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Ma buon anno dddechè!
Il più brutto anno.
Senza ombra di dubbio.
Il più brutto anno immaginabile, quello in cui si è perso tanto sonno, quello in cui il sogno si è infranto,
quello in cui si capisce senza possibilità di ritorno che si è perso tantissimo, che certe cose non si stringeranno più tra le mani.
Un anno dilaniante, doloroso, insonne, sommerso da valanghe di lacrime senza ascolto e senza voce.
Io non vivo più, non vivo più se gli occhi del mio fratello beduino hanno perso il loro azzurro, per diventare grigi d’esilio e solitudine.
Non vivo senza quel pensiero felice, senza le voci allegre dei loro saluti lontani.
Era l’anno in cui volevo portare mio figlio, il più bello dei gioielli del mio mondo, nella terra che aveva cambiato per sempre il corso dei miei giorni e delle mie notti, volevo che il mio bambino potesse assaporare sua madre in un’altra condizione.
Ancora troppo piccolo per capire quanto di stupefacente avrebbe avuto intorno, si sarebbe certamente accorto di aver tra le su braccia un’altra mamma.
Volevo tornare a casa, a Bosra, a baciare terra rossa e basalto, a rotolarmi nella polvere che canta i secoli e i popoli nomadi di una terra senza confini;
volevo portare a casa mio figlio affinchè conoscesse una sua coetanea dai ricci neri,
la cui voce si è fatta timida dopo mesi di bombardamenti.

Ad una grande donna…
e’ stato l’anno della fine dell’illusione che tutto potesse continuare a rimanere così come per secoli secoli secoli e ancora secoli era stato.
E allora non vi auguro buon anno, non lo auguro soprattutto a voi incapaci di guardare la Siria, a voi sapienti sostenitori di mattanze (da sinistra ovvio)
non lo auguro ai sapientoni (quelli che magari poi starnazzano dicendo con spocchia che “dietro ad Al-Jazeera ci sono i califfi” che, ahahhaah, ancora me sento male visto che abbiamo seppellito con gioia l’ultimo califfo nel 1924),
non la auguro a chi ha il vizio di creare tribunali, non lo auguro a chi ha l’ultima parola su tutto e spesso anche ridicola, impreparata,
non lo auguro a chi di lavoro manda in galera le persone (e mi riferisco a giudici e magistrati)
non la auguro a chi anfibi e chiavi d’ottone chiude diverse volte al giorno decine di persone nelle celle,
non la auguro soprattutto a chi, grazie ai deliri di geopolitica e antimperialismo sterile e rossobrunista e all’ignoranza folle e anche spocchiosa non riesce a portare solidarietà non dico ai siriani, popolo a loro sconosciuto e quindi inesitente, ma anche ai palestinesiche a decine muoiono nei campi profughi di Siria, come a Yarmouk. Ecco, a voi “dalla palestina sempre nel cuore” che appogiate Assad, il suo fratello Maher e le milizie di Jibril proprio non vi auguro un buon anno.
Auguro buon anno a tutti gli esuli, a tutti coloro che vivono la sete a Zaatari,
la auguro alla mamma del mio amico, strappata dalla sua terra dopo una vita di quella terra.
La sola a cui auguro un buon anno è la mamma, dagli occhi blu, del mio fratello beduino,
trascinata via dalla dolce Bosra e con il solo sogno di poterci morire, per esser seppellita accanto a suo marito.
A lei auguro un buon anno,
a lei che ha messo al mondo un grande uomo,
a lei la cui figlia ogni giorno rischia la pelle per cercare di strappare alla morte, alla tortura, alla prigionia qualcuno.
E allora grazie a queste due donne,
grazie alla loro forza e al loro dolore che sembra spaccare anche la mia quotidianità.
Grazie perchè se mai potremo tornare a ricostruire casa, sarà grazie a queste donne, la cui forza è impressionante…
e quasi non ve la meritata!
Alla Siria e all’amore che mi ha insegnato, alla polvere rossa, al nero basalto
al sangue dei suoi bambini e al ritorno, il ritorno sì,
perchè prima o poi avverrà…
e guardatelo questo video, che è un regalo bellissimo
il solo modo di raccontare…
Stamattina per caso i miei occhi son caduti su queste righe che raccontano bene il silenzio di questo blog in questi giorni, ormai potrei dire settimane.
Mai son stata così silente in questi molti anni di rete, non sono una che sa star zitta e sono oltretutto malata di una grave forma di grafomania.
La sola vera comitiva, er muretto, che sia riuscita ad aver nella mia vita in modo passionale e duraturo è composto di carta, inchiostro,
rullini, tasti che scolpiscono lettere: il dover raccontare. Sempre e comunque.
Un giorno che chiesero ad un Rabbi di raccontare una storia, egli rispose: “Una storia deve essere raccontata in modo che essa sia attiva e d’aiuto”. E si mise a raccontare: “Mio nonno era paralitico. Poiché gli avevano chiesto di raccontare qualcosa del suo Maestro, cominciò a parlare di come il Baal-Shem, quando pregava, saltellava e danzava. E per mostrare come si comportava il Maestro, si alzò in piedi saltellando e danzando anche lui. A partire da quel momento guarì.
Ecco, è questo il modo di raccontare.” *
Ecco, già.
E’ proprio questo il modo di raccontare, non ce n’è mai stato altro nella mia vita. Se racconto è perché mi sono alzata in piedi, è perché sto ballando, è perché ho il cuore dilaniato, non c’è altro modo di raccontare. Sono parole perfette, malgrado il misticismo e la superstizione tipiche della scrittura ebraica, che grazie alle letture di Spinoza di questi ultimi mesi son definitivamente spazzate via dal panorama mentale, ora in modo un po’ più scientifico. Se non si balla non è la mia rivoluzione no? E allora se non ho la forza di alzarmi, da paralitica, e ballare raccontando, preferisco star silenziosa (anche se mai, mai realmente stata zitta io)
Deliro, ne son consapevole. E dopo giorni riprovo a farlo qui.
Sono un po’ preoccupata del mio non desiderio di raccontare: è come se il barile di polvere da sparo sia stato sommerso da una valanga d’acqua.
Lasciamo si asciughi un po’, poi vediamo se tornerà a fare il suo lavoro di sempre.
Per ora…sotto al sole ad asciugare. Che è meglio.
Magari ci si vede il 31 mattina, all’incrocio tra Via Bartolo Longo e Via Raffaele Majetti,
sotto la garitta del carcere più grande d’Europa, a portare un po’ di musica e parole, colori e sapori
contro il Carcere, per chi dentro vi è rinchiuso.
Per la libertà, quella cara vecchia amica dispersa, di cui ho infinita nostalgia.
Un modo per darci l’augurio di un anno, sperando sia caratterizzato da un po’ meno sbarre di quello che sta per finire.
Maledetto.
ODIO IL CARCERE
“A volte mi chiedo che senso ha la mia vita,
chiuso tra queste quattro mura, con un ergastolo da scontare. In altri momenti invece,
sento che non finirò i miei giorni in prigione.
Prima o poi in qualche modo uscirò e mi riconcilierò con l’esistenza.
Vivere, vale comunque la pena: sentire l’aria entrare nei polmoni, il cuore battere, il sangue scorrere nelle vene.
Percepire il passare del tempo.
Come si può condannare qualcuno alla prigione a vita, a una pena infinita.
Si vuole scolpire la sua colpa nella memoria perché vi resti in eterno.
Ma questo per fortuna è impossibile, è inumano.
L’oblio arriva, cancella la memoria, la modifica. Del mio passato conservo solo gli episodi migliori,
i volti che tra mito e realtà mi accompagneranno sempre.”
Roberto Silvi, morto il 1° aprile 2008 a Parigi, ucciso da una malattia balorda. Per anni rifugiato in Francia a causa di “un passato che non ho mai voluto modificare, e tanto meno rinnegare, con letture posteriori”.
*Martin Buber
Karoshi: lavoro e suicidio in Giappone. (Mejo i Maya)
Arrivare a lavoro,
con la fretta di chi comunque sceglie il 4° ritardo del mese pur di bere un caffè come si deve e non quello della macchinetta automatica, dal sapore unico dal tasto 11 al 36, con o senza zucchero che sia.
Arrivi a lavoro, inserisci 5 password diverse in altrettanti programmi che oltretutto si impallano, vanno a rilento, hanno la rotella che gira gira gira,
poi guardi tutti gli altri in sala e dagli sguardi potresti far la mappatura degli orari; quello che ha attaccato alle 6, quello che fa la settimana dall’orario lungo ma con ben 2 OH DICO DUE giorni di riposo attaccati.
Insomma, arrivi a lavoro e ti accorgi che il solo Dio in cui puoi credere si chiama NON lavoro, e gira abbracciato e un po’ brillo alla LIBERTA’.
Insomma, entri qui e il “non mi avrete mai come volete voi” si tatua nel tono di voce, nel buongiorno, si scioglie nel caffè fasullo che tanto prima o poi nell’arco del turno andrai a bere.
Ma entrare a lavoro e, di nascosto ovviamente, leggere quest’articolo sul Giappone, ti apre proprio un mondo.
Mamma mia oh! Per solidarietà ai lavoratori e alle lavoratrici giapponesi oggi non produco proprio un cazzo per l’azienda. No, no.
Morire di Lavoro in Giappone
Di recente sono stato a Bruxelles e in ostello ho incontrato dei giapponesi in vacanza. Quando ho sentito Sayaka—la mia nuova amica giapponese—rispondere sommessamente a telefono alle 4 di mattina e scivolare fuori dal suo letto per dirigersi nella sala computer, al piano inferiore, mi sono incuriosito. Era una talpa che teneva sotto controllo gli ospiti per conto dei proprietari? Forse contattava i suoi genitori a tarda notte perché non si sentiva a suo agio usando internet alla luce del giorno?
Niente di tutto questo. Come poi ho scoperto, quella era l’unica vacanza che Sayaka si fosse presa in tutto l’anno, e le puntatine mattiniere alla sala computer servivano a finire un lavoro “urgente” per il suo capo—in poche parole, un modo abbastanza schifoso di trascorrere le vacanze. Ma di sicuro è meglio delle 16 ore al giorno di lavoro che l’attendono al rientro a casa.
La situazione di Sayaka non è rara; nelle principali città del Giappone, un’enorme quantità di persone ha un rapporto distruttivo con il lavoro, e molti decidono di condannarsi a una morte prematura. Questo fenomeno sociale ha un suo termine preciso, karoshi. Non si tratta dello sfruttamento lavorativo in fabbrica o di incidenti nei cantieri. Il termine indica esattamente le morti dei lavoratori di grandi aziende, per lo più dovute a ictus, infarti o suicidi dopo aver lavorato oltre il limite.
Quest’anno, il suicidio della 26enne Mina Mori è stato riconosciuto come karoshi dopo che un’indagine aveva svelato che la ragazza faceva 140 ore di straordinario ogni mese presso un ristorante della popolare catena Watami. I dipendenti di numerose aziende sono tenuti ad adottare una cultura del lavoro che sta distruggendo le loro vite.
Il fenomeno del karoshi è stato identificato alla fine degli anni Sessanta, quando un ragazzo occupato nel reparto spedizioni del principale quotidiano giapponese morì di ictus (fatto un po’ insolito, per un 29enne), e la gente comprese che l’esagerazione dell’orario di lavoro poteva avere effetti negativi sull’organismo. Incredibilmente, la notizia sorprese tutti. Da allora, i casi di karoshi si sono trasformati in implacabili battaglie tra i membri della famiglia del defunto, decisi a dimostrare che la causa della morte è il troppo lavoro, e la società datrice di lavoro, che fa del suo meglio per mettere a tacere la cosa.
Gli interinali costituiscono circa un terzo della forza lavoro giapponese, il che significa meno paga e quasi nessun diritto, anche dopo anni di lavoro nella stessa azienda. L’impiego fisso è una reliquia del passato ormai sepolta. Jake Adelstein ha trascorso 12 anni in Giappone come primo giornalista non-giapponese del quotidiano Yomiuri Shinbun, lavorando faticosamente per giorni e notti, interrotte da pochissime ore di sonno.

Aokigahara, la foresta dei suicidi
Come mi ha detto, “Una delle cose che contribuisce alle pessime condizioni all’interno delle aziende giapponesi è la forte presenza di agenzie di lavoro interinale. Se qualcuno sta all’interno dell’azienda per più di cinque anni si suppone sia destinato a un posto fisso, ma nella realtà accade che raggiunto quel traguardo, il dipendente viene licenziato. Questa promessa di lavoro a tempo indeterminato o di lavoro vero viene sventolata davanti ai suoi occhi, e poi strappatagli in un colpo, come un tappeto da sotto i piedi”.
Dato che la gente ha bisogno di nutrirsi e pagare l’affitto, il contesto di precarietà è diventato la norma, con aziende particolarmente inclini allo sfruttamento—conosciute con il nome di “Aziende Nere”—capaci di condurre i propri dipendenti alla rovina a forza di farli lavorare. Nel timore costante di essere sostituiti da un momento all’altro, i lavoratori hanno sviluppato la capacità di assecondare i superiori, facendo straordinari folli non retribuiti e persino contraffacendo l’ammontare di ore di lavoro registrate per tenere l’azienda fuori dai guai. È stato Jake a spiegarmi la situazione, aggiungendo:
“Al lavoro avevamo due registri. Su uno inserivamo le ore effettivamente svolte, mentre l’altro seguiva gli standard. Parte del nostro dovere come lavoratori notturni era organizzare l’orario di lavoro di tutti. Si poteva lavorare per una settimana intera senza giorno libero, e alla fine, invece di segnare tutte le ore, si annotavano semplicemente quelle dovute, aggiungendo giorni di vacanza per il resto.”
“C’è tutta una tradizione che prevede il non registrarsi durante gli straordinari e di lavorare senza paga extra. Dipende molto dai costumi tradizionali—c’è ancora l’idea che gli anziani abbiano la precedenza. In molti casi, lasciare l’ufficio prima di una persona più anziana è tuttora considerato scortese o sconveniente.”

Un hotel a capsule, per chi non riesce a passare la notte a casa.
Ovviamente tutto questo lavoro lascia poco tempo per le altre cose di cui la gente ha bisogno per non trasformarsi in disperate bombe umane pronte a esplodere al minimo rumore. Mi riferisco a cose come socializzare, passare del tempo con la famiglia e dormire più di due ore a notte. Gli hotel a capsule esistono semplicemente perché un’enorme quantità di gente sostiene che abbia più senso dormire in bare imbottite, impilate l’una sopra l’altra, piuttosto che prendere il treno per casa dopo aver lavorato sino alle prime ore del mattino.
Jake mi ha spiegato: “Il problema è il circolo vizioso in cui si entra: vivi in periferia, il tragitto è lungo, ti sposti su un treno affollato e arrivi in ufficio già stanco perché sei stato in piedi tutto il tragitto. Poi lavori sino alle 23:00 o le 00:00, vai a casa con lo stesso treno affollato, e non puoi stare sveglio né rilassarti perché il giorno dopo devi lavorare. Sopporti una continua privazione del sonno, e vai avanti per inerzia.”
“Una delle ragioni per cui il Giappone ha un tasso di natalità e matrimoni così basso è che, se la gente passa tutto il tempo in ufficio, finisce per non avere una vita privata. Come si fa a coltivare i rapporti? Come si fa a incontrare qualcuno, uscirci e avere una storia? Finisce che la tua vita ruota intorno al lavoro. Il tuo lavoro è la tua vita, questo è tutto ciò che sei”.
“Se non sei sottoposto a un ritmo di lavoro intenso, schiavo dell’alba e vittima della privazione del sonno, con ogni probabilità i colleghi e il capo ti accuseranno di non lavorare abbastanza. Per questo a volte è importante mantenere l’aspetto di un esaurito, dell’emarginato che saresti se facessi il tuo lavoro fino in fondo.”
“Se non hai lavorato per ore, cerchi di apparire come se lo avessi fatto, dai l’impressione di soffrirne molto. Questo aspetto sembra avere più valore di un compito svolto bene. Devi sempre sembrare stanco, anche se non lo sei.”

Un manuale del suicidio.
Il Giappone registra uno dei più alti tassi di suicidio al mondo, fatto che conferma come una grande quantità di giapponesi stia passando un momento estremamente di merda, per molti dovuto principalmente al lavoro. Nel 2009, il numero totale di suicidi è aumentato del due percento, toccando i 32.845 casi, ovvero, sostanzialmente, 26 suicidi ogni 100.000 persone. E nei 2.207 suicidi legati all’impiego del 2007, il motivo più comune era il troppo lavoro. Del resto, quando un Paese nomina un bosco “la Foresta dei Sucidi” e vende ogni anno un alto numero di manuali del suicidio, le statistiche di questo tipo non appaiono poi così scioccanti.
Come mi ha spiegato Jack, il libro in questione descrive situazioni comuni a un gran numero di giapponesi: “È stata un’altra pessima giornata in ufficio, il lavoro si è accumulato e tu sei in ritardo sulle bollette. Non stai dormendo, sei stanco e ti devi alzare alle 06:00 e fare i 90 minuti di strada per arrivare al lavoro. Stai per passare tutta la notte in ufficio per l’ennesima volta—e lo farai più e più volte. Non sarebbe bello andare a dormire e non svegliarsi più? Dormire davvero?” È facile intuire la presa che queste parole hanno sul gran numero di persone le cui vite sono consumate dal lavoro.
Nel parlare con Sayaka, in ostello, non ho potuto fare a meno di notare un barlume di soddisfazione quando ho espresso la mia indignazione per le sue giornate di lavoro di 16 ore. Questo unico barlume conferma solo che la linea di demarcazione tra lo sfruttamento e il rispetto guadagnato con lunghe ore di lavoro sta su una linea estremamente sottile, tra un corpo che rinuncia a te o tu che decidi di rinunciare al tuo corpo. Sayaka è giovane e pare che la questione dei diritti del lavoro stia lentamente migliorando, quindi spero che questo processo guadagni terreno velocemente—altrimenti, il suo ingenuo entusiasmo potrebbe facilmente essere portato sino al limite.
Di Sam Clements
LEGGI:
– Mirafiori e la dialettica del Sanpietrino
– Il lavoro è sfruttamento – Il lavoro salariato, Karl Marx
– Il lavoro giusto per me
– Il lavoro non si festeggia, si abolisce
Perché coprire quei corpi?
Ringrazio l’articolo che pubblico qui sotto, ringrazio la donna che l’ha scritto perché mi ha messo a conoscenza di una cosa che non conoscevo,
e perché ha usato le mie parole, i miei pensieri,
ha avuto le mie stesse reazioni.
E’, quella raccontata qui, un’azione che non comprendo,
dalla quale con facilità politica, di genere e “a pelle”, prendo le distanze: le prendo con il mio corpo, il mio corpo di donna, nudo anche …soprattutto se la cosa vi infastidisce.
Il mio corpo sì, quello che vorrei decidere io come usare.
Io.
E così le mie compagne, amiche, sorelle, figlie.
E le parole di questa donna, che ha anche lavorato col suo corpo per tirar su due lire in più, dovrebbero insegnare molto a quei compagni che coprivano con i loro giubotti i corpi di alcune ragazze “cubiste”.
Ma dove siamo arrivati?
Ma le abbiamo interpellate? o abbiamo deciso che in quanto “oggetti” potevano essere sovradeterminate da qualunque azione?
Poi magari sullo stesso marciapiede polizia o vigili urbani facevano una delle solite retate anti immigrazione, con sequestri di merce e multe da capogiro, e magari anche una vacanza gratuita in Centri di Identificazione ed Espulsione.
Non so, rimango basita.
Dei compagni che coprono le cosce di chi ha scelto di lavorare in una vetrina, senza prendere in considerazione che dietro delle cosce c’erano delle teste,
senza comunicare nulla a loro ma rendendole ancor più OGGETTO.
Brutta, brutta iniziativa.
Ne sarebbero orgogliosi salafiti vari, quelli che le compagne egiziane e tunisine combattono strada per strada: la fratellanza musulmana potrebbe donare dei seggi al Cairo.
Il primo che me copre una coscia lo pisto.
VI INCOLLO IL TESTO E LE IMMAGINI: TRATTE DA abbattoimuri
[LEGGI ANCHE
“IL CORPO DELLE DONNE E’ DELLE DONNE”
“NON AMO I TUTORI, ANCHE SE COMPAGNI“]
Su Facebook mi segnalano questa nota con relativa discussione e commenti che se volete potete leggere. Da lì viene il comunicato e le immagini che riporto in basso.
C’è un negozio – a Napoli – che vende elettronica e che per farsi pubblicità ha scelto di realizzare una vetrina munita di ragazze/cubo ballereccie che di certo non passano inosservate. Non so se prima si fossero lamentate o abbiano dato segni di rivolta compagne, femministe, ma mi fa specie che un gruppo di ragazzi, compagni, da ciò che leggo, decidano di andare a “salvare” queste donzelle in pericolo anche se non l’avevano chiesto, o almeno non mi pare di leggerlo da nessuna parte, e anche se probabilmente per quel mestiere venivano pagate.
Perché mai questi ragazzi non hanno coinvolto un collettivo femminista per decidere se quella fosse la cosa giusta da fare? Perché mai la protesta scelta è stata di coprire alla vista dei e delle passanti i corpi delle ragazze? Sapete che così avete detto alle ragazze che erano indecorose e moralmente reprensibili? Avete chiesto alle ragazze che ballavano cosa ne pensavano? Ma non si usa più che le battaglie passano per l’autodeterminazione dei soggetti coinvolti? Siamo ai piani salvifici e paternalisti? Alle colonizzazioni? Alle soluzioni imposte?
Ho fatto la ragazza/cubo molti anni fa per campare, come terzo lavoro, e se fosse venuto qualcuno a coprirmi facendomi sentire una specie di svergognata grata per tanta generosa attenzione da parte di un salvatore qualunque io gli avrei dato il tacco con la zeppa in faccia.
Avrete avuto tutte le migliori intenzioni ma vi giuro che mai una iniziativa di compagni mi è sembrata tanto inopportuna e offensiva nei confronti delle donne e se questo genere di iniziative vengono perfino percepite come positive io credo che la deriva scivolosa che sta assumendo questa cosiddetta battaglia moralista rispetto ai corpi delle donne sia arrivata al limite.
Questa azione andava fatta pressappoco così, se si voleva fare.
1] Bisognava coinvolgere le compagne, antisessiste, e le ragazze e chiedere se si sentivano sfruttate, se avevano scelto, se erano pagate poco, male, in nero, con contratto regolare o chi lo sa. Perché è possibile che avessero delle richieste da fare ma forse riguardavano tutt’altro. Magari migliori condizioni contrattuali, per esempio.
2] Avuta notizia della condizione di sfruttamento bisognava che le compagne svolgessero, forse, un presidio disturbante, un volantinaggio, ché se interrompi gli affari di una impresa privata comunque devi saperlo che ti becchi una denuncia, ma non è quello il punto. Il punto è che tutto avreste dovuto fare meno che coprire le cosce di queste ragazze perchè loro non erano la cosa sporca da cancellare dalla vista dei benpensanti.
3] Le compagne avrebbero simbolicamente potuto coprire, per operare un rovesciamento di senso, un subvertising, le televisioni, la merce, perchè giudicata immorale, o avrebbero potuto inscenare un balletto in quel marciapiede per non fare sentire sole le ragazze, mostrando una solidarietà vera e non prurigginosa e paternalista.
E tante altre cose si sarebbero potute fare ma tutte, sempre e comunque, ricordando che non si può salvare qualcun@ che non vuole essere salvat@ o che non sembra essere assolutamente in condizioni di pericolo. Che le lotte si fanno a partire da se’ e che ci si salva da sole se si vuole senza bisogno di “tutori”, inclusi quelli antagonisti.
In questo senso vorrei chiedere chi ha fatto peggio tra il venditore e i compagni perché mi pare che entrambi abbiano usato quei corpi, il primo chiedendo si spogliassero per vendere e i secondi coprendoli e poi facendo caciara in nome della difesa della dignità delle donne.
Il punto è che le donne non sono merce, è vero, ma non lo sono neppure in senso lato, neppure per accreditare azioni che personalmente giudico lesive del diritto all’autodeterminazione di ciascun@ perché vorrei capire dove sta la differenza tra questa azione, in termini simbolici intendo, e un bombardamento in Afghanistan in nome delle donne.
Comunque eccovi il loro comunicato e le immagini e per un aggiornamento leggete QUI.
>>>^^^<<<
VERGOGNA!! Il corpo delle donne non è una merce da mettere in vetrina!
E’ questa l’idea di lavoro che ha in mente per i giovani il noto megastore di elettronica di piazza Quattro Giornate “Dino Galiano”? Erano ormai giorni che passando per piazza Quattro Giornate si assisteva al triste spettacolo di nostre coetanee ridotte a “merce animata”, messe in una vetrina a ballare in abiti corti e provocanti, per far vendere qualche televisore di più. A tutto questo come ragazzi del quartiere riuniti nel collettivo “Zona Collinare in Lotta” abbiamo deciso di dire basta. Intorno alle 19,30 di oggi martedì 14 dicembre, abbiamo messo in scena una protesta.
Con i nostri giubbotti abbiamo oscurato il degradante spettacolo. Da subito si è radunata una piccola folla di passanti che ci ha manifestato tutto il proprio appoggio. Applausi e urla di disapprovazione verso Dino Galiano hanno fatto subito comprendere allo store che la festa era finita. Tutti i clienti sono stati fatti uscire in fretta e furia e le serrande abbassate. Inutile sottolineare come subito dalla vicina caserma si siano precipitati un po’ di carabinieri a dar manforte ai gorilla di Dino Galiano che con modi a dir poco intimidatori cercavano di allontanarci dalla pubblica via.
E’ meglio che Galiano così come tutti gli altri padroni, capiscano che nel nostro quartiere non c’è posto per chi, in nome del profitto, vuole speculare e mercificare sul corpo delle donne!
Zona Collinare in Lotta
Pubblicato anche su Femminismo a Sud.
Bombardamento su Yarmouk, campo profughi palestinese
Questo il campo profughi palestinese di Yarmouk poco fa..

Yasser e Lama, fratello e sorella del campo profughi palestinese di Yarmouk, della periferia di Damasco, uccisi durante gli scontri del 13 dicembre
le parole per descrivere queste immagini sono pochissime.
Girate all’ingresso di una moschea stracolma di persone, vista la difficile situazione che si vive nel campo, soprattutto da un paio di settimane a questa parte.
Dopo 12 giorni di intensi scontri nel campo situato nella periferia di Damasco, lo storico leader del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina -Comando Generale- Ahmed Jibril, fedelissimo di Assad, ha lasciato la zona per la lontana Tartous, cittadina costiera siriana.
Poco dopo aver lasciato il campo profughi l’aviazione siriana ha bombardato una moschea del campo: sembrano una ventina i morti immediatamente successivi all’attacco, come si può vedere dalle immagini.
Tutti profughi palestinesi, ovviamente. Che si vanno ad aggiungere ai numerosi di questi ultimi giorni, soprattutto nell’attacco dello scorso giovedì, che ha visto colpire diverse abitazioni causando la morte di molti bambini.
3 occupazioni sotto sgombero a Roma: aiutiamole a resistere!

Valle Fiorita resiste, foto di Monia Cappuccini
Sono 3 le occupazioni sotto sgombero da questa mattina:
tutte neo occupazioni di luoghi abbandonati, vuoti, sfitti, lasciati a sè stessi e che da pochi giorni avevano ripreso vita, colore e avevano offerto un’abitazione a centinaia di famiglie.
Dalle otto di mattina i blindati circondano l’occupazione di Via di Torrevecchia 156, lo studentato Alexis in Via Ostiense 124 e l’occupazione di Ponte di Nona.
Le altre resistono ma necessitano della solidarietà attiva di tutte e tutti noi.
IL DIRITTO ALLA CASA NON SI TOCCA.
GUAI A CHI CI TOCCA!
Ascoltate RadioOndaRossa per info in diretta
11.30: sgomberate due palazzine su 4 a Ponte di Nona: continua la resistenza sui tetti
12.20: La polizia va via sia da Torrevecchia che da Anagnina: SOLO LA LOTTA PAGA!!!
Basta: Triaca,torturato da “De Tormentis”, richiede la revisione del processo. Ora non possono più far finta di niente
Dal blog Insorgenze
Dopo le ammissioni di Nicola Ciocia, il funzionario di polizia che lo torturò, e la testimonianza dell’allora commissario Salvatore Genova, Enrico Triaca chiede la revisione del processo che portò alla sua condanna per calunnia. L’istanza depositata dagli avvocati Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo davanti alla corte d’appello di Perugia non mira soltanto all’annullamento del processo farsa che finì con una condanna per calunnia ad un anno e quattro mesi di carcere, che si aggiunse a quella per appartenenza alle Brigate rosse ed in un primo momento anche per il sequestro Moro. L’obiettivo è quello di fare luce sull’esistenza di un apparato di polizia parallelo che con il mandato del governo venne messo in piedi per condurre le indagini sulle organizzazioni rivoluzionarie armate ricorrendo alla tortura
di Marco Grasso e Matteo Indice
Il Secolo XIX 12 dicembre 2012
Per piegare il terrorismo lo Stato italiano fece ricorso alla tortura. Un’accusa che allora, quando a lanciarla era Enrico Triaca, tipografo delle Br coinvolto nel sequestro Moro, finì con una condanna per calunnia. Era il 1978. Oggi, a trentaquattro anni di distanza, l’ex brigatista chiede la revisione del processo: «Era tutto vero». Un atto che potrebbe riaprire una delle pagine più oscure degli anni di Piombo: l’attività di alcuni corpi speciali, che agivano sotto copertura, conosciuti come “I cinque dell’Ave Maria” e “I vendicatori della notte”.
A confermare l’esistenza di un nucleo “parallelo” all’interno della polizia, nel corso degli anni, sono stati alcuni ex funzionari. Ne parlò Salvatore Genova, superinvestigatore che nel gennaio del 1982 liberò il generale americano James Lee Dozier, prigioniero delle Brigate Rosse. Poi anche Nicola Ciocia, anche lui ex poliziotto, che in quelle missioni speciali si celava dietro allo pseudonimo “Professor De Tormentis”. Ciocia, convinto che il fine giustificasse in mezzi («era per il bene dell’Italia»), raccontò la sua verità in un’intervista al Secolo XIX. Tra le rivelazioni anche quella di aver praticato ciò che allora veniva chiamato il «trattamento dell’acqua e sale». Una forma di interrogatorio divenuta famosa in tutto il mondo dopo la guerra in Iraq come waterboarding, tortura che simula l’annegamento del detenuto.
Quelli che fino a ieri erano frammenti sconnessi, adesso sono i pezzi di un mosaico coerente. A rimetterli insieme è una corposa indagine difensiva condotta da Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo, avvocati di Triaca, e presentata alla Corte d’Appello di Perugia. In gioco non c’è solo l’annullamento di un processo, finito con una condanna a un anno e quattro mesi di carcere, arrivata dopo quella per banda armata.
L’obiettivo dichiarato del ricorso è quello di far luce su una delle pagine più oscure del dopoguerra italiano: «È molto facile indignarsi e criticare la tortura quando viene praticata in altri paesi – spiegano – È molto facile zittire con una condanna per calunnia, chi ha denunciato di essere torturato. È difficile, anzi, impossibile, affrontare la propria cattiva coscienza anche se appartiene al passato».
A descrivere il waterboarding è lo stesso Triaca, al blog Insorgenze, punto di riferimento della sinistra più estrema: «Fui prelevato dalla questura, bendato e caricato su un furgone. Mi introdussero in una stanza, mi spogliarono e mi legarono alle quattro estremità di un tavolo, con la testa fuori. Qui, accesa la radio al massimo, iniziò il “trattamento”. L’istinto è quello di agitarti nel tentativo di prendere aria, ma riesco solo a ingoiare acqua. “De Tormentis” dava gli ordini. Dopo un po’ che tieni la testa a penzoloni i muscoli cominciano a farti male e a ogni movimento ti sembra che il primo tratto della spina dorsale ti venga strappato dalla carne».
L’esistenza di una «struttura organizzata» emerse già in un’inchiesta della Procura di Padova degli anni Ottanta, che indagò sulle sevizie commesse ad alcuni membri delle Br, senza riuscire a individuarne gli autori. A colmare quel vuoto, nel 2007, è il capo della squadra, Nicola Ciocia: «I metodi forti sono stati usati, in emergenza e sempre dopo aver avuto la certezza oggettiva di trovarsi davanti il reo, le cui rivelazioni sarebbero state decisive per salvare delle vite. Ammesso, e assolutamente non concesso, che ci si debba arrivare, la tortura – se così si può definire – è l’unico modo in alcuni casi».
La vicenda è stata anche oggetto di un’interpellanza parlamentare, presentata dalla deputata radicale Rita Bernardini. A rispondere a nome del governo, notano però i difensori di Triaca, si è presentato Carlo De Stefano, sottosegretario agli Interni, all’epoca dei fatti «uno dei poliziotti che parteciparono al suo arresto».
Per più informazioni a riguardo (su De Tormentis ed Enrico Triaca), da questo blog:
– Il pene della Repubblica
– Ma chi è il professor “De Tormentis”?
– Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
– De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
– Una lettera all’albo degli avvocati di Napoli
– Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
– La sentenza esistente
–Seconda parte del testo di Triaca
– L’interrogazione parlamentare presentata da Rita Bernardini
– ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
– Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto
– L’interrogazione parlamentare cade nel vuoto
CIE: banane ed evasioni …
La mattina dopo stiracchiamenti vari, cappuccino, e necessari passaggi igienico-sanitari consiglio a tutte e tutti coloro che mi leggono,
di aprire il sito Macerie,
occhio attento e vigile sull’universo dei lager della nostra splendida, democraticissima, civile società: i Centri di Identificazione ed Espulsione.
Un occhio vigile sopratutto su chi riesce a fuggire, evadere, riappropriarsi della propria libertà…
per quello ve lo consiglio,
perché non c’è cosa più bella di “una bella” , quindi diffondiamone la voce, quando accade…
O quando ci si prova…
W le lime, W la libertà,
W i complici di ogni evasione.
Il post che leggerete qui sotto è tratto da QUI
Un bel cesto di Banane. Banane di Porta Palazzo, s’intende, banane ripiene di lime. Non un lime nel senso di frutto tropicale, ma proprio cinque seghetti da ferro, di quelli buoni per segare le sbarre. Le banane in questione erano in un pacco che un anarchico di Torino ha portato mercoledì pomeriggio all’ingresso del Cie di corso Brunelleschi, ma purtroppo le lime sono state beccate.
«Che faccia tosta! – esclama la guardia dopo la scoperta – immaginare che a consegnare nelle mani di un prigioniero gli strumenti per riguadagnarsi la libertà fosse proprio un ignaro poliziotto.» «Questo ha letto troppi fumetti!» ridacchiano in questura e nelle redazioni dei giornali. «Che ingenuo! – sentenzia il saggio – non sa che esistono i metal detector?» «E che stolto! – gli fa eco il prudente – non poteva farle portare da qualcuno meno in vista che passasse inosservato?»
Se a poliziotti e giornalisti è buona usanza non rispondere, a tutti gli altri vale forse la pena di dir qualcosa. Ai saggi, basta ricordare tutte le volte che nel recente passato i prigionieri del Cie di Torino (e non solo) le sbarre le han segate per davvero, e che quindi dei seghetti in qualche modo saranno pur entrati, anche se chi sia riuscito a gabbare i controlli, e in che modo, non è dato sapere. Ai prudenti, diciamo semplicemente che non si può aspettare che un altro faccia quel che va fatto, che non si può delegare agli altri quel che la coscienza detta di fare.
Forse le banane non sono il posto migliore per imboscarle, ma l’unica domanda da porsi riguardo alle lime da ferro, dunque, non è tanto se sia possibile farle entrare o chi possa farlo, ma per l’appunto il come riuscirci. Per scoprirlo, occorrerà semplicemente provarci e riprovarci ancora, e sempre, o fino a quando non ci saranno più sbarre da segare.
Un anno e mezzo di lime (senza banane)
Nell’aprile 2011 una ventina di reclusi tentano di evadere dal Cie di Bologna. Si sono aperti un varco tagliando una sbarra di ferro e poi hanno scavalcato la seconda recinzione: in quindici guadagnano la libertà, altri vengono fermati dalla polizia. Soltanto il giorno dopo, durante una perqusizione, verranno ritrovati alcuni seghetti artigianali usati per l’evasione.
Nel settembre 2011, in due differenti evasioni, più di trenta reclusi scappano dal Cie di Torino. Il 9 settembre ce la fanno in dodici: lavorando con dei seghetti da ferro per più di un mese, i reclusi dell’area viola si erano preparti un varco nella rete e si erano costruiti pezzi di metallo affilati per tenere lontane le guardie durante la fuga. Durante le perquisizioni effettuate nei giorni successivi, la polizia non troverà traccia dei seghetti, rimasti forse ben nascosti in qualche angolo segreto del Centro. Non passano neanche due settimane e il 22 settembre scoppia una sommossa nel Centro. Le serrature delle gabbie, danneggiate di nascosto nei giorni precedenti, vengono scardinate e si aprono nuovi varchi nelle reti. La polizia riesce a fermare e arrestare dieci fuggitivi, ma in ventidue riescondo ad evadere.
Nel dicembre 2011, sempre dal Cie di Torino, evadono ventisei reclusi. La notte di Natale, approfittando della carenza di personale e del mancato intervento del fabbro per riparare i danni alle gabbie, i reclusi di tutte le sezioni maschili inziano una sommossa. Quasi contemporaneamente escono dalle gabbie, attraverso varchi aperti nelle reti o forzando le porte. Molti vengono fermati, ma in ventuno riescono ad evadere. Nei giorni successivi la Polizia alza il livello di guardia e in una delle tante perquisizioni viene ritrovato un seghetto. I reclusi non si perdono d’animo e la notte di Capodanno ci riprovano. Nonostante la Questura avesse riempito il centro di carabinieri in antisommossa, i ragazzi dell’area blu escono dopo aver forzato la porta, si scontrano con le guardie, e iniziano a scavalcare il muro di cinta. Le volanti che controllavano il perimetro esterno del Centro riescono a catturare un solo evaso, altri cinque invece sono liberi.
Nel maggio 2012 è il turno dei reclusi del Cie di Modena. Il 12 la Questura ordina una perquisizione a sorpresa nel blocco 6 e scoppia una sommossa. Poliziotti e militari vengono aggrediti da una sessantina di reclusi armati di sbarre di ferro e sono costretti a rimandare la perquisizione. Aluni giorni dopo gli agenti riescono a fare irruzione nel blocco e trovano dieci metri di lenzuola di carta annodate e quattro seghetti nascosti in un bocchettone dell’impianto di aerazione. La Polizia, forse convinta di aver sventato il piano dell’evasione, abbassa la guardia e canta vittoria sui giornali. Evidentemente i seghetti avevano già fatto il loro lavoro, e infatti un paio di giorni dopo una dozzina di reclusi riesce ad evadere dal Centro.
macerie @ Dicembre 9, 2012
Quattro anni come fossero un giorno: Alexis
Dal blog PrimaDellaPioggia, di Marco Clementi, che in questi anni ha avuto modo di vivere molto Atene, le sue piazze, la repressione e il desiderio di cambiare drasticamente il proprio presente, o di abbatterlo (so’ un po’ invidiosa 🙂 )
Grazie a Marco, vi consiglio di seguire il suo blog.
Qui invece il mio di ricordo, con molti link: LEGGI Leggi anche Infoaut: QUI

Sono trascorsi quattro anni dall’assassinio di Alexis Grigoropoulos e da quella che in Grecia chiamano “l’ultima dekemvriana” (rivolta di dicembre, con riferimento alla prima, avvenuta tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944). Quattro anni nei quali le Grecia è precipitata in una crisi economica fortissima, che sta tagliando fuori dal mondo del lavoro trasversalmente intere generazioni. Si trattò, allora, di una cieca reazione contro lo Stato, o di qualcosa di diverso? Oggi è facile rispondere che, allora, furono i giovanissimi a intuire l’avvicinarsi del peggio. E anche se qualcuno può anche pensare a una risposta piena di demagogia, non per questo dobbiamo smettere di affermarlo. Dal giorno della morte di Alexis la gioventù emarginata dalla politica economica delle multinazionali e della grande finanza ha iniziato a cercare modi per esprimere la propria opposizione a un sistema politico-economico che la stava strangolando, privandola di ogni futuro.
L’iniziale “contro tutti” si è presto convertito in consapevolezza . Tra il 2009 e oggi le iniziative di solidarietà, sul sistema, sul rapporto con la propria storia e l’Europa, in Grecia si sono moltiplicate. E con l’aggravarsi della situazione economica è scesa in piazza gente che mai lo avrebbe ritenuto possibile.
Non solo. Con loro sono scesi in piazza giovani in tutta Europa per esprimere la loro rabbia per l’omicidio di Alexis e solidarietà al movimento greco e alla sua gente. Come in Grecia, in altri paesi sono cominciati i suicidi a causa della situazione economica; la forma estrema di protesta.
Il capitale ha risposto con una campagna stampa di livello europeo contro la Grecia e i greci: gli ingrati, quelli che non lavorano, quelli che vogliono la pensione facile, che sono nazionalisti e incoscienti. Alimentando involontariamente quello stesso nazionalismo che si stigmatizzava: Alba Dorata, il partito neonazista greco che ora siede addirittura in parlamento, è stata una delle risposte. Risposta che dovrebbe mettere in guardia, ma che sta passando abbastanza in silenzio. Vedremo quando i nazi si accomoderanno anche sulle poltrone del Parlamento Europeo.
Il capitalismo è in crisi. Una crisi economica, politica e sociale. E non c’è guerra, fino ad oggi, che lo aiuti. Non era mai accaduto in passato.
Il suo richiamo non è più così incantatore, il disegno di una ipotesi di benessere collettivo e generalizzato è fallito e in alcuni paesi in forte crescita, o in cerca di nuove strade (dall’America Latina ai paesi arabi), si sperimentano situazioni inedite.
La Grecia deve essere salvata, ha affermato di recente Angela Merkel, perché è un interesse strategico della Germania (e delle sue banche). Ma il gioco è finalmente alla luce del sole.

Foto di ORESTIS PANAGIOTOU: lo striscione recita ASSASSINI
Assemblea Pubblica al nuovo studentato occupato a Roma: Casa dei precari Alexis
COMUNICATO DI LANCIO DELL’ASSEMBLEA DI VENERDì 7 ALLE18—
STUDENTATO/CASA DEI PRECARI –ALEXIS
Ieri abbiamo occupato lo stabile in via Ostiense 124 e lo abbiamochiamato Alexis ,
perché quando diciamo che i compagni/e vivono nellelotte, ci crediamo veramente.
Infatti la giornata di ieri è stata una grande giornata di lotta, una giornata di cortei, di occupazioni e di risposta reale .
Lo avevamo detto, scendere in piazza a consumare le strade non ci basta più, cominciamo a portare elementi di proposta, luoghi dove sperimentare il comune e le possibilità oltre l’esistente, oltre il capitalismo.
Alexis vuole essere uno spazio aperto alla città, vuole essere una risposta abitativa per gli studenti che non hanno alcuna agevolazione da parte delle università dal punto di vista di alloggi che vengono messi in affitto e nei quali l’accesso è sempre più limitato se non sconveniente, visto il decentramento degli alloggi che spostano il problema abitativo con quello della mobilità, oltretutto concepiti come mini-caserme (documenti all’entrata).
Ma Alexis vuole anche uscire dalla situazione prettamente studentesca in quanto poi parlare di soggetto studente oggi è qualcosa di molto difficile , preferiamo parlare di precari in formazione, essendo questo soggetto inserito da subito nella totale precarietà, e quindi pensare ad una casa anche dei precari e delle precarie in un contesto sociale e con un mercato del lavoro non solo disastroso, ma sempre più portato verso il baratro da parte delle misure di austerity messe in campo per il mantenimento del sistema economico-politico.
Tutti noi siamo già da tempo nella giungla della precarietà e ci ritroviamo nel “gioco” delle 47 modalità contrattuali o a nero a dover accettare lavori sottopagati e prese in giro varie, qualcosa di sempre più diffuso, ma la necessita di non accettare questa condizione si fa sempre più forte.
Alexis quindi si colloca in uno spazio cittadino, di una citta dove l’abuso edilizio e la speculazione sono altissimi, dove sono più le case senza persone che le persone senza case, ma anche direttamente nello spazio territoriale dove a pochi metri si compie una grandissima speculazione su quello che era l’ex “quartier generale” Acea tenuto in affitto al costo di un miliardo e mezzo l’anno da partedella regione , vuoto e frutto delle speculazione di più privati, aziende , costruttori noti e in un territorio che subisce fortemente in maniera negativa la presenza di una grande fabbrica, la fabbrica del sapere di Roma3.
Allo stesso tempo Alexis vuole collocarsi in uno spazio transnazionale ed Europeo, perché sente forte il bisogno di una connessione e di generalizzare il conflitto in tutti gli ambiti sociali, sente il forte bisogno di cambiamento e di alterità, vuole darsi come tendenza lo sciopero sociale.
Rivendichiamo reddito, perché non vogliamo piegarci al ricatto del lavoro sottopagato e dello sfruttamento e lo facciamo riprendendocene un pezzetto, smettendo di pagare l’affitto e le case, i soldi che buttano, con cui speculano, devono cominciare a darli alle persone.
Stamattina hanno sgomberato l’occupazione di Sette Camini e, mentres criviamo, sappiamo essere in atto altri tentativi di sgombero, ma anche conseguenti mobilitazioni per rispondere subito ad ogni intimidazione;
noi portiamo la nostra vicinanza e complicità e sappiamo tutti e tutte che anche se sgomberati,
Oggi pomeriggio invitiamo tutte le realtà di movimento , tutti soggetti, singoli, gli abitanti del quartiere, studenti e chiunque voglia, ad intervenire e a prendere parola con noi in un’ASSEMBLEA PUBBLICA CITTADINA e a sentirsi complici di un progetto ed una prospettiva, che tende al cambiamento non solo possibile ma necessario.
APPUNTAMENTO ORE 18
IN VIA OSTIENSE 124
“Non c’è diffamazione”. Ex-brigatista in semilibertà – Saviano: 1 – 0
Querela senza fondamento». Per la procura va archiviata la denuncia per diffamazione a mezzo stampa presentata contro due miei articoli apparsi su Liberazione nell’autunno del 2010. Saviano si oppone. Il 15 gennaio 2013 udienza davanti al Gip
«Questo Pubblico Ministero ritiene che la notizia di reato sia infondata e che non vi siano i presupposti per l’esercizio dell’azione penale».
Non lascia scampo il giudizio espresso dal pubblico ministero Francesco Mìnisci sulla denuncia-querela di natura penale depositata il 12 gennaio 2011 dall’avvocato Antonio Nobile di Caserta, per conto di Roberto Saviano, nei miei confronti e contro il mio direttore dell’epoca, Dino Greco, nelle rispettive vesti di direttore responsabile e giornalista del quotidiano Liberazione, per due miei articoli pubblicati il 14 ottobre 2010, “«Non c’è la verità storica». Il centro Peppino Impastato diffida l’ultimo libro di Saviano” (leggi qui) e il 10 novembre 2010 “«Vieni via con me». Ma dove va Saviano?” (leggi qui).
La vicenda l’avevamo anticipata in un articolo apparso su Liberazione del 16 aprile 2011 (“Saviano e il brigatista”, leggi qui). Tuttavia, come spiegavo in quel testo, all’epoca non eravamo esattamente a conoscenza del contenuto della querela e dunque delle motivazioni che avevano spinto Saviano a denunciarci. Con un certa difficoltà, e soltanto dopo molte settimane (il pm dell’epoca, dottor di Salvo, oppose insistentemente il segreto istruttorio), venimmo a sapere unicamente quali fossero gli articoli che avevano infastidito l’autore di Gomorra. Da allora più nulla fino alla metà dell’ottobre scorso, quando ci è giunta la notizia della richiesta di archiviazione, presentata dal sostituto procuratore che nel frattempo ha ereditato il fascicolo, e della opposizione depositata il 24 settembre 2012 dal legale di Saviano. Ma per avere tutti gli atti in mano abbiamo dovuto aspettare ancora altro tempo per la digitalizazzione del fascicolo che ci è pervenuto solo il 7 novembre.

Persichetti il giorno del “rapimento”
Pubblicheremo tutto perché questa vicenda merita il massimo di pubblicità e trasparenza. Come d’altronde paradigmatica è l’altra vicenda, quella della citazione in giudizio (l’apertura di una causa civile dunque), con l’esorbitante richiesta di oltre 4 milioni di euro di risarcimento, che Saviano ha promosso contro Marta Herling, segretario generale dell’Istituto Italiano di Studi storici e nipote di Croce (leggi qui), che aveva osato contestare la ricostruzione fatta da Saviano del salvataggio del filosofo napoletano durante il terremoto di Casamicciola (leggi qui). Causa civile promossa anche contro l’editore e il direttore, Marco Demarco (leggi qui), del Corriere del Mezzogiorno.
La richiesta di archiviazione
Nell’esporre le ragioni del querelante, al dottor Mìnisci non sfugge uno dei passaggi salienti e rivelatori presenti nella denuncia avanzata da Saviano, lì dove nel tentativo di dimostrare che i testi additati avessero «ampiamente trasceso il diritto di critica e di cronaca», l’estensore della querela afferma che il mio obiettivo non sarebbe stato quello di informare e suggerire elementi di riflessione ma di «aggredire a mezzo stampa» lo scrittore campano, non facendo altro che «vomitare il proprio odio ossessivo e ossessionato nei confronti di un soggetto, del quale non si preoccupa minimamente di commentare, criticare, stigmatizzare le azioni, ma rispetto al quale esprime un ‘verdetto’» (pag. 6 dell’atto di denuncia-querela). Il che è tutto dire per una denuncia dove si lamentano ingiurie e contumelie.
Per il procuratore tuttavia le cose non stanno affatto così: le critiche rivolte da Persichetti allo scrittore Roberto Saviano – scrive nella richiesta di archiviazione: «possono infatti dirsi ampiamente ricompresse entro i limiti di operatività della scriminante» che la Cassazione «esaminando le frequenti interferenze tra l’esercizio dei diritti di cronaca o di critica e il reato di diffamazione a mezzo stampa» ha individuato da diverso tempo.
Ad avviso della Suprema corte – si sottolinea sempre nel testo della procura – la condotta non è esente da rilievi quando «siano rispettati i limiti di verità del fatto narrato, di pertinenza, costituita dall’oggettivo interesse che detti fatti rivestono per l’opinione pubblica, e di continenza, ossia della correttezza con cui gli stessi vengono riferiti, essendo al contrario estranei all’interesse sociale che giustifica la scriminante in parola ogni inutile eccesso e ogni aggressione alla sfera morale della persona».
Formulazione che – si spiega sempre nel testo – individua il giusto equilibrio tra la tutela costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero umano (art. 21 Cost.) e il rispetto degli altri dettati costituzionali posti a garanzia della dignità della persona.
Delineate le linee guida della dottrina in materia di diffamazione ed esercizio della libertà di pensiero, il pm entra nel merito della controversia e spiega perché ritiene di non poter accogliere la querela:
– «In primo luogo, ricorre senza dubbio l’obiettivo interesse pubblico delle questioni sollevate dal giornalista, ove si tenga presente la notorietà di Saviano e la vasta risonanza che già da diversi anni la sua attività letteraria e televisiva incontra nel dibattito italiano. Entrambi gli interventi del giornalista riguardano la dimensione pubblica del querelante, il suo interesse per il fenomeno della criminalità organizzata, le sue analisi e le opinioni affidate a libri e programmi televisivi ad ampia diffusione, destinati, per la natura delle tematiche affrontate, a provocare discussioni e a sollevare inevitabili polemiche».
– «In secondo luogo, non sembra che le espressioni utilizzate da Persichetti nella formulazione dei suoi giudizi possano considerarsi gravemente lesive della reputazione del querelante. Malgrado il tono dei due articoli (e, in modo particolare, del secondo) sia a tratti aspro, pungente e caustico, non sembrano esserci gli estremi per poter affermare che si sia trasmodato nell’attacco personale e nella pura contumelia. Le valutazioni dell’autore, infatti, attengono e fanno continuo riferimento a circostanze precise e ben definite (i contenuti del libro “La parola contro la camorra”, la querelle che ne è seguita con il Centro Peppino Impastato e le posizioni assunte da Saviano sui temi dell’antimafia, nel primo caso; le sue qualità comunicative e l’impostazione – secondo il giornalista – autocelebrativa del programma televisivo “Vieni via con me”, nel secondo caso) e vengono presentate al lettore come il frutto di interpretazioni soggettive e di opinioni personali, certamente opinabili ma senza alcun dubbio ammissibili e legittime».
«Del resto, non va dimenticato – conclude il dottor Mìnisci – che “in materia di diffamazione a mezzo stampa. il diritto di critica va riconosciuto nei confronti di persone la cui voce e immagine abbia vasta risonanza presso la collettività grazie ai mezzi di comunicazione, anche quando si manifesti in forma penetrante e a volte impietosa” (Cass. pen. Sez. V, n. 11664/1995)».
Saviano non ci sta
Il pupillo della “Roberto Santachiara literary agency” ha accolto male la decisione della procura e tramite il suo legale ha presentato opposizione censurando duramente le conclusioni della procura, accusata di non aver svolto indagini accurate, chiedendo al Gip di «emettere una ordinanza nella quale imporre al rappresentante dell’Ufficio del Pubblico Ministero l’esercizio dell’azione penale» ed in via «meramente subordinata» di «ordinare al magistrato del pubblico ministero lo svolgimento di ulteriori indagini», accogliendo come «ulteriore tema di investigazione l’escussione della persona offesa […] anche allo scopo di ottenere dallo stesso elementi per un, eventuale, ulteriore ampliamento delle indagini».
Vero oggetto del contendere per Saviano non sarebbe la notizia che fu all’origine dell’articolo del 14 ottobre di due anni fa, ovvero la diffida che il Centro Impastato e i familiari di Peppino avevano inviato ad Einaudi, editore di La parola contro la camorra, perché ripristinasse un minimo di correttezza storica nella narrazione della battaglia per la verità sull’assassinio di Impastato, ma un episodio “accessorio” nell’economia dell’articolo che tuttavia per Roberto Saviano ha assunto un significato capitale: la presunta telefonata che Felicia Impastato, madre di Peppino, gli avrebbe fatto nell’estate del 2004. Episodio che Saviano racconta con dovizia di particolari in un altro libro, La bellezza e l’inferno, ma che viene smentito da testimoni fondamentali.
Secondo Saviano la frase colpevole è la seguente:
«In un’altra occasione aveva anche raccontato di una telefonata ricevuta dalla madre di Impastato, «che abbiamo verificato non essere mai avvenuta» ha spiegato Umberto Santino».
L’autore di Gomorra ritiene l’affermazione di Santino, presidente del Centro Impastato, «una falsità», parla di lui come di un personaggio sconosciuto ma che tuttavia non ha avuto il coraggio di querelare, rivolgendo i suoi strali unicamente contro il direttore di Liberazione e me stesso (ritenendomi forse l’anello debole, la figura più vulnerabile e delegittimata della catena) per non aver verificato – a suo dire – il fondamento della notizia (un vero paradosso che Saviano rivolga a me un rimprovero del genere, visto il suo irrisolto rapporto con le fonti) e non averlo interpellato prima di redigere il testo, quando è evidente il riferimento, seppur implicito per ragioni di spazio e pertinenza dell’articolo, ad un suo precedente scritto che nonostante la sintesi estrema riassume correttamente la sua posizione.
Sul merito dell’affermazione di Santino, che è tornato sulla vicenda in un libro, Don Vito a Gomorra. Mafia e antimafia tra papelli, pizzini e bestseller, Editori Riuniti Univ. Press 2011, ne discuteremo, per ora, davanti al Gip.
In questo siamo rispettosi della scelta fatta a suo tempo da Saviano stesso che, se solo avesse voluto, avrebbe potuto scrivere all’epoca a Liberazione per ribadire la sua versione della vicenda. Sarebbe stata un’occasione per appurare la realtà dei fatti, facendo intervenire pubblicamente anche gli altri protagonisti, ma evidentemente è proprio la natura pubblica del confronto che deve infastidirlo, la possibilità di essere contraddetto. Saviano non discute, sentenzia.
Ricorrendo all’intimidazione della querela Saviano ripropone la vecchia disputa tra principio d’autorità, che evidentemente pretende di incarnare e chiede che venga puntellato dalla magistratura, e metodo della verifica delle fonti, che per definizione non guarda in faccia a nessuno.
L’anticipazione della condanna
Qualunque sial’esito finale di questa storia un’anticipazione della condanna è già avvenuta, grazie ai meccanismi inquisitori del carcere, alla sola notizia della querela senza che ancora ne fossero noti i contenuti o che i giudici naturali, previsti dalla legge, si fossero pronunciati sul suo fondamento.
Ho già raccontato altrove l’episodio:
All’epoca il contenzioso riguardava la richiesta di copia degli articoli indicati nella denuncia-querela avanzata contro di me da Roberto Saviano.
Articoli ritenuti – a detta della nuova responsabile di reparto – fondamentali per una compiuta valutazione dell’osservazione trattamentale. E perché non valutare anche le lezioni che tenevo all’università di Paris 8?
Lasciamo correre il manifesto profilo di incostituzionalità di una pretesa del genere. Un fatto di una abnormità gigantesca passato sotto silenzio.
Qualcosa di analogo mi era già accaduto al Mammagialla di Viterbo alcuni anni prima, quando il magistrato di sorveglianza del posto si oppose ai permessi di uscita per un mio libro, Esilio e castigo, (vedi qui e qui).
Tuttavia nel febbraio 2011 l’oggetto del contendere non poteva nemmeno essere una discussione del genere. In quel momento, infatti, non ero nemmeno a conoscenza del contenuto della querela e quindi degli articoli denunciati (in procura nonostante le ripetute richieste hanno sempre opposto il segreto istruttorio), poiché mi era stato notificato un semplice verbale di elezione di domicilio – di cui avevo fornito copia alla Direzione – nel quale si indicava unicamente il numero di protocollo del procedimento senza altre informazioni.
Per giunta la richiesta della responsabile di reparto (se è vero che gli articoli dovevano essere analizzati per redigere l’osservazione scientifica della personalità) aveva una tale portata formale che non era possibile indicare dei testi prima di averne ricevuto comunicazione ufficiale da parte della procura.
A ben vedere, dunque, è alla procura che la Direttrice avrebbe dovuto rivolgere la sua richiesta, non certo a me.
Di fronte ad una tale oggettiva impossibilità, trattandosi in ogni caso di articoli diffusi nello spazio pubblico, consigliai la Direttrice di recarsi sul sito web di Liberazione, dove allora lavoravo, e cliccare il mio nome per avere completa visione di tutti i miei testi.
Il suggerimento venne recepito come un rifiuto di «rapportarsi correttamente con l’Amministrazione».
Ecco come l’episodio venne raccontato nella Relazione di sintesi sulla osservazione della personalità:«Si è accennato alla diatriba con lo scrittore Roberto Saviano.
All’inizio del 2011, come riportato sulla stampa e in internet (che ospita vari articoli al riguardo), si è verificata una schermaglia tra il Persichetti ed il suo editore da una parte, ed il Saviano dall’altra, nascente da affermazioni di quest’ultimo sul caso dell’omicidio di Giuseppe Impastato, affermazioni ritenute dalla controparte false o, quanto meno, superficiali.
La vicenda è sfociata nella presentazione di una querela per diffamazione da parte del Saviano nei confronti del Persichetti e del suo editore. La Direzione dell’Istituto ne è stata informata formalmente dalla Polizia di Stato.
Il 02.03.2011 il Persichetti, durante un colloquio col Direttore di Reparto riguardante proprio tale vicenda, è stato invitato a produrre gli articoli relativi alla querelle, al fine di avere un quadro della situazione; ha percepito come atteggiamento “censorio” la richiesta formulatagli dal dirigente e per tutta risposta gli ha detto chiaramente che gli scritti sono liberamente accessibili su internet e che non vedeva la necessità di doverli produrre lui.
Si è pertanto ritenuto di dover informare dell’accaduto e dell’atteggiamento tenuto dal semilibero il Sig. Magistrato di Sorveglianza».Per dare luogo a questa considerazione finale:
«La forma mentis del Persichetti lo conduce ad avere talora, un atteggiamento “paritario” (anche se tale aggettivo rischia di acquisire una valenza negativa) nei confronti di un’Amministrazione verso la quale, comunque, egli deve rispondere del proprio comportamento e non trattare da pari: il tutto, ovviamente, nel rispetto del diritti della persona. Talora però nel soggetto pare vi sia una difficoltà a rendersi conto che, a differenza di quanto accade in un rapporto tra persone fisiche, rapportarsi con l’Amministrazione richiede una diversa “dialettica”, fatta – anche obtorto collo – di una puntuale esecuzione delle direttive o anche, delle sole indicazioni fornite dalla stessa e dai suoi operatori».
Udienza fissata martedì 15 gennaio 2013 davanti al Gip Barbara Callari, aula 8 edificio A del tribunale di Roma
© Not Published by arrangement with Roberto Santachiara literary agency
La richiesta di archiviazione
Link
Attenti, Saviano è di destra, criticarlo serve alla sinistra
Non c’è verità storica: il Centro Peppino Impastato diffida l’ultimo libro di Roberto Saviano
Ma dove vuole portarci Saviano
Saviano e il brigatista
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Invece sulla vicenda e l’accanimento giudiziario contro Paolo Persichetti:
–Sanzioni discliplinari e sbarre: ancora su Persichetti
– Una tranquilla giornata di semilibertà
– La domandina: quando il carcere ti educa a chiedere di poter chiedere
– Dovrò spiegare il carcere a mio figlio
– Il carcere e il suo pervadere i corpi
-Paolo Granzotto, il funzionario del carcere e la moralità
Nel carcere di Rebibbia, diritti “a discrezione”
Ringrazio l’avvocato Davide Steccanella per questo articolo sulla vicenda di Paolo, lungamente raccontata in questo blog.
LEGGI ANCHE:
–Sanzioni disciplinari: aggiornamenti sul caso Persichetti
– Una tranquilla giornata di semilibertà
– La domandina: quando il carcere ti educa a chiedere di poter chiedere
– Dovrò spiegare il carcere a mio figlio
– Il carcere e il suo pervadere i corpi
-Paolo Granzotto, il funzionario del carcere e la moralità
Una recente vicenda accaduta presso il carcere di Rebibbia ad un detenuto in semi-libertà ha evidenziato in modo preclaro quella estrema “discrezionalità” che talvolta affligge la applicazione di alcuni dei principali istituti introdotti nel 1975 dalla Legge Gozzini.
Legge che, nelle intenzioni del legislatore di allora, era appositamente finalizzata alla concreta realizzazione di quegli obiettivi di successivo reinserimento sociale del condannato, secondo quanto espressamente previsto dalla nostra Costituzione.
In tal guisa, ed anche per garantire il controllo giurisdizionale sulle modalità di esecuzione della pena, il nostro Ordinamento penitenziario riservava alla esclusiva competenza del Giudice (Magistrato o Tribunale di Sorveglianza) la decisione sulle diverse istanze provenienti dai detenuti (dalla semplice licenza premio alle misure alternative alle detenzione fino alla liberazione condizionale).
Nella “pratica” tuttavia questa decisione finisce il più delle volte con l’essere assunta sulla sola base delle valutazioni di altri e diversi soggetti (note, rapporti etc.), il che significa che, di fatto e molto spesso, risulta decisivo all’accoglimento o meno di un diritto previsto dalla legge, il rapporto personale ed individuale che si crea all’interno del carcere tra il singolo detenuto e chi lo dirige.
Nel caso segnalato risulta abbastanza evidente l’esistenza di una situazione di attrito personale nei confronti del detenuto da parte della direttrice del reparto e risalente, si legge, ad una mancata consegna, da parte del detenuto, che durante il lavoro esterno esercita la professione di giornalista, di alcuni suoi articoli oggetto di una querela per diffamazione, e che si trovavano pubblicati anche on line.
L’ultimo episodio ha riguardato invece la sua mancata accettazione supina di una contestazione in merito alle modalità del lavoro esterno che, nonostante quanto da tempo allegato, gli veniva impropriamente attribuito come mero lavoro trimestrale invece che retribuito trimestralmente.
Tutto questo potrebbe anche rientrare nell’ambito di rapporti personali che possono essere più o meno “riusciti” (come è anche naturale che accada) tra chi sta scontando una pena detentiva e chi è chiamato a vigilare sul funzionamento di un carcere, se poi non determinasse “a cascata” tutta una serie di conseguenze giudiziarie sui diritti del detenuto.
A seguito di quell’episodio infatti, la direttrice avrebbe immediatamente trasmesso al Magistrato di Sorveglianza una sorta di nota disciplinare (“anomala”, giacchè al di fuori dai casi previsti dall’art. 38 della Legge Gozzini) sulla base della quale il Magistrato ha rigettato una richiesta di licenza premio di 1 giorno per ragioni familiari.
Nel provvedimento di rigetto si fa anche riferimento ad un “precedente” costituito da un ammonimento datato 28.01.2012 che tuttavia era stato immediatamente sospeso dal Direttore del carcere già a fare tempo dal 31.01.2012.
Il detenuto ha dovuto quindi successivamente allegare al Magistrato di sorveglianza sia la propria relazione sul fatto accaduto (e che era stata prontamente inviata anche al direttore del Carcere), sia il provvedimento di sospensione di quel citato ammonimento, al fine di reiterare la richiesta di licenza, e per la quale è ancora in attesa.
Già in precedenza, peraltro, in occasione della richiesta di accesso alla misura alternativa dell’affidamento in prova, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 47 O.P, il medesimo direttore di reparto aveva inviato al Tribunale di Sorveglianza chiamato a decidere una relazione di sintesi dove si leggeva testualmente che “la forma mentis del (omissis) lo conduce ad avere talora un atteggiamento “paritario” (anche se tale aggettivo rischia di acquisire una valenza negativa) nei confronti di questa Amministrazione verso la quale egli deve comunque rispondere del proprio comportamento e non, piuttosto, trattare da pari a pari” .
La richiesta di affidamento è stata dunque respinta dal Tribunale.
Il risultato finale di tutto ciò è che un soggetto, detenuto da 14 anni (e da 4 in semi-libertà, e ormai arrivato a 2 anni dal fine-pena), e che fino a tutto il 2011 non aveva mai dato corso ad alcun rilievo disciplinare, dopo l’arrivo di una nuova direttrice di reparto si vede oggi: 1) respingere la domanda di affidamento in prova, 2) negare una licenza premio di 1 giorno e 3) ancora in attesa di vedersi riconosciuti due semestri di liberazione anticipata già maturati dal giugno 2012.
Di tutto ciò è stato informato il Direttore del Carcere di Rebibbia ed è stata presentata una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia firmata dall’Onorevole Rita Bernardini e da altri deputati del PD.
Auspicando che chi di competenza possa attivarsi al più presto, rimane il fatto che, fermo restando il doveroso controllo da parte della Amministrazione penitenziaria sull’effettivo rispetto, da parte dei detenuti, delle regole di disciplina interna agli Istituti di pena, non appare certo conforme alla legge affidare in toto la applicazione dei diritti di un detenuto alla mera discrezionalità personale di chi volta a volta si trova a dirigere il reparto di detenzione.
“Il livello di civiltà di un paese lo si misura dal livello di civiltà delle sue carceri” diceva tanti anni fa l’Onorevole Adelaide Aglietta del Partito radicale, purtroppo occorre ancora una volta constatare come in questo senso non si siano fatti molti passi avanti se ancora oggi si leggono episodi che ci ricordano tanto quel collegio del giovane Giannino Stoppani nella fortunata serie televisiva di Gianburrasca.
Sanzioni disciplinari e sbarre: ancora un aggiornamento su Paolo Persichetti
E’ complicato chiedere scusa al proprio compagno, su un blog.
Ma lo faccio, perché è un modo per farvi capire i meccanismi del carcere.
Scrivo di ogni sopruso che mi cade sotto gli occhi e mi fa tremare il cuore, cerco di capire, di tradurre, di condividere con i tanti compagni che ogni giorno mi leggono, quel che mi scuote i nervi, la rabbia, quel che mi esplode dentro.
Eppure per giorni e giorni e giorni, che son diventate settimane,
non son riuscita a scrivere del sopruso che sventra la mia di carne, quella di mio figlio, quella dell’uomo con cui ho scelto di sfidare tutto, e di costruire tanto. Malgrado loro.
Non una riga, non sono riuscita a metter giù una sola riga, e per una grafomane compulsiva e un po’ isterica come me è cosa preoccupante.
Non una riga su quell’ammasso di meccanismi e accanimenti che si abbattono senza tregua e anche senza appigli legali su di noi.
Così alla fine ancora una volta Paolo scrive di Paolo,
che palle, ti chiedo scusa.
Ti chiedo scusa perché in queste settimane la tua galera mi logora più del solito.
Perché non riesco a star dietro a tutto ciò, ho perso la lucidità dietro a domandine, affidamenti, rigetti, disciplina, educatore, direttrice, sorveglianza, magistrato, licenza, condizionale, sospensione, sanzione, fax, ancora fax, e poi ancora centinaia di fax.
Mi hanno tolto le parole, ci son riusciti.
Son costretta ad usare le tue, stanchissime parole, per raccontare questo scempio.
“e fa freddo. e ti amo”
per altro materiale:
– Una tranquilla giornata di semilibertà
– La domandina: quando il carcere ti educa a chiedere di poter chiedere
– Dovrò spiegare il carcere a mio figlio
– Il carcere e il suo pervadere i corpi
-Paolo Granzotto, il funzionario del carcere e la moralità
Da alcuni giorni arrivano da più parti preoccupate richieste di notizie sulla mia situazione dopo il post del 5 novembre (vedi qui) nel quale raccontavo dei possibili rischi di sanzioni disciplinari per quanto era accaduto il sabato precedente, 3 novembre, durante un surreale incontro con la Direttrice del reparto semiliberi di Rebibbia reclusione.
L’assenza di informazioni aggiornate sulla vicenda e il prolungato silenzio del blog, dovuto a diverse ragioni (sovraccarico di impegni e semi-vita familiare che ho dedicato più del solito a mio figlio), hanno creato un po’ di allarme.
Mi scuso innanzitutto con i compagni, gli amici e i lettori che ringrazio per l’attenzione e la premura dimostratami.
Corro subito ai ripari cercando di spiegare per sommi capi cosa è successo nel frattempo.
La contestazione disciplinare
Col senno del poi posso dire che la decisione di raccontare subito quanto accaduto il mattino di quel sabato è stata una scelta lungimirante. Il lunedì successivo (5 novembre), infatti, al rientro serale in carcere l’ispettore di turno mi ha informato della presenza di una contestazione disciplinare mossa a mio carico dalla Direttrice di reparto protagonista dell’episodio.
Il testo, molto lungo e scritto a mano sul registro delle udienze, era di difficile lettura. Al suo interno si forniva un resoconto incompleto e non corrispondente allo svolgimento dei fatti avvenuti, soprattutto si delineava un profilo disciplinare della mia condotta verbale etichettata come «irrispettosa e offensiva».
Nel testo, che sembrava uscito da una pièce di Ionesco, la responsabile di reparto mi attribuiva frasi prive di senso, frutto di palesi equivoci tipici di chi non ha la capacità di ascoltare, come il fatto che io avessi sostenuto di possedere un “contratto di lavoro trimestrale” mentre avevo inutilmente tentato di spiegare che la mia retribuzione era «a cadenza trimestrale».
Nemmeno uno come Totò nei suoi mirabolanti “quiproquo” con Peppino de Filippo era mai arrivato a tanto.
Il testo della contestazione seppure carico di stizza furiosa aveva comunque del sublime, era qualcosa che toccava i vertici del teatro dell’assurdo. Ma purtroppo per me, come per tutti quelli che vivono questi episodi nel quotidiano del carcere, quella non era una messa in scena ma il realismo carnevalesco della punizione.
La Direzione archivia tutto
Preso atto delle contestazioni ho redatto delle note difensive inviate alla Direzione. A quel punto, secondo quanto previsto dalle norme dell’ordinamento e del regolamento penitenziario che regolano i procedimenti disciplinari, entro 10 giorni dalla contestazione avrebbe dovuto svolgersi un’azione disciplinare nel corso della quale si sarebbero dovuti valutare fondatezza ed eventuale portata dei fatti contestati, per poi decidere se erogare, o meno, una sanzione.
In quei giorni di attesa una domanda dominava su tutte le altre: chi sarebbe venuto a presiedere l’azione disciplinare?
La stessa responsabile di reparto, nella tripla veste di accusa, giudice e presunta parte lesa – eventualità ammessa dall’ordinamento penitenziario – oppure, molto più opportunamente, un altro dirigente d’Istituto?
Il dilemma è rimasto tale perché allo scadere dei 10 giorni non è accaduto nulla.
Con molta saggezza chi è gerarchicamente al di sopra della funzionaria che dirige il reparto Semiliberi ha deciso altrimenti, ritenendo evidentemente infondati i rilievi mossi.
La storia poteva dirsi conclusa qui. E invece no, il veleno è sempre nella coda, ci insegna madre natura.
La nota al magistrato in cui si segnalano «atteggiamenti di arroganza, offesa e di insofferenza nei confronti della Istituzione»
Il 23 novembre mi viene notificato il rigetto di una licenza, di un solo giorno, che avevo chiesto nel fratempo per stare insieme a mia madre il giorno del suo settantasettesimo compleanno.
Leggendolo con attenzione ho scoperto che il rifiuto aveva valore di sanzione per l’episodio del 3 novembre.
Il provvedimento negativo era desunto da una nota proveniente dal carcere (la fonte non è indicata) allegata alla domanda di licenza, protocollata n° 17159/12, inviata il 7 novembre 2012, dunque due giorni dopo la contestazione disciplinare senza esito, nella quale si riferisce dell’arrivo di una «comunicazione circa comportamenti posti in essere dal Persichetti in data 5/11/12 [c’è un errore di data, Ndr] nei confronti della dottoressa Trapazzo, consistiti in atteggiamenti di arroganza, offesa e di insofferenza nei confronti della Istituzione e della singola persona».
Si riportano anche due frasi virgolettate che dovrebbero rappresenare la prova della condotta verbale incriminata. Frasi che però risultano indecifrabili.
Questo provvedimento di rigetto è ancora oggetto di ricorso presso l’ufficio del magistrato, dunque evito di entrare troppo nei dettagli. Il problema evidentemente non è il giorno di licenza rifiutato ma il merito di una sanzione erogata in assenza, non solo di infrazione disciplinare, ma addirittura della procedura prevista per valutarne il fondamento, dunque per un fatto nullo e non avvenuto. “Il fatto non sussiste” è la formula di rito in uso in questo caso.
Così vanno le cose. L’espediente, il ricorso ad una “comunicazione” inviata al magistrato aggirando addirittura le stesse procedure disciplinari, per altro già poco garantiste nei confronti dei detenuti, è l’artificio che può permettere di erogare sanzioni senza alcuna verifica sui fatti, sulla loro sussistenza reale, senza accertamento delle prove, sulla pura base del principio di autorità: in questo caso la parola di una Direttrice di reparto; come a dire che i fatti non esistono ma solo le parole di chi ha l’autorità di pronunciarle.
Quando la stessa Direttrice voleva sindacare il contenuto degli articoli scritti per Liberazione
Ad onor del vero non è la prima volta che mi trovo di fronte ad una cosa del genere. Già nel febbraio del 2011 la stessa dirigente, che da poco aveva assunto le nuove funzioni di responsabile della semilibertà, aveva fatto ricorso al medesimo espediente.
All’epoca il contenzioso riguardava la richiesta di copia degli articoli indicati nella denuncia-querela avanzata contro di me da Roberto Saviano (vedi qui).
Articoli ritenuti – a detta della nuova responsabile di reparto – fondamentali per una compiuta valutazione dell’osservazione trattamentale. E perché non valutare anche le lezioni che tenevo all’università di Paris 8?
Lasciamo correre il manifesto profilo di incostituzionalità di una pretesa del genere. Un fatto di una abnormità gigantesca passato sotto silenzio.
Qualcosa di analogo mi era già accaduto al Mammagialla di Viterbo alcuni anni prima, quando il magistrato di sorveglianza del posto si oppose ai permessi di uscita per un mio libro, Esilio e castigo, (vedi qui). All’epoca la vicenda finì sui giornali (vedi qui).
Tuttavia nel febbraio 2011 l’oggetto del contendere non poteva nemmeno essere una discussione del genere. In quel momento, infatti, non ero nemmeno a conoscenza del contenuto della querela e quindi degli articoli denunciati (in procura nonostante le ripetute richieste hanno sempre opposto il segreto istruttorio), poiché mi era stato notificato un semplice verbale di elezione di domicilio – di cui avevo fornito copia alla Direzione – nel quale si indicava unicamente il numero di protocollo del procedimento senza altre informazioni.
Per giunta la richiesta della responsabile di reparto (se è vero che gli articoli dovevano essere analizzati per redigere l’osservazione scientifica della personalità) aveva una tale portata formale che non era possibile indicare dei testi prima di averne ricevuto comunicazione ufficiale da parte della procura.
A ben vedere, dunque, è alla procura che la Direttrice avrebbe dovuto rivolgere la sua richiesta, non certo a me.
Di fronte ad una tale oggettiva impossibilità, trattandosi in ogni caso di articoli diffusi nello spazio pubblico, consigliai la Direttrice – al fine di consentirle di soddisfare la sua curiosità – di recarsi sul sito web di Liberazione, dove allora lavoravo, e cliccare il mio nome per avere completa visione di tutti i miei testi.
Sapere quale fu il risultato?
Il suggerimento venne recepito come un rifiuto di «rapportarsi correttamente con l’Amministrazione».
L’episodio, oltre ad essere prontamente segnalato all’ufficio di sorveglianza con la solita comunicazione semiclandestina,
«Il 02.03.2011 il Persichetti, durante un colloquio col Direttore di Reparto riguardante proprio tale vicenda [querela da parte di Roberto Saviano Ndr], è stato invitato a produrre gli articoli relativi alla querelle, al fine di avere un quadro della situazione; ha percepito come atteggiamento “censorio” la richiesta formulatagli dal dirigente e per tutta risposta gli ha detto chiaramente che gli scritti sono liberamente accessibili su internet e che non vedeva la necessità di doverli produrre lui. Si è pertanto ritenuto di dover informare dell’accaduto e dell’atteggiamento tenuto dal semilibero il Sig. Magistrato di Sorveglianza».
venne poi abbondantemente sviluppato nella relazione di sintesi con la quale si dissuase il magistrato dal concedermi l’affidamento in prova ai servizi sociali, avendo io l’abitudine (cito questo passo da antologia):
«La forma mentis del Persichetti lo conduce ad avere talora, un atteggiamento “paritario” (anche se tale aggettivo rischia di acquisire una valenza negativa) nei confronti di un’Amministrazione verso la quale, comunque, egli deve rispondere del proprio comportamento e non trattare da pari: il tutto, ovviamente, nel rispetto del diritti della persona.Talora però nel soggetto pare vi sia una difficoltà a rendersi conto che, a differenza di quanto accade in un rapporto tra persone fisiche, rapportarsi con l’Amministrazione richiede una diversa “dialettica”, fatta – anche obtorto collo – di una puntuale esecuzione delle direttive o anche, delle sole indicazioni fornite dalla stessa e dai suoi operatori».
A questo punto credo di avervi detto più o meno tutto. No, dimenticavo. Il racconto di quanto accaduto il 3 novembre fatto su questo blog è poi finito sulla pagina online de Gli Altri, settimanale dove lavoro. Da qui è rimbalzato sulla rassegna giornaliera di Ristretti orizzonti e così non è sfuggito alla attenzione di Rita Bernardini, parlamentare radicale attentissima alle questioni carcerarie e che esercita con grande energia e cura il potere di sindacato ispettivo nelle carceri che la funzione di deputato gli consente. La Bernardini ne ha così fatto l’oggetto di una interrogazione scritta (qui), anche se nel testo depositato mancano i riferimenti agli ultimi fatti.
Adesso vi ho detto veramente tutto. Consentitemi di non ritornarci più sopra, accada quel che accada, di tanta meschinità ne ho la palle piene.
In tutti questi anni di carcere mi è capitato di redigere centinaia e centinaia di note difensive e ricorsi per i miei malcapitati compagni di detenzione che dovevano misurarsi con episodi simili. Di queste storie oggi ho la nausea.
La vita è altrove. La mia poi è semi, metà, mezza… Se ci saranno altre puntate, e per esperienza vi posso dire che ve ne saranno delle altre perché questa storia non finisce certo qui, spero che verrano altri a scriverne. Io passo volentieri il testimone.
Ciao a tutti.
Paolo Persichetti
Francia: cariche e lacrimogeni dentro i bus NoTAV. Il comunicato.
Cosa è successo oggi a Lyon? Ve lo raccontiamo noi
Da un lato c’erano i governi delle crisi economiche dall’altro lato l’europa dei popoli, dei cittadini e delle lotte. I primi hanno firmato l’ennesimo protocollo privo di contenuti e inutile che non smuove un euro verso alcuna opera. I secondi hanno provato a manifestare il loro pensiero, la loro contrarietà verso queste scelte.

La polizia francese accoglie i NoTav, mortacciloro
Partiti alle 6 del mattino giunti a Lyon alle 3 del pomeriggio. Poi la sorpresa, in piazza le libertà finiscono sulla scaletta del pulman. Qui, a Lyon comanda la polizia del governo Hollande ed ogni tipo di corteo è vietato come lo è allontanarsi dalla piazza anche solo per andare ai servizi. Vietato abbandonare la piazza! Questo l’ordine perentorio, poi però alle 18 si fa buio e per la Police è ora di far rientrare i no tav a casa e così uomini donne anziani e bambini vengono caricati a freddo con manganelli, spray urticanti e lacrimogeni verso i pulman. Quindi i pulman vengono poi sequestrati dagli agenti che salgono e menano chiunque si alzi dal seggiolino. In un caso l’autista viene anche brutalmente sostituito da un agente di polizia che guida lui il pulman verso il confine. In un altro caso gli agenti saliti sul pulman spruzzano lo spray al peperoncino provocando il malore della quasi la totalità dei passeggeri. Ogni pulman viene quindi scortato sotto minaccia sull’autostrada e dopo il casello vengono ancora bloccati (alle 20:30 sono ancora lì). Queste le notizie che ci giungono da oltre confine. Due facce dello stesso problema? No assolutamente no. Da un lato, dentro i palazzi carnefici burocrati che in nome delle banche e della crisi sono disposti a passare sui corpi delle persone anche a costo di vedere scorrere del sangue. Dall’altro l’Europa dei popoli, della gente semplice, dei cittadini che nonostante le violenze, i soprusi e in questo caso anche i furti che da anni subisce, continua e continuerà a lottare. Non è un problema che presuppone una mediazione è semplicemente una parte quella sana che deve vincere sull’altra, quella malata.
MOVIMENTO NO TAV
Dalla Palestina: La strada verso la liberazione
Pubblico volentieri questo comunicato del movimento dei giovani palestinesi, di cui vi consiglio di seguire il sito (QUI), di commento al riconoscimento della Palestina come stato osservatore, non membro.
Ieri, a caldo, il mio solo commento è stata la pubblicazione di una foto, che trovo geniale, su quello che è la Palestina, anche secondo le Nazioni Unite.
Un arcipelago.
Un arcipelago in mezzo alla terra.
Un ammasso di piccole isolette prive anche solo della speranza di una continuità territoriale, di autodeterminazione, di libertà di movimento e di poter far rientrare A CASA 7 milioni di profughi,
che non attendono altro dal 1948 o ’67.
Solo quella sarà la Palestina:
quella dove potranno tutti far ritorno,
quella senza muri e colonie,
quella liberata dalla farsa della diplomazia.
Ieri la Palestina è stata riconosciuta dalle Nazioni Unite come Stato osservatore, non membro, alcune voci palestinesi ci ricordano che questa “vittoria” ha più che altro il sapore amaro della sconfitta.
L’iniziativa per la richiesta di riconoscimento dello “stato di Palestina” è stata una imposizione che ha deliberatamente ignorato tutte le critiche interne che ha ricevuto. E’ stata accolta come un nuovo passo nella lunga marcia del nostro popolo verso la realizzazione delle nostre ambizioni politiche. Tuttavia, dobbiamo fermarci e chiederci, quali sono queste ambizioni?
E in che modo questo passo servirà il nostro progetto nazionale?
In un clima politico in cui vi è una mancanza di obiettivi chiaramente definiti, e che è caratterizzato da forte divisione politica, diventa possibile per chiunque autoproclamarsi sedicente portavoce della nostra causa.
Questi autoproclamatisi portavoce hanno approfittato di questo clima politico per screditare tutte le voci di dissenso, arrivando anche ad etichettarli come traditori. In una tale situazione, chi può richiamare questa gente alle proprie responsabilità?
E’ evidente che queste voci di dissenso, che sono estremamente critiche rispetto all’iniziativa di riconoscimento dello stato, sono state ignorate, scompaginate e frammentate. Ma questo non è dovuto all’irrilevanza delle opposizioni che sono state mosse, piuttosto, è dovuto alla mancanza di opzioni alternative che siano degne degli sforzi di coloro che si sono sacrificati con il loro sangue per la lotta. Ogni battaglia che il nostro popolo ha combattuto è costata un prezzo molto alto, e per questo, la responsabilità ricade su di noi per assicurare che la nostra lotta non sia stata mandata avanti invano e certamente non in favore di una leadership debole e corrotta
La nostra liberazione non sarà mai ottenuta sulla base di normalizzazione con il regime coloniale sionista, piuttosto sarà conquistata con il percorso che è stato scritto con il sangue dei nostri martiri. Riaffermiamo che l’unica strada che ci interessa è il percorso che si dirige in modo esplicito verso la liberazione della nostra terra e il ritorno del nostro popolo in Palestina … Tutta la Palestina.
FINO AL RITORNO E ALLA LIBERAZIONE
Palestinian Youth Movement
Leggi:
– Ma di che stato parlate?
– Comunicato dei giovani palestinesi contro la creazione dello Stato di Palestina
–Stato osservatore non membro, o arcipelago?
Da Nena News: Niente da festeggiare
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