculture, he said, (especially after the anti-government riots of December 2010. You can check http://www.repubblica.it), does not belong to him. Well, his culture does not belong to us. For we fight againstoppression, we struggle to feed our families and keep our job, we fight against organized crime, we fight against that 1% he represents.
When today’s he will advertise his editorial empire on your stage, beware of his words about crime. Because crime does not just come from thievery and corruption. Crime comes also from murder. Always on the side of the most powerful, Saviano has been defending more than once the work of the Israeli aviation against Gaza after Operation Cast Lead, which killed 1400 palestinians, mostly civilians, 314 of them children, to avenge the death of 9 Israeli soldiers (another 4 Israeli casualties came from friendly fire). Saviano called this disproportion
“democracy”, tagging palestinians in the Occupied Territories as “terrorists”. This, at a time when Israeli intellectuals are the first ones to raise the alarm of racism and authoritarianism in their country. But there are no midways in Saviano’s system of thought, no questions. Your movement bears the support of Chomsky and Zizek – we do not deserve to be represented by Saviano.
When today he will advertise his editorial empire on your stage, beware of his words on Power. For that Roberto Saviano is part of that 1% of bankers and financial hawks who keep deciding of us 99%. One week ago his editorial protector, Silvio Berlusconi, stepped down under the pressure of yet another financial crisis. Our country has then been handled to a lobby of bankers, CEOs, and a list of doubtable people who have already been tried for corruption and fraud, and questioned for conflicts of interests of all sorts. The main Italian banking groups will now directly rule our country through this cabinet. We are now a de-facto protectorate of our banks. In all this, Saviano was quick to decide which side he’s take: he’s a regular guest at the house of Corrado Passera, CEO of Intesa banking group, and now promoted to the post of minister of development (development of his
own business, we can suppose).
When today he will advertise his editorial empire on stage, beware of his words on freedom of speech. Because that is the same Roberto Saviano who tried to secure the exclusive copyright of being the only hero who fights organized crime. At the cost of turning his lawyers against no-profit local grassroot organizations like the Peppino Impastato center in Sicily (October 2010); a local reality, the Center, exposed day-to-day to the real threat of a murderous criminality which spared millionaire stars like Saviano and his bodyguards, but does not hesitate to target activists and journalists who live and fight daily on the frontline. Saviano was not the first one to speak against organized crime and we know for a fact (since investigations completed in 2009) that his death threats were mediatic fabrications Thousands struggle against organized crime each day, without bodyguards – Saviano can afford them, they can’t – and tv
appearances. They write and enquire and speak as loud as they can,
they walk out of their house every day, they fear for their children at school, they pay out of their own thin savings all those trials for defamation moved against them by Camorra leaders, mafia politicians, or people like Saviano. You never heard of them, cause they are not
part of that 1% which chose to sell and promote him instead – an author ready to all sorts of compromises and columns against his own people for the sake of keeping his wealth and fame.
Because this is what organized crime does to our life, in the land of what Saviano calls Gomorra, or further down where ‘Ndrangheta and Mafia rule, or up north, where politics and financial speculators strike deals. It buys people like Roberto, and uses them to shut us.
It tells us that either you’re part of that 1%, like Saviano, and ready to defend your privileges; or else, breaking your silence will not make you rich – it will make you unemployed, broke, or dead.
Had your movement been in Italy, he would have called you “hoolingas of chaos”, as he did with us when we were teargassed by the police. To him, here, we do not even have the right to look into facts, to raise the question of state violence, to occupy or disobey.
When he will jump on your stage selling himself as an occupier like you,
think about it.
The 99% of Italy
Occupy Wall Street invita Roberto Saviano: eccovi una traduzione di ciò che pensa del movimento italiano. A translation for US activists!
Questo è un appello pubblico al popolo di attivisti che riempie le piazze di Occupy Wall Street.
Un appello affinchè si rendano conto di quanto poco intelligente è stato il loro invito a Roberto Saviano: ma d’altronde non lo capiscono in Italia con facilità, quindi son completamente scagionati.
Mi sento in dovere però di comunicare con loro CHI E’ Roberto Saviano…o almeno, chi è nei confronti del movimento studentesco, quali sono state le parole da lui usate a commento della manifestazione del 15 dicembre, dove migliaia di persone si scontrarono con la polizia per tentare di arrivare fino a Montecitorio.
Lui, che considera Maroni il miglior ministro dell’Interno della storia di Italia…
E’ probabilmente molto poco per capire chi è Saviano, ma può bastare.
Ma va con la scorta a Zuccotti Park?
mi dicono che questa traduzione è agghiacciante…
è la sola che per ora ho trovato in rete e stando a lavoro non ho avuto nemmeno modo di leggerla…
cerco altro appena scappo da qui.
SO, some people told me that this pages is google-translated, so maybe it’s impossible for you to understand it! Sorry, I’ll try to put the correct one as soon as possible
I give you this link, in english, about it READ IT! HERE YOU CAN FIND AN URGENT APPEAL FOR YOU!!!
15 ottobre: ecco la prima condanna
Che vergogna.
Sembra che abbiano deciso di far pagare tutto a lui.
Tutto il marasma mediatico insopportabile creatosi subito dopo gli scontri del 15 ottobre inizia a mietere vittime.
Ieri sera c’arriva la splendida notizia della scarcerazione di Leonardo Vecchiolla, trasferito poco prima nel carcere di Rebibbia per competenza territoriale. Scarcerato senza alcuna restrizione: libero.
Oggi invece la batosta.
Giovanni Caputi, l’unico che era ancora in stato di detenzione, dentro Regina Coeli, proprio perché senza alcuna dimora, è stato condannato questa mattina dal Tribunale di Roma a tre anni e 4 mesi di condanna per resistenza pluriaggravata a pubblico ufficiale con il rito abbreviato.
Ma la procura ci fa già sapere che forse non gli basta e che ora che ha ottenuto la trasmissione degli atti dal tribunale, vuole indagare anche per il reato di devastazione.
Tra gli arrestati del 15 ottobre, Giovanni è quello con la condizione più particolare: originario di Bari era in Spagna da divero tempo, non ha ottenuto la scarcerazione come gli altri perché privo di domicilio o di qualcuno che potesse ospitarlo, qui in Italia.
Così è rimasto in carcere ed oggi s’è preso la prima condanna per gli scontri del 15 ottobre scorso, in piazza San Giovanni: vogliono anche il risarcimento danni, sia il Comune di Roma che l’Ama, la società che gestisce lo smaltimento dei rifiuti e procederanno in sede civile dopo essersi costituiti parte civile.
Hanno trovato il capro espiatorio: il più debole paga per tutti.
Sarà contenta la redazione di Repubblica e tutti coloro che invocavano la polizia o impacchettavano fanciulli.
Noi ricordiamoci che il 5 dicembre ci sarà l’udienza per Robert, Stefano ed Ilaria:
NON LASCIAMOLI SOLI!
e scriviamo a Giovanni,
nel carcere di Regina Coeli, Via della Lungara 29, 00165 Roma
Moriremo democristiani, massoni e difensori di boia: una dedica alla Guardasigilli
Eccolo!
Rompete l’anima da una vita che nemmeno ricordo più quanto, ora siete contenti?
Da oggi c’è un nuovo governo, un governo che sembra più un golpe della massoneria, di quella democrazia cristiana stretta a braccetto col vaticano che quasi c’eravamo dimenticati: insomma non c’è nessuna aria di nuovo in questo governo.

Gilberto Caldarozzi, "illustre" assistito del neo ministro della giustizia, noto torturatore (ah NO! scusate: non è un torturatore eh! Solamente uno che ha assistito a tutto il pestaggio della Diaz, ai denti saltati, alle ossa spaccate a bastonate e calci e poi ha pensato bene di far tutto quel che era in suo potere per occultare i fatti. Non un torturatore quindi, fate voi)
Avevo 12 anni quando Berlusconi è salito al potere, pensare che ci son voluti 17 anni per finire peggio di prima è quasi divertente, se non fosse realmente una tragedia.
Oggi c’era un orgasmo multiplo nella rete, soprattutto femminile.
Tutte felici ed eccitate, soddisfatte ed appagate da 3, TRE, tre donne ministro: fino a poche settimane fa erano addirittura 5, ma se glielo dici ti rispondono che noooooo, quelle son puttane (proprio così, che solo la parola vomito), queste invece sono donne che stanno lì per meritocrazia, per la strada che hanno percorso, per i titoli, per la bravura, per non so che altro.
Bhè, quelle facce vorrei tanto fossero di perfetti e magari illustri sconosciuti, ed invece non è così.
Perché alcuni di questi personaggi si conoscono eccome, soprattutto una donna, una che per il fatto di esser donna trasmette fiducia e speranza nel gentil sesso italiota di cui farei parte anche io.
Parlo del neo ministro della giustizia.
Parlo di lei perché non mi interessa ora mettermi a fare l’elenco dei “titoli” degli altri ministri, mi basta notare che nessuno s’è laureato ad un’università statale, ma vengono tutti da Cattolica, Bocconi, Luiss e così via.
Ma lei, parliamo di lei. Del primo ministro della giustizia donna, nella storia di questo paese.
La donna che ha difeso l’indifendibile nell’arco di TUTTA la sua carriera, una donna che dovrebbe farci vergognare di esser donne come lei, visto che boia è e quanti ne ha protetti, tutelati, difesi.
Paola Severino, è il vicedirettore dell’Università Luiss “Guido Carli”, ha difeso Cesare Geronzi, quel buon uomo di Caltagirone ma anche quell’altro brav’uomo di Salvatore Buscemi, capofamiglia mafioso di Passo di Rignano,condannato all’ergastolo nel processo per la strage di Capaci, e poi ancora nel processo sui fondi per la gestione della tenuta di Castel Poziano, in quello Cirio, in quello Imi-Sir.

Le pareti della scuola Diaz, dopo l'arrivo di quelli che il nostro ministro della Giustizia ha difeso strenuamente in aula
Non c’è processo italiano dell’ultimo ventennio dove la nostra nuova guardasigilli non ha difeso i peggiori elementi.
Però non abbiamo finito: titolare di cattedra di diritto penale nella scuola ufficiali Carabinieri e per 4 anni vicepresidente del Consiglio Superiore della magistratura militare ( è durante quest’incarico che “vince” la classifica dei menager pubblici più ricchi: nel ’98, poverina, ha dichiarato un reddito di 3 miliardi e passa delle vecchie lire, briciole probabilmente rispetto al suo attuale reddito).
Ma siamo tutti felici, è donna.
Era donna anche quando ha difeso Gilberto Caldarozzi, ex vice capo dello SCO (Servizio Centrale Operativo) che nella notte del 21 luglio era all’interno della scuola Diaz, quella passata alle cronache come la macelleria messicana di Genova, nell’ultima giornata delle mobilitazioni contro il vertice del G8, nel capoluogo ligure.
Lei lo ha difeso, ha difeso uno degli uomini che hanno massacrato, o dato l’ordine di massacrare, decine di ragazzi che dormivano all’interno della scuola: spesso i denti, le mandibole, le parti di ossa craniche, son saltate proprio senza che riuscissero nemmeno ad uscire dai sacchi a pelo in cui l’hanno trovati.
Gilberto Caldarozzi, per quel massacro schifoso è stato condannato a 3 anni ed 8 mesi: lei, il nostro nuovo ministro della giustizia, lo difendeva.
Ma e’ donna, è preparata, quindi starete gioendo un po’ tutti no?
Che paese a rotoli, non c’è neanche più la capacità di capire che questo governo ci farà piangere lacrime e sangue, che sarà dura, sarà lunga, sarà senza pietà…anche grazie a queste tre donne, scelte con il lanternino, per il loro esser parte di un sistema infame composto da banchieri, massoni, ciellini, democristiani e anche difensori di torturatori e quant’altro.
Sono tanti quelli che si sentono tranquillizzati dalla presenza femminile così dotta e preparata: io vi auguro mille signore Tatcher, mille Golda Meir…perché ve le meritate.
Auguri Italia, stiamo nella merda!
“Non possiamo che esprimere apprezzamento per il livello professionale e intellettuale
dei ministri che entreranno a far parte del governo Monti” (Oliviero Diliberto)
Parigi: le manifestanti “contro la violenza sulle donne” aggrediscono le sex workers
Arriva da Parigi, tramite il sito del Syndicat du Travail Sexuel, l’ennesima pessima notizia sullo stato della riflessione all’interno dei cosidetti “movimenti” sulle politiche di genere e la violenza.
Durante la manifestazione contro la violenza sulle donne svoltasi il 5 novembre 2011 a Parigi un gruppo di sex worker e di solidali presenti in piazza è stato aggredito, tacitato, insultato e minacciato dalle organizzatrici della manifestazione e da alcune donne presenti in piazza al grido di “voi siete la vergogna della manifestazione“.
Particolarmente indigeste alle organizzatrici della manifestazione sembra siano state le riflessioni portate in piazza da STRASS sull’inutilità delle norme che colpiscono i clienti delle prostitute che finiscono per essere esclusivamente l’ennesima forma di violenza contro le donne che si prostituiscono.
Il comunicato (in francese) contenente maggiori dettagli e alcune riflessioni firmato da STRASS, Act Up Paris e Étudions gayment è disponibile cliccando qui
De Cupis: un altro caso Cucchi? Non ci stupirebbe!
Dopo il caso Cucchi ancora una morte oscura all’interno di un centro clinico penitenziario.
Questa volta il decesso è avvenuto il 12 novembre scorso nel reparto per detenuti dell’ospedale Belcolle di Viterbo dove Cristian De Cupis, il 36enne romano arrestato la mattina del 9 novembre nei pressi della stazione Termini per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, era stato condotto dopo l’arresto.
Anche se i primi risultati emersi dall’autopsia escludono, per il momento, la presenza di lesioni ad organi interni «tali da causare la morte» (formula ambigua che non esclude la presenza di lesioni), gli interrogativi sulla vicenda non cessano di moltiplicarsi. Subito dopo l’arresto De Cupis era stato condotto al pronto soccorso del santo Spirito. Perché? Ai medici il giovane aveva denunciato di aver subito delle percosse dagli agenti della Polfer che avevano eseguito l’arresto. La presenza di escoriazioni sulla fronte ed ecchimosi varie erano state riscontrate dai sanitari e sono state confermate dall’esame autoptico. Segnato da uno stato di salute con problematiche cliniche complesse connesse alla tossicodipendenza, De Cupis – visto il reato lieve – non sarebbe dovuto finire in carcere, tanto che lo stesso pm aveva disposto i domiciliari non appena terminato il ricovero. Ma perché era stato disposto il ricovero?
E perché mai, nonostante risiedesse nella capitale, è finito al Belcolle di Viterbo, dove era stato sottoposto addirittura ad una tac? I familiari hanno saputo del suo arresto soltanto dopo il decesso. Il presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale Ignazio Marino, che ha svolto un ruolo determinante sul caso Cucchi, ha annunciato l’avvio di una istruttoria per fare chiarezza sulla vicenda.
Contro segregazione ed Apartheid: ecco i Freedom Riders in Palestina, come negli USA degli anni ’60
Oggi è toccato ai coloni.
La peggior faccia d’Israele, la più violenta, quella genocidaria e assetata di sangue,
quella che estirpa ulivi, alimenta la devastazione e l’Apartheid, oltre ad uccidere spesso per gioco.
Oggi hanno vissuto una giornata da “palestinesi” almeno per quanto riguarda la libertà di movimento.
Siamo in West Bank, quella che io ho sempre chiamato Territori Occupati, Palestina Occupata: quella terra che a macchia di leopardo vede le metastasi dell’occupazione rosicchiare pezzo pezzo i suoi confini, il suo interno, le sue fonti, i suoi punti fertili.
La terra più triste, più martoriata, più abituata all’Apartheid, ai checkpoint che non permettono spostamenti se non dopo deliranti e incomprensibili ore in attesa di qualche permesso, spesso negato.
La libertà di movimento, nella terra che Israele (quello vero) ha “lasciato” ai Palestinesi, è un diritto dei coloni: loro hanno le loro strade, le loro ferrovie, i loro bus, i loro taxi. Tutto il resto si muove se la mano dell’occupante lascia passare, altrimenti può morire così, ai tornelli metallici che chiudono in gabbie tutti gli incroci di Palestina.
Oggi alcuni attivisti hanno, anzi lo stanno facendo proprio in questi minuti, tentato di usare, occupare, fruire, rallentare la normale circolazione dei bus utilizzati normalmente dai coloni per sportarsi: sono mezzi di trasporto vietati agli arabi, come nei peggiori racconti sud-africani. NO ARAB. Poca differenza col NO BLACKS.
In questi secondi in molti sono ancora su quei mezzi, malgrado i coloni siano scesi velocemente e scomparsi nel nulla lasciando che i bus venissero circondati dalla polizia militare israeliana e dall’esercito: nessuno ha intenzione di scendere.
L’obiettivo è arrivare a Gerusalemme:
qui potete seguire la diretta video,
altrimenti seguite su twitter l’hashtag #FreedomRides
Spero di aver modo di aggiornare tra poco..
STOP APARTHEID – END COLONIZATION – BOICOTT ISRAEL
FREEPALESTINE!
AGGIORNAMENTI: I soldati hanno preso uno dei bus, pieno di attivisti, e lo sta facendo dirigere verso il checkpoint di Hizmeh.
Verranno probabilmente arrestati da un momento all’altro.
Nel frattempo il livestream è saltato, purtroppo
ORE 16.15: Uno ad uno, vengono arrestati dall’esercito israeliano. L’accusa è l’ingresso illegale nello stato d’Israele: un manifesto all’Apartheid!
Frammenti di Oreste Scalzone, da Genova al 15 ottobre, passando per Matteo Renzi
12 anni bastano compagni.
Avete mai visto una rivoluzione, una sovversione, che continua a riprodursi per appuntamento, spettacolare.
Ce li organizza la società dello spettacolo, e noi appresso. Ogni volta s’è riprodotta così: chi faceva il pacifico, chi faceva il black bloc…ma fino a quando?Sappiamo già tutto, fino a quando andremo avanti?
Il 15 ottobre forse ha chiuso un cerchio.
[…]
La crescita, l’intergenerazionale…quelli del ’69, l’operaio comune eh, non io, Pifano, Curcio o Miliucci, ma quello delle canzoni di lotta continua: ha recuperato del reddito,no? ha mandato il figlio all’università? E mo si ritrova che fa da ammortizzatore sociale.
Pulisce il culo dei bambini, tiene in casa la nuora o il genero , c’ha già i genitori con l’Alzheimer (perché è l’aumento della speranza di vita dopo i 75 anni) aspetta di avercelo lui e gli dicono pure che ha rubato il futuro a quella faccia da cazzo di Matteo Renzi.
Come si fa a non amarlo?
Amburgo: solidarietà per Sonja Suder e Christian Gauger

AMBURGO _Oggi come allora - mille ragioni per la rivolta! Solidarietà a Sonja e Christian. Dal 1978 Sonja e Christian erano ricercati dallo stato tedesco, con l'accusa di aver preso parte ad attentati contro energia nucleare, bomba atomica e gentrificazione e di far parte delle Cellule Rivoluzionarie (RZ). Entrambi hanno scelto la fuga e una vita in esilio sotto falsa identità e deciso di non scendere a compromessi e cooperazione con lo stato e i suoi aiutanti. _
Christian fortunatamente è stato scarcerato pochi giorni fa, viste le sue condizioni di salute, completamente incompatibili con il carcere.
Sonja malgrado l’età avanzata è di una forza incredibile, vive la sua carcerazione con serenità, scrivendo che l’aveva sempre immaginato che prima o poi l’avrebbero presi, quindi è preparata e sollevata che Christian sia lontano dal carcere.
Informationen:
verdammtlangquer.org/
abc-berlin.net
freilassung.de
Qui un po’ di link sulla lorio storia:
Due estradizioni annunciate
Erri De Luca su Sonja e Christian
Una loro intervista
Estradati Sonja e Christian
Oreste Scalzone commenta l’estradizione
Presidio a Regina Coeli: LIBERARE TUTT@
LA SOLIDARIETÀ È UN ARMA
LIBERARE TUTTE E TUTTI
Nell’affollatissima assemblea di domenica 6 novembre tenutasi al CSOA Ex SNIA si sono incontrate numerose realtà romane provenienti da percorsi molteplici ed a volte distanti, almeno quattro generazioni di compagni e compagne a confronto. La volontà di andare oltre il 15 ottobre e rilanciare percorsi di lotta e autorganizzazione, capaci di connettersi, con la voglia di protagonismo dei giovanissimi, con le tante vertenze nei territori e nei posti di lavoro, con la difesa dei beni comuni e contro profitti e speculazioni. Un sentimento comune nelle dovute differenze senza rimozioni e non senza fare i conti con quanto è successo in quella giornata.
Tutti i presenti si sono espressi per il rifiuto della logica del capro espiatorio alla base del sistema penale e della dicotomia buoni/cattivi con la quale si è voluto criminalizzare da più parti la piazza del 15 ottobre. Un meccanismo che abbiamo subito all’indomani di Genova 2001 con il quale non si è saputo fare i conti. Dopo dieci anni è ancora il paradigma black bloc – infiltrato ad essere riproposto dall’apparato politico, dai pennivendoli e mezzobusti. Un immaginario talmente digerito socialmente da aver scatenato il fenomeno inedito della delazione di massa. Occorre prendere parola e re-agire fuori dai recinti identitari.
In questa direzione, come primo passo, si è deciso di impegnarsi collettivamente perché nessuno rimanga solo a fare i conti con procure e commissariati. Organizzare per questo una campagna per far fronte alla morsa repressiva che si sta impiantando per controllare il crescente disagio sociale e disinnescare il conflitto contro la riorganizzazione del capitale e le politiche europee di austerity. Costruire una rete di solidarietà che si doti come prima cosa di una cassa per le spese legali, l’attivazione di una mailing list per coordinarsi ( https://www.autistici.org/mailman/listinfo/liberta15ott ) e un blog (http://liberatutto.noblogs.org/) per aggiornare le informazioni sui processi e comunicare le varie iniziative.
Si è deciso di scendere questa settimana in piazza, di chiamare Roma a dare una risposta. Le stragi e i disastri colposi che si sono verificati in queste settimane in tutta Italia, a partire dalla nostra città, ci danno il vero parametro della distruzione e del saccheggio che subiamo nei nostri territori, giorno per giorno sulla nostra pelle, niente di paragonabile a dieci vetrine infrante.
L’assemblea si è aggiornata per mercoledì 9 alle ore 20:00 al CSOA Ex SNIA per continuare il dibattito e per organizzare un presidio per sabato 12 novembre in solidarietà con Giovanni Caputi, Fabrizio Filippi, Leonardo Vecchiolla e Carlo Seppia gli unici a cui non sono state derubricate da carcere a obbligo di dimora fra i 14 arrestati durante e dopo il 15 ottobre. Un occasione per rompere il divieto di manifestare imposto da Alemanno e Maroni, per dare una risposta di massa alla criminalizzazione delle lotte, per la libertà di movimento, per la libertà di tutti gli arrestati e le arrestate.
PRESIDIO DI FRONTE REGINA COELI
SABATO 12 NOVEMBRE DALLE ORE 15:00
LUNGOTEVERE GIANICOLENSE
Per far sentire la nostra solidarietà a chi è ancora in carcere possiamo scrivere agli indirizzi forniti su http://liberatutto.noblogs.org
Per Sottoscrivere per le spese legali di tutti e tutte gli arrestati e le arrestate: venendo negli studi di ROR in Via dei Volsci 56 a Roma, tutti i giorni dalle 8 alle 21; oppure compilando un bollettino di conto corrente postale CCP n. 61804001 intestato a: Cooperativa Culturale Laboratorio 2001, Via dei Volsci 56 – 00185 Roma. Causale: “15 ottobre”; effettuando un bonifico bancario intestato a: Cooperativa Culturale Laboratorio 2001 Codice IBAN: IT15 D076 0103 2000 0006 1804 001 Causale: “15 ottobre”.
Roma: l’autorganizzazione fa capolino nelle Metropolitane
Bello questo comunicato dell’Atac, bello perché quando una società arriva a scrivere pubblicamente simili righe vuol dire che c’è ancora qualche speranza, parola che uso poco e che non amo.
La speranza di pratiche di autorganizzazione nei posti di lavoro, che sappiano far alzare la testa ai lavoratori che da anni subiscono lo sfruttamento e le provocazioni di aziende come Atac Spa: sono un po’ di giorni che le metropolitane di Roma funzionano a singhiozzo.
Sul sito di Atac si parla di “servizio perturbato/ritardi” e il comunicato spuntato da poche ore è inequivocabile.
I lavoratori delle metropolitane di Roma stanno “sabotando” il normale funzionamento del servizio: l’azienda li attacca dicendo che in questo modo, uscendo dalle normali pratiche sindacali, si fa pagare ai cittadini il prezzo più alto.
Tranquilli, siamo abituati a pagarlo, felici di farlo spalla a spalla con chi si ribella, con chi passa all’autorganizzazione.
Questa mattina era chiusa la fermata metro di Termini, mentre la B va lenta lenta che sembra una tartaruga incazzata!
Vi metto il comunicato dell’Atac, che è stupendo:
Atac su agitazioni non autorizzate
Si stanno verificando agitazioni non autorizzate dei macchinisti della metropolitana e degli operai di manutenzione delle officine che, determinando ilrallentamento delle operazioni manutentive sul materiale rotabile e ilrifiuto di condurre alcuni convogli con motivazioni pretestuose, stanno portando alla mancata immissione in esercizio dei treni sulle linee A e B.
A fronte di ciò si stanno creando notevoli disservizi agli utenti del trasporto pubblico, costretti a subire fortissimi disagi e a vedere violato il loro diritto a una mobilità efficiente e sostenibile.
Questa mattina, a causa dell´affollamento determinatosi nella metropolitana per i motivi di cui sopra, le autorità di pubblica sicurezza sono state costrette a chiudere e a sfollare la stazione di Termini.
Tutto questo mentre l´Azienda e le organizzazioni sindacali si apprestano oggi ad incontrarsi per la ripresa delle trattative sul piano industriale, per cercare di individuare insieme le soluzioni compatibili con la delicatissima situazione economico – finanziaria di Atac e del trasporto pubblico locale. Ci auguriamo pertanto che prevalga il senso di responsabilità di tutti.
Nel ribadire che Atac manterrà un atteggiamento di assoluta intransigenza nei confronti di chi supera i confini di una normale dialettica sindacale con atteggiamenti che non colpiscono l´Azienda ma tutti i cittadini, e sperando che dalla trattativa odierna emergano proposte concrete di soluzione alle problematiche, si riserva di valutare l´opportunità di presentare un esposto alla magistratura per tutte le fattispecie penali e civili che eventualmente emergessero.
Alcune notizie in più a riguardo: non si tratterebbe di veri e propri scioperi selvaggi. Diciamo che i lavoratori hanno deciso di applicare alla lettera il regolamento a cui sono sottoposti, rifiutandosi di far uscire vetture difettose.
Piccoli importantissimi passi, che alzano le teste, che creano collettivizzazione, che costruiscono conflitto.
Ad Atene si espropriano i supermercati, nella gioia generale
Sabato 5 novembre 2011, un gruppo di compagni ha effettuato un esproprio in un supermercato di Exarchia che
fa parte della catena Bazar/Fresh Express.
Prodotti di base e cibo sono stati espropriati e poi distribuiti alle persone che si trovavano al mercato all’aperto di Via Kallidromiou.
La folla ha accolto con entusiasmo i carrelli della spesa pieni e ha prontamente accettato i prodotti con apprezzamento e complimenti per
l’azione.
Le loro ricchezze sono il nostro sangue.
Espropriare Capitale ovunque.
I Compagni
Normalizzare l’anormale: l’eccezionalità di Israele
Ringrazio le compagne del Freepalestine.noblogs.org per aver pubblicato e avermi segnalato questo articolo, estremamente interessante
Versione in inglese da sito web del PACBI [Palestinian Campaign for the Academic&Cultural Boycott of Israel]. Traduzione a cura di Renato Tretola.
Nella lotta palestinese ed araba contro la colonizzazione, l’occupazione e l’apartheid, la “normalizzazione” di Israele è un concetto che ha generato diverse controversie, poiché spesso viene frainteso, oppure perché ci sono disaccordi su quelli che sono i suoi criteri; e questo nonostante il quasi unanime consenso tra i Palestinesi e tra i popoli del mondo arabo sul rifiuto a trattare Israele come Stato “normale” con cui si possano intrattenere relazioni regolari. In questa sede tratteremo la definizione di normalizzazione che la grande maggioranza della società civile palestinese, quella rappresentata dal movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), ha adottato a partire da novembre 2007, e analizzeremo le sfumature che tale definizione assume in diversi contesti.
Può essere utile pensare alla normalizzazione come ad una “colonizzazione della mente”, in base alla quale il soggetto oppresso finisce per credere che la realtà dell’oppressore sia la sola realtà “normale” alla quale si debba aderire e che l’oppressione sia un dato di vita con cui bisogna aver a che fare. Chi partecipa alla normalizzazione ignora questa oppressione oppure la accetta come lo status quo con cui bisogna convivere. In uno dei suoi tentativi di autoassolversi per le proprie violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani, Israele prova a crearsi un nuovo marchio, o presentarsi come normale – anzi “illuminato” – attraverso una serie di relazioni e di attività che spaziano dal campo culturale e quello legale, dall’hi-tech alla cultura LGBT e ad altri.
Un principio-chiave che il termine “normalizzazione” sottende è che esso è interamente basato su considerazioni di carattere politico, più che razziale, ed è quindi in perfetta sintonia con il rifiuto da parte del movimento BDS di tutte le forme di razzismo e di discriminazione razziale. Opporsi alla normalizzazione è un mezzo per resistere all’oppressione, ai suoi meccanismi e alle sue strutture. In quanto tale, opporsi è dunque attività assolutamente slegata, o incondizionata, dall’identità dell’oppressore.
Dividiamo la normalizzazione in tre categorie che corrispondono alle differenze inerenti ai vari contesti dell’oppressione coloniale e all’apartheid di Israele. È importante considerare queste definizioni minime come base per azioni operative e di solidarietà.
1) La normalizzazione nel contesto dei Territori Occupati e del mondo arabo
La Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele (PACBI) ha definito espressamente la normalizzazione in un contesto palestinese ed arabo “come la partecipazione ad un qualsiasi progetto, iniziativa o attività, in Palestina o a livello internazionale, che miri (implicitamente o esplicitamente) a riconciliare i Palestinesi (e/o gli Arabi) con gli Israeliani (tanto la popolazione che le istituzioni) senza porsi come meta la resistenza alla, e lo scontro con la, occupazione israeliana e con tutte le forme di discriminazione e di oppressione contro il popolo palestinese”. Questa è la definizione approvata dal comitato nazionale del BDS (BNC).
Per i Palestinesi della Cisgiordania occupata (compresa Gerusalemme Est) e di Gaza, qualunque progetto intrapreso con gli Israeliani che non sia posto all’interno di un contesto di resistenza, serve a normalizzare le relazioni. Definiamo questo “contesto di resistenza” come basato sul riconoscimento dei diritti fondamentali del popolo palestinese e sull’impegno a resistere, in diversi modi, a tutte le forme di oppressione contro i Palestinesi, compresa la (ma non limitata alla) fine dell’occupazione, il riconoscimento di pieni ed eguali diritti per i cittadini palestinesi di Israele, il sostegno e la promozione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi; questa può in modo appropriato essere definita una posizione di “co-resistenza”. Fare altrimenti significa consentire che relazioni quotidiane e ordinarie esistano accanto ai continui crimini commessi da Israele contro il popolo palestinese, e indipendentemente da essi. Questo a sua volta alimenta la compiacenza e fornisce una falsa e deleteria impressione di normalità in una situazione palesemente anormale di oppressione coloniale.
I progetti, le iniziative e le attività che non abbiano inizio da una base di principi condivisi di resistenza all’oppressione israeliana, puntualmente consentono un approccio a Israele come se le sue violazioni possano essere messe da parte e rinviate e come se la coesistenza (opposta alla “co-resistenza”) possa precedere o condurre alla fine dell’oppressione. In questo processo i Palestinesi, a prescindere dalle intenzioni, finiscono col servire da foglia di fico per gli Israeliani, che possono trarre beneficio da un ambiente in cui tutto continui come se niente fosse, forse persino consentendo agli Israeliani in questo modo di sentirsi con la coscienza pulita per aver coinvolto i Palestinesi che di solito li si accusa di opprimere e discriminare.
I popoli del mondo arabo, con le loro diverse identità e i loro diversi background nazionali, religiosi e culturali, il cui futuro è più tangibilmente legato al futuro dei Palestinesi rispetto a quanto non lo sia generalmente il resto della comunità internazionale, non ultimo a causa delle continuate minacce politiche, economiche e militari da parte di Israele ai loro Paesi, nonché a causa della vicinanza ancora predominante e forte con i Palestinesi, si trovano di fronte a questioni simili in merito alla normalizzazione. Fintantoché l’oppressione israeliana continua, qualunque approccio con gli Israeliani (singoli o istituzioni che siano) che non avviene all’interno del contesto di resistenza sopra definito serve a ribadire la normalità dell’occupazione israeliana, del suo colonialismo e del suo apartheid nelle vite della gente nel mondo arabo. È quindi indispensabile per tutti nel mondo arabo evitare ogni relazione con gli Israeliani che non sia fondata sulla “co-resistenza”. Non si tratta di un appello ad evitare di comprendere gli Israeliani, la loro società e il loro sistema politico. È piuttosto un appello a condizionare qualsiasi conoscenza e qualsiasi contatto di questo tipo secondo i principi della resistenza, fino a quando arriverà il tempo in cui i diritti dei Palestinesi e degli Arabi saranno pienamente soddisfatti.
Gli attivisti BDS possono sempre andare oltre i nostri requisiti minimi se dovessero identificare delle sottocategorie all’interno di quelle che abbiamo identificato. In Libano o in Egitto, ad esempio, gli attivisti della campagna di boicottaggio possono andare oltre la definizione di normalizzazione data dal PACBI/BNC, considerata la loro posizione nel mondo arabo, mentre quelli che si trovano in Giordania, per dire, possono formulare riflessioni differenti.
2) La normalizzazione nel contesto dei cittadini palestinesi di Israele
I cittadini palestinesi di Israele – quei Palestinesi che sono rimasti tenacemente sulla propria terra dopo la fondazione dello Stato di Israele nel 1948 a dispetto dei ripetuti sforzi di espellerli e di sottoporli alla legge militare, alla discriminazione istituzionalizzata e all’apartheid – si misurano con tutt’altra serie di considerazioni. Essi si trovano ad affrontare due forme di normalizzazione. La prima, che possiamo chiamare relazione coercitiva quotidiana, è quella serie di relazioni che un popolo colonizzato, e coloro che vivono sotto apartheid, sono costretti a intrattenere per sopravvivere, condurre la vita quotidiana e guadagnarsi da vivere all’interno delle strutture oppressive costituite. Per i cittadini palestinesi in Israele, in quanto contribuenti, tali relazioni coercitive quotidiane vanno dall’impiego quotidiano in luoghi di lavoro israeliani all’uso dei servizi pubblici e delle istituzioni, come scuole, università ed ospedali. Tali relazioni coercitive non sono esclusive di Israele ed erano già presenti in altri contesti coloniali e di apartheid quali, rispettivamente, l’India e il Sudafrica. Ai cittadini palestinesi di Israele non si può ragionevolmente chiedere di recidere questi rapporti, o quanto meno non ancora.
La seconda forma di normalizzazione è quella nella quale i cittadini palestinesi di Israele non sono invece costretti a relazionarsi con Israele per necessità di sopravvivenza. Tale normalizzazione può comprendere la partecipazione a forum internazionali come rappresentanti di Israele (come nel concorso canoro Eurovision) o a eventi israeliani destinati a un pubblico internazionale. La chiave per comprendere tale forma di normalizzazione è considerare che quando i Palestinesi intraprendono tali attività senza inserirle all’interno dello stesso “contesto di resistenza” sopra descritto, contribuiscono, anche se involontariamente, a costruire un’ingannevole apparenza di tolleranza, democrazia e vita normale in Israele per un pubblico internazionale che potrebbe non conoscere meglio la questione. Gli Israeliani e le loro istituzioni possono a loro volta usare tutto ciò contro i promotori del BDS internazionale e contro coloro che lottano contro le ingiustizie israeliane, accusandoli di essere “più santi” dei Palestinesi. Negli esempi appena forniti, i Palestinesi promuovono relazioni con le istituzioni ufficiali israeliane al di là di ciò che costituisce il mero bisogno di sopravvivenza. L’assenza di vigilanza in questo campo ha l’effetto di trasmettere all’opinione pubblica palestinese l’idea che può convivere e accettare l’apartheid, che anzi dovrebbe relazionarsi con gli Israeliani sul loro stesso terreno e rinunciare a qualunque atto di resistenza. Quest’ultimo è un tipo di normalizzazione con la quale molti cittadini palestinesi di Israele, insieme alla PACBI, si trovano sempre più spesso ad identificare e combattere.
3) La normalizzazione nel contesto internazionale
In campo internazionale la normalizzazione non funziona poi troppo diversamente e segue la stessa logica. Mentre il movimento BDS prende di mira le istituzioni israeliane complici, nel caso della normalizzazione ci sono altre sfumature da tenere in considerazione.
Generalmente ai sostenitori internazionali del BDS si chiede di astenersi dal partecipare a eventi che a livello morale o a livello politico mettano sullo stesso piano l’oppressore e l’oppresso, e che presentino il rapporto tra Palestinesi e Israeliani come simmetrico. Una tale eventualità è da boicottare poiché normalizza la dominazione coloniale di Israele sui Palestinesi, ignorando le strutture di potere e le relazioni insite nell’oppressione.
Dialogo
In tutti questi contesti, “dialogo” e partecipazione sono spesso presentati come alternativi al boicottaggio. Il dialogo, se avviene al di fuori di quel “contesto di resistenza” che abbiamo delineato, diventa un dialogo fine a se stesso, vale a dire una forma di normalizzazione che intralcia la lotta per porre fine all’ingiustizia. I processi di dialogo, “risanamento”, “riconciliazione” che non siano finalizzati a mettere fine all’oppressione, a prescindere dalle intenzioni che ci sono dietro, servono solo a privilegiare la co-esistenza nell’oppressione ai danni della co-resistenza, in quanto presuppongono la possibilità di una coesistenza prima che si abbia giustizia. L’esempio del Sudafrica chiarisce alla perfezione questo punto; lì la riconciliazione, il dialogo ed anche l’indulgenza sono venuti dopo la fine dell’apartheid, non prima, nonostante i legittimi interrogativi sulle condizioni tuttora esistenti di ciò che qualcuno ha chiamato “apartheid economico”.
Due esempi di tentativi di normalizzazione: OneVoice e IPCRI
Mentre molti, se non proprio la maggioranza, dei progetti di normalizzazione sono sponsorizzati e finanziati da organizzazioni internazionali e da governi, molti di questi sono realizzati da partner palestinesi e israeliani, spesso con generosi finanziamenti internazionali. La cornice politica, spesso israelo-centrica, della “partnership”, è uno degli aspetti più problematici di questi progetti e istituzioni congiunti. L’analisi della PACBI su OneVoice, un’organizzazione congiunta israelo-palestinese rivolta ai giovani con sedi in Nord America e propaggini in Europa, ha rivelato che OneVoice è un altro di quei progetti che riuniscono Palestinesi ed Israeliani non per lottare insieme contro le politiche coloniali e di apartheid di Israele, ma per fornire piuttosto un limitato programma di azione sotto lo slogan della fine dell’occupazione e la fondazione di uno Stato palestinese, mentre contemporaneamente si rinsalda l’apartheid israeliano e si ignorano i diritti dei profughi palestinesi, che costituiscono la maggioranza del popolo palestinese. La PACBI ha concluso che, in sostanza, OneVoice e altri programmi simili servono solo a normalizzare l’oppressione e l’ingiustizia. Il fatto che OneVoice consideri i “nazionalismi” e i “patriottismi” delle due “parti” come se fossero alla pari ed ugualmente fondati ne è un indicatore significativo. Vale la pena far notare come praticamente l’intero spettro delle organizzazioni e associazioni giovanili e studentesche palestinesi all’interno dei Territori occupati abbia inequivocabilmente condannato i progetti di normalizzazione come OneVoice [in arabo].
Un’organizzazione simile, anche se con un diverso target di riferimento, è l’Israel/Palestine (IPCRI) (Centro di ricerca e informazione Israelo/Palestinese), che si definisce “l’unico gruppo israelo-palestinese al mondo di esperti di politiche pubbliche dedicato alla soluzione del conflitto israelo-palestinese sulla base del principio ‘due stati per due popoli’”. L’IPCRI “riconosce i diritti del popolo ebraico e del popolo palestinese a soddisfare i propri interessi nazionali in un contesto di soddisfacimento del diritto all’autodeterminazione nazionale all’interno dei rispettivi Stati ed instaurando relazioni pacifiche tra i due Stati democratici che vivranno fianco a fianco.” In questo modo si sostiene uno stato di apartheid in Israele che priva dei diritti civili i cittadini palestinesi e ignora il diritto al ritorno, sancito dall’Onu, dei profughi palestinesi.
Esattamente come OneVoice, l’IPCRI adotta l’onnipresente “paradigma del conflitto” mentre ignora la dominazione e l’oppressione che caratterizza le relazioni dello Stato di Israele con il popolo palestinese. L’IPCRI opportunisticamente non si interessa ad un’analisi delle radici di questo “conflitto”, su che cosa verte, e su quale “parte” ne stia pagando il prezzo. Proprio come OneVoice, l’IPCRI glissa sul dato storico e sulla instaurazione di un regime coloniale in Palestina seguito all’espulsione della maggioranza della popolazione indigena di quel territorio. Il momento maggiormente significativo della storia del “conflitto” non viene dunque riconosciuto. La storia della costante espansione coloniale, dello spossessamento e del trasferimento forzato dei Palestinesi viene anch’essa opportunamente ignorata. Con le proprie omissioni, l’IPCRI nega il contesto di resistenza che abbiamo precedentemente delineato e conduce Palestinesi e Israeliani in un tipo di relazione che privilegia la co-esistenza sulla co-resistenza. Ai Palestinesi si chiede di adottare il punto di vista israeliano su di una soluzione pacifica e non un punto di vista che riconosca i loro pieni diritti, come definiti dall’Onu.
Un ulteriore aspetto preoccupante, ma anch’esso totalmente prevedibile, del lavoro dell’IPCRI è il coinvolgimento attivo nei suoi progetti di personale e personaggi israeliani implicati nelle violazioni dei diritti del popolo palestinese e in gravi infrazioni del diritto internazionale. Lo Strategic Thinking and Analysis Team (STAT – Team di pensiero e analisi strategiche) dell’IPCRI comprende, oltre a funzionari palestinesi, ex diplomatici israeliani, ex generali di brigata dell’esercito israeliano, personale del Mossad e quadri del Consiglio nazionale di sicurezza israeliano, molti dei quali legittimamente sospettati di aver commesso crimini di guerra.[link]
Non sorprende dunque che il desiderio di porre fine al “conflitto” e realizzare “una pace duratura”, entrambi slogan di questi ed altri sforzi simili di normalizzazione, non hanno nulla a che fare con la giustizia per i Palestinesi. Infatti il termine “giustizia” non trova posto nell’agenda della maggior parte di queste organizzazioni, né si trova alcun chiaro riferimento al diritto internazionale come arbitro ultimo, lasciando i Palestinesi alla mercé del ben più potente Stato di Israele.
La descrizione, da parte di uno scrittore israeliano, del cosiddetto Centro per la pace “Peres”, una delle maggiori organizzazioni coloniali e di normalizzazione, può anch’essa ben rappresentare il programma di fondo dell’IPCRI e di quasi tutte le organizzazioni che lavorano per la normalizzazione:
«Nell’attività del Centro per la pace “Peres” non si vede alcuno sforzo evidente di cambiare lo status quo politico e socio-economico nei territori occupati, ma anzi l’esatto contrario: sforzi vengono compiuti per allenare la popolazione palestinese ad accettare la propria inferiorità e prepararsi a sopravvivere sotto le limitazioni arbitrarie imposte da Israele per garantire la superiorità etnica degli Ebrei. Sostenendo il colonialismo, il centro presenta un olivicoltore che scopre i vantaggi del marketing cooperativo, un pediatra che riceve formazione professionale negli ospedali israeliani e un importatore palestinese che apprende i segreti del trasporto delle merci attraverso i porti israeliani, famosi per la loro efficienza e, naturalmente, partite di calcio e orchestre composte di Israeliani e Palestinesi, con una falsa immagine di coesistenza.»
La normalizzazione di Israele – normalizzare l’anormale – è un processo perfido e sovversivo che lavora per occultare le ingiustizie e colonizzare le parti più intime degli oppressi: le loro menti. La collaborazione con queste organizzazioni che servono esattamente a questo scopo è, quindi, uno dei primi bersagli del boicottaggio, nonché un espediente che i sostenitori del BDS devono affrontare insieme.
PACBI
Marx e una lezione sui “cosiddetti eccessi” popolari
“Ben lungi dall’opporsi ai cosiddetti eccessi, casi di vendetta popolare su persone odiate o su edifici pubblici cui non si connettono altro che ricordi odiosi, non soltanto si devono tollerare quegli esempi, ma se ne deve prendere in mano la direzione”.
Karl Marx, 1850. Indirizzo al Comitato Centrale della lega dei Comunisti
Grazie a Contromaelstrom
Area Spa: aiutiamo il presidente siriano Assad a rastrellare e uccidere!
Mentre gli aerei per e dalla Siria son sempre più vuoti di chi la ama, la abita o la visita, si riempiono di quei mercenari di ogni genere che guadagnano e investono sulla repressione e i sistemi di sicurezza usati dai regimi per sedare qualsiasi tentativo di rivolta.
Questa volta parliamo di una società che ha sede a pochi chilometri da Varese (nel comune di Vizzola Ticino), oggi nominata da Bloomberg in un lungo articolo che racconta come sta lavorando, da marzo, per il regime siriano, impegnata proprio nell’istallazione di un sofisticato sistema per intercettare e catalogare tutti messaggi telematici che attraversano la Siria.

Foto di Valentina Perniciaro _Siria: quante delle porte che m'hanno accolto saranno state buttate giù dagli anfibi della repressione di Assad?_
Si chiama “Asfador” e ci dicono che ancora non è stato ultimato, ma che sarà in grado di monitorare in tempo reale un po’ tutto: email, social network e chat, in un archivio che abbia una capillarità tale da archiviare utente per utente.
Pare che in ballo, tra il governo siriano (attraverso la compagnia Syrian Telecomunication Establishment) e la società italiana ci sia un accordo di ben 13 milioni di euro, sulla pelle di più di 3000 morti in sei mesi, di tortura e repressione (AH! In Italia ha messo in mobilità 41 dipendenti da marzo per la grossa crisi che ha colpito la società). Calcolando come vengono effettuati i rastrellamenti, calcolando le migliaia di persone finite in carcere, non oso immaginare quanto enorme sia la responsabilità degli arresti casa per casa, famiglia per famiglia, della società del varesotto.
La compagnia delle telecomunicazioni siriana riesce a controllare una piccola percentuale del traffico internet, ma con il programma che la Area SPA sta ultimando, grazie all’utilizzo di attrezzature di compagnie americane per quanto riguarda hardware e software ( Net App Inc, californiana) ed europee per la decriptazione dei social network (la francese Qosmos) e la connessione delle linee telefoniche ai pc impiegati per il monitoraggio (la tedesca Utimaco).
Nessuna di queste società si è impelagata con contratti ed accordi con il macellaio presidente siriano Bashar al-Assad: l’hanno fatto con la compagnia italiana, che è tranquillamente volata a Damasco.
Anzi Bloomberg ci descrive anche la stanza affittata dai tecnici italiani, in un quartiere residenziale vicino allo stadio, probabilmente dietro Baramke: meglio che non ci penso, che mi sento male.
Non solo al servizio delle procure nello schedare gli italiani, ora al servizio dei rastrellamenti: CHE SCHIFO!
Questo il loro sito e qui il numero di telefono, se volete dirgli qualcosa.
Nel frattempo il governo siriano prende in giro il mondo.
Nemmeno a 3 ore dall’accordo con la Lega Araba per il ritiro dell’esercito da tutte le città e i villaggi e il rilascio delle migliaia di persone detenute in questi mesi solo ad Homs si erano registrati 18 morti e stamattina i mezzi cingolati si son presentati anche a Lattakia, Hama, in alcuni villaggi dell’Hauran e a Zabadani, vicino Damasco.
Pensa se non arrivavano all’accordo, maledetto macellaio
Da Oakland: are you a pacifist? e da che parte stai??
Roma: sono i più giovani a sfidare le ordinanze di Alemanno e i divieti stile ventennio
La Questura sta vagliando le posizioni di 300 persone..questo lanciano le agenzie poco dopo cena.
Trecento persone identificate oggi in quella pagliacciata a cui la questura di Roma ha costretto centinaia di ragazzi che manifestavano, la maggiorparte studenti medi, quindi minorenni.
Manifestazione non preavvisata, danneggiamento, invasione di terreni ed edifici, inadempimento delle autorità: questi sarebbero i reati che si profilano.
Ma ricominciamo da capo, senza troppi dettagli che questa giornata è stata eterna.
Alemanno dopo il 15 ottobre e gli scontri in Piazza San Giovanni decide per un delirante divieto di manifestare per un mese: i primi a sfidare questo divieto son proprio loro, coloro che hanno invaso la manifestazione del 15 ottobre e anche la piazza degli scontri, gli studenti.
Giovanissimi, tanti, incazzati, determinati, poco impauriti.
Oggi si son trovati davanti alle scuole volanti e blindati: il divieto di manifestare doveva esser garantito, il Sindaco non voleva che gli studenti muovessero un passo.
Al Mamiani fanno 50 identificati prima delle 8.30 di mattina e la risposta degli studenti è immediata: corteo per Prati, traffico bloccato.
Poi il tutto si sposta a Tiburtina: migliaia di ragazzi arrivano nei dintorni della stazione, che dopo un po’ viene chiusa. Mentre i treni son costretti a proseguire, facendo finta di non vedere la stazione Tiburtina, le migliaia di studenti vengono prima caricati, poi chiusi letteralmente in una tonnara senza via d’uscita, nella quale son rimasti intrappolati per ore.
Non c’è stato verso, non c’è stato modo di contrattare un’uscita dalla piazza se non attraverso l’identificazione di tutti: il tira e molla è durato un bel po’, gli studenti con i documenti in mano urlavano “TANTO NON VE LI DIAMO”…
Così è stato, nessun documento: ma peggio.
La tonnara è stata aperta solo in un punto.
L’ordine della Questura è: si esce a gruppi di 30 in fila indiana, con 7 secondi tra un gruppo ad un altro:
Non sto delirando, è precisamente quello che è successo: tutti in fila indiana (anche a tempo) davanti alle telecamere della polizia.
L’Apartheid israeliano oggi sembrava arrivato al tiburtino: checkpoint per minorenni, identificazioni di massa, qualche pestaggio che ci sta sempre bene, 10 arresti.
Una volta usciti tutti, gli studenti si son recati al Verano, davanti al commissariato di Polizia di San Lorenzo per chiedere il rilascio di tutti i fermati, ottenuto abbastanza rapidamente.
Una grande assemblea alla Sapienza e la promessa al sindaco che ci si rivedrà presto per le strade romane.
Nel frattempo, mentre gli studenti erano in piazza, la Digos entrava nelle scuole chiedendo ai presidi i registri per segnarsi i nomi degli assenti; qualcosa di estremamente vergognoso.
Che fate gli schedari di chi manifesta? Anche se hanno 15 anni?
Una pagina buia, che contribuirà a far alzare la testa a questi giovanissimi manifestanti.
Pagina buia anche leggere l’infinita solidarietà in rete da quelle stesse persone che invocavano la polizia o la aiutavano impacchettando persone e consegnandole alle camionette il 15 ottobre: oggi erano indignati nel vedere le scuole di Roma presidiate dai blindati.
Eppure, cari miei indignati pacifisti col vizio della delazione, gli studenti che oggi sono stati identificati son gli stessi che volevate in galera meno di tre settimane fa: siete un po’ ridicoli.
Ma lo sapete già
SUL SITO DI RADIONDAROSSA ci son delle corrispondenze effettuate dalla piazza.
Per quanto riguarda gli arrestati del 15 ottobre oggi è finalmente arrivata la prima buona notizia.
Il Riesame ha scarcerato praticamente tutti: alcuni ai domiciliari, altri con obblighi di firma.
Niente carcere però, niente blindati, sbarre, casanza, secondini, domandine, colloqui..
e non c’è cosa che mi rende più felice.
In carcere resta chi è stato arrestato successivamente al 15, come Chucky che continua a protestare contro il suo arresto con lo sciopero della fame.
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