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La rivolta del carcere delle Murate e l’uccisione di Giancarlo Del Padrone: 24 febbraio 1974

24 febbraio 2012 5 commenti

“Il piano di rivolta stava andando avanti e iniziarono i preparativi; imparammo la strada che porta al tetto, studiammo il modo di barricarci all’interno, coordinando tempi e azioni.
Nella prima sezione eravamo circa 130. Ognuno doveva sapere, nessuno doveva farlo capire.
Era tutto un ammiccare, un gesticolare, un confabulare veloce di gruppetti. Direi che le guardie erano in possesso di forti indizi, ma nessuna prova certa. Io dovevo rimanere all’interno della sezione, con altri, pronti ad asserragliarci e a fermare le guardie, ostruendo il cancello che collegava la nostra sezione con il resto del carcere con brande, materassi, stupetti e quant’altro avremmo trovato.
Un altro gurppo, di 50 detenuti circa, sarebbe salito sul tetto.
La manifestazione iniziò la sera del 24 febbraio 1974, al termine della serata televisiva. Le cose, nemmeno a dirlo, andarono diversamente dal previsto. In un primo momento le guardie riuscirono a sfondare le barricate. Le respingemmo e loro, per reazione, iniziarono a sparare all’interno proiettili e lacrimogeni.
Avevamo preparato limoni e acqua per proteggerci gli occhi, ma l’aria diventò irrespirabile e salimmo anche noi sul tetto.
Da lì vedemmo le guardie, sempre più numerose, scherarsi sui muri di cinta, tutto intorno a noi, a circa 50 metri di distanza.
Il direttore, megafono alla mano, ci intimò di rientrare nelle celle e ci dette un ultimatum di cinque minuti, dopo di che ci avvertì che avrebbero iniziato a spararci.
Qualcuno fu intimorito da questa minaccia, ma la possibilità che venisse dato il via ad un tiro all’uomo non venne alla fine considerata possibile.
Eravamo pronti alla contrattazione; in definitiva miravamo ad ottenere qualche miglioria all’interno del carcere, dove la situazione era di assoluta invivibilità, e a coinvolgere l’opinione pubblica sull’urgenza di una riforma giudiziaria e penitenziaria.
Vivevamo lontano da ogni decenza e gridavamo la nostra disperazione.

Avevano puntato le luci di due riflettori su di noi. Accanto a me c’era Giancarlo, detenuto da pochi giorni. Ricordo che si mosse per andare a prendere un giornale che un altro detenuto aveva con sé.
Assieme a lui si mosse Sandro. Li vidi alzarsi, fare qualche passo. E cominciò il tiro al bersaglio. Centinaia di colpi.
Mi stesi a terra. “Mi hanno preso”. Era la voce di Sandro, strisciai verso di lui.
E vidi Giancarlo a terra. Con gli occhi aperti. Qualcuno passò un accendino davanti ai suoi occhi. Le pupille erano fisse. Sul petto quattro, cinque colpi. Una sventagliata di mitra.
Così morì Giancarlo Del Padrone, 20 anni, toscano di Carrara, arrestato 15 giorni prima, in attesa di processo per furto d’auto.
Il suo primo reato. Restarono feriti in otto.
Sandro alla spalla. Gaetano al fegato, gli altri alle gambe.
Ci alzammo tutti in piedi.
“ASSASSINI” “Ammazzateci tutti, coraggio” “La pagherete”
Slogan di sfogo, di rabbia. Urla senza speranza, senza pace.
Smisero di sparare.”
M.D.S. Testimonianza successiva su una rivolta e l’uccisione nel Carcere delle Murate, a Firenze, il 24 febbraio 1974
Tratto da “Il carcere speciale” Progetto Memoria, Vol. 5, Edizioni Sensibili Alle Foglie

Un articolo sulle rivolte del 1974 e la risposta dello stato: LEGGI
Anche Infoaut oggi ha dedicato una pagina a questa lontana rivolta: LEGGI
E ancora, su Carlo Alberto Dalla Chiesa : LEGGI

Il comunicato di Radio Onda Rossa sulle condanne per il 15 ottobre

24 febbraio 2012 Lascia un commento

Alla vigilia della manifestazione del 25 febbraio in Val di Susa a sostegno del movimento NO TAV, la magistratura ha inflitto condanne pesantissime a due imputati per i fatti accaduti durante la manifestazione del 15 ottobre 2011 a Roma:
5 anni di reclusione a Giuseppe Ciurleo e 4 anni a Lorenzo Giuliani che si vanno ad aggiungere a quelle di 3 anni e 4 mesi a Giovanni Caputi e 2 anni a Robert Scarlett, anch’essi inquisiti per i medesimi fatti.
A questo punto ogni componente del movimento non può evitare la domanda: perché la repressione opera oggi con tale ferocia?
Al di là della evidente sproporzione tra reati contestati e condanne, avvertiamo il peso tutto politico di questa sentenza. Emerge netta un’offensiva dello Stato che, nel quadro generale di costrizioni e minacce che stiamo vivendo, di attacco al salario, ai diritti e alle condizioni di vita, cerca di imporre al conflitto di classe rigide regole di comportamento.
Gli arresti del 14 dicembre 2010, del 15 ottobre 2011, del movimento NoTav sono tutte dentro questo tentativo di imposizione di regole e modelli che vogliono segnare uno spartiacque tra un “dentro” e un “fuori” delle compatibilità del quadro capitalistico di gestione della crisi.
Regole che, all’interno del movimento, hanno lo scopo di recidere ogni legame solidaristico tra i movimenti e di avallare la nauseante differenza tra “buoni” e “cattivi”. Di questo passo, per usare le affermazione del procuratore di Torino Giancarlo Caselli, gli articoli del Codice penale finiranno per essere gli unici strumenti regolatori del conflitto di classe.
Non cadiamo nel tranello, come sta avvenendo per le condanne di Genova 2001. Vediamo con preoccupazione il riproporsi di una sostanziale incomprensione di alcune componenti del movimento, pensiamo al contrario che queste sentenze, dal duro monito repressivo, non debbano passare sotto silenzio.
Radio Onda Rossa continua ad essere al fianco dei compagni e compagne arrestate per il 15 ottobre e di tutte e tutti coloro che pagano con le denunce e la galera la loro voglia di ribellione.

La redazione di ROR

Su quelle giornate e la repressione che ne è seguita:

Il comunicato su Giovanni Caputi
Ecco la prima condanna
Cobas contro Cobas
Un commento di Oreste Scalzone
Presidio a Regina Coeli
Infoaut risponde al comunicato dei Cobas
La solidarietà di Radio Onda Rossa agli arrestati
I “terroristi urbani”
Delazione e rimozione della propria storia
Gli scontri, i Cobas e la violenza dei non-violenti

Anche il Manifesto, quasi per ultimo, si accorge della tortura. Un articolo di Mauro Palma

18 febbraio 2012 10 commenti

Ci volevano le righe di Sofri per mobilitare un po’ di penne..una cosa che mette tristezza, vista la fatica fatta su questo argomento,
ma ben venga tutto sulla Tortura..anche dopo trent’anni, tutto contribuisce a togliere dall’oblio un pezzo di storia d’Italia la cui rimozione è palese e collettiva.
Oggi finalmente se ne accorge il Manifesto,che ha fatto in modo di non farlo fino a questo momento …
lo dico così,per pignoleria! L’articolo è firmato da Mauro Palma, ex presidende del comitato europeo contro la tortura, e ve lo posto qui sotto…

Mauro Palma*
il manifesto, 18 Febbraio 2012

Quando nell’aprile 2005 le Nazioni unite decisero di istituire uno speciale Rapporteur con il compito di proteggere i diritti umani nella lotta contro il terrorismo internazionale, gli stati europei salutarono positivamente un elemento ulteriore di analisi che si affiancava agli strumenti di controllo già da tempo in vigore, in particolare attraverso l’azione del Comitato per la prevenzione della tortura. Si riaffermò così il principio che nessuna situazione d’eccezione può far derogare dal divieto assoluto di ricorrere alla tortura: inaccettabile sul piano della comune percezione di civiltà giuridica, inammissibile nella simmetria che stabiliscono tra azione dello stato di diritto e pratiche delle organizzazioni criminali, foriera di gravi distorsioni dell’azione di giustizia, tale è la forza verso l’adesione a qualsiasi ipotesi dell’accusa che la sofferenza determina.
Il divieto assoluto era già del resto in convenzioni e patti internazionali su cui i paesi democratici hanno ricostruito la propria legalità ordinamentale dopo le tragedie della prima metà del secolo scorso. L’Italia, spesso inadempiente sul piano degli impegni conseguenti, quali per esempio la previsione dello specifico reato di tortura, ha sempre dichiarato la sua ferma adesione ai principi in essi contenuti. Eppure, solo negli ultimi quindici giorni sono emersi ben tre casi – diversi nel tempo e nella specificità dei corpi di forze dell’ordine che hanno operato – che fanno capire tale distanza.

Asti, 2012
Ad Asti, il tribunale ha emesso il 30 gennaio una sentenza in cui, qualificando i maltrattamenti inferti da agenti della polizia penitenziaria nei confronti di due detenuti come «abuso di autorità contro arrestati e detenuti» ha dichiarato prescritto il reato. L’esito non stupisce perché non è il primo in tale direzione; colpisce però la chiarezza con cui il giudice scrive nella sentenza che «i fatti in esame potrebbero agevolmente essere qualificati come tortura» (risparmio ai lettori la descrizione puntuale dei maltrattamenti subiti dai detenuti), ma che il reato non è previsto nel codice e, quindi, il tribunale non può che far ricorso ad altre inadeguate tipologie di reato. Nessun dubbio, quindi, sugli atti commessi e provati in processo, peraltro confermati da intercettazioni di chiacchierate telefoniche tra gli imputati. Ad Asti la tortura è avvenuta, ma non è perseguibile adeguatamente

Calabria, 1976
Dall’altro capo della penisola, in Calabria, la Corte d’Appello tre giorni fa ha assolto, in un processo di revisione, Giuseppe Gulotta dopo ventidue anni di carcere, trascorsi sulla base di un processo centrato sulla testimonianza di un presunto correo, che aveva portato all’incriminazione anche di altri due giovani. Il fatto era del lontano gennaio 1976, Gulotta aveva allora 18 anni, e il processo ha avuto la revisione solo perché un ex brigadiere dei carabinieri, all’epoca in servizio al reparto antiterrorismo di Napoli, ha raccontato quattro anni fa che la testimonianza era stata estorta con tortura. E con torture erano state estorte anche le confessioni dello stesso Gulotta: il sistema doveva essere stato ben convincente (lo stesso ex brigadiere li definisce «metodi persuasivi eccessivi») ed era maturato all’interno dell’Arma nel tentativo d’incastrare esponenti della sinistra – si diceva allora extraparlamentare – nella morte di due carabinieri. La vicenda ha avuto anche un altro esito inquietante: perché il presunto correo, che aveva poi cercato di scagionare gli accusati, venne trovato impiccato in cella in una situazione che definire opaca vuol dire eufemizzare; gli altri due accusati nel frattempo erano riusciti a riparare in Brasile.

Il caso «De Tormentis», 1978
Mercoledì scorso, la ricerca di scavare in casi non risolti che viene condotta da Chi l’ha visto? ha portato nella calma atmosfera serale delle famiglie la drammatica e torbida vicenda di gruppi speciali che operavano gli interrogatori verso la fine degli anni Settanta di appartenenti o simpatizzanti della lotta armata. Enrico Triaca ha raccontato la sua storia e le torture subite nel maggio 1978, dopo il suo arresto in una tipografia romana come fiancheggiatore delle Br: le torture vennero inflitte non da un agitato poliziotto a cui la situazione sfuggì di controllo ma da un gruppetto all’uopo predisposto, coordinato da questo signore delle tenebre che veniva nominato con il nickname «De tormentis», osceno come il suo operare.
Triaca, sparito per una ventina di giorni dopo il suo arresto, aveva denunciato immediatamente le torture subite, ma il giorno successivo alla denuncia aveva ricevuto il mandato di cattura per calunnia – l’allora capo dell’ufficio istruzione Achille Gallucci era un tipo veloce – e la conseguente condanna. Sarebbe una bella occasione la riapertura del processo per calunnia, ora che si sa chi si cela dietro quel nickname. Si sa che questi si definisce un nobile servo dello stato, che non nega ma inserisce il tutto in una sorta di necessitata situazione. Egli, sia pure con qualche successivo passo indietro, conferma. Così come già qualche anno fa un altro superpoliziotto, Salvatore Genova, in un’intervista al Secolo XIX, aveva confermato che torture erano state inflitte alle persone arrestate nell’ambito dell’indagine sul sequestro Dozier, operato in Veneto dalle Br qualche anno dopo. Allora Genova era stato indicato come oggetto di calunnia, qualcuno (il Partito Socialdemocratico, strano esito dei nomi) gli aveva dato l’immediato salvacondotto della candidatura in Parlamento, e anche se in quel caso un’inchiesta aveva, contrariamente al solito, accertato fatti e responsabilità, nessuno aveva pagato; anche perché il reato che non c’è oggi non c’era ovviamente neppure allora. Ma, il tutto era stato sempre riportato al caso isolato, alla sbavatura in un contesto in cui si affermava e si ripeteva che la lotta armata era stata affrontata e sconfitta senza mai debordare dal binario del rigoroso rispetto della legalità.
Questo riandare indietro di qualche anno, dal caso Dozier al caso Moro, e ritrovare stesse pratiche, stessi nomi, un gruppetto all’uopo utilizzato – «prestato» alla bisogna da Napoli al nord – ben noto a chi aveva allora alte responsabilità, dà un’altra luce al tutto.

La tortura è una pratica «sistemica»
Del resto i tre fatti riportati, proprio perché hanno diverse determinazioni di territorio, di tempi in cui sono avvenute, di corpi che hanno operato, forniscono uno scenario inquietante nel rapporto che il nostro paese ha con la tortura: chi ha pratica di ricerca scientifica o sociale sa che l’ampiezza di più parametri fa passare la valutazione di quanto osservato da «episodico» a «sistemico» e cambia quindi la modalità con cui valutare il fenomeno. Interroga per esempio, in questo caso, sulle culture formative di chi opera in nome dello stato, sulle coperture che vengono offerte, sull’assenza infine, da parte delle forze politiche e culturali del paese, di una riflessione più ampia su come questi fatti siano indicatori della qualità della democrazia.
L’atteggiamento della loro negazione o della loro riduzione a fatti marginali è di fatto complice del loro perpetuarsi e dell’affermarsi implicito di un principio autoritario come costruttore dell’aggregato sociale a totale detrimento dello stato di diritto.
Per questo va rifiutata l’impostazione che da sempre alcuni politici e alcuni procuratori hanno avuto nell’affermare senza velo di dubbio che l’Italia, anche in anni drammatici, non ha operato alcuna rottura della legalità: per questo già trent’anni fa alcuni di noi – penso all’esperienza della rivista Antigone che uscì come supplemento a questo giornale – avviarono una serrata critica alla logica e alla cultura, oltre che alle pratiche, di quella che allora era definita «legislazione d’emergenza».
Spataro, Battisti e la magistratura
Anche recentemente – esattamente un anno fa, il 19 febbraio, in occasione del dibattito attorno alla estradibilità di Battisti – il procuratore Spataro si fece carico di riaffermare su queste pagine che «l’Italia non ha conosciuto derive antidemocratiche nella lotta al terrorismo» e che «è falso che l’Italia e il suo sistema giudiziario non siano stati in grado di garantire i diritti delle persone accusate di terrorismo negli anni di piombo». Oggi, credo, che tali asserzioni, figlie della negazione della politicità del fenomeno di allora, debbano essere riviste.
Perché non è possibile che ciò che avveniva e avviene nel segreto non sia noto a chi poi interroga un fermato o lo visita in cella. Non era possibile allora e non è possibile nei casi di maltrattamento di oggi.
Il tribunale di Asti, per esempio, è severo con il direttore di quel carcere, le cui dichiarazioni sono definite a tratti «inverosimili». E il magistrato che raccolse le testimonianze accusatrici di Gulotta come indagò sulle modalità con cui esse erano state ottenute? Così come i magistrati che videro Triaca e ascoltarono le sue affermazioni, non appena ricomparso dai giorni opachi, quale azione svolsero per comprenderne la fondatezza?
La responsabilità, almeno in senso lato, non è solo di chi opera, ma anche di chi non vede e ancor più di chi non vuole vedere. Perché la negazione dell’esistenza di un problema non aiuta certamente a rimuovere ciò che lo ha determinato e apre inoltre la possibilità di mettere sotto una luce sinistra ogni altra operazione, anche quelle di chi – fortunatamente la larga maggioranza – ha agito e agisce nella piena correttezza.
In un articolo di ieri su Repubblica, Adriano Sofri ricordava come molte di queste storie fossero note, almeno sfogliando i rapporti per esempio di Amnesty o anche le stesse denunce avvenute in Parlamento. È vero, ma credo che tra un «io so» detto secondo la pasoliniana memoria e una esibita dichiarazione da parte di chi in tal senso operò, ci sia una distinzione sostanziale: una distinzione tale da rendere inaccettabile il silenzio o il perdurare in una logica che nulla è accaduto e nulla accada.
Oggi il continuare a negare il problema non aiuta a chiudere il passato in modo politicamente ed eticamente accettabile e utile, né a capire quali antidoti assumere per il suo non perpetuarsi.

* Fino allo scorso dicembre presidende del comitato europeo contro la tortura

PER UNA PANORAMICA SULLA TORTURA QUI UNA CARRELLATA DI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
 3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4)  Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Enrico Triaca
17) Seconda parte del testo di Triaca
18) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
19) Due firme importanti sulla Tortura

 

Due firme importanti, sulla tortura degli anni ’70 / ’80

16 febbraio 2012 8 commenti

“Dopo il Corriere della sera anche sulle pagine di Repubblica, il quotidiano di tutte le emergenze e fermezze nazionali, del più feroce rigor mortis, sostenitore imperterrito di polizia e magistratura, grazie ad Adriano Sofri si parla delle torture impiegate per contrastare la lotta armata degli anni 70 e inizio 80, ma non solo. Il muro del silenzio comincia lentamente a mostrare le sue crepe”
dal blog Insorgenze (dove potete leggere interamente l’articolo di Sofri)

Pier Vittorio Buffa, il giornalista del gruppo Espresso intervistato da me e Paolo Persichetti sul tema delle torture, oggi, dopo Adriano Sofri, apre il suo blog per tornare, dopo trent’anni a scrivere di torture.
La sua storia è raccontata in questo blog, e vi consiglio di leggerla:
  – L’arresto di Pier Vittorio Buffa
  – Intervista a Pier Vittorio Buffa

Ecco il testo di Buffa, comparso oggi sulle pagine del suo blog :

Non avrei pensato di tornare a parlare di una storia vecchia di trent’anni se stamattina non vi avesse fatto esplicito riferimento, in un articolo per Repubblica, Adriano Sofri.
Nel 1982 Luca Villoresi, di Repubblica, e io, che lavoravo all’Espresso, venimmo arrestati a Venezia per aver denunciato le torture ai brigatisti che avevano rapito il generale americano James Lee Dozier. In rete c’è il mio articolo di allora e una breve sintesi della vicenda.
Andare in prigione, anche se giornalisti con alle spalle giornali come Repubblica e L’Espresso, non e’ gradevole. Lacera dentro, lascia il segno, cambia qualcosa in te, per sempre.
Quello che però, personalmente, mi ferì forse più delle foto con i ferri ai polsi e del rumore del cancello che si richiude alle spalle, fu l’essere implicitamente, e anche esplicitamente, accusato di aver fatto, con quell’articolo, il gioco dei terroristi. Il clima di quei giorni lo sintetizza bene Sofri riportando un passaggio dell’intervento di Leonardo Sciascia in parlamento.
Oggi, dopo trent’anni, i protagonisti di allora, funzionari di polizia, raccontano la verita’. Confermano che la tortura programmata e’ davvero esistita nel nostro paese. Che l’acqua e il sale non erano l’invenzione di giornalisti fiancheggiatori. Che i poliziotti che denunciarono i loro colleghi e che, per questo, vennero additati come traditori ed emarginati, dicevano solo la verita’.

A me resta l’amarezza di non essere riuscito, allora, a far arrivare i responsabili di fronte a un giudice.
Villoresi e io, semplici e giovani cronisti, arrivammo alla verità con un paio di telefonate alle persone giuste e qualche incontro semiclandestino. I magistrati e i capi di quei funzionari avrebbero potuto fare molto di più e meglio per scoprire cosa accadeva nei distretti di polizia e punire i responsabili. Ma non fecero nulla. Anzi, negarono con forza le evidenze.

Resta però anche un pizzico di soddisfazione che non deve restare solo mia, ed è per condividerla che ho scritto questo post. Oggi ci sono le prove che due cronisti, su questa brutta storia, raccontarono la verità. E che sia davvero acclarata con ben trent’anni di ritardo dimostra solo che della verità non bisogna avere paura. Va cercata, documentata, scritta.
E questo è il semplice ma difficile mestiere del cronista.

PER UNA PANORAMICA SULLA TORTURA QUI UNA CARRELLATA DI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
 3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4)  Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Enrico Triaca
17) Seconda parte del testo di Triaca
18) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
19) Due firme importanti: Adriano Sofri e Pier Vittorio Buffa
20) Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto

Enrico Triaca scrive ancora al suo torturatore: l’avvocato Nicola Ciocia, conosciuto come professor De Tormentis, uomo di Stato

15 febbraio 2012 3 commenti

Da INSORGENZE, il blog di Paolo Persichetti.

Da un «combattente» come lei mi sarei aspettato un gesto “Etico” dell’ultim’ora: «Eccomi qua sono io», e invece niente, ha aspettato fino alla fine nascosto nella sua tana, ha aspettato che la stanassero come un coniglio tremolante ed ora ci racconta che nulla è vero. Dottor Jekyll e Mister Hyde, da latitante rivendica le sue «eroiche gesta» e ora che la sua identità è evidente piagnucola la sua innocenza, la sua correttezza, ci vuole impietosire con la sua cagionevole salute.
Non è dignitoso per funzionario dimostrare che solo in anonimato sa assumersi le proprie responsabilità, che sa solo vivere nell’ombra. Purtroppo nessuno le ha imposto nulla «Professore»; tutto questo casino lo ha combinato lei di sua spontanea volontà rilasciando interviste.
Stia tranquillo «Professore» non le succederà nulla, i reati sono tutti prescritti, il suo Stato continuerà a difenderla. Lo faccia un gesto dignitoso per una volta nella sua vita giunta agli sgoccioli, non ha nulla da perdere, non la sua carriera ormai conclusa, non il suo nome ormai noto.
Io da parte mia le assicuro che non la morderò, non la guarderò con rancore, «Professore», lei mi è del tutto indifferente. Qui non si tratta di trovare un colpevole, di capire chi è il macellaio e chi la vittima, ma di ripristinare una verità Storica, e questo, caro «Professore», dovrebbe essere il suo imperativo come funzionario di Stato che ha giurato sulla Costituzione. Non lasci questa terra da vigliacco. Sono altri i silenzi che fanno rumore, sono quelli di chi le ha dato gli ordini, sono quelli di chi in silenzio, aqquattati nell’ombra aspettano che passi la bufera parlando di Democrazia, Costituzioni e Stato di Diritto.
Il Terroristà sarò sempre io, comunque vada.
“Noi ci sedemmo dalla parte del torto perché gli altri posti erano tutti occupati”
Bertolt Brecht

(E i culi di pietra del potere sono pesanti da scalzare N.d R.)

13 febbraio 2012

Saluti, Enrico Triaca

ELENCO DEI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Enrico Triaca
17) Seconda parte del testo di Triaca
18) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia

Bahrain: di nuovo in arresto @angryarabiya

13 febbraio 2012 1 commento

Il volto di Zeinab!

Ancora lei, ancora piazza della Perla di Manama.
Ancora repressione, anfibi di regime, manette, caserme.
Le notizie degli ultimi minuti ci dicono che resterà in stato di fermo di polizia per almeno sette giorni.
Sappiamo quanto è forte questa giovane donna, sappiamo con quale dignità e coraggio manda avanti la sua esistenza, tra carceri e mobilitazioni: più di una volta abbiamo parlato di lei, ogni volta che è stata catturata, ogni volta che c’ha raccontato le condizioni di suo padre,
condannato all’ergastolo, e di suo marito, detenuto nello stesso carcere.
Il Bahrain non interessa a nessuno.
E’ un paesello piccolo, ricchissimo, dalle donne nere e dagli schiavi asiatici; è un paese di cui non si sa pronunciare il nome,
e non si vuole impararlo.

Domani sarà una giornata importante per quel paese: l’anniversario della prima manifestazione a Manama, l’anniversario dell’inizio delle inaspettate mobilitazioni che stanno mutando per sempre il paese, la sua popolazione, le sue donne.
Purtroppo Zeinab al Khawaja, che trovate su twitter come @angryarabiya non potrà esserci; costretta in una cella, come buona parte dei suoi cari.
Noi terremo gli occhi aperti.
FREE BAHRAIN
FREE ANGRYARABIYA!

AH! Dimenticavo…ieri il re Hamad bin Isa al-Khalifa, dittatore sanguinario del Bahrain, in un’intervista allo Spiegel Online fa un appello ad Assad. Gli dice, pensate voi la faccia come il culo, di prendere in considerazione le richieste del suo popolo.
Un torturatore, che chiede al capo dei macellai di esser clemente: se non ci fossero fiumi di sangue sarebbe una barzelletta.
In questo video, Zeinab…

La Rai si accorge della tortura in Italia e di De Tormentis

9 febbraio 2012 15 commenti

AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI

 

Anche la Rai si accorge che la lotta alle Brigate Rosse non è stata certo quella di uno stato democratico, ma di uno stato di polizia.
Torturatore.
La trasmissione “Chi l’ha visto?” ieri sera ha avviato un’inchiesta sul professor De Tormentis e la sua squadretta speciale che su mandato del governo Spadolini, agì tra questure e caserme d’Italia per estorcere informazioni alle persone arrestate durante le operazioni contro le Brigate rosse ed altre organizzazioni armate,  ricorrendo al waterboarding e ad altre tecniche di tortura e sevizie.
Vedremo come la trasmissione manderà avanti quest’inchiesta visto che nell’intervista a Salvatore Genova (allora Commissario della Digos, oggi questore) sono stati fatti molti nomi poi coperti dai Bip del montaggio.
Vi allego la parte di trasmissione in cui c’è l’intervista ad Enrico Triaca (tipografo delle BR, torturato da De Tormentis) e quella a Genova…
Sotto al video troverete i link, numerosissimi, a tutta quest’inchiesta (solo quelli di questo blog, ma ce ne sarebbero molti altri): come vedete i nomi esistono, e son facilissimi da trovare!

ELENCO DEI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
 3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4)  Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Enrico Triaca
17) Seconda parte del testo di Triaca

NOTAV: hanno trasferito Tobia a Cuneo dopo le proteste alle Vallette

9 febbraio 2012 Lascia un commento

Ieri in tarda notte leggevo questa lettera scritta da Giorgio e Tobia, compagni NoTav detenuti nel carcere di Torino.
La leggevo e pensavo a quant’è bello vedere che i compagni, appena entrati in carcere, iniziano a portare avanti forme di lotta necessari per sostenere la detenzione e conquistare agibilità.
La repressione ovviamente non si è fatta attendere: TOBIA E’ STATO TRASFERITO ALL’ALBA DI OGGI A CUNEO!

A tutti i compagni/e
Vogliamo farvi sapere che ieri, mentre si svolgeva il concerto davanti al carcere, noi abbiamo dato corso a una protesta contro le pesanti condizioni di agibilità interna.
Al detenuto spettano, per disposizione ministeriale, 4 ore d’aria. In più sono concesse 2 ore di socialità, in cui i detenuti dovrebbero, appunto, socializzare tra loro.
Fino a poco tempo fa in queste ore venivano aperte le celle e si poteva passeggiare nel corridoio o, volendo, entrare in un’altra cella. Ultimamente ci fanno uscire e, dopo un quarto d’ora, ci fanno entrare nelle celle in cui vogliamo stare.
In questi giorni d’emergenza freddo è impossibile uscire all’aria anche perchè i cortili sono invasi dalla neve e non si sono attrezzati con scarpe adatte. Se non vai all’aria ti obbligano a stare chiuso in cella.
Ieri sera, nella nostra sezione le condizioni sono state inasprite. Invece di aprire tutte le celle contemporaneamente venivano aperte una alla volta, ti portavano alla cella che volevi e ti richiudevano nuovamente.
Quando ci hanno aperto noi (Tobia e Giorgio) siamo rimasti in corridoio rifiutando di farci nuovamente rinchiudere. Allora han provato a metterci contro gli altri, dicendo che fino a quando noi eravamo in corridoio non avrebbero più aperto a nessuno. Dopo esserci consultati con gli altri detenuti, abbiamo deciso di non desistere.
Dopo un po’ di minacce, hanno chiamato la squadretta, composta da mezza dozzina di agenti nerboruti, con il chiaro intento di intimidirci. Al nostro netto rifiuto di rientrare in cella, ci hanno presi di peso e sbattuti dentro, senza però usare violenza.
Dopo una decina di minuti siamo stati convocati dal Direttore che, con modi gentili e molto paternalismo si lamentava che era la terza protesta di questo tipo che avevano messo in atto.
Noi, dopo aver precisato che non volevamo favori ne privilegi personali, abbiamo presentato a nome di tutti i detenuti della sezione una serie di richieste di agibilità minima.
Il direttore ha risposto che ci avrebbe riflettuto sopra e ci avrebbe fatto sapere.
Adesso stiamo valutando il da farsi.
Come i banchieri cercano di far pagare la crisi ai lavoratori, in carcere si cerca di far pagare il sovraffollamento ai detenuti. Vengono progressivamente ridotte le dotazioni (detersivi, carta igienica, ecc.) e, con la scusa di maggiori difficoltà di gestione, gli spazi di agibilità.

La lotta non si fermerà.

i Detenuti del 26 Gennaio 2012
Giorgio e Tobia
Carcere Lorusso e Cutugno
Via Pianezza 300
10151 Torino

Solidarietà a chi è privato della libertà: presidio a Regina Coeli

23 gennaio 2012 1 commento

A tre mesi di distanza dalla giornata del 15 Ottobre, c’è ancora chi continua a scontare la repressione degli apparati giudiziari dello Stato.

Foto di Valentina Perniciaro _sbarre e privazione di libertà_

6 ragazzi, di cui 5 minorenni, sono denunciati a piede libero, in 9 si trovano agli arresti domiciliari, due ragazze hanno gli obblighi di firma, mentre Giovanni, condannato a 3 anni e 4 mesi, resta ancora rinchiuso in carcere.
Nonostante l’accanimento giudiziario nei confronti delle persone arrestate e la gogna mediatica montata ad arte su quella giornata, chi crede sia indispensabile ribellarsi allo stato di cose attuali ha espresso tenaciemente la propria solidarietà: le iniziative a supporto delle spese legali e a sostegno di chi è recluso, i presidi e i saluti dinanzi ai carceri di regina coeli e rebibbia, la presenza nelle infami aule dei tribunali durante i processi sono i gesti che disegnano il volto comune di tutti/e coloro che quotidianamente vogliono rompere le mura dell’indifferenza.

Per continuare a tenere viva la solidarietà nei confronti dei denunciati della giornata del 15 ottobre e per non lasciare solo o sola chi continua ad essere rinchiuso dentro una cella maledetta,
lanciamo un appuntamento per sabato 28 Gennaio, alle ore 13, durante l’ora d’aria dei detenuti del carcere di Regina Coeli, al faro della Passeggiata del Gianicolo.
Microfono aperto e casse puntate verso Regina Coeli, per farci sentire da Giovanni e da tutti coloro che che sono privati della loro libertà.

Affinchè le persone non finiscano dove comincia il carcere, la solidarietà è un’arma.

Libertà per tutti/e

Siria: le poesie dal carcere di Faraj Bayraqdar

23 gennaio 2012 1 commento

(di Elena Chiti) da www.sirialibano.com
Torna di attualità Faraj Bayraqdar. Non che abbia mai fatto le prime pagine dei giornali. Certo non in Siria. Ma questo poeta originario di Homs e attualmente residente in Svezia ha fatto parlare di sé. O almeno storcere la bocca alle autorità siriane, che nel periodo della sua detenzione – di fronte alle voci di protesta che, soprattutto dall’estero, reclamavano la liberazione del poeta – sono arrivate a negare la sua stessa esistenza.

Faraj Bayraqdar, accusato di affiliazione al partito comunista, ha scontato quasi quindici anni (dal marzo 1987 al novembre 2000), visto che gli ultimi 14 mesi gli sono stati graziosamente abbonati dal regime, in cambio di una sua rinuncia a qualsiasi forma di militanza politica.
Ma non è bastato. Nel 2003, quando Bayraqdar – da uomo libero – si è rivolto all’Unione degli Scrittori siriani (Ittihâd al-Kuttâb al-Suriyyîn) perché gli pubblicassero Anqâd (“Rovine”), raccolta di poesie scritta negli anni vissuti da carcerato, si è sentito rispondere che, malgrado l’intrinseca qualità dei versi (espressamente riconosciuta nei rapporti dei due comitati dell’Unione incaricati della lettura), la raccolta era impubblicabile perché contenente molte poesie suscettibili di “nuocere al sentimento nazionale e al senso di appartenenza alla patria” (isâ’a ilâ al-fikr al-qawmî wa’l-intimâ’ ilâ al-watan).
Traduco qui sotto tre delle poesie più nocive, tratte dalla raccolta Anqâd (“Rovine”), con cui l’editore libanese Al-Jadîd apre il suo catalogo del 2012, presentato al Salone del Libro arabo di Beirut.

***
Giro (Titolo originale: Dawarân)

In esilio
sei tu che giri
intorno alla maledizione
in carcere
è la maledizione
che gira
intorno a te.

Carcere di Sednaya, 1995

***

Miseria (Titolo originale: Faqr)

Dio ha
un inferno di cui andare fiero
che miseria!
Non ha niente
di paragonabile al carcere di Tadmor
né di Mazza
o Adra
e nemmeno Sednaya.

Carcere di Sednaya, 1996

***

Matrioska siriana (Titolo originale: Mâtrûshkâ sûriyya)

Se il cielo è un velo
la terra è un velo
il mio paese è un velo
il carcere è un velo
il silenzio è un velo
la poesia è un velo
e io sono un velo
come faccio a vedere Dio
e Dio a vedere me?

Carcere di Sednaya, 1997

Enrico Triaca: ecco come mi ha torturato De Tormentis

20 gennaio 2012 4 commenti

Un testo che Enrico Triaca, il “tipografo” delle Brigate Rosse torturato, ha inviato al blog di Paolo Persichetti, Insorgenze.
Che non può non esser allegato al lavoro che Polvere da Sparo sta facendo sulla tortura.

Avevo chiesto ad Enrico Triaca, se ne avesse avuto voglia, di raccontare in una intervista le torture subite dopo l’arresto, nel maggio 1978. Enrico mi ha fatto pervenire questa testimonianza scritta di suo pugno dove racconta i due volti della tortura: quella immediata, il supplizio sul corpo, e quella più lunga, sottile, interminabile, realizzata attraverso l’isolamento carcerario in condizioni di detenzioni bestiali. Entrambe finalizzate ad estorcere informazioni, spingere alla delazione, distruggere l’identità politica e personale.
Il racconto è molto lungo per questo sono costretto a suddividerlo in due parti. Non voglio togliere altro spazio a parole che lasciano il segno, aggiungo solo una cosa: “De Tormentis” ha rivelato nel libro di Nicola Rao di essere stato il torturatore di Triaca. Enrico riferisce che questo funzionario di polizia che discuteva da pari a pari con il capo della Digos romana Spinella, dunque aveva un grado elevato, gli si presenta come «compaesano». Enrico Triaca è nato a San Severo, in provincia di Foggia. Il suo torturatore era dunque pugliese come lui. Si tratta di un ulteriore dettaglio che conferma l’identità di “De Tormentis”, nato a Bitonto, provincia di Bari, il 21 gennaio 1934.

“Sono stato arrestato il 17 maggio 1978. Prelevato da casa fui portato in tipografia, in via Pio Foà a Monteverde, per la perquisizione dei locali. Qui appena gli agenti hanno rinvenuto il materiale dell’organizzazione si è precipitata un’orda di poliziotti. A quel punto sono stato portato in questura, a San Vitale, dove venni perquisito come risulta da un verbale firmato da Domenico Spinella (capo della DIGOS). Nel pomeriggio sono stato spostato nella caserma di via Castro Pretorio, dove è cominciato l’interrogatorio. Verso sera è arrivato il “professor De Tormentis” che mi ha indirizzato qualche battuta dicendomi, tra l’altro, che eravamo paesani, dopodiché si appartò con Spinella. I due confabularono qualcosa. Appena finito dissero agli agenti che bastava così e ordinarono di riportarmi in questura. Uscimmo nel cortile dove c’era un furgone. Si aprì lo sportello laterale e si affacciarono due poliziotti con casco antiproiettile e giubbotto suscitando lo stupore degli agenti che mi tenevano, ma “De Tormentis” ordinò di consegnarmi a loro e Spinella confermò l’ordine.

Il trattamento
Fui caricato, mi misero le manette dietro la schiena, mi bendarono steso a terra e il furgone partì. Nessuno parlava, si sentiva solo un leggero bisbiglio e un rumore di armi, caricatori che venivano inseriti, carrelli che mettevano il colpo in canna. Cercavo di capire cosa stava succedendo: “Vogliono farti sparire, eliminarti? Ma sei stato prelevato a casa, portato in tipografia, quindi la cosa e pubblica”. Allora razionalizzavo che la cosa non era possibile. Allora mi chiedevo: “Vogliono pestarti? Ma questo potevano farlo a Castro Pretorio, di certo non sto andando in Questura”.  Dopo una mezzora circa, ma calcolare il tempo in certi frangenti è difficile, penso comunque di non essere uscito da Roma, il furgone si fermò. Mi fecero scendere, salimmo delle scale e mi introdussero in una stanza. Lì venni spogliato, mi caricarono su un tavolo e mi legarono alle quattro estremità con le spalle e la testa fuori dal tavolo, accesero la radio con il volume al massimo e cominciò “il trattamento”. Un maiale si sedette sulla pancia, un altro mi sollevò la testa tenendomi il naso otturato, e un altro mi inserì il tubo dell’acqua in bocca.
L’istinto è quello di agitarti nel tentativo di prendere aria ma riesco solo ad ingoiare acqua. Nessuno parla tranne“De Tormentis” che da ordini, decide quando smettere e quando ricominciare, fa le domande. Poi ti viene somministrato qualcosa che si dice dovrebbe essere del sale, ma tu non senti più il sapore, dopo un po’ che tieni la testa penzoloni i muscoli cominciano a farti male e ad ogni movimento ti sembra che il primo tratto della spina dorsale ti venga strappato dalla carne, dai muscoli, dai nervi. Quando l’ossigeno comincia a mancare il corpo si ribella e si manifesta con violenti spasmi, violente contrazioni nel tentativo di prendere ossigeno: uno, due , tre spasmi e “de Tormentis” ordina di smettere. Un paio di respirazioni e si ricomincia: uno, due, tre contrazioni, «Stop»; uno, due, tre, «Stop». Dopo un lasso di tempo indefinito cominci a non reagire più; cerchi di estraniarti ma la testa che viene continuamente mossa e le fitte che ciò ti procura ti costringono a restare lì. All’ennesimo stop entra in campo un’altra voce che dice di smettere, che può bastare. Ne nasce una mezza discussione con “De Tormentis” che invece insiste per continuare, ma l’altra voce ha paura e s’impone e così vengo slegato, messo a sedere sul tavolo. Con l’alcol mi massaggiano braccia e spalle, mi rivestono tra le battute divertite di due maiali. Per accertarsi che la bendatura regga mi fanno uscire sul pianerottolo dove al centro è sistemata una sedia che mi fanno urtare per verificare che non vedo, quindi riscendo una rampa di scale e poi ne imbocchiamo un’altra sulla sinistra, più piccola e meno illuminata che da direttamente nel garage. Qui vengo caricato nel furgone, si sente il rumore di una porta automatica e si parte. Tornati in questura, nel cortile vengo sbendato e consegnato a due guardie che mi portano in cella di sicurezza.

“Hanno visto in tanti”
“De Tormentis” ha sparso una quantità di indizi su di sè da essere ormai facilmente identificabile; la voce “fuori campo” presente nella stanza della tortura non è difficile da capire a chi appartenga. Non poteva essere certo un semplice poliziotto ad ordinare a “De Tormentis” di smettere. Nel cortile di Castro Pretorio oltre a Spinella e “De Tormentis” con la sua squadretta c’era una coorte di almeno 10 poliziotti. Erano e sono in molti a sapere.
Come scriveva Pasolini, io so. Io so i nomi dei torturatori, io so i nomi di chi tali abusi ha coperto, ma non ho le prove.

Il carcere
Dopo tre giorni di permanenza nelle celle di sicurezza (altro abuso perché le leggi di allora non permettevano di trattenere un detenuto per un tempo così lungo in questura) venni tradotto nel carcere di Civitavecchia, dove sono stato per circa una settimana. 24 ore su 24 chiuso in cella senza possibilità di andare “all’aria”, con un secondino fisso davanti alla cella. Poi trasferito a Sulmona, anche lì 24 su 24 in una cella sotterranea, con una finestrella a sei metri di altezza, una turca, senza lavandino, con un tubo che fuoriusciva sopra la turca da cui sgorgava in continuazione acqua dal quale potevo lavarmi o bere, il letto incementato al centro della cella, e una puzza di muffa che toglieva il respiro……… mi venne in mente Silvio Pellico.
Dopo una settimana circa, sono stato nuovamente trasferito, questa volta a Volterra. Qui ci fu il salto di qualità: la cella era una “normale” cella di isolamento, con letto, bagno, lavandino e due porte una di fronte all’altra. Una di queste portava al cortile dell’aria: una cella un po’ più piccola senza tetto, ma almeno si vedeva la luce del sole, il cielo. Qui riuscii ad avere dopo tanto una sigaretta dal lavorante della sezione, una Stop lunga senza filtro. Me la fumai con un gusto indescrivibile, poi mi sdraiai sul letto perché mi girava tutto. Dopo un’altra settimana circa sono stato nuovamente trasferito, a Rebibbia questa volta, sempre in isolamento. Ricevetti la prima visita degli avvocati, che mi spiegarono come fino a quel momento nessuno era riuscito a sapere dove stavo, che fine avessi fatto (Desaparecidos).
A Rebibbia il passeggio era ampio con tutto intorno vetrate che davano su corridoi interni. Dopo qualche giorno trovai i vetri tappezzati di carta plastificata ed ogni tanto apparivano fessure dalle quali, seppi in seguito, mi spiavano i parenti delle vittime per i confronti.

La condanna per calunnia
Ci fu poi l’interrogatorio con il magistrato Achille Gallucci al quale denunciai le torture raccontando come si svolsero i fatti. Lui mi rispose che mi sarei beccato una denuncia per calunnia e così fu. Il giorno dopo, o forse quello ancora, ricevetti il mandato di cattura per calunnia, dopo lunghe e approfondite indagini Sic!.
Venne istruito il processo per direttissima, ed in quella occasione ci inserirono il porto abusivo di armi. Gli avvocati fecero presente che non potevo essere processato per porto d’armi in quel frangente perché i tempi per la direttissima erano scaduti, ma il giudice se ne fregò e andò avanti.
Venne chiamato Domenico Spinella, capo della DIGOS. Il giudice gli chiese il motivo del trasferimento dalla questura a Castro Pretorio, ma lui negò che fossi stato portato in questura ma direttamente a Castro Pretorio. Gli avvocati presentano alla corte un verbale firmato da Domenico Spinella nel quale affermava che alle 12,30 venivo perquisito negli uffici della questura, ma il giudice se ne fregò, non chiese chiarimenti e continuò. Chiese a Spinella i nomi degli agenti di turno alle celle di sicurezza, lui rispose che non poteva ricordarli ma che il giorno dopo avrebbe portato il registro delle presenze. Il giorno dopo venne un agente e disse che il registro delle presenze era sparito, ma il giudice se ne fregò e si convinse, “al di la di ogni ragionevole dubbio”, della mia colpevolezza, così fui condannato.
Tutti i giornali evitarono qualsiasi commento limitandosi a riferire della mia condanna, si distinse L’UNITA’ che ebbe l’ardire di scrivere sul numero dell’8 novembre 1978: «L’avvocato Alfonso Cascone ha invece avanzato apertamente il sospetto che le accuse di Triaca alla polizia fossero false e che il suo assistito avesse mentito poiché – pensando di essere considerato dalle BR un delatore – temeva rappresaglie. Il reato di calunnia, ha detto quindi il legale, sarebbe stato compiuto in “stato di necessità”. Nonostante i dubbi suscitati dal comportamento della polizia durante il processo, dunque, uno scorcio di verità è arrivata inaspettatamente proprio da uno dei difensori del tipografo delle BR».
L’avvocato Alfonso Cascone presentò una denuncia contro il giornale che venne immediatamente archiviata.
CONTINUA…

I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa

Ancora su De Tormentis: il commento di Enrico Triaca, tipografo delle Br, torturato e poi denunciato per calunnia

10 gennaio 2012 15 commenti

Dopo aver letto nel libro di Rao la testimonianza di “De Tormentis” Enrico Triaca ha postato questo commento sul blog INSORGENZE
Enrico Triaca venne arrestato il 17 maggio 1978 nell’ambito delle indagini sul sequestro Moro.
Appena catturato scomparve per riemergere soltanto il 9 giugno
. Nei giorni in cui fu ostaggio delle forze di polizia venne torturato. Appena fu in grado denunciò le violenze ma non venne creduto. La magistratura lo condannò per calunnia.

Oggi il suo torturatore, un funzionario dell’Ucigos in pensione che esercita la professione di avvocato presso il foro di Napoli, nascondendosi dietro l’eteronimo di “professor De Tormentis” ha ammesso in un libro (scritto da Nicola Rao, Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali”: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, Sperling & Kupfer 2011) che Triaca aveva detto il vero.

Alcune doverose precisazioni sul “caso de tormentis”

Dopo aver letto alcuni articoli sparsi qua e la nella rete ho comprato il libro, “Colpo al cuore”, e ritengo di dover fare alcune precisazioni e considerazioni.
Precisazioni e considerazioni sul libro del giornalista Nicola Rao, e considerazioni sul “Nobile Servo dello Stato” denominato “professor De Tormentis” .
Inizio con il “Professor De Tormentis” che in quanto “Nobile Servo dello Stato” credo meriti la precedenza.
Esso tenta di nobilitarsi e giustificarsi dichiarando: “Io sono stato un combattente perché quella contro le Brigate Rosse era una guerra. Una vera e propria guerra.” Un combattente???????
“Professor De Tormentis” se lo lasci dire, Lei è solo un vigliacco, al servizio dello Stato, ma un vigliacco che ha la necessità di nascondersi dietro l’anonimato e come le Blatte ha vissuto negli interstizi della Storia. Ha ragione quando dice che è stata una guerra ma una guerra rivendicata dalle Brigate Rosse e sempre negata dai suoi Padroni. Quando una guerra è fatta da “combattenti” ci sono regole e codici di comportamento da rispettare tutte cose che Lei, da NON combattente ma da vigliacco, non ha fatto.
Anche le Brigate Rosse hanno fatto dei prigionieri, ed il suo Stato ha tentato in tutti i modo di accreditare l’idea che tali prigionieri venivano maltrattati e torturati, lampanti sono state le lettere dell’Onorevole Aldo Moro che erano diventate le lettere di un pazzo, un drogato. Poi con il prigioniero Dozier avete dovuto ammettere che facevano colazione con i Corn Flakes. Ecco questa è la differenza tra un COMBATTENTE e uno squallido mercenario al soldo dello Stato. Combattente uno che a 30 anni di distanza deve tentare di darsi un tono con le spalle spiaccicate al muro, nascosto nell’ombra?……………………… Sia serio Professore!.

Ancora il “Professor” dice: “E lì si usarono “metodi forti”, gli stessi che portarono due degli ufficiali della CIA che ci affiancavano ogni giorno, a mettersi le mano nei capelli: “Non credevamo, davvero, che gli italiani arrivassero a un livello di “pressione” tale”. Suvvia “professor” si rilassi, tenga a bada la sua boria, la CIA ha una lunga storia e tradizione di “metodi speciali” conosciuta in mezzo mondo e non credo proprio che devono imparare da Lei!
P.S. Caro “Professor De Tormentis” Sicuramente qualcuno Le riconoscerà lo Status di combattente ma io posso affermare, senza possibilità di essere smentito, che Lei oggi entra a pieno titolo e con encomio nel Club degli infami, perchè con le sue (spontanee) dichiarazione chiama direttamente in causa il suo collega Domenico Spinella, allora capo della DIGOS, che in quanto responsabile della mia detenzione non può non sapere a chi mi ha consegnato la notte del 17 maggio 1978.
Cordiali saluti “Prof”

Ora veniamo al libro
Il Sig. Rao fa un breve resoconto del processo contro di me per calunnia che evidentemente è stato estrapolato da qualche articolo di giornale, quindi molto parziale che non rende bene il clima nel quale si è svolto il processo.
Provo a chiarire meglio. Il giornalista Nicola Rao scrive: “La denuncia di Triaca fu formalizzata e si aprì un’inchiesta contro ignoti. Ma, non potendo riconoscere nessuno dei suoi torturatori, il 7 novembre 1982 il tipografo si beccò anche una condanna per calunnia dal tribunale di roma.”
Come precisato nel libro io denunciai le torture il 17 giugno, e il giorno dopo, non dopo un mese, un anno, ma il GIORNO DOPO, mi arrivò un mandato di cattura per calunnia, ora può anche essere possibile che la bravura del giudice istruttore Gallucci fosse così eccezionale che gli bastò una notte per “risolvere il Caso”, ma io un dubbio ce lo avrei.
Al processo a confutare la mia versione dei fatti fu chiamato Domenico Spinella allora capo della DIGOS che mi aveva in custodia, ebbene, le carte presentate in dibattimento e non le chiacchiere degli avvocati, hanno smentito la sua ricostruzione e non la mia, inoltre il giudice chiese a Spinella di dirgli i nomi degli agenti di guardia alle celle di sicurezza la notte che fui portato in questura, Spinella rispose che avrebbe portato il giorno dopo il registro dei turni, ma il giorno dopo si presentò in tribunale un agente che dichiarò che il registro era sparito Sic! tralascio altri episodi per non troppo tediare, ma su questi fatti si basa la mia condanna.

L'unità, 8 novembre 1978

Questo per precisare che forse, come spesso succede in Italia, è vero che “certi colpevoli” non si sarebbero trovati, ma di sicuro non ce stata la volontà di cercarli, in quanto inutile visto che il colpevole dovevo essere io e, che le coperture a certi “metodi speciali” sono state a tutti i livelli, Politici, Giudiziari, Mediatici.
Queste “piccole” verità non posso essere offuscate neanche dalle roboanti parole che il giornalista Rao usa nel descrivere le “atrocità” delle Brigate Rosse, ce stata una guerra ed è vero, ma purtroppo voi “democratici” vi siete troppo specializzati nel fare la conta dei morti altrui dimenticando sempre le vostre di atrocità. Potrebbe magari Sig. Rao un giorno provare a contare i morti fatti dallo Stato Repubblicano prima durante e dopo le Brigate Rosse? Sarebbe interessante!
Io nel mio piccolo provo a citarne qualcuno magari le apro la strada, come ad esempio le stragi di stato.
Negli ultimi 20 anni lo Stato repubblicano tradendo la propria Costituzione ha fatto 4 guerre, una ancora in corso d’opera, e non è che voi potete ritenervi innocenti perché le chiamate “Missioni di Pace”.
Da 20 anni in queste guerre vengono trucidati migliaia MIGLIAIA di CIVILI innocenti, Bambini, Donne, Anziani, e non è che voi potete ritenervi innocenti perché le chiamate “Effetti Collaterali”.
Come può notare Sig. Rao Ce una continuità storica impressionante di mistificazione e bugia non trova?
In questo io ritengo responsabili tutti, perché se è vero che il “bello” della democrazia è che “noi possiamo sceglierci chi ci governa” a differenza delle dittature che pugnalate alle spalle quando non vi servono più come amiche, tutti non possono che essere correi, perché in guerra ci sono andati tutti Centro Centro, Centro Destra, Centro Sinistra.
Le va comunque riconosciuto il merito Sig. Nicola Rao di aver riportato, e non insabbiato, fatti che erano rimasti nelle “Tenebre della Repubblica” e per questo la ringrazio. Ora ci sono tutti gli elementi per identificare il Marrano, a noi non resta che aspettare, e vedere, quanto interessata sia la Repubblica alla verità e giustizia.

Roma 10/01/2012 Enrico Triaca

Atene: azione diretta in una radio… e successiva pesante repressione

10 gennaio 2012 1 commento

Questa mattina diversi militanti dell’assemblea solidale con l’organizzazione “Lotta rivoluzionaria” attualmente sotto processo, sono entrati ed hanno invaso i locali della stazione radio Flash, situata nel sobborgo ateniese di Maroussi.

Immagini del presidio di capodanno, davanti al carcere di Korydallos (in un post precedente su questo blog potete trovare il video)

Una volta entrati in redazione, hanno interrotto le trasmissioni e dopo essersi impossessati dei microfoni hanno letto dei comunicati di solidarietà nei confronti dei detenuti reclusi nel maledetto carcere di Korydallos.
Un’azione breve, tanto che alle 11.30 le trasmissioni avevano già ripreso regolarmente;
nessuno dalla redazione della radio aveva richiesto l’intervento della polizia, sapendo che era un’azione che mirava alla lettura di alcuni fogli, ma malgrado ciò dopo pochissimi minuti sono arrivati plotoni su plotoni: dalla polizia antisommossa ai reparti speciali.
Più di due ore di stallo, poi alle 14.30 la polizia (con due avvocati) ha fatto irruzione nei locali arrestando tutti coloro che avevano partecipato all’azione di solidarietà,
mai denunciata dalla stessa radio.
Le accuse poi partono automaticamente ormai, con le leggi anti-terrorismo in vigore da poche settimane: tutto immediatamente diventa “azione terroristica, ed illegale uso della forza”.
In questo momento buona parte dei militanti sono stati trasferiti nel quartier generale della polizia sito in Alexandras Avenue, dove dalle 17.30 è stato convocato un presidio di solidarietà.

Seguiranno aggiornamenti …
leggete OccupiedLondon per rimanere informati sulle lotte greche

Dal carcere alle camere di sicurezza: deliri di un neo ministro della giustizia

7 gennaio 2012 5 commenti

Una "camera di sicurezza" delle questure e caserme italiane

Bell’idea ha avuto il nostro nuovo ministro della Giustizia: ha intenzione di svuotare le carceri mandando i detenuti in attesa di giudizio dentro le camere di sicurezza presenti in caserme e questure italiane, o meglio, senza tradurre i nuovi arrestati direttamente in carcere ma tenendoli nelle caserme fino alla direttissima, quindi per circa 48 ore.
Proprio gli stessi luoghi che più volte denunciamo per la violenza con cui vengono trattati i reclusi,
che senza aver la possibilità di entrare nel sistema carcerario (pieno di doveri ma anche di diritti minimi,ogni tanto), rimangono in mani che spesso hanno solo infinita esperienza con il manganello e gli anfibi …
le camere di sicurezza non hanno nulla: non hanno finestre, non hanno bagno, non hanno acqua corrente , non hanno strutture dove poter far respirare una boccata d’aria, non hanno mense dove poter fare i pasti… ma di che parla la Guardasigilli?
Ma come le viene in mente di proporre una cosa del genere?
Sa come è fatta una cella di sicurezza? Sa che quello che appare in questa foto è il top che si può trovare perché altre sembrano segrete, tanto che per entrare devi abbassare la testa?
La signora Severino sa qual è l’odore delle camere di sicurezza?
Sa che la maggiorparte della vita di un detenuto è fatta di ginnastica, di un po’ di socializzazione e magari anche di studi, di un po’ di cibo cucinato col fornelletto al butano (l’è dura senza nemmeno finestra… poi li fate passare per suicidi quando muoiono intossicati?); in una camera di sicurezza niente di tutto ciò sarebbe possibile.
Quanta gente vuole mandare a morire, signora Ministro?
Chi passa in quelle stanze, chi subisce la violenza psicologica e spesso fisica di quei luoghi fuori dal mondo e dalla legge, respira una boccata aria pulita e fresca quando mette piede in carcere… in confronto il sovraffollato putrido balordo carcere è una vacanza…

Un articolo dettagliato a riguardo

Grecia: capodanno davanti al carcere di Koridallos

3 gennaio 2012 1 commento


Concentramento di solidarietà fuori le prigioni di Koridallos 31 Dicembre 2011,
dalle ore 23.00 presso il parchetto di via Grigoriou Lambraki

Le nostre voci non smetteranno di crescere e passare attraverso le mura e le sbarre delle prigioni,
per essere uniti attraverso le voci con coloro che si trovano negli inferni dello Stato
e combattere per la dignità e la libertà.

I disoccupati nel frattempo si organizzano con espropri: QUI la traduzione di un volantino
Qui potete vedere un documentario sulle rivolte greche, a partire dalla morte di Alexis : GUARDA

Bahrain: a pestaggi, ergastoli e lacrimogeni, si aggiungono gli stupri

3 gennaio 2012 4 commenti

un ferito da un lacrimogeno al volto, poco prima di mezzogiorno oggi...per chiedere il rilascio di Hassan

Che giornate in Bahrain, dove da mesi si lotta per un po’ di libertà contro uno stato ed una repressione che ha pochi simili al mondo in violenza…il primo giorno dell’anno l’ennesimo funerale di un manifestante di 15 anni è stato scenario dell’ennesimo brutale attacco delle forze di sicurezza, con lacrimogeni, pallottole di gomma, e tante, tante bastonate.

Ogni tanto abbiamo parlato di quella piccola striscia di terra tra i mari,
abbiamo parlato di ergastoli e sentenze a morte nei confronti di numerosi attivisti per i diritti umani, abbiamo raccontato di come i medici sono stati arrestati…spesso tutto quel che son riuscita a raccontare veniva dalla testimonianza preziosissima e quotidiana di @angryarabiya,
giovane militante che ha conosciuto bene la repressione sulla sua pelle (l’ultimo suo arresto è di un mese fa) e su quella dei suoi cari: ergastolo al padre, una pesante condanna al marito.

Ieri si è parlato di revisione dei processi nei confronti degli attivisti, anche di quelli che son stati sentenziati a morte, o al carcere a vita: poi in realtà questa mattina in aula stanno cercando di accusare anche gli ergastolani di altre cose, precedenti ai fatti della condanna.
ieri, stessa giornata in cui alcuni villaggi soprattutto ad Al-Aker e Sitra, sono stati colpiti dalle cariche della polizia, dalle bastonature e dal fitto lancio di quegli strani lacrimogeni privi di etichetta che stanno intossicando il paese.
Strani mostri neri, senza nome nè composizione, sparati come fossero acqua su chiunque prova a manifestare.

E’ di pochi minuti fa la drammatica notizia dell’ennesimo arresto di Hassan Awns, che malgrado la sua età ha già conosciuto le prigioni del suo paese approfonditamente, tanto che questo è il suo quarto arresto.

Hassan Awns, 18 anni, stuprato e torturato... è stato riarrestato oggi

Hassan ha raccontato poco tempo fa quale tipo di tortura è stata compiuta sul suo corpo: è stato ripetutamente stuprato, oltre che pestato, e dal giorno del suo rilascio non ha mai avuto pace, con continue minacce e messaggi che lo stupro sistematico sarebbe ricominciato presto.
Ha riconosciuto nell’ufficiale  Yousif Al- Mulla Bkheet il suo aguzzino e stupratore, ed è probabilmente colui che lo tiene detenuto in questo momento
Tanto che dopo il suo arresto di questa mattina sul suo posto di lavoro, un centinaio di persone sono immediatamente corse a chiederne il rilascio davanti alla stazione di polizia dove è detenuto in questo momento, e dove ci son scontri da un’ora.
Hassan ha 18 anni, vive a Samaheej , Bahrain…un paese che interessa a pochi.

FREE BAHRAIN!
FREE BAHRAIN!
FREE BAHRAIN!

Capodanno di suicidi in carcere…che il 2012 sia l’anno dell’AMNISTIA !

1 gennaio 2012 2 commenti

Foto di Valentina Perniciaro _AMNISTIA_

Due suicidi in carcere in queste ore…a cavallo tra i due anni, uno a Trani (che ha il doppio dei detenuti previsti) e l’altro -in attesa di giudizio- alle Vallette di Torino (un terzo a Vigevano è stato sventato per un soffio).
I primi due dell’anno, o forse gli ultimi dei tantissimi di quello appena concluso:
chi muore in carcere, anche coloro che si tolgono la vita, sono assassinati dallo stato, omicidi compiuti giorno dopo giorno da chi continua a legittimare questo stato di cose e queste condizioni di detenzione.
Quasi ogni istituto italiano ospita un po’ più del doppio dei detenuti possibili: vuol dire 22 ore in branda, vuol dire che per poter stare in piedi in cella devi fare i turni, vuol dire assenza di cure, vuol dire condizioni igieniche intollerabili, vuol dire tortura a casa mia.
Il sistema carcere, non reintegra, non cura, non rispetta i minimi diritti umani; eppure tiene quasi 70.000 persone, di cui 30.000 in attesa di giudizio.
Per non parlare dei migliaia tossicodipendenti, che invece di esser curati vengono lasciati su una branda sudicia, a terminare la propria devastazione.
E così…con gli ultimi della terra apriamo le pagine di questo blog nel nuovo anno:
lo iniziamo come l’abbiamo finito. Davanti ad un carcere, a portare solidarietà a chi è recluso,  invocando non il cambiamento del carcere ma la sua abolizione. Perché l’unico carcere, CIE, ospedale psichiatrico  che dovremmo accettare è quello ridotto in macerie.

Qui il volantino distribuito ieri da Radio Onda Rossa, davanti al carcere di Rebibbia, nel presidio che ogni anno vien fatto il 31 dicembre,
per cercar di portare un po’ di musica e colori a chi è rinchiuso in una cella.

SE NON TI OCCUPI DI CARCERE È IL CARCERE CHE SI OCCUPA DI TE

Non voltarti dall’altra parte quando ascolti delle brutture del carcere!
Non far finta di nulla!
Il carcere è lì, e ti insegue nella tua vita quotidiana.
Non puoi sottrarti. La forme di controllo, le istituzioni totali si moltiplicano.
Alcuni anni fa il carcere ha partorito i Cie (Centri di Identificazione ed Espulsioni), per controllare e sottomettere la forza lavoro migrante.

Ogni comportamento è sottoposto a controllo e sanzione, e così, dopo 33 anni dalla chiusura dei manicomi, si attua sempre più il Trattamento Sanitario Obbligatorio(Tso), con effetti devastanti, spesso omicidi, come il caso di Franco Mastrogiovanni, ucciso il 4 agosto 2009 dopo aver trascorso 90 ore legato al letto del reparto psichiatria  all’ospedale San Luca a Vallo della Lucania.

foto di Valentina Perniciaro _la garitta di Rebibbia_

Negli Opg (Ospedali Pscichiatrici Giudiziari) vi sono rinchiuse oltre 1500 persone ancora oggi, nonostante il gridare allo scandalo dei benpensanti, dopo che la TV ha mostrato le sevizie e i trattamenti degradanti cui sono sottoposte le persone incatenate in quei lager.
Si intensificano i controlli per chi lavora attraverso normative restrittive sullo scioperodisciplina interna; mentre per chi non lavora oltre al controllo “economico”, dovuto alla necessità, vengono predisposti controlli da parte delle agenzie interinali.
I controllo su chi va allo stadio si moltiplicano, è stato introdotto il Daspo (Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive) e la “tessera del tifoso”; controlli per chi va in discoteca e per chi viaggia sulle strade; divieto di bere una birra dopo una certa ora in alcuni quartieri delle città.
Lo stesso carcere, ormai vecchio di 4 secoli, si rinnova differenziandosi sempre più per colpire comportamenti diversi. Oltre ai reparti a Elevato indice di Vigilanza (Eiv) e quelli strettissimi del 41 bis, fino all’ergastolo ostativo (obbligo di restare in carcere fino alle ultime ore di vita), una vera e propria condanna morte differita e altre differenziazioni vengono predisposte.
Nella scuola e nella famiglia il controllo e la disciplina assumono la forma di un bieco moralismo. Perfino nel momento della morte, lo Stato si arroga il diritto di decidere i tempi e le modalità di ogni intervento sul morente.

Restrizioni e controlli all’insegna dell’“emergenza” e della “sicurezza”. Capisaldi dell’ideologia dominante con cui si cerca di azzerare i problemi sociali, riducendoli a problemi di ordine pubblico. Isolando ogni volontà di lotta per farla passare come fatto patologico, malattia, malanno, disturbo, morbo, da curare e isolare perché può infettare.
Quindi “emarginazione” ed “espulsione” dal consesso sociale sono le azioni di controllo sociale verso tutti quei soggetti portatori di un qualsiasi problema: che sia una manifestazione di piazza, lo sbarco di persone senza documenti, l’opposizione alla costruzione di una nuova discarica e dell’Alta Velocità, l’occupazione di uno stabile da parte di chi non ha una casa, la lotta contro la disoccupazione, ecc.

Occuparci di carcere, oggi non è un optional, è una necessità per ciascuna e ciascuno di noi, se vogliamo liberare la nostra vita e non diventare passive propaggini di un sistema di potere sempre più totale.

PROSSIMI ANNI SENZA GALERE !!!                                            RadiOndaRossa

Un approfondimento radiofonico sul “professor De Tormentis” e la tortura

22 dicembre 2011 Lascia un commento

ASCOLTA LA TRASMISSIONE
A questo link potete ascoltare la trasmissione di mercoledì 21 dicembre, dai microfoni di Radio Onda Rossa.
Una chiacchierata tra me e Paolo Persichetti, autore dell’inchiesta, comparsa sulle pagine di Liberazione nelle scorse settimane, riguardo le metodologie usate dallo stato italiano per annientare l’organizzazione delle Brigate Rosse, con due squadrette appositamente addestrate che giravano le caserme italiane per occuparsi degli “interrogatori”.
Una chiacchierata sui metodi usati, sull’identità del “mastro torturatore”, sull’attuale detenzione di chi è stato torturato, sui prossimi sviluppi di questa storia…
Senza dilungarmi troppo, che più volte l’ho fatto, vi metto i link dove trovare gli articoli e i vari approfondimenti sulla tortura e i “cinque dell’Ave Maria”, e…ascoltate la trasmissione
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
 L’interrogazione parlamentare
 Lettera all’ordine degli avvocati di Napoli

COME OGNI ANNO RADIO ONDA ROSSA INIZIERA’ I FESTEGGIAMENTI DEL CAPODANNO LA MATTINA DEL 31.
DAVANTI AL CARCERE DI REBIBBIA, SOTTO LA GARITTA TRA VIA BARTOLO LONGO E VIA RAFFAELE MAJETTI,
SIETE TUTTE E TUTTI INVITATI AD UNA LENTICCHIATA PROPIZIATORIA SOTTO ALLE MURA DEL POSTO PIU’ BRUTTO DELLA CITTA’,

PER FAR ARRIVARE LE NOSTRE VOCI E LA NOSTRA MUSICA A CHI E’ PRIVATO DELLA PROPRIA LIBERTA’!
CONTRO IL CARCERE, GIORNO DOPO GIORNO

Ancora su De Tormentis: una lettera all’ordine degli avvocati di Napoli

19 dicembre 2011 13 commenti

Quello che mi stupisce è la poca attenzione su questa cosa.
Non sembra interessare più di tanto che si sia torturato “manuale alla mano”, che c’erano squadre addestrate solo per quello che visitavano le caserma dove serviva il loro lavoro: non importa l’idea che ora il nome di De Tormentis c’è, che c’è anche un interrogazione parlamentare, che tra poco magari sapremo qualcosa in più di quel pezzo di storia mai terminato.

Il Professor De Tormentis, a destra delle Renault: all'epoca 44enne. Pochi giorni dopo questo scatto si accaniva sul corpo di Triaca

Mai terminato si: perché chi è stato torturato e quella tortura l’ha sopportata, chi è stato brutalizzato e torturato E’ ANCORA IN CARCERE!
Ma ripeto, sembra interessare a pochi, in realtà: è un po’ un tabù, anche per la sinistra militante.
Anzi, c’è chi ti dice “Ah bhè allora perché non parliamo di Genova e della Diaz?”…risposte un po’ sterili, come se una cosa escludesse un’altra…
poi ripeto..
per me far la battaglia su De Tormentis, riuscire a capire chi come dove quando gli dava gli ordini, vuol dire cercar di tirar fuori Cesare Di Lenardo e chi come lui non ha ancora visto la luce, dopo trent’anni, dopo gli abusi subiti, dopo i decenni di abbandono di cui siamo tutti responsabili.

Intanto vi allego la lettera dell’avvocato Davide Steccanella, che ha inviato all’ordine di Napoli, al cui foro è iscritto il signor De Tormentis, ormai braccato.

Spett.Le

Consiglio
Ordine degli Avvocati di Napoli

Centro Direzionale
Piazza Coperta
80143 Napoli

Milano, 12 dicembre 2011

Richiesta chiarimenti:

Sono un collega iscritto all’albo degli avvocati di Milano dal 14.01.1991 (n. tessera 2008003999) ed ho recentemente appreso con notevole “sconcerto” (e come me credo molti altri lettori) quanto riportato su un recentissimo libro di Nicola Rao edito dalla nota Sperling&Kupfer dal titolo “Colpo al cuore” (peraltro giunto alla seconda ristampa !!!), argomento ripreso da un articolo comparso sulla edizione di domenica 11 dicembre del quotidiano nazionale “Liberazione”.
Nel libro in oggetto viene riportata una lunga intervista ad un “tale” che qualificandosi attualmente come avvocato del foro di Napoli racconta nel dettaglio (e in certo senso “vantandosene”…) di avere a suo tempo perpetrato reiterate torture di vario genere ai danni di numerosi arrestati (o fermati) quando, prima di diventare avvocato, prestava servizio come poliziotto per l’ UCIGOS alle dirette dipendenze del Ministero.
Si tratta di racconti a dir poco raccapriccianti di fatti di inaudita violenza in pur stile “argentino” perpetrati da un gruppetto di pochi agenti “scelti” al suo comando su uomini e donne al fine di farli parlare, il tutto in un assoluto spregio di una qualsivoglia forma di legalità al rispetto della quale quella funzione pubblica a quel tempo ricoperta avrebbe dovuto essere preposta.

Quella particolare “metodologia”, così minuziosamente descritta nelle pagine del libro citato, sarebbe stata “sperimentata” una prima volta nel 1978 e quindi, per ammissione dell’intervistato, “sospesa” per un po’ di tempo per evitare una sua “emersione”, e infine nuovamente e questa volta più massicciamente ripresa nei primi mesi del 1982, peraltro i nominativi dei “torturati” sono ampiamente noti avendo a suo tempo molti di loro sporto vana denuncia, allegando certificati medici, fotografie e quant’altro.
Le generalità del soggetto in questione non vengono fornite giacchè nel libro di Rao lo stesso viene sempre chiamato con lo pseudonimo, testuale, di: Professor De Tormentis, e la squadra di “agenti scelti” al suo comando, sempre testuale: “il gruppo dell’ave maria”.
Non credo sia difficile per Codesto Ordine individuare il nominativo del “collega” in questione (peraltro facilmente identificabile sulla base di alcuni elementi temporali) né mi interessa più che tanto attivarmi in tal senso, quello che mi preme viceversa sapere è se Codesto Ordine sia stato o meno informato della cosa, e se si quali iniziative intenda intraprendere, giacchè quanto sopra esposto mi pare francamente ben poco compatibile con i principi ispiratori della nostra nobile professione.
Come Codesto Ordine comprenderà non è certo particolarmente “edificante” per chi esercita questo mestiere ormai da qualche annetto apprendere che un “collega” si vanta pubblicamente di avere torturato, quando era un poliziotto, dei cittadini arrestati prima di affidarli al Magistrato competente.

Cordiali saluti

Avv. Davide Steccanella

Torture e “De Tormentis”: arriva l’interrogazione parlamentare

16 dicembre 2011 8 commenti

L’interrogazione presentata dalla deputata radicale Rita Bernardini
Le torture ai militanti Br arrivano in Parlamento

di Paolo Persichetti
Liberazione 17 dicembre 2011

Approda in parlamento la storia delle torture impiegate da alcune squadre speciali del ministero dell’Interno, indicate dall’ex commissario (oggi questore) Salvatore Genova, uno degli autori delle indagini contro le Br nei primi anni ’80, col nome ripreso da alcuni cult movie del cinema, “I cinque dell’ave maria” e “I vendicatori della notte”, per fronteggiare i gruppi che praticavano la lotta armata come le Brigate rosse, tra la fine fine degli anni ’70 e i primi anni ’80.

Grazie, come sempre, a Carlos Latuff

Una interrogazione parlamentare al ministero dell’Interno e della Giustizia è stata depositata dalla deputata radicale Rita Bernardini.
Il testo prende spunto dalle rivelazioni contenute nel libro di Nicola Rao, Colpo al cuore. Dai pentiti ai metodi speciali: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, nel quale si riportano le ammissioni del funzionario dell’Ucigos (l’attuale polizia di prevenzione), conosciuto con l’eteronimo di “professor De Tormentis”, che guidava la squadra di poliziotti provenienti dalla mobile napoletana addestrati a varie tecniche di tortura e violenze psico-fisiche, tra le quali il waterboarding, l’annegamento con acqua e sale.

Nel libro di Rao l’ex commissario della Digos Salvatore Genova racconta in questo modo il trattamento riservato a Nazareno Mantovani, uno dei primi fermati durante le indagini per il rapimento del generale Nato Dozier: «Fu spogliato, disteso supino su un tavolo di legno e legato alle quattro estremità, con la testa e la parte superiore del tronco che uscivano fuori. Le persone che lo circondavano erano tutte incappucciate. Urlavano, minacciavano, annunciavano cose terribili […] uno teneva la bocca del prigioniero aperta e gli chiudeva il naso, un altro gli teneva la testa, mentre un terzo cominciò a versare in maniera sistematica, ritmica e controllata acqua e sale, attraverso una cannula inserita in gola in maniera sapiente. Mezzo litro, si fermava qualche decina di secondi per dar modo a Mantovani di non soffocare e poi ricominciava […] Mantovani non parlò. Dopo un’ora e mezzo di trattamento il professore decise di sospenderlo. Il sospetto brigatista era già svenuto due volte e c’era il rischio che ci rimettesse la pelle».
Alla fine dello spettacolo, un paio di uomini di Genova dissero al loro capo che se ne tornavano a casa. Non se la sentivano di assistere ad una cosa del genere.

L’interrogazione della parlamentare del partito radicale si avvale anche dell’inchiesta pubblicata da Liberazione l’11 dicembre scorso riportandone ampi stralci, in particolare la testimonianza e soprattutto la dettagliata descrizione del curriculum professionale, culturale e politico del personaggio, di facile identificazione, che si cela dietro il lucubre soprannome ripreso dal celebre Tractatus De Tormentis, scritto da un anonimo criminalista di scuola bolognese sul finire del 1200 (la datazione tuttavia resta incerta secondo altri studiosi), ultracitato dal Manzoni nella sua Storia della colonna infame, e nel quale si inquadra la tortura all’interno di un sistema di minuziose regole procedurali funzionali a dare corpo alla «regina delle prove»: la confessione del reo.
Nel testo si chiede se il ministro di competenza «non intenda verificare l’identità e il ruolo svolto all’epoca dei fatti dal funzionario dell’Ucigos conosciuto come “professor De Tormentis”» ed ancora se non si ritenga opportuno «promuovere, anche mediante la costituzione di una specifica commissione d’inchiesta», ogni utile approfondimento «sull’esistenza, i componenti e l’operato dei due gruppi addetti alla sevizie, ai quali fanno riferimento gli ex funzionari della polizia di Stato citati nelle interviste».
Rita Bernardini vuole anche sapere dal governo se intenda «adottare con urgenza misure volte all’introduzione nell’ordinamento italiano del reato di tortura e di specifiche sanzioni al riguardo, in attuazione di quanto ratificato in sede Onu» e se non vi sia l’intenzione di «assumere iniziative, anche normative, in favore di risarcimenti per le vittime di atti di tortura o violenza da parte di funzionari dello Stato, e per i loro familiari».
L’obiettivo è quello di arrivare all’adozione urgente di provvedimenti che contrastino ogni manifestazione di violenza non giustificabile sui cittadini da parte di funzionari delle Forze di polizia nell’esercizio delle loro funzioni. Un fenomeno in netta recrudescenza come dimostrano i molti casi di cronaca recenti.

QUI LA SEZIONE TORTURA, con altri articoli su De Tormentis e le sue gesta :LEGGI

NO all’incarcerazione di Christa Eckes

15 dicembre 2011 5 commenti

Il 1° dicembre 2011 la Corte d’appello di Stoccarda (Oberlandsgericht Stuttgart) ha deciso che l’ex militante della Rote Armee Fraktion (RAF) Christa Eckes deve essere imprigionata per 6 mesi poiché si rifiuta di testimoniare.
La ‘Beugehaft’ è la carcerazione coercitiva prevista dal codice tedesco per costringere un testimone a rivelare quanto di sua conoscenza. Christa è gravemente malata, in cura per leucemia, e questo ordine di carcerazione potrebbe essere la sua condanna a morte.

Scrive il blog dedicato keinebeugehaft :

La nostra amica e compagna Christa Eckes deve andare in prigione perché la corte d’appello ha accolto la richiesta della Procura federale.
Nell’agosto scorso è stata diagnosticata a Christa una leucemia linfatica acuta, e dall’inizio di settembre viene trattata con chemioterapia e radiazioni nella clinica dove è ricoverata e dove lotta per la propria vita.
Una incarcerazione interromperrebbe il trattamento, mettendo in serio pericolo la sua vita. La misura coercitiva che è stata ordinata la mette quindi in rischio coscientemente e cinicamente.
Dal 30 settembre 2010 è in corso a Stoccarda un processo di quelli con grande messinscena mediatica, contro Verena Becker, ex militante della RAF.
Oggetto della procedura è l’esecuzione nel 1977 del Procuratore generale federale Buback. Benché Christa fosse all’epoca dell’attentato già in carcere da anni, è stata, come altri ex militanti della RAF, convocata alla Corte federale di Karlsruhe come testimone in preparazione di questo processo.
Si è rifiutata di rilasciare dichiarazioni, e già su richiesta della Procura federale le appiopparono 6 mesi di ‘Beugehaft’, misura che venne però poi ritirata.
Nel settembre 2011 è stata di nuovo convocata come testimone dalla corte d’appello di Stoccarda. Il certificato medico che precisava natura e gravità della malattia non ha trattenuto la Corte dall’ordinare un’interrogatorio forzato nei locali dell’ospedale. Christa era sottoposta proprio in quel momento ad una infusione di chemioterapia, ma malgrado l’esplicita ingiunzione del primario che l’interrogatorio non durasse in nessun caso più di 30 minuti, la procedura continuò per quasi un’ora.
Christa ha rifiutato di rilasciare dichiarazioni, e la Corte d’appello ha ordinato, il primo dicembre, sei mesi di carcerazione. Prima dovrebbe comunque essere accertata la sua ‘incarcerabilità’.
La decisione del tribunale è stata trasmessa per fax alla sala dell’ospedale, dove poteva essere letta da ogni passante. Il 9 dicembre le è stato notificato l’inizio della carcerazione coercitiva. Si deve presentare entro il 23 dicembre 2011 al centro medico di esecuzione pena di Hohenasperg presso Stoccarda. La sua incarcerabilità non è stata accertata.
Risulta assolutamente chiaro che in carcere Christa non potrà proseguire la terapia che le permette di sopravvivere -neanche in uno dei centri medici penitenziari, che più che curale, mettono le persone sotto pressione. E poi è molto importante per Christa, in questa situazione estrema, la vicinanza e lo scambio con le amiche, gli amici e la sua famigglia -l’essere circondata da persone che le fanno bene.
Il successo del suo trattamento è già comunque sul filo del rasoio, ed ora viene pure ad aggiungersi la minaccia della giustizia.
(…)
Col processo contro Verena Becker la furia persecutiva della giustizia non arriva alla fine. Altre procedure contro ex militanti della RAF, già condannati, sono state avviate.
Ora bisogna attivarsi, Christa ha bisogno di voi tutti!
Siate rumorosi ed inventivi, protestate!
Esprimete la vostra indignazione!
Chiediamo la revoca immediata della carcerazione coercitiva!
Giù le mani da Christa!

Conto di solidarietà
I costi finanziari per Christa possono crescere in modo enorme, poiché le spese giudiziarie, compreso il carcere, le verranno fatturate direttamente.

Förderverein für antifaschistische Kultur (Associazione di sostegno alla cultura antifascista)
Konto Nr.222 664 15
Banca: Sparkasse Karlsruhe, BLZ 660 501 01
IBAN: DE92660501010022266415
causale di versamento: Beugehaft

Aggiungiamo gli indirizzi per protestare direttamente presso la Corte d’appello di Stoccarda (OLG è per Oberlandsgericht):
OLG 6. Strafsenat
Richter Wieland
Olgastr. 2
70182 Stuttgart

per fax: +49 721 81083848
per e-mail: poststelle@olgstuttgart.justiz.bwi.de

Questi ultimi indirizzi sono tratti da un messaggio di informazione dell’11.12.2011 in cui si legge:

Christa è in ospedale, gravemente malata. Da agosto è sottoposta a chemioterapia, con una probabilità di sopravvivere del 50%.
In una condizione che normalmente fa rilasciare i detenuti perché non carcerabili, dovrebbe ora andare in prigione!
Non si tratta tanto di ottenere che rilasci una qualche dichiarazione, quanto piuttosto di spezzare qualcuno che difende la propria storia e non collabora con i funzionari di Stato.
Di tutti gli ex militanti della RAF convocati a questo processo, nessuno ha parlato. E nessuno ha per questo ricevuto una ‘Beugehaft’.
Il tribunale vuole finire prossimamente il processo e per la conclusione fa pressione su Christa, che sta tra la vita e la morte, per farla collaborare.
Questa è l’esatta definizione di tortura.

Parla o t’ingabbio
Tortura, vi pare una espressione troppo forte?
E che ne dite della definizione della Beugehaft, l’incarcerazione del testimone renitente, data da un procuratore tedesco del 1989: si tratta di una… “misura educativa” (Erziehungsmassnahme)!
Legalmente è una misura coercitiva che non pretende di educare al nazismo, è il cosiddetto ‘arresto coercitivo’ (Erzwingungshaft‭“‬) previsto dall’art. 70 del codice di procedura penale tedesco per chi rifiuta di testimoniare, senza disporre di un diritto a non testimoniare. Può durare al massimo sei mesi ed essere applicata una sola volta nella stessa procedura.
L’arresto coercitivo viene usato soprattutto nei procedimenti per partecipazione ad associazione sovversiva o terroristica, come strumento per fomentare la desolidarizzazione dei militanti dei gruppi di sinistra. Lo riconobbe esplicitamente la Procura federale nel 1987 argomentando che occorreva ‘rompere l’azione collettiva per mezzo della Beugehaft’.
Resta che coercitivo significa ‘che impone sulla volontà altrui, con l’uso della forza o del ricatto’.
Le dichiarazioni così ottenute, che valore potranno mai avere? Il fine dichiarato è proprio mettere la persona nella condizione di dichiarare qualsiasi cosa pur di uscirne.
E quale impalpabile differenza può distinguere quelle dichiarazioni coercitive da quelle ottenute mediante ‘tortura’? L’unico aspetto mancante è la minaccia di morte, che, vera o presunta, sempre distingue la tortura.
E qui siamo al caso di Christa Eckes, seriamente minacciata di morte dall’ordine di arresto coercitivo. No, non è ‘troppo forte’ parlare di tortura in questo caso.

Nella memoria degli episodi di uso politico del metodo dell’arresto per ottenere dichiarazioni, era rimasto forse solo quello, ma dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti, di Bernardine Dohrn.
La dirigente dei Weather Underground uscì dalla clandestinità all’inizio degli anni ’80, e le accuse principali contro di lei vennero ritirate perché l’FBI aveva passato ogni limite nel tentare di catturarla, così da invalidare gli atti. Venne però poi arrestata per rifiutarsi di collaborare nel caso di una violenta rapina ad un furgone blindato attuata dal Black Liberation Army (BLA) con l’appoggio di alcuni militanti che venivano dai Weathermen. Per Comptent of Court venne imprigionata per sette mesi, dopodiché dovettero ammettere che non v’era alcuna possibilità che cambiasse idea e collaborasse, neanche tenendola per il massimo di 18 mesi, e, coprendola di insulti, la rilasciarono. La pena sarebbe passata da coercitiva a punitiva, dissero (qui la sentenza).

Appare insomma che l’uso politico di questa misura, in sé piuttosto barbara, abbia soprattutto il senso di vendetta impotente, del ‘ti faccio comunque pagare qualcosa, sporco sovversivo’.
Nel contesto tedesco attuale, è difficile dare un senso diverso a quanto accade. Attorno al processo contro Verena Becker, pieno di ambiguità e segreti mantenuti, come quello della sua collaborazione con l’organismo di difesa della Costituzione (servizio segreto antiterrorista), ci sono stati numerose richieste di arresto coercitivo.
Il processo nasce dall’insistenza del figlio del procuratore Siegfried Buback nel voler identificare con precisione i ruoli dei militanti che parteciparono all’azione del ‘Kommando Ulrike Meinhof’ della RAF. In effetti i fatti furono già giudicati, gli autori condannati e le lunghe pene interamente eseguite, ma Buback junior vuole sapere esattamente chi sedeva davanti e dietro sulla moto usata per l’attentato.
Il processo va avanti con testimonianze improbabili (come il giornalista che riferisce che il suo amico dell’antiterrorismo, ormai deceduto, gli aveva detto dopo i fatti chi era stato) e sembra svolgere soprattutto un ruolo mediatico e politico e, anche se non raggiunge le vette di misteriologia che si conoscono in Italia, tende a riattizzare una campagna d’odio che copra la memoria storica.

I militanti della RAF hanno assunto collettivamente, fino allo scioglimento dell’organizzazione, le responsabilità delle azioni, senza mai fare dichiarazioni testimoniali davanti ai magistrati, e questo l’hanno pagato molto duramente, con pene lunghissime, isolamento totale nei bracci della morte, massacranti scioperi della fame, e molti di loro (almeno 9 della RAF) non sono usciti vivi di galera.
Che poi i processi abbiano attribuito colpe singole a persone che non avevano compiuto il singolo atto, è noto a tutti ed è anche giusto ricordarlo -sono contraddizioni del sistema. Altra cosa è invece dire, hanno condannato tizio per quella cosa, che invece l’ha fatta caio.
Gli ex della RAF non sono caduti in questa trappola, avevano rifiutato di testimoniare ai tempi, ed in prigione, e continuano a farlo ora, da liberi.
Sicché sono intervenute dal marzo 2011 almeno 11 richieste di Beugehaft contro di loro; si tratta di Günter Sonnenberg, Stefan Wisniewski, Rolf Heißler, Adelheid Schulz, Waltraut Liewald, Knut Folkerts, Brigitte Mohnhaupt, Sieglinde Hofmann, Rolf Clemens Wagner, Irmgard Möller, Siegfried Haag, vedi il sito dedicato dal Soccorso rosso: beugehaft.
I difensori hanno però fatto valere che avevano un diritto legittimo a non deporre, col rischio di testimoniare contro se stessi.


Perché allora questo diritto non vale per Christa Eckes?
Qui siamo ad un paradosso. Come s’è detto sopra, Christa a momento dell’attentato Buback (aprile 1977) era in carcere. Era stata arrestata nel 1974 (la foto sopra illustra bene il modo in cui i ‘mostri’ rivoluzionari arrestati venivano presentati alla stampa, tirandoli per i capelli se recalcitravano) e fu condannata a 7 anni per l’attacco ad una banca, nel settembre 1977, in pieno sequestro Schleyer. Scarcerata nel 1981, venne di nuovo arrestata nel 1984.
Che diavolo potrebbe dunque sapere e testimoniare su un’azione clandestina esterna? Non si sa e non importa, ciò che conta è che siccome non era libera e non può aver partecipato all’azione, non rischia di autoincriminarsi e quindi deve testimoniare!

La magistratura germanica delle condizioni di salute dei ‘terroristi comunisti’ incarcerati se n’è sempre fottuta allegramente. Recentemente s’è vista l’estradizione di Christian Gauger, affetto da amnesia totale a seguito di grave crisi cardiaca (vedi qui e qui), mentre ai tempi Günter Sonnenberg venne processato, condannato all’ergastolo e messo in isolamento pur essendo incapace di parlare, intendere e ricordare perché colpito da un proiettile in testa, e malgrado le dure proteste dei medici.
Christian però è stato recentemente scarcerato, e nel caso ancor più grave di Christa Eckes si deve far di tutto per riportare a un minimo di ragionevolezza i magistrati, che possono ancora accogliere il ricorso del suo avvocato e attestare la sua incompatibilità col carcere.
Perciò vale la pena scrivere e protestare agli indirizzi dati sopra, non importa in che lingua, si tratta di far sentire che c’è presenza ed attenzione.

E per andare indietro con la memoria: il procuratore federale Siegfried Buback era stato membro del partito nazista.
L’ex militante Stefan Wisniewski s’è presentato ad un’udienza con una scritta sulla maglietta: ‘seguite la traccia – 8179469’.
Era il numero della tessera di Buback, che come tanti alti funzionari e dirigenti del regime hitleriano ha continuato la carriera nel regime democratico.
Ai tempi dell’epurazione vennero protetti, vi fu uno zelo esattamente contrario a quello applicato a Christa ed ai militanti di sinistra oggi

La Siria e lo sciopero della dignità

12 dicembre 2011 1 commento

Idrab al-Karamah
Lo sciopero della dignità: hanno deciso di dargli questo nome.
Ieri è stata una giornata importantissima per chi si ribella in Siria: importante perché per la prima volta sono riusciti a convocare un qualcosa che a livello nazionale è riuscito a bloccare tutto.
Per la prima volta si è lasciato da parte lo spontaneismo che fa uscire per le strade con le teste esposte senza alcuna difesa al mirino dei cecchini, con i propri corpi, spesso svegliati nel sonno da retate e quindi da arresti, torture e spesso sparizioni.
Questa ultimamente è stata la fine di molti giovani uomini e donne, uomini con nomi che alle nostre orecchie sembrano tutti uguali: ma che son contadini, pastori, nomadi, mercanti, ma anche professori, docenti, intellettuali e quant’altro.

Ma parliamo di ieri.
Il primo sciopero generale in questi mesi di rivolta, quotidianamente sedata in un bagno di sangue, ma che ogni giorno ricomincia, senza sbocchi che sembran decenti, senza minime vie d’uscita positive, come è stato per Egitto e Tunisia. La sorte peggiore tocca a chi esce a manifestare in Siria, oltretutto abbandonati dalla solidarietà internazionale, perché accusati di esser strumenti dell’imperialismo.
Quante stronzate si leggono e si scrivono: ci si lava le mani parlando di ingerenze, senza pensare a quanto (se pure fossero vere) è la gente comune che sta morendo per le strade e nelle celle..è chi non sostiene più il regime che da decenni priva di ogni forma di libertà.
Ma noi siamo tutti impegnati a fare i grandi esperti di geopolitica mediorientale: sparando stronzate, e abbandonando qualche milione di persone esasperate al punto di non badare nemmeno più a morte e tortura.
Ieri lo sciopero è andato benissimo: ieri lo sciopero ha visto intere città senza alcuna vetrina aperta, senza un solo carretto che vendeva pomodori o melograni: niente.
Tutto chiuso, tutto in silenzio, tutto deserto: lo sciopero della dignità è riuscito.
Tanto che questa è stata la reazione degli scagnozzi del regime: in questo video si vede una strada di Dara’a, città capoluogo dell’Hawran, dove partì la rivolta a marzo…guardate con i vostri occhi quel che fanno ai negozi chiusi…

Se conoscete un po’ di inglese invece, vi consiglio questa pagina, dove è riportata una lettera di una persona che conosco bene e che conosce meglio di me quella dolce terra… Apples and oranges?

Torture: TANA PER “DE TORMENTIS” (Nicola Ciocia)!!! E’ ora che il mastro torturatore d’Italia si faccia avanti!

10 dicembre 2011 42 commenti

AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI

Nei primi anni 80 per contrastare la lotta armata oltre alle leggi d’emergenza, alla giustizia d’eccezione e alle carceri speciali, lo Stato fece ricorso anche alle torture

Rivelazioni, la squadra speciale della polizia che torturò le Brigate rosse
“De Tormentis”(Nicola Ciocia) e i cinque dell’ave Maria

Paolo Persichetti
Liberazione 11 dicembre 2011

«Professor De Tormentis», era chiamato così il funzionario dell’Ucigos (l’attuale Polizia di prevenzione) che a capo di una speciale squadretta addetta alle sevizie, in particolare alla tecnica del waterboarding (soffocamento con acqua e sale), tra la fine degli anni ‘70 e i primissimi anni ’80 si muoveva tra questure e caserme d’Italia per estorcere informazioni  ai militanti, o supposti tali, delle Brigate rosse.

Attrezzatura per il water boarding…un rubinetto, un tubo, del sale

Di lui, e del suo violento trattamento riservato agli arrestati durante gli interrogatori di polizia, parla diffusamente Nicola Rao in un libro recentemente pubblicato per Sperling&Kupfer, Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali”: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata. Rivelazioni che portano un colpo decisivo alla tesi, diffusa da magistrati come Caselli e Spataro (recentemente anche Turone) che vorrebbe la lotta armata sconfitta con le sole armi dello stato di diritto e della costituzione. In realtà alle leggi d’emergenza, alla giustizia d’eccezione e alle carceri speciali, si accompagnò anche il più classico degli strumenti tipici di uno stato di polizia: la tortura. Il velo su queste violenze si era già squarciato nel 2007, quando Salvatore Genova, uno dei protagonisti dell’antiterrorismo dei primi anni ’80, coinvolto nell’inchiesta contro le sevizie praticate ai brigatisti che avevano sequestrato il generale Dozier, cominciò a testimoniare quanto aveva visto: «Nei primi anni ’80 esistevano due gruppi – dichiara a Matteo Indice sul Secolo XIX del 17 giugno – di cui tutti sapevano: “I vendicatori della notte” e “I cinque dell’Ave Maria”. I primi operavano nella caserma di Padova, dov’erano detenuti i brigatisti fermati per Dozier (oltre a Cesare Di Lenardo c’erano Antonio Savasta, Emilia Libera, Emanuela Frascella e Giovanni Ciucci)». Per poi denunciare che «Succedeva esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com’era scritto persino su un ordine di servizio, e poi erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale. Una volta, presentandomi al mattino per un interrogatorio, Savasta mi disse: “Ma perché continuano a torturarci, se stiamo collaborando?”». Come sempre le donne subirono le sevizie più sadiche, di tipo sessuale.

Genova si salvò grazie all’immunità parlamentare intervenuta con l’elezione in parlamento come indipendente nelle liste del Psdi del piduista Pietro Longo (numero di tessera 2223). In quell’intervista Genova si libera la coscienza: «Ovunque era nota l’esistenza della “squadretta di torturatori” che si muoveva in più zone d’Italia, poiché altri Br (in particolare Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, bloccati dalla Digos di Roma il 3 gennaio 1982) avevano già denunciato procedure identiche. Non sarebbe stato difficile individuarne nomi, cognomi e “mandanti” a quei tempi». Ma quando il giornalista Piervittorio Buffa raccontò sull’Espresso del marzo 1982 quella mattanza, “informato” dal capitano di Ps Ambrosini (che vide la porta di casa bruciata da altri poliziotti), venne arrestato per tutelare il segreto su quelle pratiche decise ad alto livello.

“Il pene della Repubblica”: Cesare Di Lenardo

Chiamato in causa, una settimana dopo anche il «professor De Tormentis» fece sentire la sua voce. Il 24 giugno davanti allo stesso giornalista disseminava indizi sulla sua reale identità, quasi fosse mosso dall’inconscia volontà di venire definitivamente allo scoperto e raccontare la sua versione dei fatti su quella pagina della storia italiana rimasta in ombra, l’unica – diversamente da quanto pensa la folta schiera di dietrologi che si esercita da decenni senza successo sull’argomento – ad essere ancora carica di verità indicibili. De Tormentis non si risparmia ed ammette “i metodi forti”: «Ammesso, e assolutamente non concesso, che ci si debba arrivare, la tortura – se così si può definire – è l’unico modo, soprattutto quando ricevi pressioni per risolvere il caso, costi quel che costi. Se ci sei dentro non ti puoi fermare, come un chirurgo che ha iniziato un’operazione devi andare fino in fondo. Quelli dell’Ave Maria esistevano, erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” d’interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti». La struttura – rivela a Nicola Rao il maestro dell’annegamento simulato – è intervenuta una prima volta nel maggio 1978 contro il tipografo delle Br, Enrico Triaca. Ma dopo la denuncia del “trattamento” da parte di Triaca la squadretta venne messa in sonno perché – gli spiegarono – non si potevano ripetere, a breve distanza, trattamenti su diverse persone: «se c’è solo uno ad accusarci, lascia il tempo che trova, ma se sono diversi, è più complicato negare e difenderci». All’inizio del 1982 venne richiamato in servizio. Più che un racconto quella di “De Tormentis” appare una vera e propria rivendicazione senza rimorsi: «io ero un duro che insegnava ai sottoposti lealtà e inorridiva per la corruzione», afferma presagendo i tempi del populismo giustizialista. «Occorreva ristabilire una forma di “auctoritas”, con ogni metodo. Tornassi indietro, rifarei tutto quello che ho fatto».

Oggi l’identità di “De Tormentis” è un segreto di Pulcinella. Lui stesso ha raccontato di aver prestato servizio in polizia per quasi tre decenni, uscendone con il grado di questore per poi esercitare la professione di avvocato. Accanto al questore Mangano partecipò alla cattura di Luciano Liggio; poi in servizio a Napoli sia alla squadra mobile che all’ispettorato antiterrorismo creato da Emilio Santillo (sul sito della Fondazione Cipriani sono indicate alcune sue informative del periodo 1976-77, inerenti a notizie raccolte tramite un informatore infiltrato in carcere), per approdare dopo lo scioglimento dei nuclei antiterrorismo all’Ucigos dove ha coordinato i blitz più «riservati».

De Tormentis riferisce anche di essere raffigurato in una delle foto simbolo scattate in via Caetani, tra gli investigatori vicini alla Renault 4 dove si trovava il corpo senza vita di Moro. In rete c’è traccia di un suo articolo scritto nel gennaio 2001, su un mensile massonico, nel quale esalta le tesi del giurista fascista Giorgio Del Vecchio, elogiando lo Stato etico («il diritto è il concentrato storico della morale»), e rivendica per la polizia i «poteri di fermo, interrogatorio e autonomia investigativa». Nel 2004 ha avuto rapporti con Fiamma Tricolore di cui è stato commissario per la federazione provinciale di Napoli e, dulcis in fundo, ha partecipato come legale di un funzionario di polizia, tra l’86-87, ai processi contro la colonna napoletana delle Br, che non molto tempo prima aveva lui stesso smantellato senza risparmio di metodi “speciali”. Una singolare commistione di ruoli tra funzione investigativa, emanazione del potere esecutivo, e funzioni di tutela all’interno di un iter che appartiene al giudiziario, che solo in uno stato di eccezione giudiziario, come quello italiano, si è arrivati a consentire.

Forse è venuto il momento per questo ex funzionario, iscritto dal 1984 all’albo degli avvocati napoletani (nel suo profilo si descrive «già questore, penalista, cassazionista, esperto in investigazioni  nazionali e internazionali su criminalità organizzata, politica e comune, sequestri di persona»), di fare l’ultimo passo alla luce del sole. Sul piano penale “De Tormentis” sa che non ha da temere più nulla. I gravi reati commessi sono tutti prescritti (ricordiamo che nel codice italiano manca quello di tortura).

L’ex questore, oggi settantasettenne, ha un obbligo morale verso la società italiana, un dovere di verità sui metodi impiegati in quegli anni. Deve qualcosa anche ai torturati, alcuni dei quali dopo 30 anni sono ancora in carcere ed a Triaca, che subì la beffa di una condanna per calunnia. Restano da sapere ancora molte altre cose: quale fu l’esatta linea di comando? Come l’ordine sia passato dal livello politico a quello sottostante, in che termini sia stato impartito. Con quali garanzie lo si è visto: impunità flagrante. Venne pizzicata solo una squadretta di Nocs capeggiata da Genova. Condannati in primo grado ma prosciolti in seguito. Di loro, racconta compiaciuto “De Tormentis”: «vollero strafare, tentarono di imitare i miei metodi senza essere sufficientemente addestrati e così si fecero beccare». All’epoca Amnesty censì 30 casi nei primi tre mesi dell’82; il ministro dell’Interno Rognoni ne riconobbe 12 davanti al parlamento, ma il fenomeno fu molto più esteso (cf. Le torture affiorate, Sensibili alle foglie, 1998). La tortura, scriveva Sartre: «Sconfessata – a volte, del resto, senza molta energia – ma sistematicamente applicata dietro la facciata della legalità democratica, può definirsi un’istituzione semiclandestina».

LINK:
Chi è De Tormentis?
Quando si torturavano i tipografi
Sul corpo delle donne
Sul corpo delle donne, fuori dal carcere
e qui tutto ciò che c’è di pubblicato su qeusto blog riguardo la tortura sui corpi dei prigionieri politici italiani: LEGGI!

A Bruno Valli, morto in una cella

9 dicembre 2011 2 commenti

BRUNO VALLI

-Nasce a Rodero (CO) il 19 dicembre 1948, dove frequenta le scuole
– nel 1968 lavora come operaio elettricista alla Bernasconi di Varese
– fra il ’68 e il ’69 viene arrestato dopo gli scontri tra fascisti e Movimento Studentesco
– nel 1969 milita nel Collettivo Politico Operaio, vicino alla rivista Rosso
– nel 1972 lavora come operaio alla Harley Davidson
– il 5 dicembre 1974, viene arrestato per un esproprio ad Argelato
– viene trovato impiccato nel carcere di Modena, il 9 dicembre 1974, appena quattro giorni dopo il suo arresto

Qui vi allego il ricordo pubblicato pochi giorni fa sul sito di Infoaut

5 dicembre 1974, pochi minuti prima di mezzogiorno.
Qualche solerte cittadino ha avvertito la stazione dei carabinieri di Castel d’Argile che un “furgone sospetto” staziona nei pressi della località Argelato. Il brigadiere Andrea Lombardini si precipita sul posto, nonostante sia il suo giorno di riposo. Si avvicina al fiat 238 e chiede i documenti ai tre giovani seduti all’interno. La risposta risuona chiara nella bassa bolognese: una breve raffica parte dallo sten di uno dei ragazzi e uccide il carabiniere.

Le immagini son tratte da "Se ti muovi ti Stato!" di Jacopo Fo, 1975, Edizione Ottaviano

Il commilitone di Lombardini sceso dall’auto comincia anch’egli a sparare, ma dopo aver forato una gomma al furgone in sosta, viene disarmato dai compagni. La giornata doveva concludersi con una rapina al portavalori dello zuccherificio Siiz. I compagni costretti dagli eventi devono scappare per i campi. Passano meno di 24 ore che gli inquirenti riescono ad arrestare Bruno Valli, Stefano Bonora e Claudio Vicinelli, infangati e infreddoliti che vagano per la bassa.

Subito dopo l’arresto giornali e tv si scavalcano a vicenda in una guerra a chi la ricostruisce più grossa. Il brigadiere, amato e compianto dalla popolazione; il suo giovane commilitone, un eroe di vent’anni che, sprezzante del pericolo, disarma i malviventi, salvo venire colpito al petto con il calcio di un mitra per essersi distratto all’ultimo respiro del collega; i tre rapinatori, gente di poco conto, che dall’ingresso in questura smettono i panni dei militanti tutti d’un pezzo, per gettarsi infamie l’uno sull’altro.
Queste ricostruzioni dei fatti a noi interessano solo per poterle mettere da parte, e poter ricordare il compagno Bruno Valli, figlio di una famiglia proletaria di Rodero, operaio, militante comunista, che si impiccò nel carcere di Modena il 9 dicembre 1974.

Chi lo ha potuto conoscere lo ricorda come un militante lucido e pronto ad ogni sacrificio; e in quella cella dove poi si uccise, dicono che scrisse con il suo sangue due parole supra un muro: “Libertà o morte”.

Torture: la storia di Francesco Giordano, tra martellate e finte esecuzioni

5 dicembre 2011 2 commenti

FRANCESCO GIORDANO,
arrestato a Milano il 7 ottobre 1980 dai Carabinieri, nell’ambito dell’inchiesta sulla Brigata 28 marzo

“Diciotto anni fa, nel mese di ottobre, esattamente martedì 7 er erano le ore 20, venivo arrestato a Milano in viale Premuda, difronte al cinema Cielo, su segnalazione di Mario Marano, mio coimputato.
Quelli che mi arrestarono erano in borghese e dopo il fermo mi fecero salire in un furgone con targa civile: ero ammanettato, seduto sopra una sedia ed accanto vi era un tavolino.
Con il furgone raggiungemmo il parcheggio della caserma dei Carabinieri di via della Moscova e da lì venni trasferito dentro una autovettura.
Con queta mi portarono sempre all’interno di una caserma posta sicuramente fuori Milano.
Dopo l’aresto, che certo non du tra i più canonici, se noni quel periodo per i comunisti, venni torturato, all’interno di quella caserma,che ancora adesso non saprei riconoscere.
Nel mio caso la tortura cosistette in quello che già all’epoca descrissi in una lettera fata recapitare al quotidiano Lotta continua e pubblicata il 6 dicembre 1980, a quasi due mesi dal mio arresto.
Lettera che, una volta resa pubblica, nessun magistrato “democratico” volle, con grande rigore, mai prendere in considerazione, anzi alcuni di questi furono gli organizzatori, certo sapevano ed hanno coperto i torturatori.
Dalla lettera: “Uno di loro mi prese a schiaffi mettendosi a cavalcioni sul mio petto (ero sdraiato), gli altri tre urlarono e mi schiacciarono i testicoli. Qualcuno disse al brigadiere della caserma di prendere il martello (di gomma, quello che si usa nei campeggi)e con questo mi picchiarono sui piedi. Quando finirono continuarono a dirmi che dovevo confessare. Prima di andare via mi fecero spogliare (rimasi solo con le mutande).”
Ancora nella mia lettera: “Arriviamo in un posto deserto, credo sia quasi mezzanotte, comunque è buio, mi fanno scendere dalla macchina chiedendomi se nel tragitto avessi cambiato idea,
perché mi restava poco tempo. Sempre con la pistola puntata contro di me insistono per farmi parlare”.

Questi, alcuni momenti, poi mi lasciarono in assoluto isolamento verso l’esterno per 38 giorni, poco cibo, tante minacce ed offerte di collaborare. Ancora adesso non ho una percezione esatta del tempo, ma credo che completamente nudo (solo con le mutande) ci rimasi per 5/6 giorni.
Ero in una piccolissima stanza senza finestre, sopra un materasso appoggiato in terra ed una coperta di quelle militari.
In questo posto mi davano poco o niente da mangiare e continuamente venivano a trovarmi diversi carabinieri, penso quelli di turno, che cercavano di convincermi a collaborare, dopo essersi informati di quelle che erano le accuse contro di me. E’ mio ricordo che non tutti fossero al corrente di queste accuse.
Da questa caserma, che ancora non saprei indicare, mi potrarono successivamente in quelal che certamente era vicino Arese, per interrogarmi. Nella stanza vi erano diverse persone,  qualcuno lo avevo già visto perché tra quelli che mi avevano arrestato, gli altri mi erano sconosciuti. In quella occasione mi hanno fatto più e più volte ripetere la mia storia politica, quella che fino a quel momento avevo raccontato, cioè la militanza in Lotta continua […]; tra l’altro anche quella sera mi ripeterono i nomi di SergioSegio e Gianni Stefan, di cui poi la redazione di Lotta continua, quando pubblicò la lettera, preferì mettere solo le iniziali.
[…]
Quando mi portarono via, appena usciti dalla caserma dissero che mi conveniva collaborare, che altrimenti avrebbero continuato passando ai fatti. Prima di questa frase effettivamente uno di quelli che aveva partecipato al mio arresto aveva parlato via radio con qualcuno, ovviamente non ho capito chi ci fosse dall’altra parte, ma le frasi riportate nella lettera le avevo sentite molto bene.
Adesso ripensandoci mentre scrivo non ricordo di aver avuto pensieri particolari in quei momenti, cioè quando,al buio mentre piovigginava mi fecero inginocchiare per terra facendo finta di spararmi;[…] tutto ciò accadeva prima di esser trasferito nella Caserma della zona Fiera, sempre a Milano.
Fu in quel posto, invece, che venni interrogato per la prima volta con la presenza del mio avvocato, duramente zittito più volte dall’onnipresente dottor Spataro perché aveva osato chiedere se avevo subìto altri interrogatori precedentemente, senza di lui o altri avvocati.
Rimasi in questa caserma per alcune settimane ed è solo alla fine di questo tempo ( in totale 38 giorni) che venni, con mio grande sollievo, trasferito nel carcere di San Vittore.
[…]
Occorre dire con estrema chiarezza che l’episodio da me testimoniato è stato uno frai tanti; molti altri ne sono stati denunciati con grande precisione e puntualità da chi li ha subìti, pur nella difficoltà di allora e devo dirlo con amarezza, in solitudine, perché gli impegnati e poetici democratici di oggi, in quel tempo preferivano stare dalla parte del potere.
La tortura contro i comunisti ha voluto dire quanto ho scritto sopra, ma anche uso di elettrodi, acqua e sale che veniva fatta bere a litri ai compagni, violenze sul corpo delle compagne ed altro, sempre denunciato, fino agli arresti degli avvocati che ci difendevano o le minacce fatte ai familiari.
Ancora occorre ricordare che questi metodi continuavano poi durante la carcerazione. Le carceri speciali o alcune sezioni delle principali carceri erano gestite in maniera autonoma e fuori dal normale circuito.
Di contro, ricordiamo i contratti tra giudici e delatori.
Voglio precisare che dopo l’incontro con il PM Armando Spataro, sincero democratico, non sentii mai più il desiderio di denunciare quanto avevo subìto; il signore sopradescritto mi aveva fatto ben capire che era perfettamente inutile, che loro si muovevano in assoluta libertà in quel genere di illegalità…”
Testo tratto da “Le torture affiorate” -Progetto Memoria- Edizioni Sensibili alle Foglie-

DELLA TORTURA: dove leggere altro materiale
Diamo un nome a De Tormentis??

Torture in Italia, atto I : quando si torturavano i tipografi…

5 dicembre 2011 25 commenti

AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI

L’anno delle torture argentine nelle celle di sicurezza e nei furgoni bianchi, compiute sui corpi dei prigionieri politici italiani è il 1982.
Abbiamo parlato spesso di quell’anno nero della nostra storia recentissima: anno in cui i “5 dell’Ave Maria”, guidati dal loro Dott. De Tormentis (di cui ci piacerebbe tanto scoprire il nome…ma siamo nel paese dei maniaci del “mistero”… siamo certi che un Lucarelli, un Fasanella, e compagnia bella si faranno in quattro per metter luce su questo NON mistero facilmente scoperchiabile) torturavano con tecniche precise e meticolosamente studiate i brigatisti catturati.

La storia che leggerete poche righe più sotto è un po’ l’apri pista delle torture, del waterboarding e di tutte le privazione compiute successivamente:
Enrico Triaca viene arrestato molto prima dell’anno argentino, nel maggio del 1978, ed oltretutto non è un uomo sospettato di esser parte di un “gruppo di fuoco”, è un tipografo e quella è la funzione che svolge all’interno dell’organizzazione armata.
Il tipografo.
Che può “vantare” d’esser stato il primo torturato delle Brigate Rosse…oltretutto denunciato e condannato per calunnia quando ha avuto il coraggio di raccontare quel che il suo corpo aveva subito. (Mi piace specificare la parola “corpo”, perché in questi anni di studi, racconti e letture sulla tortura la sola cosa che ho capito è che la testa non la torturano, che quella è capace di resistere… che è anche in grado di contare, per razionalizzare ciò che avviene sul proprio corpo, per discostarsene, per gaurdarsi da lontano, per dare un tempo a quel che accade e sapere che poi la sessione di tortura finirà, come quella precedente.La tortura ti vuole vivo, la tortura non vuole ucciderti: c’è chi è stato più forte di lei, chi ce l’ha fatta, chi neanche in quel modo ha aperto la sua bocca…per quello parlo di corpi…solo di corpi…solo quello è torturabile).
Ma ora…facciamo parlare Enrico Triaca, tipografo torturato

RICOSTRUZIONE GIORNALISTICA DELL’ESPERIENZA DI ENRICO TRIACA, Il Manifesto, 20 maggio 1982

“Esiste la tortura in Italia? Credo purtroppo che bisogna rispondere positivamente e non da oggi. Un caso, estremamente interessante, anche perché può essere ricostruito nei dettagli, essendo ormai gli atti tutti pubblici, è quello di Enrico Triaca, il tipografo delle BR che il 7 Novembre 1982 è stato condannato dalla 8° sezione del Tribunale di Roma, quale responsabile del delitto di calunnia “perché nell’interrogatorio reso al consigliere istruttore presso il tribunale di Roma il 19 Giugno 1982 quale imputato di partecipazione a banda armata e di altri reati, incolpava ufficiali e agenti di polizia giudiziaria di PS, sapendoli innocenti, di averlo costretto con torture fisiche a rendere dichiarazioni ammissione di responsabilità proprie ed altrui, il 17-18 maggio 1978”.
Triaca venne arrestato il 17 Maggio 1978 nella tipografia di Pio Foà a Roma. Nominò immediatamente l’avvocato Alfonso Cascone.
Dagli atti risulta:
1) che il Triaca venne interrogato il 17 maggio ore 17,50 nei locali della Digos da due ufficiali di Pg. Il verbale consta di sei facciate dattiloscritte a spazio uno. In esso non vi è alcun cenno al fatto che il Triaca è imputato, né al suo difensore.
2) che in data 18 maggio 1978 Triaca ha rilasciato “spontaneamente e personalmente ” una dichiarazione dattiloscritta davanti ad altro ufficiale di polizia giudiziaria, connettente affermazioni accusatorie nei confronti di terzi;
3) che in pari data il Triaca rilasciò altra dichiarazione accusatoria
4) che alle ore 22 di quello stesso giorno Triaca fu interrogato nel palazzo di giustizia dal consigliere istruttore su mandato di cattura dello stesso, in presenza del difensore Luigi De Cervo, del foro di Roma, nominato d’ufficio. Presente in quanto il Triaca revoca quello da lui nominato in precedenza
5) che il 19 maggio negli uffici della questura di Roma (non è indicata l’ora) Triaca viene interrogato da altro GI, in assenza di qualsiasi difensore. Dal verbale risulta avv. Maria Caurasano con revoca di ogni altra nomina.
Ma la Causarano non risulta presente, né vi è alcuna annotazione riguardante la urgenza di procedere senza aver avvisato il difensore. A questo punto, secondo i difensori attuali, del Triaca si perdono le tracce: né loro, né i parenti del detenuto riescono a sapere alcunché, sino a quando il 9 giugno nel carcere di Rebibbia il consigliere istruttore interroga il Triaca in presenza dell’avv. Cascone, suo difensore originario di fiducia. Nel verbale risulta che Triaca a domanda risponde di aver scritto una dichiarazione dettagliata da una persona della Questura, il cui contenuto però corrispondeva alle sue dichiarazioni.
In un successivo interrogatorio del 19 giugno, Triaca puntualizza: “Ritratto tutto quello che ho detto perché mi è stato estorto con la tortura”.
Domandato risponde: “Potevano essere le 23 e 30 quando fui portato giù e fatto salire su un furgone ove si trovavano due uomini con casco e giubbotto antiproiettile. Fui bendato e steso per terra. Il furgone partì. Ad un certo punto fui fatto scendere e sempre bendato salii dei gradini. Sempre bendato venni legato su un tavolaccio. Qualcuno mi tappò il naso con le mani e mi versò dell’acqua in bocca.
Ritengo che mi versò l’acqua in bocca per non farmi respirare. Inoltre per due volti qualcuno mi gettò in bocca della polverina.
Non so indicare il sapore di questa polverina. Rimasi legato per circa 30 minuti, mentre le persone che mi erano accanto che io non vedevo, perché ero bendato, mi incitavano a parlare. Quindi fui slegato, fui massaggiato e venni rivestito (infatti prima di legarmi mi avevano denudato). Fui portato fuori sempre bendato.
In questura mi tolsero le bende, dico meglio, dentro il furgone mi tolsero le bende, e mi consegnarono in questura, a due agenti che mi portarono in camera di sicurezza. il giorno dopo mi portarono in un ufficio della questura e mi fecero scrivere a macchina una dichiarazione in due fogli. Preciso che la prima dichiarazione la battei a macchina da me la mattina, e l’altra dichiarazione su altro foglio fu scritta da me a macchina in pomeriggio”.
L’imputato ha appena finito di rendere le sue dichiarazioni che il consigliere istruttore  gli contesta di essere indiziato del delitto di calunnia.

Il 4 luglio 1978 il Pm ordina la cattura per calunnia. Triaca, interrogato il girno dopo dichiara: “Confermo quanto ho dichiarato il 19 giugno 1978 al consigliere istruttore Gallucci; preciso che non ho visto particolarmente in faccia, nella semioscurità del furgone, i due agenti che mi ci fecero salire, il cui viso era oltretutto occultato dal casco. Non ho nemmeno badato ai connotati degli agenti che in questura mi portarono in camera di sicurezza, dopo la tortura, né a quelli che, dopo avermi tolto le bende, mi consegnarono ai suddetti agenti. Il fatto che io nei giorni successivi abbia confermato ai magistrati inquirenti tutto quanto avevo in precedenza dichiarato, fornendo anche ulteriori particolari, si spiega col fatto che per vari giorni ho agito nella sfera di intimidazione derivante dalla tortura subita, anche quando mi trovavo in ambiente del tutto estraneo a quello della questura.”

Gli ufficiali o agenti di PG che presero in consegna il 17 maggio Enrico Triaca, dopo che fu interrogato dai due funzionari di PS, non sono mai stati individuati. Durante il processo, celebrato col rito direttissimo, lo stesso Spinella dirigente della Digos, dichiarava che era impossibile identificare gli agenti che erano addetti alla camera di sicurezza sulla scorta di appositi registri.
Senonché, avendo il tribunale disposto che i registri venissero esibiti in visione, la questura rispondeva che non esistevano. Il tribunale, subito acquietato, emetteva la sentenza di condanna ad anni 1 e mesi 4 di reclusione.
Nella motivazione sostiene che non ci sono state torture in quanto già nell’interrogatorio regolarmente verbalizzato il 17 maggio (il primo) l’imputato aveva parlato.
Perciò non vi era ragione perché gli agenti gli usassero violenza. Dimentica però il tribunale che in un caso Triaca aveva parlato di sue responsabilità e nell’altro di responsabilità di terzi (il che per un appartenente ad un’organizzazione non è cosa di poco conto).
[…]
I metodi usati per Triaca (emarginare e se possibile far revocare i difensori scomodi – custodire gli arrestati in luoghi speciali, difficilmente controllabili) pare siano serviti poi da modello per i pentiti o per ottenere i pentimenti.

Risvolto di poco rilievo dell’uso distorto delle procedure e poi l’acquiescenza quasi generale degli organi di informazione.
L‘Unità dell’8 novembre 1978 per esempio arrivò a pubblicare la notizia della sentenza di condanna con commenti di questo genere: “il caso Triaca, dunque, è chiuso, anche perché persino uno dei difensori, ieri ha lasciato capire che il truculento racconto del brigatista è stato un bluff“.
Gli avvocati difensori hanno proposto querela per diffamazione, ma la querela è già stata archiviata.

I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis

Arrestata e liberata @angryarabiya

26 novembre 2011 5 commenti

Zeinab al Khawaja è una donna straordinaria, che vive in Bahrain.
Un’attivista incredibile, istancabile, forsennata quasi nel suo non mollare mai, per la strada come in rete, nei tribunali come nelle carceri.
Si perché la storia di Zeinab, che conosciamo tutti grazie all’enorme e unico lavoro che fa in rete attraverso il suo twitter e il suo blog, è una delle più tristi di quel paese, il Bahrain, che sta massacrando la sua popolazione da mesi.
Da sempre: ogni volta che s’è provato ad alzare la testa per liberarsi del regime.
Il Bahrain però non molla, molla meno di molti altri paesi che in qualche modo hanno dovuto affrontare la primavera araba e il desiderio inarrestabile di farla fine con i regimi.
Zeinab ha suo padre in carcere, suo marito in carcere, suo zio in carcere: ma non la fermano lo stesso, anzi.
Se sappiamo qualcosa del Bahrain è grazie a questa donna, privata dei suoi affetti e di qualunque libertà, ma con un coraggio e una forza rara.

Oggi c’ha fatto decisamente prendere un colpo, durante l’ennesima manifestazione con scontri nella piazza delle Perle, a Manama, capitale del Bahrein: presa dalle forze di sicurezza, per un po’ non ha dato suo notizie, facendo mobilitare immediatamente migliaia dei suoi lettori.
Forse è stato questo il motivo, ma fortunatamente è tornata presto libera, almeno lei, di tornare a casa.
Bentornata alla libertà, cara @angryarabiya e non stare lì a scervellarti sul fatto che si più fortunata di altri, che il tuo nome risuona nel mondo e quindi non è facile impallinarti o darti il carcere a vita come è per gli altri: facciamo in modo che questo clamore abbracci anche tutti gli altri che lottano su quella rotonda, e per tutto il paese.
LIBERTA’ PER TUTTI I PRIGIONIERI DEL BAHRAIN
FREE BAHRAIN
QUI UN PO’ DI LINK DI QUESTO BLOG SUL BAHRAIN E LA SUA LOTTA PER LA LIBERTA’

Nel video le immagini di Zeinab, oggi

Ventiquattro anni, attivista in Bahrein, donna. Irriducibile.

di Annalena Di Giovanni

dal Bahrain

«Scendo in strada a protestare da quando avevo diciassette anni, ma il titolo di attivista di diritti umani me lo sono guadagnato soltanto l’anno scorso: finalmente la polizia mi ha picchiata. Qui, la gente è abituata che se sei un attivista devi aspettarti il manganello della polizia e finchè non ti capita, nessuno ti prende sul serio». Zeinab Al Khawaj, classe 1983, ha fatto il giro del mondo nelle foto che la ritraevano per le strade del Bahrein, munita di cartelli e megafono, a rivendicare i diritti della sua gente. Il padre, Abdelhadi al Khawaj, è tuttora sulla lista nera del governo al Khalifa, entrando ed uscendo dal carcere mentre la figlia si arrangia quotidianamente cercando di fare la giornalista in un paese in cui la stampa è cosa del re.

«Sono nata lontana dal Bahrein. Mio padre aveva studiava a Londra, poi ci siamo trasferiti in Danimarca. La pressione sulla mia famiglia era tale che mio zio venne arrestato per aver visto mio padre all’estero, e suo cugino sempliemente per avergli telefonato una volta. Sapevamo che rientrare nel paese sarebbe costato l’arresto a mio padre, e l’unica volta in cui ci ha provatoè stata quando è morto mio nonno; lo trattennero all’aereoporto per 14 gorni stracciandogli il passaporto ma non poterono arrestarlo e torturarlo perchè ormai era una figura troppo nota nelle associazioni per i diritti umani. Quel che faceva era semplicemente redigere rapporti per un’associazione di diritti umani su quanto accadeva in Bahrein. Negli anni novanta il notro paese era sottosopra, c’erano proteste e scontri con la polizia tutto il tempo. La gente del Bahrein, in genere, è molto sveglia dal punto di vista politico. E quando la gente conosce i propri diritti, difficilmente se ne sta zitta. Inoltre, al contrario degli altri paesi del Golfo – come gli Emirati arabi, dove i cittadini possono contare sul sostegno dello stato – , la povertà in Bahrein è altissima, e la minoranza sunnita governa una popolazione originaria sciita. E le ineguaglianze sono sotto gli occhi di tutti: ci sono i troppo ricchi e i troppo poveri, senza casa, senza lavoro e senza niente di cui sfamare la famiglia in una piccola isola che produce gas, petrolio e che è il centro mondiale delle banche islamiche. Anche adesso, quella del Bahrein rimane una dittatura. Ma è lontana dagli eccessi del precedente re Issa. Ai suoi tempi, la polizia semplicemente arrestava tutti, chiunque fosse in strada, compresi bambini di dieci o dodici anni. Le torture erano orrende: strappavano le unghie, usavano il ferro da stiro sui corpi, oppure li trapanavano. Alcuni torturatori erano personaggi molto noti, lo sono tuttora, sono sempre qui ed in genere fanno affari d’oro, ma per legge non li puoi processare o accusare di niente.»

«Non avevamo passaporto, nei paesi arabi eravamo sulla lista nera e il nostro solo documento d’identità era un pezzo di carta del governo danese, l’unico disposto ad accoglierci, che ci dichiarava profughi politici. Quindi sono cresciuta in Danimarca, ma sono venuta sù con la testa in Bahrein. Senza averlo mai visto. Frequentavamo soprattutto i profughi come noi, ci facevamo spedire le cassette della televisione del Bahrein, e a casa mia si poteva parlare solo arabo. E quando siamo arrivati qui per la prima volta,avevo diciotto anni. Per me è stato un ritorno a casa. Ho ritrovato una famiglia che non sapevo di avere: centinaia di cugini, zii, nonne. In Danimarca, non ero nessuno. Qui sono Zeinab alKhawaj, e so da dove viene la mia famiglia. Qui, so chi sono.

Qui sono diversa da tutti, perchè sono cresciuta in Europa. Ma infondo sono diversa da quando sono nata. Portare il velo, in Danimarca, mi aveva già resa diversa da tutti. Anzi, il trauma di tornare qui è stato proprio il ritrovarmi uguale a centinaia di altre ragazze! In Danimarca era difficile: piangevo tutte le notti dicendo che volevo tornare al mio paese. C’è un gran razzismo, la gente ti urla contro in strada a volte, non è cosa comoda essere musulmani e portare il velo da quelle parti. Devi essere forte, saperci passare sopra. Adesso che sono tornata qua, so che sono quella che sono anche perchè sono cresciuta là».

Il Golfo sta cambiando in fretta. Sotto una pioggia di milioni e cemento, la cultura araba lascia il posto ad un retaggio artefatto nel quale al Bahrein – una piccola isola forte di una cultura millenaria meticcia, pescatrice e sciita – si cerca di sovrapporre una storia inesistente, fatta di cammelli e gente del deserto. Qualcosa che la avicini a Dubai, insomma. «C’è grande eccitazione nel Golfo, senza che nessuno si fermi a chiedere chi pagherà il prezzo del cambiamento. In Bahrein la gente non si pone il problema perchè la lotta è quotidiana, ogni giorno qualcuno finisce in prigione sotto elettroshock e tortura, non hai tempo di chiederti come stia cambiando la regione. Potrei accettare quello che il Bahrein sta diventando se fosse ciò che la gente vuole. Ma sento che ci sono categorie non rappresentare. Il governo vuole far sembrare il paese qualcosa che non è. Come i villaggi, dove la gente povera è nascosta da una facciata di belle case per impressionre i turisti. Una maschera. Anche Dubai ha spazzato via la cultura che c’era. Se parli con la gente degli emirati, te lo confermeranno. Tutto nuovo, tutto grande, tutto straniero. Quando vado là, sento che non c’è alcuna cultura, puoi soltanto fare shopping. Voglio dire, anche New York è una città recente piena di nuovi grattacieli, ma ha una sua cultura no? Per questo preferisco il Bahrein, anche se il resto del mondo non sa dove sia e pensa soltanto a Dubai. Ma negli Emirati i cittadini non sono poveri, il governo li mantiene, quindi là non trovi la lotta sotterrnea che agita il Bahrein, diviso com’è fra una maggioranza sciita povera ed oppressa ed una minoranza sunnita che ha in mano il paese, il petrolio, che manipola la storia e cancella la nostra identità persino nei testi scolastici. Passiamo il tempo a chiederci se faremo la fine dei nativi americani! Uno dei problemi che abbiamo, ad esempio, è che non abbiamo più accesso al mare, perchè la speculazione edilizia ha venduto tutte le spiagge agli stranieri. Ma noi siamo isolani, abbiamo bisogno del mare! Se vivrei a Doha o Dubai? Questo è il mio paese, e sento di avere degli obblighi nei suoi confronti. Mio padre dice sempre “Più cose sai, più resonsabilità sulle tue spalle”. E io sento la responsabilità di dover cambiare il mio paese, anche se è talmente frustrante».

Se nel Golfo stiamo diventando più religiosi? Credo che sia un fenomeno locale, non soltanto ristretto alla questione sciiti-sunniti in Bahrein. è un discorso identitario: vuoi cercare di preservare quello che sei. Ovunque vai, in Bahrein, trovi un Pizza Hut o un Macdonald. Ogni cosa è americana, film compresi. A volte ti fermi e pensi: io non sono così, non provego da questo mondo. Credo che per questo molta gente ricorre alla religione. Perchè, almeno nel nostro caso, la cultura popolare si è formata intorno alla religione. una questione culturale. In più, c’è il fattore dell’islamfobia mediatica, il fatto che noi musulmani siamo ritenuti tutti terroristi. Più hai l’impressione che la gente abbia dei pregiudizi su ciò che sei o credi, più ti ci attacchi».

«Poi c’è la questione dei diritti delle donne. Non siamo abbastanza protette dalle istituzioni, eppure la gente è ossessionata soltanto dalla questione del velo e dell’abbigliamento perde di vista i veri problemi. Ad esempio, le corti religiose (che regitrano matrimoni e divorzi, nda) qui sono molto ingiuste. Ti chedono tante di quelle prove, se vuoi divorziare da tuo marito. Eppure il divorzio, nell’Islam, è un diritto, tantopiù se tuo marito ti maltratta. Invece qui senti un sacco di aneddoti su donne che vanno in corte, dopo essere state picchate diverse volte, magari con un braccio rotto, e si sentono dire: “torna a casa e risolvila con tuo marito”. Poi ci sono le donne divoriate, spesso emarginate o lasciate senza alimenti. Ma la gente perde di vista questi problemi e si concentra sul velo. Adesso c’è tutta questa moda di attivismo in stile: “Vogliono obbligarci a portare il velo, ha ragione l’Occidente!” il fatto è che qui la questione non è il velo. Il velo è soltanto un pezzo di stoffa in testa. Puoi metterlo o non metterlo, non è una questione di diritti civili. I problemi, per le donne, sono ben altri. Ma la stampa occidentale ha trasformato il velo in un simbolo di oppressione. Ed è andata a finire che un sacco di gente, ormai, quando sente le donne rivendicare diritti la boccia come propaganda occidentale anti-velo, e il discorso si chiude lì.»

Siria e l’esercito di italiani che sostengono la repressione

26 novembre 2011 7 commenti

Non posso non girare quest’articolo, perché è una boccata d’aria.
Grazie di cuore, veramente
mentre a quelli che nei forum rivoluzionari mi danno della refardita perché ho pubblicato quest’articolo argomentando che siccome Trombetta scrive sulla Stampa sia per forza un venduto..ehehe, teneteve diliberto, la repressione, i cecchini e i carri armati, altro che le scintille rosse.
la sola cosa sana che ho letto in quelle righe è che è proprio dura star nel movimento: vero, è durissimo se voi siete la compagnia!

Siria, un esercito di Italiani sostiene la repressione
di Lorenzo Trombetta, Europa Quotidiano)
Preti, monaci, diplomatici, lettori di arabo nelle università, accademici, presidi di facoltà, giornalisti, segretari di partito, deputati. In Italia un vero esercito di insospettabili sostiene a spada tratta la tesi del Complotto ai danni del regime di Damasco, finendo colpevolmente a sostenere la repressione in atto in Siria da oltre otto mesi e che ha causato finora l’uccisione documentatadi oltre 4.000 persone.
La loro tesi è che la Siria in rivolta non esiste. Esiste un popolo in ostaggio di uno scenario reale (il regime degli al-Asad in piedi da 41 anni) e di due potenziali minacce: l’invasione della Nato e la conseguente occupazione americano-sionista o l’avvento di un emirato salafita oscurantista anti-tutto.

Ali Ferzat

Il compito di questa legione di sostenitori italiani di al-Asad – tra cui spiccano numerosi esponenti più o meno noti del fronte antagonista trasversale tra destra e sinistra – è delegittimare la rivolta in corso. Descriverla come una montatura delle due principali tv satellitari arabe (al-Jazira e al-Arabiya), parte di un complotto americano per contrastare l’ipotetico fronte irano-russo-cinese, simbolo per loro della Resistenza al Male.
Questi lealisti italiani diventano improvvisamente esperti di linguaggi mediatici, arabisti provetti, studiosi di Islam, professori di storia del Medio Oriente. Altri ammettono più candidamente la loro ignoranza, affermando di voler raccontare la Verità dopo un breve soggiorno nelle tranquille vie di Damasco, visitata per la prima volta senza conoscere una qaf di arabo.
Ciascuno per la propria parrocchia: dai Musolino e i Diliberto dei Comunisti italiani fino a quelli di Progetto Eurasia, passando per tanti altri con cui ho avuto in questi mesi occasione di confrontarmi direttamente o indirettamente, o di cui ho letto in Rete le loro riflessioni.

Accomunati dall’antagonismo all’imperialismo americano e dalla ricerca di visibilità, parlano moltissimo di Stati Uniti, di Israele, di al-Jazira e di salafiti, e pochissimo invece degli oltre 22 milioni di esseri umani che abitano la Siria. E visto che sulla questione siriana, i grandi gruppi editoriali italiani oscillano tra l’indifferenza e il sostegno alla tesi della rivolta di popolo contro il regime, per gli anatagonisti “esser contro” oggi significa anche esser contro i rivoltosi siriani. Che mentre si fanno ammazzare come mosche, sono a loro insaputa difesi dai grandi media del sistema. Agli occhi di questi professori, giornalisti, intellettuali e docenti, la morte dei civili siriani uccisi dalle forze di al-Asad non vale, ad esempio, come quella dei civili di Gaza uccisi da Israele. Semplicemente perché la questione palestinese serve la provinciale causa antagonista italiana. Mentre quella siriana li costringerebbe a mettere in discussione il loro credo ideologico.

Si negano così le uccisioni, gli arresti, le torture. Pratiche non certo nuove nel panorama siriano dell’ultimo mezzo secolo (dall’avvento del Baath, di fatto il partito unico, nel 1963), ma inedite per la vastità delle aree del Paese in cui vengono compiute e per la sistematicità ormai giornaliera con cui vengono commesse. Una realtà negata affermando che le decine di migliaia di testimonianze video non sono autentiche. Da otto mesi ho potuto visionare centinaia degli oltre 73.000 filmati amatoriali postati sui vari canali Youtube della rivolta. Non sono artefatti negli studi televisivi di Doha o Dubai, come molti antagonisti sostengono. Non sono registrati a Tripoli in Libano o a Falluja in Iraq negli anni passati come i lealisti affermano. Si riconoscono le strade delle principali località siriane. Si ascoltano i vari accenti locali. Si leggono targhe delle auto e le prime pagine dei giornali del giorno. Si vede con chiarezza il sangue schizzare dal foro della pallottola sotto la nuca di un bambino o sullo sterno di un giovane. Sono filmati autentici e sono un prodotto dei civili siriani in rivolta.

Gli analisti del Complotto e i paladini della Verità non sanno cosa rispondere alla domanda sul perché siamo costretti a basare gran parte dei resoconti su quanto avviene negli epicentri della repressione sui filmati amatoriali di Youtube. Né sanno rispondere alla questione sul perché in Siria non esista una stampa non controllata dal regime, sul perché numerosi giornalisti siriani non sono liberi di circolare e lavorare liberamente nel loro Paese. Sul perché è molto raro che un giornalista straniero – arabo o non arabo – possa documentare, anche e soprattutto visivamente, cosa sta accadendo a Idlib, Homs, Daraa, Hama.

Mazen Darwish, direttore del Centro siriano per la libertà giornalistica e di espressione, da anni impegnato nella lotta contro le violazioni contro gli operatori dell’informazione, ha documentato dal 15 marzo al 9 novembre, 117 casi di arresto e maltrattamento di giornalisti in Siria
Lo ha fatto presentando una lista completa di nomi, cognomi, affiliazione professionale, date e – ove possibile – luoghi di detenzione, tipo di maltrattamento e procedura giudiziaria seguita nei confronti di giornalisti siriani, e arabi e non arabi.
La realtà viene negata anche sostenendo che sono false o gonfiate tutte le testimonianze raccolte finora da noi reporter che non possiamo andare in Siria. Si tratta di racconti ascoltati e registrati dai profughi fuggiti in Libano, in Giordania e in Turchia.
Sommando il numero di siriani fuggiti in questi tre Paesi otteniamo la cifra approssimativa di 20.000 persone, per lo più civili. Sono tutti agenti del Complotto? Sono tutti sul libro paga dei sauditi, per conto degli americani e dei sionisti? E noi giornalisti siamo tutti prezzolati e in malafede oppure grandi ingenui pronti a riportare ogni parola senza verificare?
Altri analisti lealisti italiani affermano che l’Osservatorio per i diritti umani in Siria (Ondus), una delle principali fonti di  informazioni sulle violazioni giornaliere commesse nel Paese, diffonde ogni giorno menzogne e che riceve soldi dall’estero, perché il suo presidente trasmette le notizie da Londra.
E’ vero: Rami Abdel Rahman è ora basato nella capitale britannica ma nessuno si chiede perché non possa lavorare e vivere nella sua Siria? L’Ondus è comunque attiva e opera in Siria con una rete in loco di attivisti e ricercatori nel campo della difesa dei diritti umani – ora anonimi per ovvie ragioni di sicurezza – da almeno dieci anni. Di loro davo notizie ben prima che i vari analisti e turisti per caso si scoprissero difensori degli al-Asad.

Che dire poi del pestaggio subito dal vignettista Ali Farzat a Damasco? Dello sgozzamento del poeta Ibrahim Qashush a Hama? Dell’uccisione del fotoreporter Farzat Jarban a Qseir, vicino Homs? A Farzat hanno spezzato le dita con cui disegnava le caricature contro il regime. A Qashush hanno tagliato le corde vocali con cui aveva cantato la canzone “della rivoluzione”. A Jarban hanno cavato gli occhi. Gli abitanti di Qseir lo hanno trovato morto domenica 20 novembre fuori città dopo appena 24 ore dal suo arresto.
Chi è responsabile di questi crimini? Gli antagonisti sono pronti a dire che le bande di terroristi armati sono dietro il pestaggio di Farzat, lo sgozzamento di Qashush e la barbara uccisione di Jarban. Per dare la colpa – affermano – al governo di Damasco.
Domanda: perché avventurarsi in una simile e improbabile acrobazia logica, inventando entità (“bande armate di terroristi”) di cui nessuno ha ancora mai dimostrato l’esistenza pur di salvare un regime, i cui crimini sono invece noti da decenni e sono così simili a quelli commessi dal 15 marzo ad oggi?

Chi si ostina a voler credere alla retorica del regime, deve però avere la coerenza di andare fino in fondo. Qualche esempio: il presidente Bashar al-Asad continua a ripetere che sì, sono stati commessi “alcuni errori” dalle forze dell’ordine, ma che di questi “errori” terrà conto la Commissione d’inchiesta incaricata di far luce sugli “eventi in corso”. Sin da metà aprile, a circa un mese dall’inizio delle proteste e della repressione a Daraa, le autorità – Bashar in testa – hanno annunciato la creazione di una commissione d’inchiesta, che non aveva però la possibilità di lavorare se non sotto lo stretto controllo del regime. Da mesi non si ha più notizia dei risultati, seppur parziali, del suo lavoro. Perché?
Analogamente, a metà maggio, le autorità siriane annunciavano la creazione di una commissione d’inchiesta sul ritrovamento di una fossa comune a Daraa, contenente i corpi di almeno cinque persone, tutte membri della famiglia Abazid. Da allora, più nessuna notizia. Perché?
Un’altra commissione d’inchiesta è ufficialmente a lavoro, sempre da maggio, per alcuni “errori” commessi dalle “forze dell’ordine” a Banyas, sulla costa. Nessun’autorità siriana o media ufficiale ne parla più. Perché?
Su più larga scala, non si ha notizia alcuna dei processi a cui dovrebbero esser sottoposti le centinaia di terroristi che ogni giorno, sugli schermi della tv di Stato e sulle pagine del sito Internet dell’agenzia ufficiale Sana, vengono mostrati come rei confessi di aver compiuto ogni tipo di barbarie contro i civili e “le forze dell’ordine”. Perché?
Si tratta sempre di siriani (per la prima volta il 22 novembre si è appreso che un saudita di madre siriana è stato ucciso a Homs. Un po’ poco per denunciare orde di sauditi salafiti in Siria), molto spesso con la barba (“fondamentalisti”…) e originari delle zone rurali (“arretrati”…). Ma non si capisce perché mai da otto mesi siano in attesa di giudizio. Non è stato forse abolito lo stato d’emergenza? O forse i processi sono già iniziati, o addirittura le condanne sono state emesse, senza che la stampa “libera” di Damasco ne abbia dato conto?

A proposito dei fermati dal 15 marzo ad oggi: il 20 novembre gli attivisti fornivano una lista di oltre 14.000 persone ancora in stato di arresto, moltissimi in luoghi di detenzione sconosciuti ai parenti dei fermati. Il regime non ne dà conto. Perché?

Eppure, tra il 5 e il 15 novembre scorsi, le autorità hanno liberato – dandone notizia sulla Sana e sulla tv di Stato – circa 1.800 “fermati che non si sono macchiati di crimini di sangue”. Su che basi li hanno liberati?

Se fosse così – oh antagonisti e lealisti – non è forse questa una violazione della sovranità della Siria di fronte alle ingerenze esterne? Rimaniamo all’interno della logica del regime: anche se non hanno commesso crimini di sangue, quei 1.800 saranno pure stati fermati con un motivo valido, perché sospettati di aver commesso qualche crimine. Perché rilasciarli? Non sono più “terroristi”? Non sono più “agenti del Complotto”? Non sono più un pericolo alla sicurezza pubblica?
E ancora: la sera del 15 novembre, la tv di Stato ha trasmesso le immagini di alcuni di questi fortunati “terroristi” tornati in libertà: ripresi in quella che sembra essere un’aula scolastica, sono apparsi i volti di queste decine di ragazzi e uomini, quasi tutti con la barba, e nessuno con segni di percosse o tortura sul volto, tutti con l’aria di provenire da sobborghi degradati o dalle campagne.
Tra loro, si è appreso l’indomani, c’erano anche il medico Kamal Labwani, prigioniero politico di lunga data, e Rafah Nashed, psicanalista siriana arrestata ad agosto. Perché il fermo di questi due siriani non era mai stato ammesso dalle autorità.

La Nashed, che dopo un mese dall’inizio delle proteste e della repressione aveva avviato a Damasco un laboratorio di terapia di gruppo ”per sconfiggere la paura”, era stata accusata di incitamento al sovvertimento del sistema politico e violazione dell’ordine pubblico, e rischiava una pena di circa sette anni di detenzione. Né la Sana né la tv di Stato hanno mostrato le immagini della Nashed e di Labwani rimessi in libertà. Forse perché non avevano la barba? (Pubblicato su Europa Quotidiano il 25 novembre 2011).

Processo alle nuove BR: salta l’impianto accusatorio. Bellomonte scarcerato dopo 29 mesi di carcere: MALEDETTI

22 novembre 2011 2 commenti

E pure in questo caso non riesco a trovare tempo di scrivere mai quello di cui ho voglia:
che vita demmmmerda!
Rubo interamente da Contropiano..e ringrazio
senza riuscire a smettere di pensare che LUIGI FALLICO, ieri, avrebbe potuto brindare alla sua assoluzione,
se il carcere non l’avesse ammazzato prima.
LINK precedenti a riguardo:
Gli arresti
Trovato morto Luigi Fallico, gli è scoppiato il cuore
Il comunicato dei suoi compagni

Dopo ore di camera di consiglio la Corte d’Assise di Roma ha assolto Bruno Bellomonte e altri due imputati dalle accuse di terrorismo. Smontato un teorema accusatorio inconsistente e tutto politico. Applicato comunque nei confronti di 3 imputati condannati…

Commozione ed entusiasmo tra i compagni e gli amici di Bruno Bellomonte.
Dopo alcune ore di Camera di Consiglio i giudici della Corte d’Assise del Tribunale di Roma hanno finalmente assolto il ferroviere arrestato 29 mesi fa e accusato di banda armata a fini terroristici. Cessa quindi lo sciopero della fame di solidarietà di Nicola Giua, portavoce dei Cobas della Sardegna, che lo aveva intrapreso sei giorni fa, al quale si era poi aggiunto il giorno successivo Antonello Tiddia, RSU della Carbosulcis e animatore insieme ad altri esponenti del sindacalismo di classe di un comitato di solidarietà che sabato scorso aveva realizzato un presidio sotto al Palazzo di Giustizia di Cagliariper denunciare la vera e propria persecuzione giudiziaria ai danni del dirigente dell’organizzazione politica sarda ‘A Manca pro s’Indipendentzia’ (A Sinistra per l’Indipendenza).

Bruno Bellomonte, tornato libero dopo 29 mesi di carcere per poi essere completamente assolto

Chi conosceva Bellomonte aveva fin da subito scommesso sulla sua innocenza denunciando il carattere inconsistente e fantasioso delle accuse nei suoi confronti. «Bruno è stato arrestato 29 mesi fa con l’accusa di preparare qualcosa di grosso per il G8 di La Maddalena – ha spiegato Giua – l’accusa si è basata su una indecifrabile intercettazione fatta in un ristorante romano da cui si è desunta l’intenzione di attaccare il G8 con aeromodelli».
Il rappresentante dei Cobas ha ricordato, inoltre, che Bellomonte «è stato licenziato da Trenitalia oltre un anno fa per assenza dal posto di lavoro». “Smontato finalmente un teorema accusatorio inconsistente e tutto politico teso a criminalizzare l’indipendentismo sardo di sinistra in un momento in cui nell’isola si moltiplicano le lotte” commenta al telefono Cristiano Sabino, dirigente di A Manca. “Voglio ringraziare tutti coloro che in questi anni si sono spesi per diffondere la verità su questa vicenda dando voce a Bruno” ha aggiunto.
Il clima in cui i giudici di Roma sono stati chiamati a decidere non era certo dei migliori. Proprio alcuni giorni fa alcuni media sardi e ‘Il Fatto Quotidiano’ avevano riportato con grande evidenza e, come al solito in maniera acritica, la notizia che la Direzione Distrettuale Antiterrorismo di Cagliari aveva riaperto le indagini sulla cosiddetto ‘operazione Arcadia’. Secondo la Direzione cagliaritana i militanti di A Manca si sarebbero responsabili, nella prima metà degli anni 2000, non solo di una generica «propaganda sovversiva», fatta di volantini e proclami, ma «atti di terrorismo – li chiama la magistratura – compiuti da una banda armata organizzata per sovvertire l’ordine costituito». Accuse pesantissime che l’organizzazione politica rigetta in toto rivendicando, come del resto ha sempre fatto anche Bellomonte, la propria militanza politica e sociale comunista e indipendentista svolta alla luce del sole.
Quell’inchiesta, coordinata dal Pm Paolo de Angelis, condusse l’11 luglio del 2006 all’arresto di dieci tra attivisti e attiviste e dirigenti di A Manca. Tra questi c’era anche Bruno Bellomonte, poi scarcerato prima di essere arrestato di nuovo in conseguenza della nuova inchiesta sul ‘tentativo di attaccare il G8 della Maddalena attraverso l’uso di un aeroplano telecomandato’ (!) in ‘combutta con alcuni complici’ sparsi in varie città italiane (!!). Tra questi il 59enne romano Luigi Fallico, morto a causa di un infarto all’interno della sua cella nel carcere di Mammagialla, a Viterbo. Una morte che, alla luce dell’assoluzione di oggi di Bellomonte, genera ancora più rabbia e sconcerto.
Così come qualche dubbio, per lo meno, genera la condanna a 7 anni e 6 mesi di Massimo Riccardo Porcile (per lui il Pm aveva sollecitato la condanna a 15 anni), a 8 anni e 6 mesi Gianfranco Zoja (15 anni) e Bernardino Vincenzi a 4 anni e 6 mesi (il Pm aveva chiesto 12 anni e 8 mesi). Tutti – giudicati dalla sentenza responsabili del fallito attentato del 26 settembre 2006 alla caserma Vannucci di Livorno, rivendicato da «Per il comunismo Brigate Rosse» – erano stati arrestati il 10 giugno del 2009. Assolti invece, insieme a Bellomonte, anche Costantino Virgilio e Manolo Pietro Morlacchi (scrittore, figlio di “Pierino” e Heidi Ruth Peusch, una vita tra carcere e conglitto sociale), nei confronti dei quali la corte ha deciso l’immediata scarcerazione. Per Manolo, da subito indicato come assolutamente innocente da tutti, unidici mesi di detenzione solo per il cognome che porta.

Comunicato sulla condanna a Giovanni Caputi: COLPIRNE UNO PER RI-EDUCARNE MIGLIAIA

19 novembre 2011 17 commenti

Colpirne uno per…ri-educarne migliaia
E’ arrivata la prima condanna per le\gli arrestate\i del 15 ottobre. Una condanna pesante che ci sembra essere, ancora una volta, la vendetta della Legge nei confronti di chi ha poco o niente per difendersi.
Sembra che abbiano deciso di far pagare tutto a lui.
Dopo tutto l’insopportabile marasma mediatico creatosi subito dopo gli scontri del 15 ottobre, la repressione continua a colpire, sempre più seriamente.

Foto di Valentina Perniciaro, Genova 2002, TUTTI LIBERI

Giovanni Caputi, l’unico che era ancora in stato di detenzione, dentro Regina Coeli, proprio perché senza alcuna dimora, è stato condannato con il rito abbreviato dal Tribunale di Roma a tre anni e 4 mesi di detenzione per resistenza pluriaggravata a pubblico ufficiale.
Ma la procura fa già sapere che forse non basta e, ora che ha ottenuto la trasmissione degli atti dal tribunale, vuole indagare anche per il reato di devastazione.
Vogliamo continuare a sostenere chi si è trovato prima colpito da accuse pesanti e poi da una condanna che trasforma una persona nel capro espiatorio delle migliaia che c’erano in piazza.
Ora che il governo dei banchieri si è insediato, crediamo che sia ancora più importante sottolineare contro chi continueremo a scagliare la nostra rabbia: i padroni, le banche, la classe politica tutta. Tutti pronti ad abbracciare il commissariamento de facto delle istituzioni europee, per un modello economico giunto al capolinea.
Noi, però, abbiamo un’arma che loro non hanno.
Quella solidarietà che si mette in moto quando sentiamo che uno spirito affine è in difficoltà. E allora il nostro impegno deve essere quello di far sentire a Giovanni tutta la nostra solidarietà.
Lanciamo un appello alla Roma solidale, se ancora esiste: cerchiamo collettivamente un domicilio per Giovanni, affinché almeno possa uscire da quell’infame luogo che è Regina Coeli, seppur in regime di arresti domiciliari.
Raccogliamo dei soldi, affinché possa fare un minimo di spesa.
Mandiamogli dei vestiti, al contrario di quello che credono i buoni cittadini, in carcere fa molto freddo.
Regaliamogli dei libri, senza di loro dentro il tempo può sembrare infinito.
Scriviamogli lettere, per far sentire a Giovanni che fuori ci sono delle persone che lottano anche per lui.
Facciamogli sentire la nostra voce fuori dal carcere di Regina Coeli, e facciamola risuonare nelle strade.
Partecipiamo in massa il prossimo 5 dicembre all’udienza del processo contro Ilaria, Robert, Stefano.

 Continuiamo a sottoscrivere per le spese legali presso il c\c di Radio Onda Rossa: conto corrente postale CCP n. 61804001 intestato a: Cooperativa Culturale Laboratorio 2001, Via dei Volsci 56 – 00185 Roma. Causale: “15 ottobre”; effettuando un bonifico bancario intestato a: Cooperativa Culturale Laboratorio 2001 Codice IBAN: IT15 D076 0103 2000 0006 1804 001 Causale: “15 ottobre”.

Se il silenzio è il primo sintomo della loro vittoria, noi continueremo sempre a gridare.
 Le nostre lotte camminano con Giovanni e per Giovanni.
 Libere/i tutte/i

 I compagni e le compagne

15 ottobre: ecco la prima condanna

17 novembre 2011 18 commenti

Che vergogna.
Sembra che abbiano deciso di far pagare tutto a lui.
Tutto il marasma mediatico insopportabile creatosi subito dopo gli scontri del 15 ottobre inizia a mietere vittime.
Ieri sera c’arriva la splendida notizia della scarcerazione di Leonardo Vecchiolla, trasferito poco prima nel carcere di Rebibbia per competenza territoriale. Scarcerato senza alcuna restrizione: libero.
Oggi invece la batosta.
Giovanni Caputi, l’unico che era ancora in stato di detenzione, dentro Regina Coeli, proprio perché senza alcuna dimora, è stato condannato questa mattina dal Tribunale di Roma a tre anni e 4 mesi di condanna per resistenza pluriaggravata a pubblico ufficiale con il rito abbreviato.
Ma la procura ci fa già sapere che forse non gli basta e che ora che ha ottenuto la trasmissione degli atti dal tribunale, vuole indagare anche per il reato di devastazione.
Tra gli arrestati del 15 ottobre, Giovanni è quello con la condizione più particolare: originario di Bari era in Spagna da divero tempo, non ha ottenuto la scarcerazione come gli altri perché privo di domicilio o di qualcuno che potesse ospitarlo, qui in Italia.
Così è rimasto in carcere ed oggi s’è preso la prima condanna per gli scontri del 15 ottobre scorso, in piazza San Giovanni: vogliono anche il risarcimento danni, sia il Comune di Roma che l’Ama, la società che gestisce lo smaltimento dei rifiuti e procederanno in sede civile dopo essersi costituiti parte civile.

Hanno trovato il capro espiatorio: il più debole paga per tutti.
Sarà contenta la redazione di Repubblica e tutti coloro che invocavano la polizia o impacchettavano fanciulli.
Noi ricordiamoci che il 5 dicembre ci sarà l’udienza per Robert, Stefano ed Ilaria:
NON LASCIAMOLI SOLI!

e scriviamo a Giovanni,
nel carcere di Regina Coeli, Via della Lungara 29, 00165 Roma

De Cupis: un altro caso Cucchi? Non ci stupirebbe!

15 novembre 2011 3 commenti

Dopo il caso Cucchi ancora una morte oscura all’interno di un centro clinico penitenziario.

Cristian De Cupis

Questa volta il decesso è avvenuto il 12 novembre scorso nel reparto per detenuti dell’ospedale Belcolle di Viterbo dove Cristian De Cupis, il 36enne romano arrestato la mattina del 9 novembre nei pressi della stazione Termini per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, era stato condotto dopo l’arresto.
Anche se i primi risultati emersi dall’autopsia escludono, per il momento, la presenza di lesioni ad organi interni «tali da causare la morte» (formula ambigua che non esclude la presenza di lesioni), gli interrogativi sulla vicenda non cessano di moltiplicarsi. Subito dopo l’arresto De Cupis era stato condotto al pronto soccorso del santo Spirito. Perché? Ai medici il giovane aveva denunciato di aver subito delle percosse dagli agenti della Polfer che avevano eseguito l’arresto. La presenza di escoriazioni sulla fronte ed ecchimosi varie erano state riscontrate dai sanitari e sono state confermate dall’esame autoptico. Segnato da uno stato di salute con problematiche cliniche complesse connesse alla tossicodipendenza, De Cupis – visto il reato lieve – non sarebbe dovuto finire in carcere, tanto che lo stesso pm aveva disposto i domiciliari non appena terminato il ricovero. Ma perché era stato disposto il ricovero?
E perché mai, nonostante risiedesse nella capitale, è finito al Belcolle di Viterbo, dove era stato sottoposto addirittura ad una tac? I familiari hanno saputo del suo arresto soltanto dopo il decesso. Il presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale Ignazio Marino, che ha svolto un ruolo determinante sul caso Cucchi, ha annunciato l’avvio di una istruttoria per fare chiarezza sulla vicenda.

Amburgo: solidarietà per Sonja Suder e Christian Gauger

10 novembre 2011 Lascia un commento

AMBURGO _Oggi come allora - mille ragioni per la rivolta! Solidarietà a Sonja e Christian. Dal 1978 Sonja e Christian erano ricercati dallo stato tedesco, con l'accusa di aver preso parte ad attentati contro energia nucleare, bomba atomica e gentrificazione e di far parte delle Cellule Rivoluzionarie (RZ). Entrambi hanno scelto la fuga e una vita in esilio sotto falsa identità e deciso di non scendere a compromessi e cooperazione con lo stato e i suoi aiutanti. _

Christian fortunatamente è stato scarcerato pochi giorni fa, viste le sue condizioni di salute, completamente incompatibili con il carcere.
Sonja malgrado l’età avanzata è di una forza incredibile, vive la sua carcerazione con serenità, scrivendo che l’aveva sempre immaginato che prima o poi l’avrebbero presi, quindi è preparata e sollevata che Christian sia lontano dal carcere.
Informationen:
verdammtlangquer.org/
abc-berlin.net
freilassung.de

Qui un po’ di link sulla lorio storia:
Due estradizioni annunciate
Erri De Luca su Sonja e Christian
Una loro intervista
Estradati Sonja e Christian
Oreste Scalzone commenta l’estradizione

Presidio a Regina Coeli: LIBERARE TUTT@

9 novembre 2011 10 commenti

LA SOLIDARIETÀ È UN ARMA
LIBERARE TUTTE E TUTTI

Nell’affollatissima assemblea di domenica 6 novembre tenutasi al CSOA Ex SNIA si sono incontrate numerose realtà romane provenienti da percorsi molteplici ed a volte distanti, almeno quattro generazioni di compagni e compagne a confronto. La volontà di andare oltre il 15 ottobre e rilanciare percorsi di lotta e autorganizzazione, capaci di connettersi, con la voglia di protagonismo dei giovanissimi, con le tante vertenze nei territori e nei posti di lavoro, con la difesa dei beni comuni e contro profitti e speculazioni. Un sentimento comune nelle dovute differenze senza rimozioni e non senza fare i conti con quanto è successo in quella giornata.

Tutti i presenti si sono espressi per il rifiuto della logica del capro espiatorio alla base del sistema penale e della dicotomia buoni/cattivi con la quale si è voluto criminalizzare da più parti la piazza del 15 ottobre. Un meccanismo che abbiamo subito all’indomani di Genova 2001 con il quale non si è saputo fare i conti. Dopo dieci anni è ancora il paradigma black bloc – infiltrato ad essere riproposto dall’apparato politico, dai pennivendoli e mezzobusti. Un immaginario talmente digerito socialmente da aver scatenato il fenomeno inedito della delazione di massa. Occorre prendere parola e re-agire fuori dai recinti identitari.

In questa direzione, come primo passo, si è deciso di impegnarsi collettivamente perché nessuno rimanga solo a fare i conti con procure e commissariati. Organizzare per questo una campagna per far fronte alla morsa repressiva che si sta impiantando per controllare il crescente disagio sociale e disinnescare il conflitto contro la riorganizzazione del capitale e le politiche europee di austerity. Costruire una rete di solidarietà che si doti come prima cosa di una cassa per le spese legali, l’attivazione di una mailing list per coordinarsi ( https://www.autistici.org/mailman/listinfo/liberta15ott ) e un blog (http://liberatutto.noblogs.org/) per aggiornare le informazioni sui processi e comunicare le varie iniziative.

Si è deciso di scendere questa settimana in piazza, di chiamare Roma a dare una risposta. Le stragi e i disastri colposi che si sono verificati in queste settimane in tutta Italia, a partire dalla nostra città, ci danno il vero parametro della distruzione e del saccheggio che subiamo nei nostri territori, giorno per giorno sulla nostra pelle, niente di paragonabile a dieci vetrine infrante.

L’assemblea si è aggiornata per mercoledì 9 alle ore 20:00 al CSOA Ex SNIA per continuare il dibattito e per organizzare un presidio per sabato 12 novembre in solidarietà con Giovanni Caputi, Fabrizio Filippi, Leonardo Vecchiolla e Carlo Seppia gli unici a cui non sono state derubricate da carcere a obbligo di dimora fra i 14 arrestati  durante e dopo il 15 ottobre. Un occasione per rompere il divieto di manifestare imposto da Alemanno e Maroni, per dare una risposta di massa alla criminalizzazione delle lotte, per la libertà di movimento, per la libertà di tutti gli arrestati e le arrestate.

PRESIDIO DI FRONTE REGINA COELI
SABATO 12 NOVEMBRE DALLE ORE 15:00
LUNGOTEVERE GIANICOLENSE

Per far sentire la nostra solidarietà a chi è ancora in carcere possiamo scrivere agli indirizzi forniti su http://liberatutto.noblogs.org
Per Sottoscrivere per le spese legali di tutti e tutte gli arrestati e le arrestate: venendo negli studi di ROR in Via dei Volsci 56 a Roma, tutti i giorni dalle 8 alle 21; oppure compilando un bollettino di conto corrente postale CCP n. 61804001 intestato a: Cooperativa Culturale Laboratorio 2001, Via dei Volsci 56 – 00185 Roma. Causale: “15 ottobre”; effettuando un bonifico bancario intestato a: Cooperativa Culturale Laboratorio 2001 Codice IBAN: IT15 D076 0103 2000 0006 1804 001 Causale: “15 ottobre”.

Egitto: altro rinvio per Maikel Nabil ormai allo stremo, e grandi mobilitazioni in solidarietà di Alaa

1 novembre 2011 1 commento

Ieri la mobilitazione in sostegno di @Alaa, blogger e attivista politico di spicco nel movimento di piazza Tahrir condannato a scontare quindici giorni per essersi rifiutato, da civile, di rispondere alle domande postegli dalla corte militare, è stata massiccia. Alaa è un personaggio molto noto, che aveva già conosciuto le carceri egiziane del regime di Hosni Mubarak e le manifestazioni in suo sostegno ci son state al Cairo, ad Alessandria e in Tunisia, oltre alla grande mobilitazione avvenuta in rete. Il fratello, altro noto attivista, che è riuscito ad avere un colloquio con lui, ci racconta di una cella priva di luce, con la possibilità di uscire per recarsi al bagno solo due volte al giorno, per venti minuti.
Migliaia di persone si sono riunite in piazza Talaat Harb, a pochi passi da piazza Tahrir, per manifestare solidarietà al compagno e amico Alaa e urlare la propria rabbia cntro il Consiglio Supremo delle Forze Armate, la grande delusione (anche troppo scontata per quel che ci riguarda) della rivoluzione del gennaio di quest’anno.
Tra i cingolati dei carri armati dello Scaf trovavano riparo e letto le migliaia di persone che per settimane hanno abitato i marciapiedi e l’asfalto della downtown del Cairo, nelle mani di quei soldati hanno imprudentemente consegnato la loro lotta, convinti che gli sarebbe stata garantita una transizione pacifica verso delle elezioni democratiche a cui tutti sono impreparati.
Ma insomma, era un po’ come crede alle favole e il sogno dell’esercito buono dalla parte del popolo e contro agli ancestrali meccanismi e mandri di un regime quarantennale si è spappolato come le teste dei coopti che manifestavano davanti alla sede nazionale della Tv di stato, pochissime settimane fa.
Decine di morti, molti schiacciati sotto le ruote dei blindati di quell’esercito tanto amato: quella sera è stata definitivamente tirata una linea di demarcazione, e lo SCAF è dalla parte del regime, del potere, della repressione, del carcere, della tortura, degli assassinii.
E i nomi iniziano ad esser troppi, da quella lunga notte in cui fu ucciso anche il giovane blogger Mina Daniel, tra quelle 40 persone, accorse immediatamente in sostegno dei copti colpiti.
Maikel Nabil è un altro blogger, un ragazzo coraggioso che dalle sue pagine ha denunciato per primo il test della verginità sui corpi delle donne che venivano fermate in piazza, o negli scioperi: tre anni di condanna inflittagli da un tribunale militare, contro il quale ha iniziato uno sciopero della fame. Una storia processuale un po’ rocambolesca, un continuo posticipare le udienze – proprio come avvenuto anche questa mattina- che sta portando il corpo di Maikel a non farcela più.
Oggi, allo sfiorar del settantesimo giorno senza cibo, lo scheletrico Maikel Nabil Sanad s’è visto schiaffeggiare con un altro rinvio: altre due settimane, forse quelle fatali viste le sue condizioni.

Questi alcuni dei casi, insieme a quello di Essam, il ragazzo torturato a morte di cui si son fatti i funerali nella piazza simbolo della rivoluzione nemmeno una settimana fa, che stanno facendo esplodere la rabbia egiziana verso l’esercito.
Ancora una volta è l’inaspettato ad aver la meglio nelle mobilitazioni: mai si sarebbe pensato a slogan contro Mubarak fino allo scorso anno e abbiamo visto quel che è stato.
Mai si sarebbe pensato, nei mesi successivi alla sua caduta, di sentire migliaia di persone urlare per l’abbattimento dell’esercito con tanta determinazione: ora è quello di cui risuonano le strade.