Tragedia all’occupazione Sans Papiers: per il PD è colpa delle occupazioni

27 ottobre 2014 1 commento

Il responsabile immigrazione del Partito Democratico di Roma commenta in modo vergognoso la tragedia accaduta in un appartamento dello stabile occupato in Via Carlo Felice, dove si trova il centro sociale Sans Papiers, che lascia tutti sgomenti e basiti.Una donna suicida, due bambini morti, un’altra in fin di vita: una famiglia distrutta probabilmente per una crisi, un raptus ancora tutto da spiegare.
Quel che è accaduto in quell’appartamento potrebbe essere accaduto ovunque ed è veramente ridicolo doverlo specificare.
Ci voleva questo genio del Pd per vomitare parole simili, senza vergogna alcuna.

“La tragica notizia del ritrovamento del corpo di una donna marocchina e dei suoi due bambini nel Centro Sociale Sans Papiers, sottolinea ancora una volta l’inadeguatezza dei centri e delle strutture occupate abusivamente nella Capitale – sottolinea in una nota Khalid Chaouki deputato Pd e responsabile immigrazione del Partito Democratico di Roma – Occorre prendere una posizione netta contro queste situazioni di illegalità per garantire il bene di chi abita in quelle strutture e per risanare quei contesti dove migliaia di persone continuano a vivere in condizioni disumane e fuori da qualsiasi tipo di controllo”.

Vi ricordate di Luca Bianchini? Il segretario di sezione del Pd arrestato poi perché stupratore seriale nei garage romani? Quello che a casa aveva una collezione di film intitolati “ti stuprerò” “stupri dal vero” e che contemporaneamente agli stupri  tesserava un sacco di persone nella sezione PD del Torrino come neocordinatore del circolo.
Stuprava di notte, aggrediva alle spalle nei garage con un taglierino e violentava le sue vittime sui sedili delle macchine, prima di dileguarsi: a ragionar come Chaouki avremmo dovuto mobilitarci immediatamente per la chiusura immediata di TUTTE le sedi del partito che lui rappresentava nel suo quartiere, “strutture fuori da qualsiasi tipo di controllo”, luoghi da risanare immediatamente e riportare nella legalità.

5 amici siriani verso l’Europa… e la storia dei 3 che son riusciti ad arrivare…

27 ottobre 2014 1 commento

Di 5 amici sono arrivati in 3.
Gli altri giù a picco, insieme a centinaia di altri corpi, che ormai son migliaia…

E io non ce la faccio a mantenere la lucidità, io non so più guardare il mare.

Poi guardo questi 5 ragazzi e mi sembra di stare in corridio all’università di Damasco,
o in qualche locale la sera a cazzarare come un a manciata di anni fa.
Eccoli i migranti che il nostro paese non vuole, ecco quello che sarebbe l’invasione islamica,
il medioevo che viene ad invaderci: 5 pischelli che potrebbero essere del Trullo,
o di un qualunque quartiere del nostro paese di merda, razzista ed escludente come forse mai prima d’ora.

Guardatelo questo video, guardatelo ed ascoltateli.
Loro 3 ce l’hanno fatta, i loro 2 amici hanno galleggiato per un po’,
poi son diventati acqua, insieme a migliaia di altri siriani, somali, eritrei, libici………
E se insegnate nelle scuole, se avete a che fare con i bambini:
questa è la storia che dobbiamo raccontargli, questi i compagni di scuola che dobbiamo sperare abbiano,
fianco a fianco…

Ucciso Remi Fraisse: uno di noi.

27 ottobre 2014 1 commento

Sarebbe stato ucciso da una granata assordante,
Rémi, 21 anni, uno di noi. Previste per oggi manifestazioni in tutta la Francia, mentre nel pomeriggio si avranno notizie più approfondite sulla causa della morte, già così palesemente chiara.

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Durante la notte di domenica 26 ottobre Remi Fraisse, giovane studente di Tolosa di 21 anni, è morto durante gli scontri con la polizia a Testet, nei pressi del cantiere dove le autorità francesi vogliono costruire la mega- diga di Siviens.

Questa grande opera da 1,3 milioni di metri cubi d’acqua sarà un affare per le grandi aziende d’agricoltura industriale (a discapito dei piccoli contadini) e comporterà la distruzione di tutto quel territorio che ospita molte specie protette di animali.

La ZAD (zona a defendre-zona da difendere) durante l’estate era stata più volte attaccata dalla polizia e sabato migliaia di persone avevano risposto all’appello di manifestazione in difesa del territorio e contro le grandi opere.

Gli scontri con la polizia sono incominciati sabato pomeriggio, verso le 16, con la polizia presente in grandi numeri e già durante le prime ore molti sono i feriti tra i manifestanti (5 portati in ospedale).

Il sangue di Remi trovato a terra dai compagni

Durante la notte, tra le 2 e le 3 del mattino, i manifestanti raccontano di lacrimogeni sparati ad altezza uomo e di granate stordenti fino a quando, prima di un lancio intensivo, un plotone di polizia è avanzato per raccogliere una persona a terra. Questa scena è stata vista chiaramente da  tutti, poiché la grande presenza di mezzi dalla polizia illuminava “a giorno” l’area degli scontri. Diversi video su quella notte stanno girando sul web.

l corpo di Remì è stato quindi subito preso dalla polizia e l’autopsia renderà note ai più le ragioni della morte lunedì pomeriggio anche se chi è stato sul luogo degli scontri, chi ha partecipato a quella notte di lotta, riferisce già da ieri la dinamica di quanto è successo, lasciando pochi dubbi su cosa abbia ucciso Remi: una granata stordente lanciata dalla polizia lo ha colpito lasciandolo a terra.

Guardando quelle immagini di scontri non possiamo non riconoscere una situazione vissuta da noi tante volte, i gas lacrimogeni lanciati ad altezza uomo che infestano l’aria e rendono le persone facili bersagli per chi gioca a fare la guerra. Riconosciamo nei ragazzi di ZAD, che abbiamo avuto modo di incontrare più volte anche qui in valle, quella stessa determinazione e quello stesso coraggio che anche noi abbiamo dovuto mettere in campo molte volte sfidando divieti e le truppe di occupazione.

Leggiamo nella loro testardaggine l’amore per la propria terra e la volontà di difenderla, di non cedere il passo a polizia e potenti di turno.

Vediamo in Remì uno dei nostri ragazzi e per questo ci stringiamo attorno ai suoi compagni, familiari ed amici.

La lotta sarà la risposta a questa inaccettabile morte.

Forza ZAD!

L’impatto di una granata assordante a terra…

Ancora sull’ “operazione Mos Maiorum”: di cui siamo solo al secondo giorno

14 ottobre 2014 Lascia un commento

Un’articolo su Mos Maiorum, che ci racconta un po’ i dettagli dell’operazione e il significato del nome.
Da quando son bambina, mi son sempre chiesta chi sceglie il nome delle operazioni, avrei sempre voluto vedere il volto di chi partorisce questi deliri lessicali, un po’ in ogni latitudine.
Prima di lasciarvi alla lettura dell’articolo volevo segnalarvi che la polizia dovrà compilare e inviare moduli ogni giorno dalle 11 a questa mail gruppo.frontiere@interno.it quindi, che dire, #tifiamoHacker

A questa pagina invece potete trovare un bollettino, in lingua francese, che ci racconta la prima giornata di operazione oltr’Alpe: LEGGI

PARTE LA RETATA EUROPEA CONTRO I MIGRANTI,
Di Paolo Persichetti

Una retata su scala europea in nome della tradizione. Parte oggi, sotto l’egida del semestre di presidenza italiano dell’Unione, “Mos maiorun”, un’imponente operazione di polizia e intelligence contro i migranti. Per due settimane, dal 13 al 26 ottobre, le forze di polizia cercheranno di fermare e arrestare i migranti in situazione irregolare e raccogliere il massimo di informazioni sulle reti clandestine, le rotte e i percorsi utilizzati per entrare e spostarsi in Europa. 18 mila poliziotti saranno mobilitati per rafforzare i controlli alle frontiere, negli aeroporti, le stazioni e i porti. Il coordinamento dei lavori sarà affidato alla direzione centrale per l’immigrazione e alla polizia di frontiera del Ministero dell’Interno italiano, affiancati da Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne nei paesi dell’area Schengen che, secondo quanto precisato all’Ansa dal direttore esecutivo dell’agenzia, Gil Arias Fernandez, fornirà solo un contributo di tipo statistico senza aver avuto alcun ruolo nella pianificazione e nell’implementazione dell’operazione.

Stando a quanto descritto nel documento del consiglio dell’Unione europea, reso pubblico dall’associazione britannica Statewatch, i Paesi partecipanti all’iniziativa sono invitati a raccogliere per ogni persona fermata il profilo (nazionalità, genere, età, luogo e data d’ingresso nell’Unione), il percorso effettuato, il tipo di trasporto impiegato, la data di partenza, le tappe intermedie verso la destinazione finale, con particolare attenzione alle tendenze ed eventuali rapidi cambiamenti. Altresì vanno segnalati nel corso delle operazioni: il modus operandi, la falsificazione dei documenti, le somme versate e la tracciatura dei soldi usati per i viaggi, l’identificazione dei collaboratori, la nazionalità e il Paese di residenza dei “facilitatori”. Un report finale sulla retata sarà presentato l’11 dicembre.

Presentata come un’operazione volta ad «indebolire la capacità dei gruppi criminali organizzati che gestiscono le vie dell’immigrazione illegale», l’iniziativa è stata duramente criticata dalle associazioni che si occupano d’assistenza, sostegno e integrazione dei migranti. Il documento del consiglio europeo, infatti, nulla dice sulla sorte che sarà riservata alle persone fermate. Saranno internate, ricondotte alla frontiera, incarcerate? Inoltre i controlli su base razziale, sottolineano ancora la associazioni per i diritti dei migranti, «sono metodi assolutamente illegali secondo il diritto europeo» e l’operazione messa in piedi non sarebbe altro che «una vera e propria caccia al migrante su scala continentale».

Retate del genere non sono rare in Europa, spiega Chris Jones dell’associazione Statewatch, «Operazioni del genere vengono svolte più o meno ogni sei mesi sotto la direzione del Paese che presiede l’unione europea. Prima di “Mos maiorum”, c’era stata “Aerodromos”, pilotata dalla presidenza greca, e ancora prima “Perkuna”, diretta dalla presidenza lituana».
Il ricorso a nomi classici, greci o latini, per designare queste operazioni di polizia non ha solo ragioni linguistiche (la radice comune con molte lingue dell’Unione), serve anche a conferire loro magnificenza, un prestigio quasi mitologico e una retorica di potenza. In taluni casi i nomi hanno delle connotazioni più accentuate che rinviano ad implicazioni di tipo morale o guerresco, come è accaduto con “Mare Nostrum”, l’operazione umanitaria condotta dalla marina militare italiana conclusasi recentemente. “Mare nostrum” era il nome che i Romani avevano dato al mar Mediterraneo quando ne dominavano l’intero bacino, dalla Spagna all’Egitto. Il termine era stato ripreso nel XIX° secolo dai nazionalisti per poi condire la retorica espansionista di Mussolini. L’uso che se ne è tornato a fare oggi, al di là degli importantissimi salvataggi in mare, rinvia ancora una volta ad un immaginario di supremazia e possesso delle acque. Siamo gentili ed umani con voi, o genti disperate che nei flutti cercate salvezza dalle vostre terre martoriate, ma i padroni di questo mare restiamo noi…

La stessa cosa si può dire per l’utilizzo ancora più inquietante dell’espressione latina “mos maiorum”. Non siamo di fronte ad un freddo acronimo o ad un termine descrittivo ma ad una precisa scelta. Si tratta del riferimento più che esplicito a quella morale degli antenati che alimentava le correnti più conservatrici dell’antica società romana. Una visione dei costumi e del sistema di valori che nella battaglia ideologico-culturale della Roma antica era opposta alla decadenza del nuovo. Ciò vuole dire che la politica migratoria deve intendersi innanzitutto come un affare morale, di difesa dei valori, di tutela identitaria di fronte alle invasioni barbariche. Una rappresentazione che rinvia senza mezzi termini ad una visione dell’Europa come fortezza assediata, messaggio di chiusura culturale, di difesa di una purezza immaginaria contro la contaminazione del caos. E’ chiaro, qualcuno pensa ancora che sui nostri bagnasciuga si gioca uno scontro di civiltà.

Una campagna di allerta per i migranti è stata preparata nelle scorse settimane. Volantini in otto lingue sono stati diffusi sulla rete e nelle strade d’Europa per mettere sull’avviso i migranti dai rischi supplementari incorsi in questo momento. Un invito ad utilizzare SMS e social network per segnalare controlli, retate e posti di blocco è venuto dalle reti militanti di solidarietà. Su Twitter, Fb eccetera chi vuole può utilizzare l’hashtag #StopRaids#nomedellacittà per segnalare controlli, retate, posti di blocco.

Leggi anche: Parte l’operazione Mos Maiorum / Blocca le retate

è nata la piattaforma Support Kobane: sostienila!

14 ottobre 2014 2 commenti

Support Kobane e’ una piattaforma creata per movimenti europei e singoli cittadini per consegnare contributi in sostegno alla resistenza di Kobane, che si combatte sul doppio fronte di chi lotta – Kurdi, siriani di altre etnie, attivisti ed attiviste turche – contro lo Stato Islamico ma anche di chi affronta l’esodo da Kobane: piccole municipalita’ al confine, dove il partito di Erdogan non e’ riuscito a vincere alle elezioni e il Governo si limita a mandare carri armati e convogli di polizia. La’ si affollano e accalcano in ogni angolo qualcosa come 160mila persone in citta’ che a malapena ne ospitavano 50mila. Senza contare la privatizzazione selvaggia dei servizi sanitari, della quale l’ospedale di Suruç fra i tanti paga il prezzo insieme ai volontari giunti da ogni lato della Turchia.

Per qualsiasi donazione, non importa quanto simbolica, basta specificare su Paypal l’indirizzo supportkobane@riseup.net come destinatario.

Support Kobane non nasce come una raccolta di aiuti. Il paradigma della carita’ alla vittima passiva non ci pertiene. Questa e’ una piattaforma di solidarieta’ pratica, di supporto fra lotte per lotte – in questo caso, quella che e’ e rimane una lotta politica, e non una semplice tragedia. Kobane ha scelto di resistere. Le donne e gli uomini che resistono da quasi un mese stanno difendendo un modello di autorganizzazione e di convivenza oltre che di laicismo. E la popolazione lungo il confine – la municipalita’ di Suruç, i volontari arrivati da ogni lato della Turchia – hanno scelto di sostenerla.
Quindi quanto raccolto verra’ consegnato a gruppi politici, soggetti attivi schierati politicamente e legati al territorio e alla volonta’ delle popolazioni di quel territorio che si stanno autorganizzando per rispondere ad un’emergenza che vede piu’ di 160mila persone in fuga da Kobane nelle condizioni di cui si e’ parlato in questi giorni. Sappiamo che grazie al modello di democrazia diretto perseguito in quelle zone, la decisione di come distribuire i fondi viene mediata a livello orizzontale in base a bisogni reali – coperte, servizi igienici, medicinali, e cosi’ via.
Per questo, e anche perche’ la situazione peggiora di ora in ora, abbiamo scelto il sistema della donazione diretta piuttosto che del convoglio, e di fare appello ai movimenti perche’ la solidarieta’ sia un veicolo di coinvolgimento collettivo verso una lotta che parla il nostro linguaggio politico.

LA PAGINA E’ QUI: VAI

l’emergenza delle popolazioni Yazide stravolte dall’attacco dell’IS continua anche se e’ sparita dai giornali. E che ‪#‎UnPontePer‬ sta tuttora facendo un lavoro straordinario nel cercare di normalizzare il piu’ possibile il quotidiano di popolazioni sconvolte dall’avanzata dell’IS. Anche anche se Support Kobane e’ nata con una temporalita’ precisa (ci siamo dati due-tre giorni per consegnare i fondi) e con altri fini, mi sembrerebbe incompleto parlare di supporto al Rojava senza invitare a sostenere Un Ponte Per. (Lena DG)

Operazione Mos Maiorum: respingiamo le retate ! #StopRaids

12 ottobre 2014 Lascia un commento

Dal blog Hurriya – Senza Frontiere, Senza Galere,
ecco del nuovo materiale da far circolare il più possibile durante l’operazione Mos Maiorum

Vi abbiamo già proposto di stampare e diffondere il più possibile l’avviso, in più lingue, di un incremento dei controlli di polizia contro i migranti, nelle prossime due settimane.
Oggi vi segnaliamo un ulteriore strumento, con qualche idea per i prossimi giorni.

Interrogandoci riguardo l’efficacia di un avviso (piuttosto allarmante) senza alcun consiglio, pubblichiamo queste brevi indicazioni, proposte da un gruppo di compagnx svedesi.

Riconoscendo che l’unico strumento reale è la solidarietà attiva in strada, i mezzi di comunicazione potrebbero tornare utili per segnalare la militarizzazione dei quartieri e le retate in corso, ai nostri amici o a chiunque pensi che i rastrellamenti non possano godere dell’indifferenza.

Accogliamo quindi l’idea di utilizzare gli SMS per tutti i nostri conoscenti e #StopRaids + #nomedellacittà per i social network.

Scarica e diffondi questi due nuovi volantini [fronte] [retro]

Lettera di un papà ad un bimbo nato due volte …

9 ottobre 2014 10 commenti

In tutti questi mesi io c’ho provato tante volte a trovare le parole, l’ho fatto qui, l’ho fatto in tanti (e tanto odiati) quaderni che compravo e poi abbandonavo dopo poco che l’angoscia li pervadeva, le ho perse e ritrovate tante volte provando a scrivere a tuo padre.
“Tanta letteratura” così è iniziato il nostro amore, sulle parole e la carta che viaggiava dentro e fuori una cella: poi chi è più stato capace di scrivere.
Io, la tua mamma, piccolo Sirio, ho provato a raccontare quel nostro anno di ospedali, monitor, urla e respiri al rumor di moka, quelli dei bimbi tracheotomizzati, ma solo poco fa son riuscita a parlar di quei giorni,
di quel cuore dimesso troppo presto, nella stolta sublime gioia di tutti noi.

Oggi è il tuo papà a trovar le parole, dopo tanto tempo
a raccontar la tua storia, piccolo Sirio, tra le sue pagine…
e non posso non metterle anche qui, in questo tentativo timido che ogni tanto faccio di raccontare la tua storia,
perché credo che il dolore vada raccontato, l’ho sempre fatto con quello degli altri, non posso desistere davanti al mio e a quello di chi amo,
perché forse il solo modo che avremo di combattere la disabilità sarà quella di raccontarla per renderla a te, a noi e a chi ci circonda il più normale possibile, perché la tua battaglia è bella e la bellezza è di tutti.

LETTERA AD UN BIMBO NATO DUE VOLTE:

Sirio è a casa! sta qui vicino a me nella culla!

Nonostante l’ipotermia il suo viso è molto dolce

1503290_10152085712818429_803803905_nCaro Sirio,

ti scrivo questa lettera con la speranza che un giorno tu possa leggerla, magari condividendola con tuo fratello. Mi piace pensare che tu possa arrivare a farlo con quella voce che ogni tanto ci fai sentire. Ammaliante come un piccolo canto delle sirene, inno di battaglia che annuncia la tua voglia di vivere, forza incredibile che guardiamo con stupefatta ammirazione, imparando da te ogni giorno la fatica dei piccoli gesti, la conquista quotidiana della vita.

Un anno fa, il 4 ottobre 2013, nascevi per la seconda volta. Quel giorno hai conosciuto la morte. Il tuo cuore si è fermato. Non sappiamo perché. Nessun dottore ha saputo dircelo con esattezza. Qualcuno ha parlato di Alte-Sids, la morte improvvisa del lattante (Sudden Infant Death Syndrome), comunemente conosciuta anche come “morte in culla”.
Nei testi scientifici la descrivono come una morte improvvisa e inaspettata del neonato, fino a quel momento sano, che si verifica preferibilmente durante il sonno e che rimane inspiegata anche dopo l’esecuzione di un’indagine completa comprendente l’autopsia, l’esame delle circostanze del decesso e la revisione della storia clinica del caso.
Eri a casa da otto giorni, dopo averne trascorsi 41 in ospedale per la tua “prematurità” che – come dice nonno Oreste, anche lui settimino come te – dovrebbe definirsi immaturità, poiché è prematuro colui che matura prima degli altri, non dopo.
Da appena due giorni avevi superato la prima visita di controllo con un profluvio di elogi che hanno assunto poi il senso della beffa.
Tua madre conosce a memoria le cartelle cliniche. Ha letto ogni particolare dei diari medici e infermieristici decifrando le scritture più incomprensibili. Per alcune settimane hai sofferto di bradicardie, la prima l’hai fatta davanti ai miei occhi, una sera, quando eri ancora in incubatrice. Hai reclinato il capo, come quel mattino, perdendo i sensi. Non volevo più andarmene dall’ospedale. Non volevo più abbandonarti dopo quello che avevo visto. Ti eri spento all’improvviso, tu che ti agitavi come un pesciolino nell’acquario e facevi sentire la tua voce acuta. Rientrato a casa non trovavo le parole per raccontarlo a tua madre.
“Un fatto normale in un immaturo nato a trenta settimane”, spiegarono i soliti dottori. Un disturbo momentaneo, dovuto all’immaturità dei centri nervosi che regolano battito e respirazione. Alla trentaseiesima settimana sarebbe tutto scomparso.
Ed alla fine della trentaseiesima ti hanno mandato a casa, nonostante sei giorni prima avessi avuto ancora una pesantissima bradicardia. Episodio che aveva richiesto un intervento manuale dell’infermiera. Ma a noi, ignari, sembrava una liberazione. Anche tu a casa, finalmente. “La casa di Sirio” non sarebbe stata più il Gianicolo, come era convinto tuo fratello.
1379668_10151721535593429_25546666_nEra un giorno felice dopo il parto anzitempo e la lunga degenza in ospedale. Tua madre sembrava una libellula con quel grembiule verde ancora indosso. Non l’ho mai più vista così felice. E Nilo non si tratteneva dalla gioia quando sei entrato a casa, aveva finalmente il fratellino con cui poter giocare.
Otto giorni dopo la morte si è infilata nel tuo letto.
Oggi il dubbio è un tarlo. La tua vita attuale è dipesa da quella dimissione affrettata e senza ausili protettivi, come un banale ossipulsimetro? Per poche centinaia di euro sei ora costretto a lottare contro una tetraparesi, con una tracheo in gola e un rubinetto nello stomaco?
La domanda ci tormenta perché tra le tante ingiustizie che scolpiscono la vita tu hai subito la peggiore.
Riposavi accanto a mamma. La sera prima ti avevo adagiato sul petto di tuo fratello e ti eri addormentato su una mia spalla mentre lavoravo al computer. Quella mattina ci avevi salutato col pianto del lattante affamato mentre uscivamo per andare a scuola. Allora la morte è venuta, gelida ed avida. Ma quel giorno è dovuta ritornarsene a mani vuote.

Questo voglio raccontarti, quell’incredibile catena umana che quel mattino ti ha ridato la vita strappandoti dalle mani di colei che tutto oblia. Voglio raccontarti quella furibonda lotta, la folle corsa verso l’ospedale. Quei tredici interminabili minuti. Anche se quanto avvenuto in quei momenti è niente di fronte al cammino che hai fatto nel frattempo.

Un urlo strozzato mi è entrato nelle ossa all’apertura della porta.
Non avevo risposto alla chiamata di tua madre perché stavo salendo le scale.
“Ma che è morto? E’ morto!”.
Stravolta, tua madre m’è apparsa sull’uscio del corridoio. Eri immobile tra le sue braccia aperte. Una di quelle madonne palestinesi che corrono senza meta nelle strade impolverate per mostrare al mondo il figlio trucidato.
Non ci ho creduto, Sirio. Non ci ho mai creduto. Sono pazzo, lo so!
Ho lasciato cadere le cose che avevo tra le mani e ti ho stretto a me. Ho preso la tua nuca ed ho cominciato insufflarti aria, poi giù per le scale verso l’ospedale. Tua madre dietro seminuda con le scarpe in mano.
Le tue guance perdevano calore ma il tuo viso era dolce, i tuoi occhi addormentati. “Sirio” – gridavo – “respira”. Ma dal tuo naso è uscito solo sangue. Due rivoli di sangue provocati dalla rottura dei capillari, ci hanno poi spiegato i medici. Un sapore portato in bocca per giorni.
1044777_10151679631563429_345110417_nSaltavo gli scalini quattro alla volta, soffiavo aria e tenevo ferma la tua testa. Conquistato il cortile arriviamo al cancello, poi in strada verso la macchina che ci ha subito tradito. Batteria completamente scarica. Tua madre fa un primo tentativo, poi un secondo. Ci guardiamo, “Via, lascia perdere. Andiamo a piedi, fermiamo qualcuno”. Usciamo di corsa, “Prendiamo il motorino” – dice lei, ma di fronte a noi c’è Mimmo, un vicino che sta prendendo la sua autovettura ed ha visto tutta la scena. Ci fa segno, “Salite vi porto io”.
Salgo davanti, mamma monta dietro e si parte. Intanto continuo a soffiarti la vita dentro ma non reagisci. Ti gonfi come un palloncino. Sento il tuo petto riempirsi e poi svuotarsi tra le mie mani.
Ci vuole il massaggio, mi dico. Anche se la posizione non era la migliore, provo a fare pressione sulla cassa toracica ma ho subito paura. Mi sembra di farti solo del male.
Intanto il cuore batte in gola, quello mio. Accade così quello che poteva essere l’irreparabile. La morte trova un alleato sicuro nel traffico. Una lunga fila blocca la strada all’altezza del primo semaforo. Non c’è scampo. Non si può fare inversione, non ci sono vie laterali dove immettersi. Sembra davvero finita.
Ma io non ci credevo, non ci ho mai creduto. Dovevo ad ogni costo portarti in ospedale, nulla mi avrebbe fermato, come anni prima quando dovevamo raggiungere un obiettivo.
Apro lo sportello e scendo. Ti tengo sempre stretto a me. Comincio a correre tra le macchine senza smettere di insufflarti. Arrivo al centro dell’incrocio, la gente mi guarda, alcuni non capiscono, altri hanno paura. L’autista di un pulman, che è lì davanti, comprende al volo ed inizia a suonare il clacson. Ora sono in mezzo all’incrocio con un neonato in braccio che insufflo, ricordo una nonnina ferma al semaforo. Lei sì che capisce cosa sta succedendo. Con le mani tra i capelli grida: “corri, corri”. Ma le macchine stanno ferme. Faccio segno di avanzare, di fare largo, ma non si muovono. Allora comincio a dare colpi sul parabrezza. Alla guida c’è una signora che ha paura, è terrorizzata, Forse gli prendo a calci la macchina, alla fine si muove. Inizia un concerto di clacson, le macchine si spostano, si apre un varco, Mimmo ne approfitta e viene avanti. Risalgo e ci lasciamo l’incrocio alle spalle. Gli altri semafori saranno clementi, un’onda verde ci apre la strada, Mimmo fa anche un piccolo contromano. La morte non ha più alleati. Intanto non smetto la respirazione bocca a bocca ma siamo finalmente al san Camilllo. Ci dirigiamo verso il pronto soccorso pediatrico, le tue labbra cominciano a scurirsi, salto dalla macchina che è ancora in movimento e mi precipito all’interno. C’è una mamma col bimbo, mi guarda scioccata, la rivedo dopo che piange a dirotto, tutti intorno capiscono al volo, vedo infermieri che corrono. Irrompo nella stanza delle emergenze e ti poggio sul lettino. Mi allontanano, poi ci fanno domande su cosa è accaduto, nel frattempo arrivano le rianimatrici con un enorme borsone. Sono due ragazze, sono loro che faranno ripartire il tuo cuore.
Tua madre piange, io ho solo adrenalina, tanta adrenalina, infinita adrenalina. Si apre la porta, “quanto pesa il bimbo?”. Poi si richiude. Siamo lì che aspettiamo seduti per terra, appoggiati ad un muro. Guardo quella porta chiusa, mi ricorda altre porte, sensazioni già vissute in tribunale, nei processi…. Quando si apre ci sarà il verdetto.
Ancora un po’ e sentiamo dal monitor qualcosa che assomiglia ad un battito. Nessuno esce, forse aspettano che si stabilizzi. Passa ancora del tempo, arriva anche il primario. Poi esce lei, la dottoressa, è giovane, si chiama Chiara. “L’ho salvato – dice – ma non so se gli ho fatto un favore. Dovete esserne coscienti”. Non ci ha illuso, ci ha fatto capire che avevamo l’Everest davanti. Ma io sentivo che eri un grande scalatore. Eri nato di nuovo, il tuo cuore era tornato a battere. Eri intubato. Cominciava la lunga marcia! Come un maratoneta hai iniziato a macinare chilometri. L’ambulanza del Bambin Gesù, la Sten, non ha tardato molto. I dottori avevano deciso di congelarti, rallentare i processi vitali con l’ipotermia serviva a salvaguardare le cellule cerebrali riducendo il danno potenziale dovuto alla lunga ipo-anossia.
Quando si sono aperte le porte abbiamo riconosciuto il viso familiare di un’altra dottoressa. Una delle migliori. Ci ha sorriso, ne avevamo bisogno. Poi sei tornato di nuovo nel posto che tuo fratello pensava fosse la tua prima casa.
Mentre aspettavamo davanti alle porte dell’area rossa ti spogliavano per trasformarti in un ghiacciolino, 33 gradi corporei. Eri ricoperto di cuscinetti ghiacciati, la tua culla aveva la forma di una strana giraffa, eri gonfio, tumefatto dall’insulto, così lo chiamavano quei camici bianchi, sovrastato da macchinari e pompe, tubi ovunque. Ma il viso sempre dolce.
Un posto gelido il Dea, una sorta di Acheronte, con la morte che sta lì in un angolo a guardare chi può prendersi. Tua madre stava impazzendo. Ogni giorno che passava i dottori perdevano la speranza, dicevano che saresti rimasto un vegetale e lei voleva staccare tutto per fuggire via con te, sotto un pino del Gianicolo dove farti sentire l’ultima brezza. Non facevano grande affidamento sul tuo conto, anche se contrastavi il respiratore meccanico hanno voluto farti la tracheo comunque.
fotoIl 15 ottobre hai riaperto gli occhi smentendo tutti, obbligandoli a richiamare persino il primario per riscrivere la diagnosi. Papà già sapeva che da un po’ facevi dei movimenti e una sera li avevi aperti al canto di De André. Hai avuto tanta musica nelle orecchie, dal rock allo zecchino d’oro, ai canti di lotta, alla voce di Nilo che ti raccontava delle storie insieme a mamma fino al giorno che qualcuno rubò tutto. E sì Sirio persino questo ti hanno fatto, il furto di un vecchio ipod e di un mp4 da 19 euro dalla tua culla, quella di un bimbo appena risvegliatosi dal coma. Tu lottavi per restare in vita in un mondo fatto di anime morte.
Poi sono venute loro, delle strane artigiane senza camice bianco che riparano bambini. Li aggiustano, come dice tuo fratello (anche se sostiene di esser più bravo lui), li mettono seduti, li fanno camminare come Geppetto che trasformò un burattino in un bambino.
Continua così Sirio, verrà anche per te il giorno che potrai correre con il tuo amico Lucignolo nel palese dei balocchi.

Papà

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Mi chiedo spesso se sarà mai possibile liberarmene e penso di no.
Ma non esiste nottata, giorno, riposo o dormita profonda che non si ripresenta per intero.
Dallo scossone che pensavo di ucciderlo, al mio urlo, al telefono che non risponde, alle mie lacrime, ai tuoi piedi sulle scale, il rumore delle chiavi che aprono, il cuore che si ferma per trovare le parole per dirti che accade, la voce che esce che è solo urlo.
Le tue lacrime immediate, il tuo urlo, il tuo “respira ti prego”, le scale, io che metto in moto invano, il traffico sulla Portuense, l’autista dell’autobus, la vecchia sul marciapiede, la macchina verde accanto a noi, i visi all’ingresso dell’ospedale.
La faccia dell’infermiere, le lacrime della mamma seduta, i volti delle rianimatrici, la porta chiusa e la morte che mi ballava intorno.
Le scale, la Tin, la pediatra del parto e i suoi ciondoli uno per ogni figlio felice, il sorriso della Piersigilli, io che le salto al collo, Stefania che mi chiede dell’antipidocchi, gli sguardi su di me come fossi assassina.
Il freddo, che stavo con quella canottiera sporca di latte.
La nuova corsa, il gianicolo che aveva colori diversi da 8 giorni prima, la porta del Dea, la porta del Dea, la porta del Dea, gli occhi bassi di Dotta, la violenza della sua bocca aperta e del suo corpo gonfio.
Il freddo.
Vivo tutto ciò ogni fottuto giorno,
spesse volte come un mantra doloroso e raccapricciante.
Che fatica.

Baruda

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La mozzarella che portò via il sorriso
Gianicolo e desideri
La caduta degli angeli
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Calabroni in neuroriabilitazione
Imparare a contare

Kobane ha retto anche per oggi…

7 ottobre 2014 1 commento

Giro al volo e ringrazio Lena!

#‎Kobane‬ ha retto anche per oggi.
Riferisco quel poco dal confine: i jihadisti dell’IS sono ancora in citta’. E’ difficile sperare di scacciarli cosi’. Hanno carri armati, mortai e armi a lunga gittata, quintali di munizioni e soprattutto i tanti soldi dei rapimenti e della compravendita del petrolio (per non parlare dei milioni delle donazioni di Qatar & Friends. Dalla loro, le combattenti e i combattenti del Rojava hanno soltanto qualche fucile e le munizioni autofinanziate. Possono contare sul fatto che la loro citta’ la conoscono, che sanno cosa e chi stanno proteggendo. E aggiungo: c’e’ anche il fatto che, quando non combatti sperando di finire in paradiso, l’unica cosa che conta e’ quella di restar vivi.
Sono aumentati i bombardamenti americani. Oggi e’ stato un non-stop: i carri armati turchi che stavano a guardare i jihadisti, i jihadisti che bombardavano le forze del Rojava, gli Stati Uniti che bombardavano le rocce. I testimoni (di parte. Ci mancherebbe che mi interessano le opinioni moderate…) insistono che non servono a nulla, non bombardano aree strategiche e forse la strategia non ce l’hanno proprio in generale. All’ospedale oltreconfine di Suruç, sotto Urfa, oggi di combattenti feriti gravi ne sono arrivati molti. Ci sono poche speranze, perche’ li fanno aspettare troppo prima di lasciarli passare il confine. E quel che raccontano e’ che la comune di #Kobane, se la Turchia non viene costretta a lasciar passare munizioni, volontari e cibo, rischia veramente di cadere. Tempo stimato: due giorni massimo.
E’ per costringere il governo Erdogan alla resa e all’apertura dei confini (o quantomeno alla sospensione dell’aiuto, materiale e mediatico, ai jihadisti) che in tutta la Turchia si e’ scesi in strada. Da ieri sera le folle si autoconvocano, si piantano seduti nelle piazze fino al mattino, bloccano le autostrade e danno fuoco a copertoni, e cercano a colpi di ingovernabilita’ di costringere il governo Erdogan alla trattative. Ci sono state le prime voci di morti (uno confermato) e gli interventi della polizia sono stati puntualmente orribili. Pero’ si insiste anche stasera. Si prova a resistere. E’ vero che questi i tempi della Catalonia sono finiti, e che magari non possiamo andarcene a fare i partigiani a Kobane. Pero’ sarebbe gia’ qualcosa se facessimo i partigiani dove siamo, imponendo una presa di posizione. Erdogan, l’unico che puo’ smobilitare i suoi carri armati da quel confine e lasciar passare gli aiuti, va costretto a farlo.

Visto che sono qui a parlare a vanvera del piu’ e del meno volevo aggiungere un’ultimo paio di pensieri straordinariamente inutili. A parte che oggi i movimenti Kurdi hanno occupato il parlamento Europeo, quel famoso parlamento che le sinistre non hanno occupato neanche dopo anni di crisi che uccidono centinaia di insolventi, anni che hanno tolto il futuro e affogato migliaia di migranti. Insomma, ci voleva proprio che qualcuno ci facesse vedere come si fa nel giro di qualche ora. Altro che Articolo 18 e tasse sulla non-proprieta’.
E poi. Oggi un compagno fra gli status ha fatto notare che corre voce a Gaza si sventolino bandiere dell’IS. Chissa’. Quel che e’ certo e’ che a Sud le simpatie piu’ che altro sono verso ‪#‎Erdogan‬, che di esternazioni per Gaza come pure contro i massacri di Rab’a non ha lesinato, e che non nasconde certo di sentirsi piu’ a suo agio nei confronti dei salafiti che della comune del Rojava (non la chiamo comune kurda, perche’ accoglie e offre margini d’azione a tutte le etnie). Ecco, bingo. Questo dovrebbe farci riflettere su quanti colpi stiamo perdendo a sinistra, e su come le nostre strategie di solidarieta’ vadano davvero ripensate, su come a colpi di bandiere della pace e convogli di medicinali ci siamo ridotti a vedere i nostri fratelli come vittime piu’ che come soggetti politici, assolvendo qualsiasi posizione politica. Insomma, qui bisogna ripensare tutto. Mobilitiamoci per i compagni di Rojava. Mobilitiamoci subito. Ma non solo perche’ stanno morendo e perche’ e’ ingiusto. Mobilitiamoci perche’ dobbiamo imparare da loro. Perche’ hanno sognato un po’ piu’ in la’ di noi, e se vogliamo riuscire vedere come hanno fatto ci tocca sperare che Kobane resista.

Lena DG

Poi toccherebbe anche spiegare ai giornalisti che Kobane e Ayn al-Arab son la stessa cosa, lo stesso posto: le lingue son diverse.
troppo complicato, me rendo conto

200 anni di carcere ai NoTav: siam tutti colpevoli quindi ora TUTTI LIBERI

7 ottobre 2014 Lascia un commento

«La vera occupazione della valle è stata compiuta dalla Libera Repubblica della Maddalena, sottraendo una porzione di territorio allo Stato», il PM Manuela Pedrotta è stato in grado di pronunciare anche queste parole, prima di comminare circa 200 anni di carcere a 53 imputati al maxiprocesso NoTav.
Perché uno le parole nemmeno riesce a trovarle davanti a cotante condanne, poi leggi quel che riescono a pronunciare queste persone,

Foto di Valentina Perniciaro

e allora la rabbia prende tutto. «Spesso in quest’aula ho sentito parlare di “gesto simbolico”, ma di solito i gesti simbolici sono rivolti verso se stessi, non verso gli altri: Jan Palach si diede fuoco in piazza San Venceslao per protesta, mica diede fuoco alle truppe russe schierate”: la PM Nicoletta Quaglino a quanto pare è affascinata dai kamikaze, ma il problema è tutto suo.
La Libera Repubblica della Maddalena non è stata sottratta proprio a nessuno, come dice la PM, perché era la casa di tutti noi;
la Libera Repubblica della Maddalena non è dello Stato ma dei suoi abitanti, dei suoi alberi, delle sue grandi rocce: gli usurpatori, gli occupanti, quelli che sono arrivati con gli anfibi lucidati e i cingoli sono gli altri, siete voi, è lo Stato,
che oggi ha dimostrato la sua paura.

Perché il movimento NoTav non è facilmente affossabile,
non lo è stato in tanti anni. Non ha avuto paura delle cariche, dei lacrimogeni, dei pestaggi, delle irruzioni notturne nelle tende e nei presidi, delle perquisizioni, degli arresti, delle accuse ridicole e ancora di una violenza capillare, bellica, spropositata e -non mi stanco di ripeterlo- occupante.
Occupante in quanto non voluta, occupante in quanto devastatrice, occupante in quanto speculatrice,
occupante in quanto enorme macchina di repressione: un vero e proprio laboratorio.

200 anni di condanne per due giornate dove c’eravamo tutti:
ci son 53 imputati condannati dai 6 mesi ai 6 anni (!) per un qualcosa a cui abbiamo partecipato in migliaia,
in migliaia abbiam difeso quella terra, in migliaia abbiamo circondato il cantiere e cercato di ostacolare il vostro lavoro in ogni modo.
C’eravamo tutti il 27 giugno, c’eravamo tutti il 3 luglio: c0ntinueremo ad esserci, non è la vostra galera a far paura, non le accuse ridicole di terrorismo, non il terrore che cercate di incutere con le vostre belve vestite da playmobil.
Siete senza vergogna.

Tutti Colpevoli, Tutti liberi!

Leggi: Ma quali BlackBloc

 

A tutti i migranti: ATTENZIONE! L’operazione europea di polizia “Mos Maiorum” sta per iniziare

6 ottobre 2014 4 commenti

 

QUI PER ALTRO MATERIALE DA DIFFONDERE: APRI

A tutti/e i/le migranti, ATTENZIONE! :
una operazione di poliziastopraids che interesserà tutta l’Europa chiamata “Mos Maiorum” prenderà il via il 13 ottobre per concludersi il 26 ottobre. Durante queste due settimane 18000 agenti di polizia cercheranno persone senza documenti. Lo scopo di questa missione è quello di raccogliere informazioni sulle rotte migratorie arrestando il numero maggiore di persone senza documenti. L’appello è quello di avvertire il maggior numero di queste persone! Un aumento dei controlli è previsto sui treni, nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti, nelle autostrade e ai confini interni dell’Europa.

Per favore diffondete questo appello!

Più informazioni sulla missione “Mos Maiorum” le trovate qui

RESPINGIAMO LE RETATE
NESSUNA INDIFFERENZA
PORTA LA SOLIDARIETA’ IN STRADA

Il sorriso della libertà, Arin Mirkan…

6 ottobre 2014 3 commenti

Arin Mirkan

“La mia presenza è stata lama per tagliare l’indifferenza. Ma dentro di lei esistevano occulte le sensazioni che ora affiorano e che un giorno intoneranno canti che non moriranno” (Gioconda Belli)

Li senti i nostri canti Arin?
Cercano di placare il pianto delle tue bambine,
Cercano di ringraziarti, di rendere eterno quel sorriso che racchiude il mondo,
racchiude la libertà.

La terra per te sarà ali di farfalla, compagna mia.

La Digos dell’Illinois approda a Bergamo

6 ottobre 2014 3 commenti

La Digos dell’Illinois avrebbe potuto portarlo in questura se avesse ingranato la prima su quel branco di tristi ultracattolici autoimpalatisi nelle piazze per manifestare il loro sostegno alla famiglia cattolica, contro l’aberrazione della legge contro l’omofobia.
Ieri in tante piazze, strane statuine con sistema circolatorio e nervoso appena funzionante hanno manifestato lo sdegno verso i rapporti omosessuali: sentinelle silenziose, persone lì, ferme in piedi e leggere.. una forma di lotta di una forza paurosa proprio,
impressionante, capace di entrare nei cuori di chi guarda 😉

Poi a Bergamo arriva lui.
Lui è vestito da nazista, in modo eccellente per altro, al braccio il simbolo usato da Chaplin ne “Il Grande Dittatore”,
ai piedi un cartello più che chiaro, ironico: ‘I nazisti dell’Illinois stanno con le sentinelle’ .
All’improvviso però l’inaspettato: l’arrivo della Digos dell’Illinois!

Per loro il razzismo è altamente legittimo, così come l’esclusione sociale, la discriminazione sessuale: il problema non è chi manifesta contro un articolo della loro stessa costituzione, il problema è percularli.

Il colmo, da barzelletta, è che lo avrebbero fermato per apologia di fascismo: quella che non abbiamo mai visto dare a chi partecipava con saluto romano e urla istericofasciste ai funerali di Rauti o Priebke,
quello che non abbiamo mai visto dare agli esponenti delle formazioni neofasciste.
Io in trent’anni di vita raramente ho visto accusare di apologia di fascismo (articolo di codice penale che non reputo decente ma questo è un altro lungo discorso, da non fare ora e qui), mai ho visto la digos intervenire per fermare un qualcuno che potrebbe avere sembianze naziste:
ma a lui l’hanno portato via.

L’ironia contro l’ultracattolicesimo razzista è arrestata per apologia di fascismo,
hanno fermato un uomo che ha la mia stima, che ci ha insegnato una pagina di ironia nelle strade di un paese che l’ha rimossa,
tanto che pensa di risolvere la cosa con un paio di manette.
La Digos di Bergamo, provincia dell’Illinois, si è rivelata più stupida delle altre: e non pensavo possibile una classifica interna, invece c’è, e voi avete stravinto su tutti i vostri colleghi dal borsello e l’occhiale specchiato

Assolti i 4 poliziotti che uccisero Michele Ferrulli

1 ottobre 2014 2 commenti


Nessuno di noi ha dimenticato le immagini dell’assassinio di Michele Ferrulli, colpevole forse di goliardia e un po’ di ebbra voglia di cazzarare.
Michele Ferrulli è morto di arresto cardiaco la notte del 30 giugno 2011 durante un fermo di polizia al quale si stava ribellando, senza usare alcuna violenza, ma  con un po’ di ingiurie ai 4 uomini della Polizia di Stato che lo volevano ammanettare.
Video da diverse angolazioni hanno reso pubblica immediatamente la cosa, palesando i fatti: per i 4 poliziotti imputatia di omicidio preterintenzionale e di falso in atto pubblico, la richiesta di condanna era di 7 anni. Oggi la sentenza: tutti assolti.

Le carte processuali che chiedevano la condanna dei poliziotti parlava di «una violenza gratuita e non giustificabile» da parte dei poliziotti, giunti in quell’angolo di strada perché erano stati segnalati degli schiamazzi. Si leggeva ancora che gli agenti «agirono in quattro contro una persona più anziana di loro, che era prona, bloccata a terra e invocava aiuto».

Immediatamente dopo un arresto cardiaco ha stroncato la vita di Michele, manovale di 51 anni, residente a pochi metri da dove è morto.

Michele Ferrulli

La sentenza di oggi invece assolve tutti, mette nero su bianco che menare un uomo che grida ripetutamente “aiuto” con la faccia spiaccicata sull’asfalto è cosa buona e giusta, assolutamente necessaria qualora qualcuno si rifiuti di essere arrestato senza motivo.

Da Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva, Sebastiano Cannizzo e Francesco Ercoli  secondo i giudici della Prima Corte d’Assise di Milano «in realtà non fu usato alcun corpo contundente, la condotta di percorse consistette nei soli “tre colpi” e “sette colpi” dati in modo non particolarmente violento; tale condotta fu giustificata dalla necessità di vincere la resistenza di Ferrulli a farsi ammanettare; si mantenne entro i limiti imposti da tale necessità rispettando altresì il principio di proporzione.
Michele Ferrulli dopo aver proferito reiterate ingiurie e minacce all’indirizzo dei poliziotti, dopo essersi rifiutato di fornire i documenti e dopo aver addirittura aggredito uno dei poliziotti, poteva essere legittimamente ammanettato».

«L’invocazione di aiuto non può di per sé fondare un giudizio di prevedibilità dell’evento lesivo derivante da un effettivo malore, ben potendo essere espressione di una simulazione volta a impedire l’arresto, come ben spiegato dal teste Sola».

Avviene molto spesso che giudici magistrati sorpassino i peggiori elementi della storia della Polizia di Stato,
questa ne è un’ennesima conferma.

ASSASSINI MALEDETTI

Torpignattara, l’autopsia parla chiaro: reiterato traumatismo contusivo del capo

1 ottobre 2014 4 commenti

“La vittima era in stato di ebbrezza e molestava i passanti” : titolo del giornale La Stampa…
“Ancora da identificare, invece, il ragazzo che era insieme all’arrestato quando ieri sera hanno incrociato la vittima che, ubriaca, infastidiva i passanti con urla e schiamazzi.”il Messaggero…
per alcuni giorni si è parlato di degrado, dell’invivibilità di Torpignattara, della certa ubriachezza del ragazzo pakistano ucciso,
della fatalità con cui un bravissimo ragazzo minorenne e italianissimo, con un solo colpo dato per difendersi dal farneticante ubriaco, l’ha ucciso;
si è letta ovunque l’ennesima manifestazione di razzismo viscerale in ogni articolo, in ogni commento,
nella solidarietà attiva dimostrata nei confronti del ragazzo assassino, nelle strade del “suo” quartiere, quello che sarebbe invaso dal degrado portato da migranti mbriaconi, “negri” e ” bangladeshi”

Si son visti anche i compagni, la solidarietà, i manifesti per Muhammad e tanto altro… ma questo è un altro discorso…

Ricominciamo: siamo a Torpignattara e a terra c’è il corpo di Muhammad Shahzad Khan, un ragazzo di 28 anni, pakistano, da poco senza lavoro, ospite di un centro d’accoglienza. Le testimonianze raccontano di calci e pugni, la difesa del ragazzo arrestato è opposta invece:
racconta di un pazzo ubriaco che con urla e schiamazzi stava già infastidendo i passanti, racconta anche che al suo tranquillo passaggio mentre chiacchierava con un suo amico avrebbe ricevuto in faccia gratuitamente uno sputo,
e che la sua reazione era stato un semplice pugno, che per pura fatalità ha ucciso “l’aggressore ubriaco”.

Peccato che le testimonanze raccontavano altro,
Peccato che nel centro di accoglienza che ospitava Muhammad Shahzad Khan tutti dicono che non assumeva mai alcool,
Peccato che ora ci sono i risultati dell’autopsia,
che parlano chiaramente di “reiterato traumatismo contusivo del capo con frattura temporale destra ed emorragia sub aracnoidea diffusa”,
e che non c’era traccia di alcool nel suo corpo, nè tantomeno di alcuna sostanza stupefacente.

Aveva una moglie e un figlio, una fedina penale pulita: pare stesse recitando preghiere ad alta voce da un’ora per strada, questo è bastato per esser pestato a sangue, a morte… da un ragazzo, minorenne, quindi da un ragazzino,
cresciuto nelle strade della nostra città, nella mentalità razzista che pervade ogni movimento,
un ragazzo che porta il nome Daniel, proprio quello degli striscioni “Daniel siamo tutti con te” che si son visti in giro pochi giorni dopo questo assassinio.
Un assassinio, a sfondo razziale, avvenuto a calci e pugni e non contro un uomo ubriaco.
C’è poco altro da dire.

 

 

 

Il cuore di un bimbo di 2Kg, mandato a casa troppo presto

25 settembre 2014 17 commenti

Un anno fa prendevo un batuffolo di 2,020 kg e me lo portavo a casa,

Eccoci, liberi dal passo successivo.. per soli 8 splendidi maledetti giorni

o meglio: un anno fa, il 25 settembre del 2013, la neonatologia del Bambin Gesù (la terapia semi intensiva neonatale) decideva di dimettere mio figlio, entrato quel giorno nella 36esima settimana gestazionale.
“Un portento”, “la Ferrari del reparto”, “un prematuro come non ne vedevamo da anni”… ancora me le ricordo alla lettera, ogni pausa della voce e ogni toccata di palato da parte della lingua: ricordo le vostre voci, ricordo tutte le stronzate che mi avete detto, grandissimi scienziati dai camici pulitissimi, malgrado le tante continue bradicardie, malgrado i pizzichi sotto il tallone per far ripartire quel cuoricino, ogni tanto.
“Ma è normale signora, le bradicardie ci lasceranno all’ingresso della 36settimana”… proprio il giorno delle nostre dimissioni.

Un anno fa finalmente avevo due figli sotto lo stesso tetto,
un anno fa tornavo a casa con un bambino di 2 kg senza un saturimetro, senza un cazzo di niente,
ricordo come ho sceso la salita di Sant’Onofrio, col sorriso nel cuore, leggera come un moscerino allegro, con mio figlio tra il seno e il cuore,
pronta ad iniziare la mia nuova vita.Avevo un figlio minuscolo, sano, straordinariamente bello e vitale; avevo fiducia in quel reparto, in quel primario, in quei medici: che stupida stolta deficiente ero.

Neanche otto giorni dopo il cuore di mio figlio si è fermato davanti ai miei occhi,
neanche otto giorni dopo il motore della Ferrari tanto decantata da quel primario nano sorridente che tanto si crede affascinante, si è fermato.
Fermo, non un solo movimento. E da quel giorno, che era solo il 4 ottobre (8 giorni dopo, 37esima settimana gestazionale), tutto è stato per sempre diverso,
per sempre,
niente tornerà come prima.
Perché se mio figlio è vivo non lo deve ai grandi scienziati, non lo deve al Bambin Gesù, non lo deve alla fretta maledetta assassina con cui è stato dimesso: mio figlio è vivo per quella corsa, per quei 13 minuti senza fiato che ci hanno fatto arrivare ad una rianimazione, mio figlio è vivo per la prontezza di suo padre,
per i calci alle macchine che bloccavano la strada verso l’ospedale,
per le urla, la foga, la corsa, l’arrivo in mutande al pronto soccorso, la certezza della morte, il bip bip bip dopo qualche minuto:
“il cuore è ripartito non vi abbiamo certo fatto un favore però”, mi disse quella straordinaria donna che mi ha ridato la vita di mio figlio in mano.
Lei sì che mi disse la verità quella mattina d’inizio autunno, non certo chi parlava di Ferrari.

Il panorama a partire dal 4 ottobre…

E poi è stato di nuovo Bambin Gesù, perché le cure scelte per lui esistevano solamente lì a Roma,
è stato di nuovo quei corridoi, quelle sale d’attesa dove per 42 giorni ero stata con il cuore leggero,
mentre ora avevo un figlio in coma, un figlio intubato, un figlio con un cuore collassato e con chissà quali danni celebrali.

Ricordo i “sai mi dovevano dimettere ieri a 36 settimane, ma pare sia successa una tragedia e ora non dimettono prima delle 38”,
ricordo gli sguardi bassi, i medici che acceleravano guardando altrove quando incrociavano le nostre occhiaie,
ricordo i “ma signora andava tutto così bene” “può succedere a tutti” “che prontezza avete avuto, bravi”.

Bravi un cazzo, quelli bravi dovevate essere voi, non noi.
Bravi non lo siete stati voi che poi mai più mi avete guardato negli occhi,
Bravi non vi considero,
Vi considero frettolosi, vi considero superficiali, ho visto 6 mesi del vostro lavoro, ho osservato ogni vostro movimento, ho studiato il vostro lessico, ho seguito ogni vostro movimento: ho capito che lì dentro per aver la vostra attenzione si deve stare male, ma male per davvero.
Noi eravamo troppo sani secondo voi, noi eravamo lì a “prender peso”… e invece siamo entrati sani e piccoli,
ne siamo usciti tetraplegici, senza capacità di mangiare e deglutire… senza aver mai fatto più un sorriso. Già… mio figlio non sorride.
Ovviamente quegli stessi medici che mi parlavano della Ferrari mi dissero: “sarà coma per sempre”, “sarà uno stato vegetativo”…
col cazzo! Neanche in questo c’avete preso, neanche in questo!

E sapete che non smetto di pensarci?
Pensavo ci sarei riuscita un giorno, pensavo avrei dimenticato lui sano, quei 42 giorni in cui ho amato quel reparto,
quel 25 settembre di cui sento ancora una gioia totale che mi prende tutta:
ancora ci penso, ci continuerò a pensare a voi, le vostre facce, i vostri sorrisi, i vostri “signora ci dispiace molto” sono tatuati qua,
sul petto per sempre. Per sempre,
ogni volta che guardo mio figlio vedo la vostra fretta, le vostre menzogne, il mio odio per voi,
che sarà eterno.
Sirio non lo meritava, non lo meritava suo fratello: io vi odierò per sempre.

Pillole nosocomiali e neurologiche :
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Arrestato Nunzio D’Erme, per aver respinto i fascisti ad un’iniziativa contro l’omofobia

24 settembre 2014 2 commenti

Questa mattina è stato arrestato Nunzio D’Erme: la notizia è apparsa immediatamente su Contropiano con un appello ad un presidio di solidarietà per le 13 davanti al Municipio di Cinecitta, in piazza Cinecittà 11, durante la conferenza stampa.
Ancora i compagni (in diretta ora su ondarossa) non hanno in mano le imputazioni ma i fatti risalgono ad alcuni mesi fa,
quando durante un’iniziativa contro l’omofobia nel municipio, sempre di Cinecittà, alcuni componenti di Militia Christi e fascistelli altri, si presentarono in municipio aggredendo i compagni che mandavano avanti l’iniziativa. Il parapiglia nato immediatamente dopo ha visto l’intervento di numerosi poliziotti in borghese, che non si son presentati come tali, che hanno aggredito i compagni impegnati nel respindere i fasci.
A quel punto è stata aperta un’inchiesta con procedimenti che hanno portato all’arresto, stamattina, di Nunzio D’Erme e di un altro compagno di Spartaco, Marco Bucci

Periodo nero, dopo i numerosi sgomberi, gli arresti di Paolo e Luca delle strutture che lottano per il diritto all’abitare:
l’attacco al movimento avanza pesante,
bisogna rimboccarsi le maniche, l’autunno è iniziato da tre giorni: una volta era così bello…

L’esodo di Kobane affogherà nel Mediterraneo?

24 settembre 2014 3 commenti

Yarmouk, 31 gennaio 2014

Penso alla foto del campo profughi palestinese di Yarmouk, a Damasco, che è stata scattata una manciata di mesi fa:
sembrava una pagina della Bibbia, una foto ancestrale di un esodo di affamati che escono di casa alla ricerca di acqua e pane.
Le immagini dell’immenso esodo di questi giorni, ancor più di quella foto, lasciano senza parole,
un’immagine secolare, che sembra racchiudere due millenni di storia fatta di polvere e persone forzatamente nomadi,
senza terra, senza casa, senza pane, senza speranza, senza un briciolo di capacità di immaginare il proprio futuro.

Più di 100.000 persone, passando per Kobane, tentano di entrare in Turchia: un sacco chiuso con lo spago, i bimbi in spalla, gli anziani pure e si cammina fino al confine, tutti uniti in una marcia silenziosa e disperata che non ha epoca e luogo.

L’accoglienza turca per i profughi di Kobane

A Kobane hanno trovato il primo mattone del muro della Fortezza Europa: una Fortezza dai confini mobili, capaci di spostarsi quando c’è da fronteggiare un nuovo esodo: a Kobane i profughi trovano l’accoglienza turca, fatta di cariche, blindati, idranti, un’infinita violenza.
A Kobane la Fortezza Europa inizia a farsi conoscere, sulla pelle di chi cerca solo di poter respirare ancora,
A Kobane la Fortezza Europa li prepara al prossimom viaggio, quando capiranno che non c’è speranza di vivere in un campo polveroso,
sotto scacco e senza speranza di nulla.
Il prossimo viaggio sarà tentare il mare, sarà provare a raggiungere altro,
sarà spesso morire a picco in fondo al Mediterraneo,
o nel migliore dei casi sarà esilio perenne, in un’Europa razzista, escludente, schifosamente avida del nulla che ha all’interno dei suoi confini.

Ricordateli, osservateli nelle foto: tra poco sbarcheranno sulle nostre spiagge e tutti si accaniranno contro la nuova ondata di “ruba lavoro”.
Eccoli lì, manca poco.
Alcuni arriveranno direttamente galleggiando sulle acque, gonfi d’acqua e di morte: li ammazziamo tutti i giorni noi,
con la nostra indifferenza assassina,
noi felici abitanti della Fortezza.

LEGGI:
Altri 500
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Mare nostrum: un cimitero liquido
Il mare della morte
La strage di Catania
I corpi sugli scogli
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E’ morto un assassino: Mike Harari

24 settembre 2014 3 commenti

E’ morto uno dei peggiori assassini della storia di Israele e d’Europa.

Il corpo di Wael Zwaiter, Roma

E’ morto un killer di intellettuali, poeti ed artisti.
E’ morto, purtroppo di vecchiaia, uno dei più grandi assassini, teorizzatore dell’assassinio mirato della classe intellettuale palestinese.
Mike Harari, passaporto israeliano, era alla guida dell’operazione “Ira di Dio”, nata per vendicare l’attacco palestinese durante le olimpiadi di Monaco nel 1972, dove l’intersa squadra di atleti israeliana rimase uccisa durante il maldestro tentativo della polizia tedesca di liberare gli ostaggi.

Da quel momento iniziò l’operazione “Ira di Dio” (מבצע זעם האל, Mivtza Za’am Ha’el) che ebbe inizio proprio a Roma,
con l’assassinio a freddo del poeta Wael Zwaiter, in Piazza Annibaliano, nel palazzo dove viveva e lavorava come traduttore, con 12 colpi di pistola.
L’operazione Ira di Dio, controfirmata direttamente da Golda Meir, aveva scritti tra i 25 e i 35 nomi e non terminò praticamente mai, per due decenni, colpendo in ogni stato europeo e non come se niente fosse e sbagliando anche l’obiettivo, come nel caso di Ahmed Bouchiki, cameriere marocchino ucciso in Norvegia, scambiato dal commando del Mossad per Ali Hassan Salameh, capo di Forza 17. L’obiettico non era il commando che fece e organizzò l’attacco alle Olimpiadi di Monaco, tutt’altro: l’obiettivo era il terrore, il far sentire i palestinesi vulnerabili in ogni luogo, uccidere i loro intellettuali.
Una storia mai completamente raccontata, che ha portato ad un impressionante numero di giustiziati… il solito 1 a 10 minimo che piace tanto allo stato ebraico d’Israele.

Tutto questo per dirvi, che malgrado i nuvoloni e quest’improvviso freddo autunnale,
oggi c’è un buon motivo per sorridere e per brindare stasera:
la morte di un assassino spietato, pluridecorat0, che anche Repubblica oggi tratta come un eroe.

 

Il nemico di oggi era Faruk: gli opliti a Roma per uno sfratto

18 settembre 2014 1 commento

Stamattina, a Centocelle

Siamo in un paese che come nemico ha gli strati più bassi della società, quelli che annaspano, quelli più in difficoltà,
quelli a cui andrebbe tesa una mano.
Pochi giorni fa un colpo al cuore ad un ragazzo perché non si è fermato ad un posto di blocco,
in un paese dove i commenti prevalenti son stati quelli non certo solidali a Davide, ma di accusa. Perché se a 16 anni giri in tre su un motorino per questo fottuto paese sei un criminale, perché sei un criminale se vieni da certi quartieri, perché son tutti presi, sudati e impegnati nel trovare sempre un colpevole in nome della legalità.
Questa è la nostra società, oggi.
E chissà che si dirà di Faruk, che per difendere la sua casa e la sua famiglia da uno sfratto ha trovato la solidarietà dei compagni e una violenza di Stato che non si vedeva da un po’, così pesante, per uno sfratto. Faruk è moroso perché ha perso il lavoro e non sa come pagare l’affitto della casa dove vive con moglie e figli, ha un regolare permesso di soggiorno e viene dal Bangladesh.
Ma non era solo oggi ad attendere lo sfratto, accanto a lui, sottobraccio a lui erano in tanti,
pronti a rilanciare al mittente i lacrimogeni tirati. Niente da fare,
Faruk alla fine quella casa l’ha dovuta lasciare, ma non da solo: in corteo fin sotto al municipio, sostenuto da molti compagni.
10 sfratti al giorno a Roma, 10 sfratti al giorno di cui 9 per morosità incolpevole: sempre questo dovreste trovarvi davanti,
chi non ha paura dei vostri manganelli, ogni giorno di più.

Vi allego i due comunicati e un video.
Ricordandovi la mobilitazione di domani, davanti alla Regione Lazio

Che gli spazi di mediazione sono chiusi, che solo polizia e magistratura hanno voce in capitolo sugli sfratti e sul governo dei territori, già lo sapevamo. Come sapevamo che oggi per lo sfratto di Faruk e la sua famiglia era previsto l’ intervento della forza pubblica. Questa mattina ci siamo organizzati insieme per resistere: abbiamo bloccato la strada, abbiamo atteso determinati la polizia e di fronte alla loro superiorità numerica siamo indietreggiati compatti. I lacrimogeni che ci hanno lanciato fin dentro il palazzo li abbiamo rispediti al mittente. I rapporti di forza si conquistano passo dopo passo, nella materialità delle lotte. Questa breve ma intensa resistenza ha permesso a Faruk e alla sua famiglia di uscire dalla sua casa sostenuto dalla solidarietà di numerosi compagni e di attraversare il quartiere fino al municipio in corteo. Non finisce qui.
È chiaro che gli sfratti a Roma est non si fermeranno, ma i nostri picchetti, a fianco di chi decide di resistere e lottare saranno sempre più numerosi e partecipati. Perché stiamo scoprendo che isolati è impossibile resistere agli sfratti e insieme è possibile reagire e organizzarsi per bloccarli. Mettere insieme le forze per evidenziare le contraddizioni, imparare a conoscerci per organizzare un piano di mutuo appoggio, resistere agli sfratti e agli sgomberi estendendo la solidarietà.
Ogni sfratto una barricata!

18.9.2014 Roma, Centocelle

Rete Antisfratto Roma Est

Ps: In una nota la questura dice che non sono stati utilizzati gas lacrimogeni CS. Gira voce che il prossimo sfratto o sgombero, non saranno usate maschere antigas…

e ancora:

Questa mattina in via degli Ontani si è consumato un rito quotidiano che riguarda 10 famiglie al giorno. Questo è il dato degli sfratti a Roma, 9 su 10 per morosità incolpevole. Sarebbe passato inosservato se Farook fosse uscito senza opporre resistenza, incrementando il numero dei senza casa che vivono nella capitale. Invece, coraggiosamente, insieme a decine di solidali e alla rete antisfratto di Roma est, si è barricato in casa con i propri figli e sua moglie.

Imponente lo schieramento delle forze dell’ordine impiegato in ausilio dell’ufficiale giudiziario incaricato del provvedimento, come del resto è avvenuto 2.409 volte su 5.438 richieste di forza pubblica per l’esecuzione degli accessi a Roma nel 2013. Il dispiegamento di polizia è avvenuto dalle prime ore del mattino e si è servito di gas lacrimogeni e manganellate per rimuovere, poco dopo le 6, il picchetto di solidarietà attiva in via degli Ontani 66. (Qui una breve cronaca della mattinata)

Questo avviene a due giorni dall’approvazione in consiglio comunale di una mozione sulle morosità incolpevoli che chiede al Prefetto una graduazione negli sfratti, un accompagnamento sociale e la garanzia del passaggio da casa a casa. La risposta della questura, della procura e della Prefettura quindi non è per nulla condizionata dalle parole delle amministrazioni e costringe tutti a fare i conti con un’altra realtà, molto più drammatica e con unica soluzione: la proprietà privata va difesa con ogni mezzo. D’altra parte è questo l’orizzonte verso il quale guardano i provvedimenti governativi che vengono approvati in questi giorni.

Il diritto alla casa è nelle mani dell’autorità giudiziaria e della forza pubblica quindi e a nulla valgono mozioni e ordini del giorno. La “rigenerazione urbana” passa attraverso sgomberi, sfratti, pignoramenti, dismissioni e gabelle sulla prima casa. La giunta Marino oramai è complice di scelte nazionali che sono devastanti per il territorio e per la città di Roma.

altNel 2013 le sentenze di sfratto sono state 7.743, di cui 5.509 per morosità, testimonianza viva di una crisi sociale profonda. Nessuna soluzione pubblica appare disponibile e quindi il rischio che la proprietà privata debba fare un passo indietro è molto forte, che la resistenza agli sfratti possa crescere è possibile, che le occupazioni per necessità possano ripartire con rinnovata forza è credibile, allora non rimane che la coercizione e la repressione di chi si organizza per resistere.

Non ci sono processi partecipativi o dispositivi di mediazione possibili e che ci possano garantire il diritto alla città che reclamiamo. Il modello Roma di Marino e della sua giunta svanisce sommerso da una degenerazione culturale tutelata dagli uomini in divisa che oggi presidiano in forze il V municipio, buttano fuori violentemente Farook e famiglia dalla casa dove abita, ridono sprezzantemente verso coloro che coraggiosamente si oppongono, minacciano arresti e misure cautelari. Mentre poi, per niente coraggiosi, provano a coprire la verità, negando l’uso dei lacrimogeni.

Il controllo sociale a tutela del manovratore è la nuova fisionomia del paese e della nostra città. Ora è il momento di dover decidere da che parte stare e questo riguarda non solo chi già sta confliggendo con questi dispositivi. E’ necessario che tutti prendano parola contro quello che prende sempre più la forma di un massacro sociale.

In un momento in cui perfino il Sunia sta criticando i provvedimenti del governo sugli affitti pseudo agevolati per consentire ai costruttori di liberarsi dell’invenduto senza perdere profitti, non resta che rilanciare e utilizzare con urgenza la delibera regionale sull’emergenza abitativa, rafforzare i picchetti antisfratto, presidiare il patrimonio pubblico in dismissione, esercitare il diritto alla città attraverso nuove pratiche di riappropriazione.

Rilanciamo la mobilitazione di domani sotto l’assessorato alla casa della regione Lazio, verso la settimana di mobilitazione europea 10-18 ottobre.

#takethecity #stopsfratti #tutteliberi

Movimenti per il diritto all’abitare

Altri 500 corpi a picco nel Mar Mediterrano, uccisi da noi

15 settembre 2014 7 commenti

Il Guardian è il solo giornale che leggo volentieri,
il solo giornale che reputo faccia giornalismo, in tutto il suolo europeo.
Quest’articolo del Guardian oggi lascia senza parole, senza voce, con quella stretta d’odio che dall’aorta si fa tutto il sistema venoso, prima centrale e poi periferico.
Sì mi scorre odio in ogni piccola venuzza quando guardo il nostro mare, son cresciuta guardando le coste della mia terra come un luogo agognato di approdo,
son stufa di veder raccogliere corpi e corpicini, e di sapere che la maggior parte volano a picco verso il fondo,
per non comparire mai più.
Non son mai riuscita a veder quei corpi come corpi annegati, come cadaveri, mai una sola volta.
Ogni fottuta volta ho visto persone, storie, sguardi pieni di parole che avrei voluto ascoltare,
ogni volta ho visto la vita, la speranza di chi scappa senza nulla.

Di quei corpi mi son sempre sentita responsabile,
delle vite colate a picco di quelle persone -migliaia e migliaia di persone- vi reputo responsabili.
Ogni fottuta maledetta volta.
E questa volta il Guardian che, ripeto, non è un giornale qualunque,
ci racconta che queste 500 vite umane son state ammazzate deliberatamente...e chissà quante altre volte è successo.
Sono almeno mille dollari a persona, mille dollari a persona per 500 persone che mai arriveranno:
pagare la propria morte, di propria mano, pagarla cara, pagare con tutto quel che si possiede, con molto di più di tutto quel che si possiede.
Parlo a vanvera, sono l’antigiornalismo in persona perchè manco i fatti riesco a raccontare,
mi son stufata di farlo. Andatevelo a leggere da soli.
Voglio solo urlare, voglio abbracciare uno di quei bambini che parte sottobraccio alla mamma e la vede affogare,
vorrei dirgli qualche parola nella sua lingua, aprirgli la mia casa e la mia vita.
Vorrei poter far qualcosa, vorrei poter far qualcosa…
vorrei prosciugarlo questo maledetto mare per poter far qualcosa per voi…
voi che il mondo non saprà mai che avete un nome,
un luogo di nascita, un colore preferito, un cibo che vi disgusta e uno che vi ricorda l’infanzia.
Vorrei poter far qualcosa e poi leggo queste righe di Nawal e capisco che non posso

Ieri…
Un padre e’ venuto dalla Svezia…
Attendevo l’arrivo del figlio partito dall’Egitto…
Mi seguiva ovunque….
Mi faceva le liste delle persone che dovevano partire in treno…
Ci guardavamo come se lui fosse mio padre e io fossi in una barca forse affondata….
Gli ho detto tuo figlio arrivera’… Era una bugia…
sapevo gia’ che la barca affondata era quella egiziana e non libica….
Sono arrivati i rifugiati che hanno conosciuto i due superstiti ed hanno raccontato tutto….
Io mi sono allontanata..
Le lacrime erano acqua…..
Lui era seduto a terra….
Io avevo ancora 100 biglietti da fare….
Volevo solo scomparire….
Non potevo star vicino…
Dovevo andare……

LEGGI:
Siamo tutti ASSASSINI
Mare nostrum: un cimitero liquido
Il mare della morte
La strage di Catania
I corpi sugli scogli
Eurosur e la Fortezza Europa

Solidarietà al docente che rifiutò un controllo antidroga in classe, ora sospeso dal servizio

13 settembre 2014 9 commenti

Magari averne avuti di docenti così.
Franco Coppoli, docente a Terni, già due anni fa era salito alle cronache perchè rifiutava di insegnare in una classe dove fosse appeso un crocifisso…
ma lo scorso marzo, durante le sue ore di insegnamento, aveva rifiutato l’ingresso della Polizia nelle classi, per un controllo antidroga.
Non aveva interrotto la sua lezione, opponendosi all’irruzione e oltretutto informando gli uomini di Stato che stavano interrompendo un pubblico servizio,
per perquisire ed intimidire una ventina di minorenni.

Cani antidroga tra i banchi di scuola

Porto la mia solidarietà totale a questo docente, che ha semplicemente continuato a fare il suo lavoro, proteggendo i suoi studenti da una violenza e un’umiliazione di Stato gratuita, che avranno modo di affrontare sull’asfalto delle loro città, ma almeno non nelle loro classi (crocifisso testimone).

La scuola giustamente deve insegnare a stare nella società, e qual miglior modo se non con una perquisizione priva di alcun mandato,
fatta a tappeto sugli studenti di un istituto pubblico durante la didattica:
trattamento solitamente riservato ai detenuti, che di routine (spesso la cadenza è settimanale) si trovano la cella sventrata da controlli stile Gestapo.

Quindi vi chiedo di diffondere questa notizia,
di non farla passare sotto silenzio,
di appenderla nelle bacheche insegnanti delle scuole, così come tra gli studenti….
12 giorni lontano dall’insegnamento, oltretutto anche senza salario, per aver fatto quel che era suo dovere fare: mandare avanti le lezioni davanti agli anfibi di Stato.

L’UFFICIO SCOLASTICO REGIONALE SCEGLIE LA SCUOLA-RIFORMATORIO:
SOSPESO 12 GIORNI DALL’INSEGNAMENTO E DALLO STIPENDIO IL DOCENTE CHE HA SCELTO DI CONTINUARE AD INSEGNARE OPPONENDOSI AI CONTROLLI ANTIDROGA DURANTE L’ORARIO DI LEZIONE.
Sospendere un insegnante perché si rifiuta di interrompere la lezione sembra un paradosso degno di Lewis Carroll, l’autore di Alice nel paese delle meraviglie, ma a Terni succede proprio questo: il dirigente dell’Ufficio Scolastico Regionale, Domenico Petruzzo, irroga il provvedimento disciplinare della sospensione per 12 giorni dal servizio e dallo stipendio a un docente per essersi rifiutato di interrompere la lezione per controlli con cani antidroga in classe. L’insegnante è Franco Coppoli, referente provinciale della Confederazione Cobas. L’esecutivo nazionale dei Cobas della scuola ha deciso di patrocinare il ricorso davanti al giudice che verrà presentato al Tribunale di Terni al termine del periodo di sospensione. A fine marzo 2014 il docente, all’irruzione dei poliziotti in classe, senza alcun mandato del magistrato, si era rifiutato di interrompere la lezione minacciando gli agenti di denuncia per interruzione di pubblico servizio. L’U.S.R. a luglio ha formalizzato il provvedimento che decorre dall’inizio dell’a.s.. dal 15 al 27 settembre.
Quello di interrompere la normale attività didattica da parte della polizia (senza alcun mandato di magistrati) per controlli con cani antidroga è un atto grave, indice del clima sociale e politico nel nostro paese. Vengono alla mente gli stati di polizia, le irruzioni nelle scuole dopo il colpo di stato in Cile o in Argentina o in quei luoghi dove le forze di polizia si arrogano prassi autoritarie che ledono profondamente i diritti civili, la libertà di insegnamento, le prerogative democratiche, nonché la persona degli studenti. Infatti interrompere le lezioni per imporre umilianti controlli antidroga non porta risultati quantitativi tali che possano far pensare che l’operazione serva a debellare spaccio o consumi. In realtà queste sono operazioni repressive con connotazioni mediatico-intimidatorie: servono a “insegnare” agli studenti che sono tutti potenziali criminali, controllabili e perquisibili in ogni momento. Educare al controllo ed alla subalternità ecco l’intento, neppure troppo nascosto, di queste operazioni-spettacolo che attaccano profondamente l’essenza stessa del fare scuola: dell’educare in modo critico e non certamente reprimere, sorvegliare e punire. Se infatti ci fossero (e non c’erano in questo caso) comportamenti collegati all’uso di sostanze psicotrope, che fanno parte dei processi comportamentali dell’adolescenza, quale dovrebbe essere la risposta della scuola? Intervenire, anche tramite esperti, cercando di affrontare il problema in un’ottica educativa oppure riempire gli istituti di polizia e cani arrestando o prelevando adolescenti in possesso di qualche spinello? E’ quello che Susanna Ronconi di Forum Droghe chiama un suicidio educativo: la scuola ed i docenti così abdicano al proprio ruolo, alla propria professionalità per passare dall’educazione alla repressione. Che senso ha proporre la scuola-carcere, la scuola- riformatorio (come avviene già negli USA) in un momento in cui alcuni stati liberalizzano o legalizzano l’uso terapeutico o ricreativo delle droghe leggere, in cui alcune sentenze della Corte costituzionale attaccano la ormai ventennale e fallimentare “lotta alla droga” e hanno smantellato la legge Fini-Giovanardi che ha solo riempito le carceri di tossicodipendenti garantendo ampi profitti alle mafie. I COBAS si mobilitano a fianco di Franco Coppoli, patrocinano il ricorso in tribunale, organizzeranno iniziative di formazione dei docenti, auspicano la solidarietà dei colleghi, operatori del settore e genitori e la mobilitazione degli studenti per il rispetto dei loro diritti.
La scuola è un contesto educativo, non è un riformatorio dove si possono interrompere le attività didattiche per il triste ed inutile spettacolo delle repressione.

COBAS, COMITATI DI BASE DELLA SCUOLA UMBRIA

 

“tanti anni come quelli dei dinosauri”

13 settembre 2014 3 commenti

Mi chiedo spesso come farò a spiegare il mondo a mio figlio, 4 anni.
Mi chiedo come potrò spiegargli cose che lui invece sta capendo da solo, osservando il mondo e la nostra vita sgangherata.
Mi chiedevo come spiegargli cosa è stato il carcere del padre, l’accanimento sul padre, le notti da soli, la prigionia politica… che finalmente abbiamo alle spalle…

poi è arrivata la malattia e lì le parole si son perse per tutti.
Invece, il mio figlio più grande, il mondo lo sta provando a capire con i suoi strumenti e a quanto pare ha una strumentazione molto più efficiente della mia, perchè passo passo sembra capire,
è diventato un piccolo neuropsicomotricista, si muove intorno alla tetraparesi del suo fratellino con leggerezza e impegno,
è capace di mutare la sua disperazione di fratello amputato in impegno,
e l’impegno si trasforma facile in un futuro sereno, nella sua testa: che invidia.

Mio figlio parla con chiunque, ferma le persone per strada “ehi aspetta, devo dirti una cosa” e inizia con le sue teorie,
i suoi viaggi mentali, le sue scoperte, il suo stupore meraviglioso.

Pochi giorni fa eravamo su un treno, un viaggio solo per noi due, lontani da Roma, dalla routine,
da questa casa-ospedale che è ormai la vita nostra.
Accanto a me una bella bionda, ballerina, distratta e curiosa di noi… Nilo era affascinato dalla tipa,
se ne era uscito con un “wow, hai proprio un bel vestito” che ci aveva fatto sorridere tutti e poi, all’improvviso…


“Ehi! Lo sai che in prigione mica ci vanno solo i ladri come i Dalton! Proprio no!
Perché il mio papà e tutti i suoi amici ci son stati tanti anni come quelli dei dinosauri, ma solo perché il mondo andava cambiato”
Bionda basita: “ma il mondo è bello, non ce n’è bisogno”
Nilo: “il tuo forse, quello dove siamo noi è un casino”

forse sarà lui che mi spiegherà la malattia,
Forse solo lui sarà in grado di donar leggerezza a tutto ciò,
perchè al carcere ridiamo proprio in faccia, impararemo a ridere in faccia anche a chi guarda il nostro fratellino come un alieno.
La nostra disabilità imparerà la libertà, in un modo o nell’altro…

San Basilio e Fabrizio Ceruso, 40 anni dopo: la lotta per il diritto alla casa. Una testimonianza

8 settembre 2014 3 commenti

40 anni son passati da quell’assassinio,
40 anni son passati da una pagina di lotta straordinaria e mai rivissuta
40 anni da quelle giornate che per i compagni di Roma sono state lo spartiacque.
Chi ha vissuto quella campale, lunghissima, accorata battaglia c’ha lasciato brandelli di cuore mai più tornati al loro posto,
chi ha vissuto quell’esperienza la porta dentro ancora col fuoco che brucia.

Pubblico qui la testimonianza di Sandro Padula
QUI una pagina di ricordo e QUI la trasmissione di R.O.R. con una ricostruzione di quelle giornate.

San Basilio, 8 settembre 1974: Fabrizio Ceruso e la lotta per il diritto alla casa

di Sandro Padula

Il contesto e la dinamica della battaglia determinatasi l’8 settembre 1974 a San Basilio non sono facili da spiegare. Alcuni testimoni di quegli eventi sono morti negli anni successivi, ad esempio il mio amico Roberto di cui parlerò qui; altri ricordano soprattutto la nebbia dei lacrimogeni o mettono in connessione lineare, se non addirittura mitologica, il passato col presente; certi sono diventati “pentiti” negli anni Ottanta e altri ancora hanno cercato di abiurare il proprio passato di militanza politica, ad esempio determinati ex dirigenti di Lotta Continua.

La borgata di San Basilio

Pochi fra i testimoni rimasti in vita ricordano bene gli avvenimenti dell’8 settembre 1974 a San Basilio e i motivi che ne furono alla base. Esistono però alcuni fatti che, da soli, risultano sufficienti ad aprire o a riaprire le porte di una corretta ricostruzione storica. Il 20 febbraio 1973 l’Istituto Autonomo Case Popolari (Iacp) indisse il concorso per l’assegnazione di alloggi a San Basilio, Pietralata e Tiburtino III, tre borgate della periferia sud orientale di Roma, per un totale di 600 appartamenti, ma fra l’estate e l’autunno di quell’anno si capì meglio che le migliaia di famiglie bisognose di un alloggio non potevano farsi molte illusioni.

Come ha correttamente ricordato Massimo Sestili in “sotto un cielo di piombo. La lotta per la casa in una borgata romana. San Basilio settembre 1974″ (saggio pubblicato in Historia magistra, Rivista di storia critica, anno I, n. 1, Franco Angeli editore, 2009) la graduatoria stilata per quel bando pubblico subì una modifica rispetto alla normale prassi seguita in precedenza. A Villa Gordiani e a Tiburtino III dovevano essere demoliti alcuni alloggi dello Iacp e agli abitanti interessati furono assegnati fuori graduatoria più della metà degli appartamenti disponibili. Per concorso furono assegnati “200 alloggi su un totale di 600″.

Il fatto che a Gordiani e a Tiburtino III alcuni alloggi dello Iacp fossero in procinto di demolizione avrebbe dovuto comportare un impegno politico preciso, da parte dello stesso Iacp e del Comune di Roma, per trovare un’alternativa abitativa agli interessati. Il concorso per l’assegnazione di alloggi avrebbe dovuto riguardare solo chi non aveva ancora acquisito il diritto alla casa. Fu invece una truffa di Stato per ottenere il consenso clientelare di 400 famiglie e, nel medesimo tempo, evitare costi aggiuntivi alle casse dello Iacp e del Comune di Roma. Si trattò di una scelta discrezionale in punto di diritto e scellerata in termini politici perché, in pari tempo, costituì una turbativa d’asta e dell’ordine pubblico.

In tale scenario, aggravato da un bisogno di case che non riguardava più solo i baraccati come accadeva negli anni Sessanta ma, in modo crescente, anche le famiglie proletarie in coabitazione, 136 abitazioni dello Iacp site a San Basilio in via Montecarotto (in parte nella contigua via Sarnaro) furono occupate nell’estate del 1973. Allora e lì, nonostante l’immediato sgombero e al di là di quel che affermano alcune recenti ricostruzioni, ebbe inizio la lotta per il diritto alla casa a San Basilio.

Quelle stesse case furono poi occupate di nuovo il 5 novembre 1973, sgomberate la mattina di un paio di giorni dopo e, nonostante lo sbarramento di polizia e l’arresto di due persone, rioccupate dalle famiglie nell’immediato pomeriggio. “Le donne, che hanno portato avanti l’occupazione in prima persona, non si sono però allontanate dalle case, ma restando sul posto, hanno formato un loro comitato, che ha presto ottenuto un incontro con un dirigente dell’Iacp. L’incontro è avvenuto il giorno stesso.

Dei 136 appartamenti, ha spiegato il funzionario, 29 erano stati assegnati agli abitanti di Tiburtino III, 21 dei quali le hanno rifiutate perché vogliono andare in quelle costruite, sempre dallo Iacp, ai Monti del Pecoraro. Altre case sono state assegnate ai baraccati di Villa Gordiani. Le rimanenti dovrebbero essere assegnate, in base alla graduatoria e ai «punti», ad altre famiglie bisognose.

È stato insomma il dirigente dello Iacp a confutare, con i dati, la voce secondo la quale gli occupanti avrebbero preso la casa ad altri lavoratori, cui sarebbero state in precedenza assegnate. Dopo l’incontro c’è stata una breve assemblea, in cui gli occupanti hanno fatto le loro proposte: su 136 appartamenti, 60 devono essere assegnati a famiglie bisognose di San Basilio stessa. È la seconda volta, nel giro di pochi mesi, che queste case vengono occupate. ma questa volta i proletari sono stati più decisi ed organizzati” (da pag. 4 del quotidiano Lotta Continua, 9 novembre 1973).

La borgata di Casal Bruciato, in un’immagine dello stesso anno

Diverse forze politiche e sindacali istituzionali, lungi dal mettere in discussione la logica clientelare dello Iacp e le ipocrisie del Comune di Roma, allora feudi della Democrazia Cristiana, “intervennero per scongiurare un’altra azione della polizia” (pag. 118 di “Ai margini di Roma capitale. Lo sviluppo storico delle periferie. San Basilio come caso di studio” di Gian-Giacomo Fusco, Edizioni Nuova Cultura, 2013) e proposero “di censire le famiglie occupanti al fine di trovare loro un alloggio diverso” (ibidem, pag. 118).

Il Comitato di lotta per la casa, a quel punto, dopo aver precisato di voler escludere dall’iniziativa coloro che avevano già usufruito di una casa popolare, presentò di nuovo allo Iacp una richiesta per l’assegnazione straordinaria di alloggi a tutte le famiglie bisognose di San Basilio. Denunciò le manovre di divisione portate avanti dalla locale sezione del Pci che aveva operato in nome di una “legalità” basata sulla presentazione della domanda al concorso pubblico per l’assegnazione delle case popolari. Infine portò i dati del censimento delle famiglie occupanti dai quali risultava il grado di affollamento da cui esse provenivano: 3,2 persone per vano (vedasi pag. 4 del quotidiano Lotta Continua, 21 novembre 1973).

Qualche tempo dopo il Comitato di lotta organizzò anche l’occupazione di 12 appartamenti dello Iacp a via Fabriano che inizialmente sarebbero dovuti essere utilizzati per insediare a San Basilio un Commissariato di polizia. Da 136 si passò a 148 appartamenti occupati da altrettante famiglie. A quel punto “la situazione cominciò a sedimentarsi; le famiglie ottenevano servizi – allacci sull’acqua, luce, gas e telefono – e si diffuse così l’idea che ormai quelle case erano degli occupanti” (ivi, pag 118 di “Ai margini di Roma capitale. Lo sviluppo storico delle periferie. San Basilio come caso di studio”).

La storia successiva vide il 1974 come l’anno di una grande e diffusa lotta per il diritto alla casa e di una gigantesca repressione poliziesca rispetto a quel bisogno sociale. Ci furono numerosi sgomberi di case occupate – per lo più di proprietà dei pescecani dell’edilizia – tanto che nell’estate di quel medesimo anno a Roma rimasero in piedi solo due occupazioni, quella organizzata alla Magliana dal novembre 1973 e quella gestita dal Comitato di lotta di San Basilio.

I governanti volevano portare un attacco decisivo agli ultimi baluardi della lotta per la casa. I fatti dal 5 all’8 settembre 1974 nacquero in tale contesto. Giovedì 5 settembre 1974, dopo 10 mesi di occupazione, a San Basilio ci fu uno sgombero, ma di sera gli appartamenti furono rioccupati. Venerdì 6 settembre, anche se il Comitato di lotta aveva organizzato una resistenza migliore, si ebbe un altro sgombero. Nella serata, però, le case furono rioccupate dopo una trattativa. Il Comune e l’Istituto Autonomo Case Popolari avrebbero dovuto decidere dove mandare le famiglie occupanti. Sabato 7 settembre sembrava essersi determinata una sorta di tregua, ma nella mattinata di domenica 8 settembre, come seppi con parecchie ore di ritardo, la situazione precipitò.

San Basilio

Fra le 16 e le 17 di quel giorno festivo cercai vanamente la compagneria del collettivo politico nelle strade, nei muretti e nei locali pubblici del mio quartiere. Decisi allora di fare una passeggiata da solo. Andai verso uno spazio verde tagliato da una marana, una striscia d’acqua inquinata dagli scarti della Pirelli di via di Torre Spaccata. Percorsi un viottolo fino a giungere all’ombra di un fico che dava frutti anche a settembre. Volevo assaggiarne alcuni, ma un imprevisto mi bloccò.

“Ehi! Ehi!”, strillò Roberto dal bordo del prato mentre agitava la mano verso la sua faccia per farmi intendere che avrei dovuto raggiungerlo in fretta e furia. Corsi preoccupato.
“Dobbiamo andare a San Basilio”, disse Roberto che ormai avevo di fronte a me.
“Cos’è successo?”, gli chiesi.
“In mattinata c’è stato un altro sgombero delle case occupate. Poi, fino alle 14, gli scontri hanno fatto il resto”, mi rispose.
“La situazione è cambiata per l’ennesima volta”, commentai.
“Sì – riprese la parola il mio amico – e proprio per questo motivo dobbiamo partire subito con la macchina che sta qui vicino. Alle 18 c’è un appuntamento nella piazza centrale. I compagni e le compagne del nostro collettivo politico sono già lì”.

Dopo venti minuti lasciammo l’autoveicolo nei pressi di via Tiburtina. I pali della luce abbattuti non permettevano l’ingresso stradale nella borgata. Vi entrammo a piedi attraversando un prato. Alle 18 molti giovani, in parte provenienti da altre zone periferiche della città, si erano concentrati alle spalle di una chiesa, nella piazza principale della borgata.

Nella parte opposta, soprattutto sulle parallele vie Corridonia e Fiuminata e più precisamente nei punti di accesso a via Montecarotto, mille fra carabinieri e poliziotti erano in assetto da guerra ma la battaglia scoppiò dopo circa un’ora, fra le 19 e le 19,30. Ad un certo punto, un plotone avanzò da via Montecarotto su via Corridonia lanciando decine di lacrimogeni ad altezza d’uomo in direzione della piazza affollata; poi, quando si accorse di non avere più altri “fiori bianchi” da regalare, si ritirò in modo caotico.

Alcuni poliziotti ad esempio, invece di tornare indietro, percorsero via Fabriano nel tratto adiacente l’ingresso della chiesa, l’oltrepassarono fino a fare capolino su via Fiuminata e lì ebbero un contatto con due o tre manifestanti che, privi di armi da fuoco, rischiavano di essere arrestati dai tutori dell’ordine. Vedendo quella scena un gruppo di giovani partì di corsa dalla piazza, imboccò via Fiuminata, giunse nei pressi della via adiacente la chiesa e divenne il bersaglio di alcuni colpi di pistola partiti da un altro plotone di poliziotti e carabinieri, distante 25-30 metri, che già operava nella stessa via Fiuminata.

I proiettili, su quella medesima strada, raggiunsero il muro di cinta della chiesa, un palo della luce, un albero e Fabrizio Ceruso. Quest’ultimo, diciannovenne del Comitato Proletario di Tivoli, un organismo dei Comitati Autonomi Operai, fu colpito al petto. Tre giovani lo presero da sotto le ascelle e dai piedi. Da via Fiuminata giunsero nella piazza e da lì ancora più lontano fino a via Corinaldo, dove c’era un piccolo pronto soccorso. In seguito, accertata la gravità delle condizioni fisiche di Ceruso, bloccarono un taxi e vi entrarono portando con sé il ferito.

“Al Policlinico! Al Policlinico!”, urlò uno di loro al tassista.
“Corri! Corri!”, disse un secondo passeggero.
“Hanno ammazzato mio fratello!”, esclamò un altro durante il tragitto verso l’ospedale.

I tre giovani non erano parenti, ma compagni di lotta di Ceruso. Così lo sentivano mentre lui non dava più segni di vita. Temevano di essere ficcati nei guai dalla polizia e perciò fuggirono appena il taxi giunse al Policlinico. La notizia della morte di Ceruso si diffuse rapidamente. Venne trasmessa anche dalla televisione e dalla radio. Giunse a noi che restammo a san Basilio anche dopo il tramonto fra barricate, lacrimogeni e sparatorie.

Il giorno successivo, il 9 settembre 1974, il Consiglio della Regione Lazio varò una legge: le famiglie che avevano occupato una casa nel territorio laziale, per autentico bisogno e prima dell’8 settembre di quell’anno, avevano diritto all’assegnazione di un appartamento. Quando poi – giovedì 12 settembre – arrivò la data del funerale, il feretro partì dall’obitorio del Policlinico e fu seguito da un corteo di automobili. Doveva giungere a Tivoli, la cittadina di residenza dei parenti del giovane, ma prima passò a San Basilio. Lì, ad attenderlo, molte persone stavano sui marciapiedi delle principali vie.

Non aveva più il casco rosso che portava in testa quando lo vidi cadere. Non era più a pochi passi da via Fabriano e a dieci metri da me e Roberto che correvamo dietro di lui su via Fiuminata. Eravamo davvero matti a sfidare, in quel momento solo con qualche sasso, i lacrimogeni e le pallottole delle forze dell’ordine. Ma forse erano più matti coloro che componevano il quinto governo Rumor (14 marzo 1974 – 23 novembre 1974), cioè i massimi responsabili politici della morte di Fabrizio Ceruso.

Gettiamo invece un velo pietoso sui dirigenti del Pci e del Sunia (il sindacato inquilini e assegnatari vicino al Pci) che allora intervennero solo a livello di mediazione istituzionale ed esclusivamente a favore della presunta legalità di una miserabile truffa di stato. E che dire della magistratura? Il pubblico ministero Gugliemo Cavallari, pur avendo iniziato immediatamente le indagini, depositò la requisitoria venticinque mesi dopo: l’8 di ottobre del 1976 (vedasi: “Fatti di San Basilio: sotto accusa i metodi usati dalla polizia”, Franco Scottoni, L’Unità, sabato 9 ottobre 1976).

Con essa, “in ordine all’omicidio di Ceruso, al ferimento di 47 militari di Ps e alle violenze a pubblico ufficiale”, si chiese che il giudice istruttore dichiarasse “con sentenza di non doversi procedere per essere ignoti gli autori del reato”. Sul piano giuridico i fatti di San Basilio furono poi archiviati dal giudice istruttore, il dottor Capri, ma la requisitoria del pm Cavallari costituì soprattutto un’accusa politica verso i metodi usati dalla polizia e una critica incontrovertibile alla tesi della questura di Roma secondo cui le forze dell’ordine sarebbero state innocenti rispetto all’omicidio di Fabrizio Ceruso.

Sempre a San Basilio, settembre 1974

Il pm affermò che “furono concentrate presso la Direzione di Artiglieria di Roma le pistole appartenenti alla forza pubblica; fu controllato se le armi in dotazione fossero quelle effettivamente consegnate; furono controllati gli elenchi di servizio e i libretti personali degli agenti” (ibidem, L’Unità, sabato 9 ottobre 1976).

“Da tali verifiche – scrisse il pm – è emerso che la tenuta di alcuni documenti non era regolare: in particolare il registro della scuola di Ps di Caserta presentava pagine tagliate e re iscrizioni a penna su precedenti scritture a matita fatte con grafie diverse. Inoltre l’elenco del I battaglione Celere è risultato redatto dopo il rientro in caserma, sulla base di annotazioni provvisorie”.

Il pm Cavallari precisò che Ceruso fu “raggiunto da un proiettile calibro 7,65 che aveva camiciatura nichelata e tracce di laccatura viola sulla godronatura, caratteristiche comuni a gran parte delle cartucce in dotazione agli agenti operanti a S. Basilio, in via Fiuminata, dove avvenne l’omicidio”. Quel proiettile, sempre secondo la requisitoria del pm, risultò “appartenere ad una fornitura di cartucce di produzione piuttosto remota (non posteriore all’anno 1965) della quale gli agenti avevano un notevolissimo quantitativo in dotazione”. Dal 1960 del governo Tambroni in poi, almeno fino al quinto governo Rumor, la polizia ebbe il monopolio nel possesso di cartucce di quel tipo perché queste ultime erano state “vendute dalla Fiocchi anche a privati ma solo fino al 1960″. I governi erano davvero coi Fiocchi.

C’è qualcuno che oggi ricorda bene queste cose? La memoria di ognuno rischia di essere fallace, altalenante com’è fra un dubbio e l’altro inculcato dai professionisti delle dietrologie e delle menzogne storiche mass-mediate. Serve perciò una memoria collettiva e critica. Fatta pure di singoli e personali ricordi o racconti, ma tutti documentati o documentabili con precisione e senza inutili mitologie.

Nel 1974 la borgata di San Basilio stava diventando un quartiere. La maggioranza degli occupati in qualche lavoro era composta da lavoratori salariati ed era solidale verso il Comitato di lotta per la casa. L’8 settembre 1974 non ci fu nessuna “guerra fra poveri” a San Basilio. Ci fu una linea della fermezza da parte del governo Rumor V – e già sperimentata il 9 maggio 1974 con la strage compiuta nel carcere di Alessandria dalla forza pubblica diretta dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa – che da un lato provocò l’omicidio di Fabrizio Ceruso e dall’altro il ferimento di 47 agenti delle forze dell’ordine.

Se i governanti fossero stati a San Basilio dopo le ore 19 e 30 dell’8 settembre 1974 avrebbero potuto vedere coi propri occhi una rivolta armata di massa. Decine di abitanti facevano sporgere dalle finestre i fucili da caccia o a canne mozze e le pistole. Molti nelle strade avevano con sé biglie, fionde, sassi, bulloni e bottiglie molotov. Un ragazzo si proteggeva la testa con un casco rosso. Somigliava a Fabrizio ma era soltanto un suo fratello di lotta.

Mi insegnerai la pazienza di contare?

6 settembre 2014 4 commenti

“Edmund Hillary è morto l’11 gennaio.
Nello stesso giorno mio figlio ha percorso trecentocinquantanove passi.
Scalare il monte Everest, cme fece Edmund Hillary, può sembrare un’impresa un pochino più significativa rispetto a percorrere trecentocinquantanove passi, come ha fatto mio figlio.
Per chi ha una paralisi celebrale come lui, però, percorrere trecentocinquantanove passi di seguito, senza aiuto, senza cadere, senza spezzarsi i denti, è un evento epico, perlomeno nella nostra mitologia familiare. Se mio figlio è Edmund Hillary, io posso essere solo il suo sherpa, Tenzing Norgay.
Lui barcolla da un lato all’altro, con la sua andatura incerta, procedendo lentamente metro dopo metro,
io mi mantengo in retroguardia, indicandogli il cammino meno accidentato e preservandolo dalle cadute.
I trecentocinquantanove passi di mio figlio sono stati fatti durante le vacanze, a Venezia.
Stiamo già pianificando le nostre prossime sfide. Per prima cosa, faremo trecentocinquantanove passi sul Corcovado.
Poi, trecentocinquantanove passi sull’Acropoli.
Poi, trecentocinquantanove passi sulla Grande Muraglia.
Poi, trecentocinquantanove passi nel deserto del Sahara.
Poi, trecentocinquantanove passi sul monte Everest.
Mio figlio e io faremo il giro del mondo a piedi, di trecentocinquantanove passi in trecentocinquantanove passi.”
– Diogo Mainardi-
(tratto da “La caduta. Ricordi di un padre in 424 passi”)

Io non so se muoverai i tuoi passi e chissà come buffi saranno.
Io non so se saprai mai pronunciare il tuo nome, piccolo combattente nato appena un anno fa,
Con la fortuna contraria e lo sguardo dolce.
Il mondo in un anno è tutto nuovo e diverso, un mondo che chissà se saprò mai accettare, ma che sto provando a comprendere.
Sai son tante le volte che spaccherei tutto, che tutto crolla in frantumi, si sbriciola, mi affoga.
Devo imparare nuovamente a camminare anche io, devo imparare a guardare il mondo,
devo imparare ad esser madre in modo totalmente nuovo, devo imparare la disabilità, devo imparare a respirare e contare fino a cento e poi a mille e poi a bho. Devo imparare a contare sai?
Che se conto fino a cinque ora il tuo braccio mi accarezza il viso, prima dovevo contare fino a 28: e 28 secondi per una come me sembrano durare ore.
Devo imparare contare, che magari piano piano sti numeri si accorciano: tu hai una voglia pazza di essere un po’ schizzoide e rapido,
cromosomicamente simile a me e a tuo fratello, non potresti avere altro desiderio e ti si legge in quegli occhietti furbi che intercettano tutto.
Peccato che tu, prima di compiere qualunque cosa, ogni volta, devi sollevare il mondo tutto, noi invece solo alzare un braccio.

Non son riuscita a farti nemmeno gli auguri per il tuo compleanno,
perchè sei il solo al mondo che delle parole ha fatto un frullato, le hai spazzate via tutte, son scomparse:
Ora, come i tuoi neuroni, stanno provando a riorganizzarsi, ma arrancano, inciampano. E’ dura ritrovarle. La rabbia spesso non lo permette, non permette nemmeno di immaginarlo.

Dopo che il tuo cuore si è fermato ci hanno detto saresti stato una vita senza vita, inconsapevole del mondo e del tuo corpo.
Ora quasi sei seduto solo, osservi tuo fratello giocare ed è chiaro il tuo desiderio, è palese la fatica che già fai per avverare i tuoi desideri.
Tutto, tutto sposterò, tutto distruggerò, tutto proverò a costruire per veder la tua rivoluzione, la più inaspettata di tutte, il più grande sovvertimento possibile sotto il nostro cielo.
L’Everest è lì che ci aspetta, piccola stella che illumina il giorno.

 

Le bombe invisibili di Jobar

6 settembre 2014 2 commenti

Siamo a 2 km dalla città vecchia di Damasco, a Jobar, quartiere appena a nord dal millenario centro città.
I bombardamenti che vedete sono di ieri, in un quartiere ad altissima densità,

Jobar, Damasco…

dove non ci sono i tagliatori di gole dell’ISIS: proprio no.
Non è certo quello l’obiettivo di Bashar… figuriamoci…

Son bombe diverse da quelle che qualche giorno fa tiravano giù i palazzi di Gaza a quanto pare:
Son diverse perché colpiscono quartieri con palazzoni alti e stracolmi di persone,
ma nel silenzio più totale. Bombe non certo intelligenti ma sicuramente invisibili, silenziose:
nessuno, ma proprio nessuno se ne accorge.

Abbiamo lasciato che la rivolta di un popolo venisse fagocitata dalle barbarie,
Abbiamo, avete fatto in modo che un popolo intero venisse lasciato solo,
a tentar di non rimanere affogati nel mar mediterraneo, a tentar di sopravvivere a centinaia di migliaia nella polvere dei campi profughi.
Avete lanciato merda per anni contro chi alzava finalmente la testa, li avete lasciati soli a barcamenarsi tra i bombardamenti di regime, gli Scud e i barbari tagliagole che dal mondo iniziavano ad arrivare per fagocitare il tutto: l’abbiamo lasciato fare.

Vi siete seduti dalla parte di chi urlava e urla “Ya l-Assad, ya nuhriq el balad” ( O Assad o ridurremo in cenere il paese),
E ora che c’è solo la cenere, siete qui in attesa di un cacciabombardiere che vi piaccia.

Peccato che le macerie son della terra che mi è stata madre,
peccato che le macerie sono i brandelli di carne di un popolo che ho conosciuto
e che non vi merita.
Che non meritava il regime di Assad, i tagliagole barbuti, ma soprattutto la vostra collusa indifferenza

Leggi anche:
Un urlo di dolore da Bosra
Le bombe in casa nostra / 2
Alla bimba di Bosra
Dalla Siria, per la Siria
L’inizio
Basalto, beduini e innamoramenti
Al telefono con Anna Frank
Comprendere l’esilio
Ciliegie e nostalgia
ma buon anno ddddechè
Ode al dolore

Rivolta in corso a Ponte Galeria…

5 settembre 2014 Lascia un commento

Un’estate intera di rivolte, di bocche cucite con ago e filo,
di tentativi spesso autolesionisti per uscire da situazioni kafkiane in cui si trovano i migranti reclusi nei CIE: tante cose si son mosse in questi mesi nel CIE di Ponte Galeria che questo blog non è riuscito a seguire.
Da poco più di un’ora però la situazione sta degenerando: son centinaia i celerini entrati nel centro di identificazione ed espulsione romano,
e le minacce son rivolte soprattutto ha chi ha scelto di rischiare ulteriormente,
raccontando all’esterno quel che accade al di là di quelle sbarre, sbarre per chi non ha commesso alcun reato.
[Ascoltate Ondarossa per le corrispondenze con i migranti reclusi: corrispondenze che appariranno anche sul loro sito]

Gli ultimi aggiornamenti parlavano di un grosso incendio causato dai materassi in fiamme, grazie al quale le celle erano state aperte permettendo a qualcuno di raggiungere il tetto: la celere però è arrivata a centinaia, per cercar di sedare la rivolta e rinchiudere nuovamente tutti dentro le celle.
Seguite gli aggiornamenti su twitter …
#deiCiesoloMacerie #PonteGaleria

Sulle deportazioni di ieri QUI

NO ALLE FRONTIERE
DEI C.I.E. VAN LASCIATE SOLO LE MACERIE.

seguiranno aggiornamenti…

A dieci anni dalla morte di Veronelli

5 settembre 2014 Lascia un commento

Con piacere pubblico quest’appello de La Terra Trema,
collettivo con cui da anni costruiamo il nostro pellegrinaggio contro l’ergastolo al carcere di Santo Stefano.
Vi invito a leggere tutto il materiale a riguardo: perchè su quello scoglio c’è un mondo intero e Veronelli l’aveva capito.
Un mondo intero da scoprire, un mondo intero: libertario

Adotta il logo contro l’ergastolo!!
L’ergastolo e le farfalle
Un fiore ai 47 corpi
Aboliamo l’ergastolo
Gli stati modificati della/nella reclusione
Il cantore della prigionia
Piccoli passi nel carcere di Santo Stefano, contro l’ergastolo
La lettera scarlatta e la libertà condizionale
Perpetuitè
Il cerchio e la linea retta
Con gli occhi di Luigi Settembrini

La Terra Trema anno 2014 a dieci anni dalla morte di Gino Veronelli ch’accadde il 29 Novembre 2004.

10 anni.

Incontrare Veronelli Gino, uah, leggerlo, ascoltarlo, studiarlo, valutarne le opinioni, le scelte, riguardare alla sua storia, ai suoi viaggi è stato per noi stendersi sotto il globo celeste di un planetario e cominciare a osservarle le rappresentazioni del cielo e scoprire d’un colpo una parte di universo grande. Fame di conoscenza che chiamava altra fame ci animava, ingorda e spudorata. Fame di conoscenza ci anima ancora.

Gli anni sono volati. 10 sono moltissimi. Nel bene e nel male siamo andati avanti, sulle nostre gambe abbiamo percorso le strade e il tempo e Gino l’abbiamo incontrato ancora numerose volte, nelle contraddizioni, nel piatto, nella bottiglia, a Santo Stefano, nella pacciada, nei sorsi d’olio. Con lui altri, certo.

Ora ripensando alla nuova edizione ritorniamo a quel giorno distesi sul pavimento a pensare di stelle. All’inizio. Al nostro big bang. BANG! Alla seduzione dello sguardo a quella volta stellata che fu varcare una soglia, a caderci nelle storie enormi di donne e di uomini che lì dentro si svolgevano. Un lavoro di ricerca e analisi elevato a potenza che ogni volta s’apriva a nuovi passaggi. A voi.

Vignaiole e vignaioli che l’avete conosciuto e frequentato, contadine/i, amiche/i che l’avete amato, sgridato, sfidato; cuori infranti, occhi e papille, vi chiediamo: mettete mano alla penna, dita alla tastiera, buttate giù di stomaco, di panza, il vostro pensiero al Big Bang Gino se lo è stato, se no, scriveteci un ricordo, non un tributo, parole, considerazioni sulla vostra storia e Lui. Il (G)astronomo.

È un invito da condividere, se riterrete, è un invito a scrivere di Gino ma principalmente è un invito a tornare alle riflessioni ai temi di Gino, alle strade che si sono aperte, che abbiamo aperto insieme in questi 10 anni, senza di lui, un invito a ribadire che altre vorrebbero chiuderli certi passaggi. È un invito a parlare di agricoltura, di vitico(u)ltura, di T/terra, di semi della terra e di resistenza territoriale, di agricoltori e di agricoltrici, di vini e i di vignaioli/e; di resistenze, cibo, cucina, saperi e i sapori condivisi, di economia e di devastazione (ambientale, economica, sociale) fuori/dentro questo cielo stellato. Stassentire.

La Terra Trema
www.laterratrema.org

È un invito aperto a chiunque abbia desiderio di mandare il proprio contributo (a info@laterratrema.org nel caso si voglia).

 Le narrazioni su Gino (e man mano pubblicheremo le altre pervenuteci):

R.Esistenza Bustrenghiana | di Daniele Marziali
Un alfiere della biodiversità | di Teodoro Margarita

Quei 625 posti di blocco dove son partiti “colpi accidentali”

5 settembre 2014 26 commenti

IL Corriere della Sera ha il coraggio di parlare di “Tragedia”: parola aulica non certo adatta a descrivere un assassinio.

Un ragazzo di 17 anni ucciso da un colpo di pistola di un carabiniere non è una tragedia.
Un ragazzo di 17 anni che sfreccia su un motorino e non si ferma all’alt, se poi muore ammazzato non è una tragedia.
Un motorino con tre persone a bordo, di cui una muore ammazzata, non è una tragedia.

Era una tragedia se si schiantavano su un muro,
era una tragedia se li prendeva in pieno un Tir:
invece è stato ammazzato da un colpo di pistola, già una volta fermato il motorino dopo una caduta su un’aiuola.
E allora, cari fottuti giornalisti:
non è una tragedia ma un omicidio.

Perchè non è uno ma sono più di 620, e sono tutti uccisi dalla stessa legge,
tutti ammazzati dal piombo di Stato in nome dell’articolo 53  del codice penale e Legge 22 Maggio 1975, n. 152, conosciuto come Legge Reale.

Il più piccolo di loro aveva 13 anni, si chiamava Gerardino Diglio, e noi non smettiamo di ricordarlo,
come non dimentichiamo chi è l’assassino, sempre lo stesso, sempre con la stessa pistola o mitra d’ordinanza.

Non è una tragedia: ma un omicidio di Stato.
Ciao Davide Bifolco, qualunque fosse la ragione per cui eravate tre a sfrecciare,
qualunque fosse la ragione per cui non vi siete fermati: noi siamo con te.

Ci vorrebbe una Ferguson napoletana per farglielo capire bene…

Leggi: A Gerardino

P.S.: il numero 625 si riferisce ai casi che vanno dal 7 giugno 1975 al 30 giugno 1989 presenti : quando fu conclusa l’inchiesta che portò al Libro Bianco sulla Legge Reale uscita nel 1990.
Ora siamo oltre i mille, ma di molto oltre

 

Gaza: l’uso bellico delle parole. E una pagina di giornalismo, vero

2 agosto 2014 6 commenti

Ancora una volta il nostro giornalismo ha deciso di distinguersi.
Per l’uso del lessico scelto.
Dell’uso bellico delle parole durante il conflitto israelo-palestinese avevamo parlato pochi giorni fa a proposito di chi muore e chi viene ucciso.
La stampa mainstream italiana non ha mai dubbio a riguardo: i palestinesi muoiono, gli israeliani invece vengono uccisi.
Una differenza non da poco.

Un ragazzo copre il corpo di sua sorella disabile, di 17 anni, che non è riuscita a scappare in tempo (AP Photo)

Da qualche ora ci risiamo, e il tutto lascia sempre più basiti, perchè poi se vai ad aprire i giornali internazionali,
bhè, non cadono in questi grossolani errori linguistici, che di errori certo non puzzano, ma di scelte ben precise.

Un soldato israeliano è un soldato a tutti gli effetti: fa parte di un esercito, di una brigata, ha un numero di matricola,
dei compiti, un addestramento, fa la guerra.
Ogni tanto può morire, ma essendo lui israeliano diciamo che accade molto raramente.
I soldati, a partire dagli opliti arrivando fino ai rambo attuali, non vengono “rapiti”: questo veramente nella storia dell’uomo e della guerra non è mai avvenuto.
I soldati, se finiscono nelle mani del nemico (qualunque esso sia, esercito regolare o no), si definiscono prigionieri.
Sono “catturati”, non sono “rapiti” o “sequestrati”
Peccato che queste siano le sole parole che appaiono sulla carta stampata, le sole dette nei telegiornali.. così da diventar patrimonio linguistico collettivo.
E l’uso bellico delle parole si conferma, disgustoso.

Altrove non avviene, la differenza tra “captured” e “kidnapped” se la ricordano ancora.

Da un giornale come il Guardian invece vi prendo queste righe… che vale la pena leggere (vi consiglio di leggerlo in lingua originale con i link QUI)

In un ospedale. Sulla Spiaggia.
Hamas, dice Israele, si nasconde tra la popolazione civile:

Si son nascosti nell’ospedale di El-Wafa.
Si son nascosti nell’ospedale Al-Aqsa.
Si son nascosti sulla spiaggia, dove i bambini stavano giocando a calcio
Si son nascosti nel cortile di Mohammed Hamad, un uomo di 75 anni.
Si son nascosti nei quartieri di Shejaiya.
Si son nascosti nei distretti di Zaytoun e Toffah.
Si son nascosti a Rafah e Khan Yunis.
Si son nascosti nella casa della famiglia  Qassan.
Si son nascosti nella casa del poeta Othman Hussein.
Si son nascosti nel villaggio di Khuzaa.
Si son nascosti in migliaia di case danneggiate o distrutte.
Si son nascosti in 84 scuole e 23 centri medici.
Si son nascosti in un caffè, dove i Gazawi guardavano la Coppa del mondo.
Si son nascosti nelle ambulanze che andavano a raccogliere i feriti.
Si son nascosti in 24 cadaveri seppelliti sotto le macerie.
Si sono nascosti nel corpo di una giovane donna in pantofole rosa, sparse sul marciapiede, colpita a morte mentre cercava di fuggire.
Si son nascosti nel corpo del ragazzo i cui resti son stati raccolti da suo padre in un sacchetto di plastica.
Si son nascosti nel groviglio di corpi senza precedenti che arriva agli ospedali di Gaza.
Si son nascosti nel corpo di una donna anziana che giace in una pozza di sangue sul pavimento di pietra.
“Hamas, dicono, è cinico e vile”
di Richard SEYMOUR (The Guardian)

I POST DALL’INIZIO DELL’OFFENSIVA:
I 4 bimbi di Gaza
L’orgoglio di colpire “Civilian Structure”
Assassinati o morti?: Lessico di guerra
Prova ad immaginare
Battendo le mani davanti alla morte

Su “Operazione Piombo Fuso” : QUI
Storia di un’espulsione: QUI

Mio fratello!

Lotta armata: quell’ “oltrepassamento” mai avvenuto. Una lettura interessante, tristemente attuale

28 luglio 2014 5 commenti

Ho trovato queste righe incredibili. Le avevo già lette ma rileggerle oggi mi ha riempito di tristezza.
Sono righe sacrosante ma vecchie di 27 anni: son righe di detenuti dell’area BR e son state scritte nel carcere di Rebibbia nel lontano 1987.
Avevo cinque anni.

Mario Moretti durante un processo (foto di Stefano Montesi)

Mario Moretti durante un processo (foto di Stefano Montesi)

Parlano di un oltrepassamento che non è mai avvenuto, parlano di un movimento di liberazione dei prigionieri, e quindi di tutti, che mai ha preso piede come sarebbe dovuto essere. Per capirlo basta pensare che la dissociazione (di cui qui si parla) ha creato le basi per avere ancora detenuti politici in carcere (anche tra quelli che firmarono queste righe) dopo più di tre decenni; per capirlo basterebbe guardarsi intorno, calcolatrice alla mano, e farsi due conti.
Li abbiamo lasciati soli tre decenni.
Senza che ci fosse un reale movimento di liberazione. Non l’abbiamo mai fatto, forse ci abbiamo provato, ma non l’abbiamo mai realmente fatto.
Abbiamo compagni, questi compagni, in carcere da trentanni eppure ci ritroviamo a leggere migliaia di pagine (alimentate anche da tanta compagneria) che parlano di complotti, di inflitrazioni internazionali, di Peppo e Peppa su un Honda che sappiamo benissimo quando e perché è passata lì.
Siamo in piena era del complottismo: a leggervi erano tutti busta paga CIA.. eppure sono in cella,
ancora in cella, ancora in cella, ancora in cella, ancora in cella. Anche i torturati: sono ancora lì. E gli esuli di chi si chiede il rientro in queste righe, anche loro, ancora braccati.

Se ancora possono riempirsi la bocca con il complottismo è perché Storia non si è mai potuta fare.
Finchè l’ipoteca penale sarà aperta, finchè saranno ancora in migliaia a rischiar la galera (quel che mi piace chiamare “indotto BR”, vastissimo e mai raccontato) sarà difficile poter raccontare veramente la storia di quei tempi.
Mai si parla delle reti Sip che saltavano perché “c’erano i compagni”, mai si parla della brigata ospedalieri che si occupava dei feriti: la vera storia delle BR è offuscata dall’ipoteca penale e dai deliri complottisti.
E la colpa è tutta nostra.

Avevo 5 anni, ora li ha mio figlio: queste righe bruciano. Bruciano dentro me, dovrebbero bruciare dentro tanti
Buona lettura…

Sulla lotta armata: QUI Sugli anni ’70: QUI
Sulle estradizioni riuscite e tentate: QUI

– Per informazioni sulle tecniche di tortura usate contro i militanti della lotta armata, leggi:
* Ecco come mi torturò De Tormentis
* Il pene della Repubblica
* Le torture su Sandro Padula
– La tortura sulle donne, quel pizzico in più di sadismo a sfondo sessuale:
* Le torture su Paola Maturi e Emanuela Frascella
* Cercando Dozier in vagina
* Chi è Oscar Fioriolli

P.B., R.C., M.I., M.M. (area BR)
“Lettera aperta per un oltrepassamento” Rebibbia, Roma, Primavera 1987

“Compagni, negli ultimi tempi sono venuti a maturazione alcuni problemi ai quali occorre dare un seguito ed una risposta. Lasciarli inghiottire dal silenzio equivarrebbe a rafforzare la posizione di coloro che sono attivamente impegnati a mantenere uno status-quo poggiato sulla rimozione delle lotte degli anni ’70, dei soggetti sociali e politici che le hanno fatte vivere, dei nodi irrisolti che esse hanno portato al pettine.
C’è una tesi precisa: è di interesse generale, ma in modo specificio della sinistra di classe, promuovere uno sbocco politico e sociale di quel ciclo di lotte la cui consistenza sociale e politica non è qui da dimostrare.

Alcuni militanti delle BR durante un processo

Alcuni militanti delle BR durante un processo

Ciclo che ha ormai esaurito il suo corso, ma che si potrà dire realmente concluso solo quando tutti i compagni che vi hanno dato impulso saranno usciti di prigione. Che vuol dire sbocco politico e sociale?
Oltrepassamento, anzitutto.
E diciamo oltrepassamento proprio per fissare una demarcazione netta con qualsiasi forma di rinnegamento o abiura.
Per rimarcare il discrimine che ci separa da tutti coloro che hanno promosso e praticato il terreno regressivo della dissociazione. Rispetto alla quale non ci si può limitare ad una critica di superficie, essendo necessario rilevare il principio oscurantista su cui esso si fonda.
Vale a dire il rinnegamento sacrificale della propria storia e dalla propria identità in funzione della legittimazione del preteso vincitore.
Senonché nessuno ha mai vinto del tutto e nessuno ha mai perso del tutto in una società come la nostra, in cui, pur essendosi prodotte, anche a seguito delle nostre lotte, radicali trasformazioni, le contraddizioni sociali non sono certo scomparse ed anzi, per una che si smorza molte altre covano sotto la cenere.
Quando non prendono fuoco.
In nome di quale presente, dunque, ci si dovrebbe dissociare dal passato? In nome di quale vincitore?
Oltrepassare vuol dire prendere atto dell’irripetibilità dell’esperienza compiuta. Vale a dire della particolarità del contesto internazionale in cui è maturata, dell’irreversibilità dei suoi presupposti di classe, della specificità delle sue dinamiche, delle modalità singolari in cui si è prodotta.
Vuol dire, insomma, riconoscere una discontinuità tra quella esperienza ed il nostro presente. Ostinarsi ad immaginare il presente come immutabile ripetizione del passato, del resto, non è che un sintomo di sclerosi metafisica assai preoccupante per chi non intende rinunciare a battersi per la trasformazione delle attuali forme di relazione sociale, per il comunismo.
C’è un pericolo, abbiamo detto; che un’esperienza così ricca e polivalente come quella da tutti noi compiuta finisca dispersa nel silenzio o perda ogni contatto con le sensibilità del presente. Affinchè ciò appunto non accada appare necessario affermare con assoluta chiarezza una condizione basilare: la liberazione da ogni ipoteca giudiziaria della nostra e dell’altrui parola. 209_A
Bisogna averlo chiaro: ostaggio dei tribunali, essa non può aprirsi ad alcun confronto. Si può davvero credere che la storia degli anni ’70 possa venir ridotta a qualche interrogatorio addomesticato nelle aule di giustizia? No di certo! E per molte ragioni.
Una delle quali è sotto gli occhi di tutti: il più ampio e profondo rivolgimento sociale della storia recente di questo paese eccede di fatto l’istituzione giuridica e non si lascia comprimere negli articoli del codice penale senza obbligarli a una grottesca ed ipertrofica “emergenza”.
Emergenza dalla quale -almeno negli ultimi tempi- perfino le più alte cariche dello Stato dicono di volersi sbarazzare. Voler tradurre in termini di reato le pratiche di lotta, anche armate, degli ultimi ventanni è solo l’estremo tentativo di sottrarsi, ancora una volta, alla sfida della complessità.
Piccola vigliaccheria di chi vorrebbe da noi pentimenti, dissociazioni, autocritiche, solo per dare corpo ai suoi fantasmi e non dover guardare in faccia ciò che è davvero successo, oltre che se stesso in ciò che è davvero successo.
Ma l’Italia degli anni ’70 non è stato un paese in cui tutti, eccezion fatta di noi, mangiavano babà. Men che meno è stata un cogliere fiori la profonda ristrutturazione che a partire dalla metà del decennio, ha sconvolto e radicalmente mutato i processi dell’accumulazione capitalistica. E’ accaduto invece che un sistema politico arcaico, rigido, isterilito da eredità fasciste mai abbandonate, non essendo in grado di far fronte alle spinte innovatrici e di potere di cui furono soggetti ad ondate successive gli studenti, gli operai, i carcerati, i movimenti giovanili in genere e quelli femministi, ha provato a sbarrar loro la strada con ogni mezzo. […] La nostra storia è tutta interna alla critica pratica di quello stato di cose che vastissimi e variegati strati di classe hanno sviluppato in mille forme. E poco serio ci pare il tentativo di utilizzare la storia della guerriglia di questi anni come un attaccapanni su cui tutti possono appendere il risultato dei loro fallimenti ed insuccesi. Troppo comodo a questo punto è anche separare i “buoni” dai “cattivi”, attribuendo a noi il ruolo dei secondi. Casomai con qualche giochetto di parole per intorbidire le acque. Chiamandoci “terroristi” ad esempio. E poi insistere a dividere buoni e cattivi anche al nostro interno: quelli che non hanno commesso reati di sangue da quelli che li hanno commessi.
Come se non si fosse detto mille volte che le responsabilità son state politiche e collettive. Comodo e truffaldoni. Si stratta allora di aver chiaro che, per tutti, noi rappresentiamo una sfida. La sfida ad interrogarsi prima ancora che a interrogare. E comunque a sbloccare la situazione creando le condizioni per una effettiva ripresa di parola. Condizioni politiche naturalmente. Il che vuol dire: giungere alla liberazione degli anni ’70 liberando i prigionieri senza richiedere abiure o giuramenti, e senza discriminare tra loro i “buoni” dai “cattivi”; riaprire agli esuli le frontiere; disinnescare le infinite trappole legislative che in molti modi minacciano decine di migliaia di compagni.
Si tratta anche, infine, di riprendere un discorso unitario con tutte quelle forze che sappiano rispettare le differenze e vogliano promuovere un movimento consapevole delle sue discriminanti -la dissociazione e le forze politiche a cui essa si associa- e dei suoi scopi.
Un movimento ad ampio spettro, entro il quale nessuno cerchi di imporre qualche forma di legittimazione della sua pratica passata o voglia mettere in vetrina il suo attuale operato. Un movimento che impari a far giocare la ricchezza delle sue differenze nella prospettiva della liberazione di tutti i prigionieri e della libertà di tutti.

 

 

 

 

L’esercito d’Israele si permette di parlare di welfare a Gaza

26 luglio 2014 2 commenti

L’ufficio stampa dell’Israel Defence Forces lavora h24.
Fa un lavoro particolare, insieme ai grafici che producono il materiale da far circolare sui social network: come lavoro ci prende tutti spudoratamente per il culo.
Già avevo pubblicato un’immagine da loro prodotta che spiegava con quanta precisione colpivano strutture civili (tra cui anche un parchetto giochi) perché nei giorni o nelle ore precedenti era stato lanciato un missile mai giunto a destinazione da uno degli angoli di questa “civilian structure”.
Oggi la provocazione suona proprio di beffa:
perchè tentano di farci credere che Gaza sia Hamas.
Che i 1000 morti (eh sì siamo arrivati a cifra tonda per poter ottenere 12 ore di tregua, che probabilmente non verranno nemmeno rispettate) che hanno lasciato al suolo coi loro armamenti che sembran provenire dal futuro, siano tutti di Hamas,
che il cemento armato, la farina per il pane, i granelli di sabbia della spiaggia di Gaza: tutto è di Hamas, questo è quel che l’IDF e il suo ufficio stampa vogliono farci credere.
Son di Hamas i bambini, il bestiame, i morti, le donne in gravidanza, i feti che hanno in grembo: son tutti terroristi di Hamas.
Questo è quello a cui credono anche migliaia di sionisti, nel nostro squallido paese.
Ci dicono che Hamas non tiene alla sua popolazione, che con i soldi con cui costruisce un tunnel potrebbe costruire centinaia di casa e scuole e moschee e tutto il cemento che poi loro, Israele, muterebbe rapidamente in briciole.
Parlano di welfare, loro.
Loro che con i soldi che spendono per il loro di esercito potrebbero sfamare il mondo intero,
loro parlano di welfare, che colpiscono da sempre prettamente strutture civili.
Loro, che non c’è cingolo che non sale su un automobile per distruggerla, non c’è marciapiede (anche solo un marciapiede) che non sia distrutto dal volontario passaggio dei tank: parlano del welfare di Gaza e noi dovremmo anche starli a sentire,
mentre si dicono da soli quanto son bravi a schiacciare questo pericolosissimo nemico che mai li ha nemmeno scalfiti.

Una vergogna, una vergogna di cui i complici son troppi.
E dovrebbero pagarla.

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L’orgoglio di colpire “Civilian Structure”
Assassinati o morti?: Lessico di guerra
Prova ad immaginare
Battendo le mani davanti alla morte

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Il welfare secondo Israele

Gaza: provate un secondo ad immaginare…

25 luglio 2014 24 commenti

Immaginate di non poter più portare i vostri figli a scuola,
perchè nelle aule ci dormite in centinaia, ammassati l’uno sull’altro.
Immaginate di non riconoscere più il pianto di vostro figlio, perchè nei rifugi (che parola errata!) si è accatastati e il terrore si stratifica e perde i lineamenti dei visi per diventare un unico grande pianto di terrore.
Immaginate di non dormire per giorni, di avere il vostro vicino morto.
Vostra sorella, qualche figlio, un nonno profugo, un altro concime per il giardino a bordo piscina di qualche insediamento.

Immaginate di trovarvi casa occupata da un pezzo di una brigata dell’esercito perchè avete una casa “strategica”.
Immaginate di dover “convivere” con loro in casa, con i loro fucili, con la loro lingua che non è la vostra, con gli insulti,
con i boati, con un cecchino appostato all’ultima finestra in alto, dove magari avevi messo un po’ di basilico.
Immaginate di sapere nome e cognome della testa che salterà, per un proiettile precisissimo partito proprio dalla vostra finestra occupata.

Immaginate il nostro paese, lo stivale:
immaginatelo rosicchiato passo passo. Immaginate di vagare senza salvezza, con i materassi poggiati sulla testa e i piedi stanchi.
Immaginate i chilometri, i villaggi che ti ospitano e che poi dovrai lasciare per nuovi bombardamenti.

Immaginate anche solo un decimo di tutto ciò e sarete a Gaza.
Ma anche in Siria. Sarete palestinesi di Gaza, di Betlemme, di Yarmouk

Se non siete capaci di immaginarlo, se il vostro solo problema son le foto dei bimbi dilaniati che scombussolano la vostra pausa pranzo: state lontani da noi, da chi non dorme la notte per Gaza e per la Gaza che ha in casa.
State lontani, pensate ai vostri sonni tranquilli e lasciateci nella nostra insonnia bombardata.

Boicotta Israele: prodotti

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Dizionario minimo delle armi israeliane

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l’orgoglio di bombardare “civilian structure” dell’Israel Defence Forces

21 luglio 2014 4 commenti

Quello che mi fa incazzare è la stampa italiana, i nostri sionisti da quattro soldi
capaci di negare quello che l’esercito israeliano assolutamente non nega e non tenta di giustificare. Anzi!
Di Shuja’iya non è rimasto nulla: è un quartiere polverizzato come polverizzate son le famiglie che non hanno lasciato le loro case una volta intimatogli dall’eserito israeliano.
Semplicemente spazzate via, perché tanto non avrebbero saputo dove andare.
Perché a Gaza se ti evacuano forzatamente da una zona, giri in tondo su te stesso in un cortile di un grande carcere,
sempre più stretto, nemmeno così tanto grande. Andare via … vien da ridere solo a dirlo, sarò ripetitiva.

Ora volevo condividere i nomi di chi non ha lasciato casa, di chi abitava in quei grandi quadrati blu così ben descritti da questa locandina direttamende prodotta dall’Israel Defence Forces. “Strutture civili” le definiscono, di una città con una densità di 10.000 persone per kilometro quadrato: strutture che ora son polvere e dove c’erano tutti loro.
La loro colpa era vivere vicino ad un puntino rosso che non ha causato alcun danno… ma ci racconteranno che erano terroristi,
che i bambini venivano fatti addormentare su arsenali nascosti,
che saranno felici di avere nuovi 62 martiri, che le mamme palestinesi li mettono al mondo appositamente per vederli martiri.
Sono intere famiglie, come leggete dai cognomi e dalle età.

State ancora ad ascoltare queste stronzate, leggetele,
aprite la prima pagina di repubblica e continuate a vivere abituati a leggere “palestinesi morti e israeliani uccisi”.
Sappiate che lo schifo per voi è più sostanzioso di questa illeggibile lista di nomi qui sotto, che è eterno,
che vivere sull’abuso vuol dire vivere per sempre nel terrore.
Almeno quello, ve lo meritate per sempre.

Names and ages of 62 people who fell victim to Al-Shijaeyya massacre:

  1. Narmin Rafiq Dyab Ayyad, 19 years old.
  2. Fidaa Dyab Ayyad, 23 years old.
  3. Ahmad Sami Deyab Ayyad, 27 years old.
  4. Osama Rebhe Shehde Ayyad, 32 years old.
  5. The child Mohammed Ramy Fathi Ayyad, 2 years old.
  6. The child Mohammed Ashraf Rafiq Ayyad, 5 years old.
  7. Muna Abderrahman Mahmoud Ayyad, 41 years old.
  8. Hala Subhy Saady Ayyad, 24 years old.
  9. The child Ghada Subhy Saady Ayyad, 11 years old.
  10. The child Shireen Fathi Othman Ayyad, 17 years old.
  11. Ibrahim Aref Ibrahim Al-Ghalayini, 26 years old
  12. Mohammed Mohammed Ali Mhareb Jundiyya, 38 years old.
  13. Alaa Jamaliddin Mohammed Barda, 34 years old.
  14. Ahmad Ishaq Yousef Al-Ramlawi, 32 years old.
  15. Ahed Saad Musa Sarsak, 35 years old.
  16. Adel Abdallah Salim Eslim, 38 years old.
  17. The child Dima Adel Abdallah Eslim, 2 years old.
  18. The child Shady Ziyad Hasan Eslim, 15 years old.
  19. The child Alaa Ziyad Hasan Eslim, 11 years old.
  20. The child Fady Ziyad Hasam Eslim, 10 years old.
  21. The child Khalil Ismail Khalil Al-Hayye, 6 years old.
  22. The child Osama Osama Khalil Al-Hayye, 8 years old.
  23. Osama Osama Khalil Al-Hayye, 8 years old.
  24. Hala Saqer Hasan Al-Hayye, 28 years old.
  25. Osama Khalil Ismail Al-Hayye, 29 years old.
  26. The child Omar Jamil Subhy Hammouda, 10 years old.
  27. Wesam Majdy Mohammed Hammouda, 30 years old.
  28. Yousef Ahmad Younis Mustafa, 62 years old.
  29. Muna Salman Ahmad Al-Sheikh Khalil, 49 years old.
  30. The child Heba Hamed Al-Sheikh Khalil, 13 years old.
  31. The child Samya Hamed Al-Sheikh Khalil, 3 years old.
  32. Tawfiq Barawi Salem Marshoud, 52 years old.
  33. The child Marwa Salman Ahmad Al-Sirsawi, 13 years old.
  34. Maysa Abderrahman Said Al-Sirsawi, 36 years old.
  35. The child Marwa Salman Ahmad Al-Shirsawi, 13 years old.
  36. The child Dina Rushdy Omar Hamada, 16 years old.
  37. Eman Mohammed Ibrahim Hamada, 39 years old.
  38. Ghada Ibrahim Sulaiman Odwan, 38 years old.

    Durante il cessateilfuoco

  39. Ibrahim Salem Jumaa Al-Sahabany, 20 years old.
  40. Israa Yasi Atiya Hamdiyya, 28 years old.
  41. Akram Mohammed Ali Al-Sakafi, 63 years old.
  42. The child Eman Khalil Abed Ammar, 9 years old.
  43. Tala Akram Ahman Al-Atwi, 7 years old.
  44. Kaled Ryad Mohammed Hamad, 25 years old.
  45. Khadija Ali Musa Shhada, 62 years old.
  46. Khalil Salem Ibrahim Musbeh, 53 years old.
  47. Aysha Ali Mahmoud Zayed, 54 years old.
  48. Abderrahman Akram Mohammed Al-Skafi, 22 years old.
  49. Esam Atehhe Said Al-Skafi, 26 years old.
  50. Musab Salaheddim Al-Skafi, 27 years old.
  51. Ali Mohammed Hasan Al-Skafi, 27 years old.
  52. Mohammed Hasan Mohammed Al-Skafi, 53 years old.
  53. Abderrahman Abderrazq Abderrahman Al-Sheikh Khalil, 24 years old.
  54. Abdallah Mansoor Redwan Amarah, 23 years old.
  55. Abedrabo Ahman Mohammed Rayed, 58 years old.
  56. Fatma Abderrahim AbdelQadir Abu Ammouna, 55 years old.
  57. Fahmy Abdel-Aziz Saad Abu Said, 29 years old.
  58. Mohammed Raed Ehsan Akkila, 19 years old.
  59. The child Marah Shaker Ahmad Al-Jammal, 11 years old.
  60. Marwan Muneir Saleh Qunfud, 23 years old.
  61. Yousef Salem Habib, 26 years old.
  62. Unidentified.

Assassinati o morti? L’importanza delle parole sotto le bombe a Gaza

20 luglio 2014 6 commenti

Una semplice banale questione di linguaggio: che però fa bene tener presente.
Leggere “morto” o “assassinato” fa la sua differenza, lo fa in spagnolo, lo fa in qualunque altra lingua.
Il lessico, le parole scelte, hanno creato sempre un grande spartiacqua nel conflitto israelo-palestinese,
che chiamerei più “occupazione israeliana”.
Perchè già la parola conflitto la trovo ridicola: il 4° esercito più potente del mondo, contro una delle popolazioni più povere e prigioniere possibile.
Eh sì, già la definizione “conflitto israelo-palestinese” appare un po’ come una forzatura linguistica.
I nostri giornali, il mainstream e la sua copertura di quest’ennesima pagina di genocidio, colpisce come le bombe israeliane, è colpevole, colluso.

Poi continuo a leggere dibattiti anche violenti sull’uso delle fotografie dei morti, dei bambini morti soprattutto,
che vengono diffuse dai medici palestinesi e da chi sopravvive ai bombardamenti e alle incursioni che in queste ore si stanno intensificando incredibilmente,
che è quasi difficile immaginare cosa possa voler dire.
L’apocalisse oggi, tredicesimo giorno di offensiva israeliana ( poi se volete chiamarlo conflitto fate pure), si è abbattuta su quartiere di Shujaiya, nella zona est di Gaza city e il bilancio è fuori dalla portata del raccontabile. Un quartiere polverizzato, dove tutta la popolazione sta fuggendo (come se ci fosse realmente luogo dove rifugiarsi poi): già una sessantina sono i corpi recuperati. Un’altra jenin, un’altra qana, un’altra strage che sempre sarà impunita.
E allora scelgo le foto di chi rimane vivo,
così che possiate smetterla di far polemica sulle stronzate, così che i vostri stomaci digeriscano tranquillamente,
così che possiate capire il terrore, che è peggio della morte.

A Palestinian boy wounded by Israeli shelling, receives treatment at al-Shifa hospital in Gaza City, 20 July. (Ali Jadallah / APA images)

Shaken children who survived Shujaiyah seize. @tamerELG

si commenta da sola…

 

i 4 bimbi di Gaza e le immagini chiare della verità

17 luglio 2014 3 commenti

La verità è una.
E’ palese, è agghiacciante ed ha un colpevole.
Ben visibile, ben noto.
Tutto il resto son chiacchiere, vergognose chiacchiere.
Ahed .. Ismael .. Mohammad e Moatasem Baker: quattro dolci vite polverizzate da un missile dell’aviazione israeliana mentre giocavano a calcio,
nella spiaggia del più grande lager della storia dell’uomo.

Ora non potete nemmeno raccontarci che Hamas aveva messo i bambini a difesa dei suoi “arsenali”…
sabbia, pallone, porta da calcio, bambini, sorrisi.
Ecco il grande arsenale colpito: davanti agli occhi di tutti noi. (GUARDA)

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Storia di un’espulsione: QUI