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Archive for the ‘CARCERE’ Category

L’ergastolo e le farfalle

2 marzo 2013 11 commenti

“Una farfalla si posò sul polpastrello del mio dito medio,
vi adagiò l’addome,
e mi portò all’orgasmo.”

“L’ergastolo io lo penso come la maggioranza di quelli che sono come me: non è una pena indefinita.
Prima o poi finirà, devono capire.”

Mio caro,
ho sognato che venivo a Rebibbia per il nostro consueto colloquio,
ma tu non c’eri, non è che eri stato trasferito in un altro carcere, non c’eri proprio più.
Al risveglio mi son chiesta se esisti veamente.
Questo nostro rapporto è difficile e mi sento vecchia anzitempo.
Preferirei lasciar passare un po’ di tempo prima di venire nuovamente a colloquio.

TU PUOI CONTARE I GIORNI, PER ME E’ SEMPRE 1,1,1,1 …

[Tratto da Ergastolo, di Nicola Valentino, edizioni Sensibili alle Foglie]
ADOTTA IL LOGO CONTRO L’ERGASTOLO: Qui il sito Liberidallergastolo;libera i tuoi spazi, reali e virtuali, dall’aberrazione del FINE PENA MAI

Belgio: pestato a morte,dallo Stato

22 febbraio 2013 2 commenti

Nel post precedente sui detenuti italiani torturati  in carcere dopo 30 anni dall’arresto e dalle torture subite ed accertate parlavo della specificità e dell’accanimento tutto italiano mosso per tre decenni su quei corpi.
L’oblio sulle torture compiute e quindi l’impossibilità di accedere a percorsi di cura in grado di permettere ai torturati di superare i traumi che certi tipi di sevizie tatuano nella psiche e nel corpo:
è una storia tutta italiana.
Vomitevole.

Non lo sono però i pestaggi,
quell’altra forma di tortura (non scientifica, non calcolata in ogni suo gesto, non compiuta per estorcere informazioni, non mossa da apparati speciali e appositamente costruiti) che quotidianamente avviene nelle nostre caserme, o celle di sicurezza dei tribunali, delle carceri, degli Opg, dei CIE.

Questa tortura costante, compiuta sui corpi dei più deboli e degli “ultimi” della società non è una nostra specificità, perché basta guardare questo video per capirlo.

E’ il civilissimo Belgio,
e quell’uomo completamente nudo, che vedete in un ultimo tentativo di difesa, è morto poco dopo, per un’emorragia interna dovuta allo spappolamento del fegato sotto i colpi di quei cosi in divisa.
Uno “psichiatrico” da punire per il suo comportamento : la sua reclusione nell’ospedale psichiatrico era appena mutata.
Trasferito da poco per atteggiamento troppo violento in un normale carcere, era in attesa di una visita medica e quindi di calmanti: questa la cura che l’amministrazione penitenziaria belga ha pensato di passare all’uomo.
Il medico l’ha trovato morto.
Aveva 26 anni, si chiamava Jonathan Jacob.

Non mi venite a parlare di mele marce, mai.
La violenza è di Stato, qualunque esso sia.
A.C.A.B.

Sul “non” ergastolo agli assassini di Vittorio Arrigoni

19 febbraio 2013 14 commenti

La notizia circola da un’ora in rete, attraverso il sito Nena News (qui l’articolo).
Una notizia che a me non fa male per niente, perché una riduzione pena, un annullamento di un ergastolo non può crearmi amarezza…
non avrei questo logo a marcare il blog e non lo avrei tatuato nel cuore.
Quando parlo di abolizionismo del carcere,

Adotta il logo contro l’ergastolo!

ma sopratutto quando parlo di abolizionismo dell’ergastolo,
quello che sulle carte del DAP è catalogato con il fine pena datato 99/99/9999,
quello che in francia è detto la ghigliottina secca,
non faccio distinzioni, non posso farle.
Non chiedo l’abolizione dell’ergastolo ad intermittenza, lasciando crepare in cella gli assassini dei miei compagni.

Avreste gioito se gli assassini di Vik fossero stati impiccati in pubblica piazza,
con metodologie iraniche? Io sarei stata sommersa dal mio stesso vomito.
E allora non vedo perché dobbiamo commentare con parole come “scandalo” o “buttate le chiavi cazzo” il fatto che questi ergastoli siano stati commutati in 15 anni di pena.
Certo fa pensare, certo brucia l’idea di non saper perché, di non aver chiaro motivazioni e metodologie usate per uccidere un compagno caro,  che mandava avanti una battaglia in un modo straordinario, con una forza e un sorriso che ci hanno insegnato tanto.

Il suo slogan era “restiamo umani”…
bhè provateci allora quando parlate di ergastolo, a capire cosa intendeva per “restare umani”.
Non credo che chi sostenga il “FINE PENA MAI” abbia tutto ‘sto diritto di ritenersi essere umano, lo reputo più simile a chi c’ha strangolato Vik,
lontano anni luce dal messaggio che ha urlato fino al secondo della sua morte.

Non esiste più grande aberrazione del carcere a vita.
Nessuno mi farà mai cambiare idea a riguardo.

A Vik, tornato a casa dalla sua amata Palestina
Hanno giustiziato Ippocrate
I gattini di Gaza
Che nessuno pianga, una dedica a Vittorio

lo so che mi odierete….pazienza.

Adotta il logo contro l’ergastolo!

1 febbraio 2013 27 commenti

Questa straordinaria immagine che vedete in questa pagina in vari formati non è solo un disegno,  capace più di migliaia di parole di raccontare il FINE PENA MAI,
ma è un logo che aspira a diventare un virus.

Un virus sì, perché l’intenzione di tutte le straordinarie persone che stanno per dar vita a questa campagna è quella di vederlo ovunque, di fare in modo che ogni pagina, sito, profilo di social network metta in gioco il suo volto, la sua bacheca, i suoi scritti,
contro l’ergastolo,
contro quell’aberrazione mostruosa che è il carcere a vita,
quello che nei faldoni e nei file dei tribunali e delle carceri è caratterizzato da questa data:
99/99/9999

Abbiamo a lungo pensato ad un logo,
da quando ci siamo decisi a mandare avanti questo progetto,
mentre piantavamo dei fiori tra le tombe del cimitero degli ergastolani nel carcere di Santo Stefano.
Vi ho parlato tanto di quella bella esperienza, ve ne ho parlato per due estati, che hanno raccontato quel posto in modi molto diversi da un anno all’altro.
Da una piccola barchetta di 4 persone, lo scorso anno ci siamo ritrovati in più di 40 a celebrare, con un po’ di colore e i nomi che eravamo riusciti a recuperare,
un “rito” laico capace di riportare quelle persone nel consorzio umano,
da dove erano state espulse.

Qui molti link vi racconteranno questa esperienza.
[Un fiore a quei 47 corpi
Una gioia senza tempo darvi un nome
Un viaggio senza fine pena mai
Settembrini e Santo Stefano ]

Per mesi ci siamo persi a cercare un’immagine che rendesse possibile l’idea di un logo adatto ad una campagna, un logo in grado di “de-ergastolizzare” il proprio spazio, intanto quello virtuale.
Tra i tanti disegni fatti, tra le tante proposte,
questi piedi, disegnati da Ludovica Valori (che ha accolto con gioia la nostra iniziativa)
ci hanno colpito come nessun’altra immagine.
Questo continuo perpetuo camminare sempre nello stesso posto ha una grande capacità di far capire il fine pena mai,
proprio come quel cimitero, dimenticato sopra un piccolo scoglio del mediterraneo.

Quello che questa pagina vi chiede è di adottare questo logo,
Di seguire questa campagna che a breve verrà lanciata,
di “de-ergastolizzare” la propria  esistenza, di liberare la propria visione del mondo dall’idea di una condanna che ti rosicchia la carne anche nella bara.

Contro l’ergastolo,
per la libertà di tutte e tutti.

Il sito di Liberiamocidallergastolo
[un ringraziamento speciale a tutti quelli che hanno lavorato a questo progetto, da ogni parte d’Italia, in particolar modo i compagni del Folletto, che  hanno fatto un video straordinario, a breve visibile a tutt@]

Prospero Gallinari, uomo del ‘900

15 gennaio 2013 4 commenti

prisonTUEUna giornata faticosa, visto che è iniziata che questo blog era citato sull’articolo di Benedetta Tobagi, che partiva in prima pagina di repubblica.
Un articolo dove viene riportata una lunga citazione delle mie righe scritte per Prospero, appena saputa la sua morte,
un articolo stizzito, perché c’è chi saluta Prospero Gallinari, con affetto, perché c’è chi a lui si sente legato, indissolubilmente.
Io comprendo il suo dolore, l’ho sempre compreso, ho ammirato le migliaia di volte che è stata a sottolineare che no, suo padre non è vittima delle Brigate Rosse come da vulgata, insomma, avrei compreso un articolo sul dolore, sull’impossibilità di perdonare per alcuni parenti delle vittime e bla bla bla,
la solita storia che conosciamo da anni,
quella, del “perdono alle vittime” che non ha permesso di uscire a molti che avevano scontato già decenni e decenni di pena. Molti che ancora ogni giorno rientrano in carcere per “non aver scritto una lettera“.
Prospero chiese la liberazione condizionale, ma nessuno la discusse mai,
caduta nel vuoto, fino alla sua morte.

Quindi quello sconcerto stizzito m’ha lasciato un po’ senza parole, ma vabbè, non mi interessa parlarne.
Non era certo un bell’articolo, ma mai quanto l’altro sempre su Repubblica, sempre così solerte nel nominarmi, CHE PALLE!

Invece vorrei leggeste un articolo di Davide Steccanella, avvocato milanese, che da ieri cerco il tempo di pubblicare sul sito, senza un attimo di respiro: ha fatto prima Paolo, quindi vi rimando su Insorgenze per leggerlo.
Prospero Gallinari: un uomo del ‘900

Altre pesanti condanne per il 15 ottobre

7 gennaio 2013 1 commento

Foto di Valentina Perniciaro _15ottobre_

Galera.
Solo galera. Non c’è altro modo di affrontare le cose in questo paese.
Ancora le parole usate solo : devastazione, saccheggio, resistenza pluriaggravata e lesioni a pubblico ufficiale.
Devastazione e saccheggio: il nuovo paradigma penale che fa penetrare le sue radici nel codice Rocco, si presenta ancora una volta,
per la prima in questo 2013, dopo che lo scorso anno c’ha portato via dei compagni.
Ora in cella, o in fuga.

Sei condanne a sei anni: sei per sei fa trentasei…
trentasei anni di galera per una giornata di resistenza,
dove migliaia di persone hanno difeso una piazza e l’incolumità dei manifestanti da folli caroselli e feroce repressione.
Ma la risposta a tutto ormai è DEVASTAZIONE e SACCHEGGIO,
che comporta un pacco d’anni minimi da far paura,
quelli che non ti danno nemmeno se stupri una persona.

Altri trentasei anni di carcere per il 15 ottobre: oltre a 30.000 euro cadauno di risarcimento danni.
Pensano di toglierci dalle strade rovinando le nostre vite, quelle dei nostri compagni e amici.
SOLIDARIETA’ AI MANIFESTANTI CONDANNATI!

Proverò ad aggiornare con maggiori notizie-
per info serguire : ReteEvasioni

Su quelle giornate e la repressione che ne è seguita:
Il comunicato su Giovanni Caputi
Pin va al 15 ottobre
Ecco la prima condanna
Cobas contro Cobas
Un commento di Oreste Scalzone
Presidio a Regina Coeli
Infoaut risponde al comunicato dei Cobas
I “terroristi urbani”

i testi caldi 🙂  son qui:
Delazione e rimozione della propria storia
Gli scontri, i Cobas e la violenza dei non-violenti

Ma buon anno dddechè!

31 dicembre 2012 8 commenti

Il più brutto anno.
Senza ombra di dubbio.
Il più brutto anno immaginabile, quello in cui si è perso tanto sonno, quello in cui il sogno si è infranto,
quello in cui si capisce senza possibilità di ritorno che si è perso tantissimo, che certe cose non si stringeranno più tra le mani.
Un anno dilaniante, doloroso, insonne, sommerso da valanghe di lacrime senza ascolto e senza voce.
Io non vivo più, non vivo più se gli occhi del mio fratello beduino hanno perso il loro azzurro, per diventare grigi d’esilio e solitudine.
Non vivo senza quel pensiero felice, senza le voci allegre dei loro saluti lontani.
Era l’anno in cui volevo portare mio figlio, il più bello dei gioielli del mio mondo, nella terra che aveva cambiato per sempre il corso dei miei giorni e delle mie notti, volevo che il mio bambino potesse assaporare sua madre in un’altra condizione.
Ancora troppo piccolo per capire quanto di stupefacente avrebbe avuto intorno, si sarebbe certamente accorto di aver tra le su braccia un’altra mamma.
Volevo tornare a casa, a Bosra, a baciare terra rossa e basalto, a rotolarmi nella polvere che canta i secoli e i popoli nomadi di una terra senza confini;
volevo portare a casa mio figlio affinchè conoscesse una sua coetanea dai ricci neri,
la cui voce si è fatta timida dopo mesi di bombardamenti.

Ad una grande donna…

e’ stato l’anno della fine dell’illusione che tutto potesse continuare a rimanere così come per secoli secoli secoli e ancora secoli era stato.
E allora non vi auguro buon anno, non lo auguro soprattutto a voi incapaci di guardare la Siria, a voi sapienti sostenitori di mattanze (da sinistra ovvio)
non lo auguro ai sapientoni (quelli che magari poi starnazzano dicendo con spocchia che “dietro ad Al-Jazeera ci sono i califfi” che, ahahhaah, ancora me sento male visto che abbiamo seppellito con gioia l’ultimo califfo nel 1924),
non la auguro a chi ha il vizio di creare tribunali, non lo auguro a chi ha l’ultima parola su tutto e spesso anche ridicola, impreparata,
non lo auguro a chi di lavoro manda in galera le persone (e mi riferisco a giudici e magistrati)
non la auguro a chi anfibi e chiavi d’ottone chiude diverse volte al giorno decine di persone nelle celle,
non la auguro soprattutto a chi, grazie ai deliri di geopolitica e antimperialismo sterile e rossobrunista e all’ignoranza folle e anche spocchiosa non riesce a portare solidarietà non dico ai siriani, popolo a loro sconosciuto e quindi inesitente, ma anche ai palestinesiche a decine muoiono nei campi profughi di Siria, come a Yarmouk. Ecco, a voi “dalla palestina sempre nel cuore” che appogiate Assad, il suo fratello Maher e le milizie di Jibril proprio non vi auguro un buon anno.

Auguro buon anno a tutti gli esuli, a tutti coloro che vivono la sete a Zaatari,
la auguro alla mamma del mio amico, strappata dalla sua terra dopo una vita di quella terra.
La sola a cui auguro un buon anno è la mamma, dagli occhi blu, del mio fratello beduino,
trascinata via dalla dolce Bosra e con il solo sogno di poterci morire, per esser seppellita accanto a suo marito.
A lei auguro un buon anno,
a lei che ha messo al mondo un grande uomo,
a lei la cui figlia ogni giorno rischia la pelle per cercare di strappare alla morte, alla tortura, alla prigionia qualcuno.

E allora grazie a queste due donne,
grazie alla loro forza e al loro dolore che sembra spaccare anche la mia quotidianità.
Grazie perchè se mai potremo tornare a ricostruire casa, sarà grazie a queste donne, la cui forza è impressionante…
e quasi non ve la meritata!

Alla Siria e all’amore che mi ha insegnato, alla polvere rossa, al nero basalto
al sangue dei suoi bambini e al ritorno, il ritorno sì,
perchè prima o poi avverrà…
e guardatelo questo video, che è un regalo bellissimo

CIE: banane ed evasioni …

11 dicembre 2012 2 commenti

La mattina dopo stiracchiamenti vari,  cappuccino,  e  necessari passaggi igienico-sanitari consiglio a tutte e tutti coloro che mi leggono,
di aprire il sito Macerie,
occhio attento e vigile sull’universo dei lager della nostra splendida, democraticissima, civile società: i Centri di Identificazione ed Espulsione.
Un occhio vigile sopratutto su chi riesce a fuggire, evadere, riappropriarsi della propria libertà…
per quello ve lo consiglio,
perché non c’è cosa più bella di “una bella” , quindi diffondiamone la voce, quando accade…

O quando ci si prova…
W le lime, W la libertà,
W i complici di ogni evasione.
Il post che leggerete qui sotto è tratto da QUI

Un bel cesto di Banane. Banane di Porta Palazzo, s’intende, banane ripiene di lime. Non un lime nel senso di frutto tropicale, ma proprio cinque seghetti da ferro, di quelli buoni per segare le sbarre. Le banane in questione erano in un pacco che un anarchico di Torino ha portato mercoledì pomeriggio all’ingresso del Cie di corso Brunelleschi, ma purtroppo le lime sono state beccate.

«Che faccia tosta! – esclama la guardia dopo la scoperta – immaginare che a consegnare nelle mani di un prigioniero gli strumenti per riguadagnarsi la libertà fosse proprio un ignaro poliziotto.» «Questo ha letto troppi fumetti!» ridacchiano in questura e nelle redazioni dei giornali. «Che ingenuo! – sentenzia il saggio – non sa che esistono i metal detector?» «E che stolto! – gli fa eco il prudente – non poteva farle portare da qualcuno meno in vista che passasse inosservato?»

Se a poliziotti e giornalisti è buona usanza non rispondere, a tutti gli altri vale forse la pena di dir qualcosa. Ai saggi, basta ricordare tutte le volte che nel recente passato i prigionieri del Cie di Torino (e non solo) le sbarre le han segate per davvero, e che quindi dei seghetti in qualche modo saranno pur entrati, anche se chi sia riuscito a gabbare i controlli, e in che modo, non è dato sapere. Ai prudenti, diciamo semplicemente che non si può aspettare che un altro faccia quel che va fatto, che non si può delegare agli altri quel che la coscienza detta di fare.

Forse le banane non sono il posto migliore per imboscarle, ma l’unica domanda da porsi riguardo alle lime da ferro, dunque, non è tanto se sia possibile farle entrare o chi possa farlo, ma per l’appunto il come riuscirci. Per scoprirlo, occorrerà semplicemente provarci e riprovarci ancora, e sempre, o fino a quando non ci saranno più sbarre da segare.

Un anno e mezzo di lime (senza banane)

Nell’aprile 2011 una ventina di reclusi tentano di evadere dal Cie di Bologna. Si sono aperti un varco tagliando una sbarra di ferro e poi hanno scavalcato la seconda recinzione: in quindici guadagnano la libertà, altri vengono fermati dalla polizia. Soltanto il giorno dopo, durante una perqusizione, verranno ritrovati alcuni seghetti artigianali usati per l’evasione.

Nel settembre 2011, in due differenti evasioni, più di trenta reclusi scappano dal Cie di Torino. Il 9 settembre ce la fanno in dodici: lavorando con dei seghetti da ferro per più di un mese, i reclusi dell’area viola si erano preparti un varco nella rete e si erano costruiti pezzi di metallo affilati per tenere lontane le guardie durante la fuga. Durante le perquisizioni effettuate nei giorni successivi, la polizia non troverà traccia dei seghetti, rimasti forse ben nascosti in qualche angolo segreto del Centro. Non passano neanche due settimane e il 22 settembre scoppia una sommossa nel Centro. Le serrature delle gabbie, danneggiate di nascosto nei giorni precedenti, vengono scardinate e si aprono nuovi varchi nelle reti. La polizia riesce a fermare e arrestare dieci fuggitivi, ma in ventidue riescondo ad evadere.

Nel dicembre 2011, sempre dal Cie di Torino, evadono ventisei reclusi. La notte di Natale, approfittando della carenza di personale e del mancato intervento del fabbro per riparare i danni alle gabbie, i reclusi di tutte le sezioni maschili inziano una sommossa. Quasi contemporaneamente escono dalle gabbie, attraverso varchi aperti nelle reti o forzando le porte. Molti vengono fermati, ma in ventuno riescono ad evadere. Nei giorni successivi la Polizia alza il livello di guardia e in una delle tante perquisizioni viene ritrovato un seghetto. I reclusi non si perdono d’animo e la notte di Capodanno ci riprovano. Nonostante la Questura avesse riempito il centro di carabinieri in antisommossa, i ragazzi dell’area blu escono dopo aver forzato la porta, si scontrano con le guardie, e iniziano a scavalcare il muro di cinta. Le volanti che controllavano il perimetro esterno del Centro riescono a catturare un solo evaso, altri cinque invece sono liberi.

Nel maggio 2012 è il turno dei reclusi del Cie di Modena. Il 12 la Questura ordina una perquisizione a sorpresa nel blocco 6 e scoppia una sommossa. Poliziotti e militari vengono aggrediti da una sessantina di reclusi armati di sbarre di ferro e sono costretti a rimandare la perquisizione. Aluni giorni dopo gli agenti riescono a fare irruzione nel blocco e trovano dieci metri di lenzuola di carta annodate e quattro seghetti nascosti in un bocchettone dell’impianto di aerazione. La Polizia, forse convinta di aver sventato il piano dell’evasione, abbassa la guardia e canta vittoria sui giornali. Evidentemente i seghetti avevano già fatto il loro lavoro, e infatti un paio di giorni dopo una dozzina di reclusi riesce ad evadere dal Centro.

macerie @ Dicembre 9, 2012

Due vademecum per muoversi tra piazze, cordoni, celle e domandine

11 dicembre 2012 2 commenti

La Rete Evasioni nasce all’indomani del 15 ottobre,
per sostenere attivamente e portare solidarietà a tutti e tutte coloro colpiti dalla repressione seguita a quella giornata di mobilitazione internazionale.
Pesanti, pesantissime le conseguenze legali per molti giovanissimi dimostranti,
che dati in pasto alla stampa (soprattutto grazie al meticoloso lavoro infame di La Repubblica) si sono visti sbranare dai tribunali, con richieste di carcerazioni pesantissime,
molte immediatamente effettive.
La Rete Evasioni, appunto, nasce in un clima estremamente sfavorevole non solo alle persone colpite ma a tutti coloro che hanno vissuto e analizzato quella piazza come qualcosa di nuovo, da conoscere ed affrontare,
con cui muoversi spalla a spalla, malgrado differenze e metodologie.
Questo è quel che abbiamo pensato mettendo in piedi questa rete: il portare solidarietà, un aiuto effettivo in aula, in cella e in qualunque luogo di privazione della libertà;
a coloro considerati, anche da buona parte del movimento italiano, “sfasciacarrozze”.

In quest’anno di governo tecnico il livello di repressione nei confronti di chi manifesta è aumentato vertiginosamente,
così come la partecipazione dei giovanissimi, che riempiono le piazze spesso senza rendersi conto della violenza dei manganelli che si trovano difronte.
E così sono stati prodotti due libricini,
due piccoli libretti che provano ad essere un aiuto tascabile,
per i nuovi masticatori di marciapiedi e conflitto,
ma anche per chi avrà la sfortuna di essere acciuffato,
quindi ammanettato, incarcerato, processato e magari condannato.

Un libricino sul “come stare in piazza”, sul come muoversi tra i cordoni, sul come muoversi col proprio materiale tecnologico, sul come gestire la tensione e la calma nei momenti di panico e scontro.
Poi, un libricino sul come affrontare la galera,
un piccolo vademecum che cerca di spiegare a chi lo ignora completamente,  quali sono i meccanismi della detenzione, le sue parole d’ordine, i piccolo consiglio che aiutano a gestire con lucidità la propria carcerazione.

Vi consiglio di leggerli,
di scaricarli, magari anche di stamparli e diffonderli nelle strutture, piazze, città, collettivi, consultori che frequentate….insomma, ovunque.

– PRIMA, DURANTE e DOPO il CORTEO: file PDF
– GUIDA PER CHI HA LA SFORTUNA DI ENTRARE IN CARCERE: File PDF

Su quelle giornate e la repressione che ne è seguita:
Delazione e rimozione della propria storia
Gli scontri, i Cobas e la violenza dei non-violenti
Il comunicato su Giovanni Caputi
Pin va al 15 ottobre
Ecco la prima condanna
Cobas contro Cobas
Un commento di Oreste Scalzone
Presidio a Regina Coeli
Infoaut risponde al comunicato dei Cobas
La solidarietà di Radio Onda Rossa agli arrestati
I “terroristi urbani”

Nel carcere di Rebibbia, diritti “a discrezione”

5 dicembre 2012 1 commento

Ringrazio l’avvocato Davide Steccanella per questo articolo sulla vicenda di Paolo, lungamente raccontata in questo blog.
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Una tranquilla giornata di semilibertà
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-Paolo Granzotto, il funzionario del carcere e la moralità

Una recente vicenda accaduta presso il carcere di Rebibbia ad un detenuto in semi-libertà ha evidenziato in modo preclaro quella estrema “discrezionalità” che talvolta affligge la applicazione di alcuni dei principali istituti introdotti nel 1975 dalla Legge Gozzini.

Legge che, nelle intenzioni del legislatore di allora, era appositamente finalizzata alla concreta realizzazione di quegli obiettivi di successivo reinserimento sociale del condannato, secondo quanto espressamente previsto dalla nostra Costituzione.

In tal guisa, ed anche per garantire il controllo giurisdizionale sulle modalità di esecuzione della pena, il nostro Ordinamento penitenziario riservava alla esclusiva competenza del Giudice (Magistrato o Tribunale di Sorveglianza) la decisione sulle diverse istanze provenienti dai detenuti (dalla semplice licenza premio alle misure alternative alle detenzione fino alla liberazione condizionale).

Nella “pratica” tuttavia questa decisione finisce il più delle volte con l’essere assunta sulla sola base delle valutazioni di altri e diversi soggetti (note, rapporti etc.), il che significa che, di fatto e molto spesso, risulta decisivo all’accoglimento o meno di un diritto previsto dalla legge, il rapporto personale ed individuale che si crea all’interno del carcere tra il singolo detenuto e chi lo dirige.

Nel caso segnalato risulta abbastanza evidente l’esistenza di una situazione di attrito personale nei confronti del detenuto da parte della direttrice del reparto e risalente, si legge, ad una mancata consegna, da parte del detenuto, che durante il lavoro esterno esercita la professione di giornalista, di alcuni suoi articoli oggetto di una querela per diffamazione, e che si trovavano pubblicati anche on line.

L’ultimo episodio ha riguardato invece la sua mancata accettazione supina di una contestazione in merito alle modalità del lavoro esterno che, nonostante quanto da tempo allegato, gli veniva impropriamente attribuito come mero lavoro trimestrale invece che retribuito trimestralmente.

Tutto questo potrebbe anche rientrare nell’ambito di rapporti personali che possono essere più o meno “riusciti” (come è anche naturale che accada) tra chi sta scontando una pena detentiva e chi è chiamato a vigilare sul funzionamento di un carcere, se poi non determinasse “a cascata” tutta una serie di conseguenze giudiziarie sui diritti del detenuto.

A seguito di quell’episodio infatti, la direttrice avrebbe immediatamente trasmesso al Magistrato di Sorveglianza una sorta di nota disciplinare (“anomala”, giacchè al di fuori dai casi previsti dall’art. 38 della Legge Gozzini) sulla base della quale il Magistrato ha rigettato una richiesta di licenza premio di 1 giorno per ragioni familiari.

Nel provvedimento di rigetto si fa anche riferimento ad un “precedente” costituito da un ammonimento datato 28.01.2012 che tuttavia era stato immediatamente sospeso dal Direttore del carcere già a fare tempo dal 31.01.2012.

Il detenuto ha dovuto quindi successivamente allegare al Magistrato di sorveglianza sia la propria relazione sul fatto accaduto (e che era stata prontamente inviata anche al direttore del Carcere), sia il provvedimento di sospensione di quel citato ammonimento, al fine di reiterare la richiesta di licenza, e per la quale è ancora in attesa.

Già in precedenza, peraltro, in occasione della richiesta di accesso alla misura alternativa dell’affidamento in prova, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 47 O.P, il medesimo direttore di reparto aveva inviato al Tribunale di Sorveglianza chiamato a decidere una relazione di sintesi dove si leggeva testualmente che “la forma mentis del (omissis) lo conduce ad avere talora un atteggiamento “paritario” (anche se tale aggettivo rischia di acquisire una valenza negativa) nei confronti di questa Amministrazione verso la quale egli deve comunque rispondere del proprio comportamento e non, piuttosto, trattare da pari a pari” .

La richiesta di affidamento è stata dunque respinta dal Tribunale.

Il risultato finale di tutto ciò è che un soggetto, detenuto da 14 anni (e da 4 in semi-libertà, e ormai arrivato a 2 anni dal fine-pena), e che fino a tutto il 2011 non aveva mai dato corso ad alcun rilievo disciplinare, dopo l’arrivo di una nuova direttrice di reparto si vede oggi: 1) respingere la domanda di affidamento in prova, 2) negare una licenza premio di 1 giorno e 3) ancora in attesa di vedersi riconosciuti due semestri di liberazione anticipata già maturati dal giugno 2012.

Di tutto ciò è stato informato il Direttore del Carcere di Rebibbia ed è stata presentata una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia firmata dall’Onorevole Rita Bernardini e da altri deputati del PD.

Auspicando che chi di competenza possa attivarsi al più presto, rimane il fatto che, fermo restando il doveroso controllo da parte della Amministrazione penitenziaria sull’effettivo rispetto, da parte dei detenuti, delle regole di disciplina interna agli Istituti di pena, non appare certo conforme alla legge affidare in toto la applicazione dei diritti di un detenuto alla mera discrezionalità personale di chi volta a volta si trova a dirigere il reparto di detenzione.

“Il livello di civiltà di un paese lo si misura dal livello di civiltà delle sue carceri” diceva tanti anni fa l’Onorevole Adelaide Aglietta del Partito radicale, purtroppo occorre ancora una volta constatare come in questo senso non si siano fatti molti passi avanti se ancora oggi si leggono episodi che ci ricordano tanto quel collegio del giovane Giannino Stoppani nella fortunata serie televisiva di Gianburrasca.

Sanzioni disciplinari e sbarre: ancora un aggiornamento su Paolo Persichetti

4 dicembre 2012 9 commenti

E’ complicato chiedere scusa al proprio compagno, su un blog.
Ma lo faccio, perché è un modo per farvi capire i meccanismi del carcere.
Scrivo di ogni sopruso che mi cade sotto gli occhi e mi fa tremare il cuore, cerco di capire, di tradurre, di condividere con i tanti compagni che ogni giorno mi leggono, quel che mi scuote i nervi, la rabbia, quel che mi esplode dentro.
Eppure per giorni e giorni e giorni, che son diventate settimane,
non son riuscita a scrivere del sopruso che sventra la mia di carne, quella di mio figlio, quella dell’uomo con cui ho scelto di sfidare tutto, e di costruire tanto. Malgrado loro.
Non una riga, non sono riuscita a metter giù una sola riga, e per una grafomane compulsiva e un po’ isterica come me è cosa preoccupante.
Non una riga su quell’ammasso di meccanismi e accanimenti che si abbattono senza tregua e anche senza appigli legali su di noi.
Così alla fine ancora una volta Paolo scrive di Paolo,
che palle, ti chiedo scusa.
Ti chiedo scusa perché in queste settimane la tua galera mi logora più del solito.
Perché non riesco a star dietro a tutto ciò, ho perso la lucidità dietro a domandine, affidamenti, rigetti, disciplina, educatore, direttrice, sorveglianza, magistrato, licenza, condizionale, sospensione, sanzione, fax, ancora fax, e poi ancora centinaia di fax.

Mi hanno tolto le parole, ci son riusciti.
Son costretta ad usare le tue, stanchissime parole, per raccontare questo scempio.

“e fa freddo. e ti amo”

per altro materiale:
Una tranquilla giornata di semilibertà
– La domandina: quando il carcere ti educa a chiedere di poter chiedere
– Dovrò spiegare il carcere a mio figlio
– Il carcere e il suo pervadere i corpi
-Paolo Granzotto, il funzionario del carcere e la moralità

mano_sbarreDa alcuni giorni arrivano da più parti preoccupate richieste di notizie sulla mia situazione dopo il post del 5 novembre (vedi qui) nel quale raccontavo dei possibili rischi di sanzioni disciplinari per quanto era accaduto il sabato precedente, 3 novembre, durante un surreale incontro con la Direttrice del reparto semiliberi di Rebibbia reclusione.
L’assenza di informazioni aggiornate sulla vicenda e il prolungato silenzio del blog, dovuto a diverse ragioni (sovraccarico di impegni e semi-vita familiare che ho dedicato più del solito a mio figlio), hanno creato un po’ di allarme.
Mi scuso innanzitutto con i compagni, gli amici e i lettori che ringrazio per l’attenzione e la premura dimostratami.
Corro subito ai ripari cercando di spiegare per sommi capi cosa è successo nel frattempo.

La contestazione disciplinare
Col senno del poi posso dire che la decisione di raccontare subito quanto accaduto il mattino di quel sabato è stata una scelta lungimirante. Il lunedì successivo (5 novembre), infatti, al rientro serale in carcere l’ispettore di turno mi ha informato della presenza di una contestazione disciplinare mossa a mio carico dalla Direttrice di reparto protagonista dell’episodio.
Il testo, molto lungo e scritto a mano sul registro delle udienze, era di difficile lettura. Al suo interno si forniva un resoconto incompleto e non corrispondente allo svolgimento dei fatti avvenuti, soprattutto si delineava un profilo disciplinare della mia condotta verbale etichettata come «irrispettosa e offensiva».
Nel testo, che sembrava uscito da una pièce di Ionesco, la responsabile di reparto mi attribuiva frasi prive di senso, frutto di palesi equivoci tipici di chi non ha la capacità di ascoltare, come il fatto che io avessi sostenuto di possedere un “contratto di lavoro trimestrale” mentre avevo inutilmente tentato di spiegare che la mia retribuzione era «a cadenza trimestrale».
Nemmeno uno come Totò nei suoi mirabolanti “quiproquo” con Peppino de Filippo era mai arrivato a tanto.
Il testo della contestazione seppure carico di stizza furiosa aveva comunque del sublime, era qualcosa che toccava i vertici del teatro dell’assurdo. Ma purtroppo per me, come per tutti quelli che vivono questi episodi nel quotidiano del carcere, quella non era una messa in scena ma il realismo carnevalesco della punizione.

La Direzione archivia tutto
Preso atto delle contestazioni ho redatto delle note difensive inviate alla Direzione. A quel punto, secondo quanto previsto dalle norme dell’ordinamento e del regolamento penitenziario che regolano i procedimenti disciplinari, entro 10 giorni dalla contestazione avrebbe dovuto svolgersi un’azione disciplinare nel corso della quale si sarebbero dovuti valutare fondatezza ed eventuale portata dei fatti contestati, per poi decidere se erogare, o meno, una sanzione.
In quei giorni di attesa una domanda dominava su tutte le altre: chi sarebbe venuto a presiedere l’azione disciplinare?
La stessa responsabile di reparto, nella tripla veste di accusa, giudice e presunta parte lesa – eventualità ammessa dall’ordinamento penitenziario – oppure, molto più opportunamente, un altro dirigente d’Istituto?
Il dilemma è rimasto tale perché allo scadere dei 10 giorni non è accaduto nulla.
Con molta saggezza chi è gerarchicamente al di sopra della funzionaria che dirige il reparto Semiliberi ha deciso altrimenti, ritenendo evidentemente infondati i rilievi mossi.

La storia poteva dirsi conclusa qui. E invece no, il veleno è sempre nella coda, ci insegna madre natura.

La nota al magistrato in cui si segnalano «atteggiamenti di arroganza, offesa e di insofferenza nei confronti della Istituzione»
Il 23 novembre mi viene notificato il rigetto di una licenza, di un solo giorno, che avevo chiesto nel fratempo per stare insieme a mia madre il giorno del suo settantasettesimo compleanno.
Leggendolo con attenzione ho scoperto che il rifiuto aveva valore di sanzione per l’episodio del 3 novembre.
Il provvedimento negativo era desunto da una nota proveniente dal carcere (la fonte non è indicata) allegata alla domanda di licenza, protocollata n° 17159/12, inviata il 7 novembre 2012, dunque due giorni dopo la contestazione disciplinare senza esito, nella quale si riferisce dell’arrivo di una «comunicazione circa comportamenti posti in essere dal Persichetti in data 5/11/12 [c’è un errore di data, Ndr] nei confronti della dottoressa Trapazzo, consistiti in atteggiamenti di arroganza, offesa e di insofferenza nei confronti della Istituzione e della singola persona».
Si riportano anche due frasi virgolettate che dovrebbero rappresenare la prova della condotta verbale incriminata. Frasi che però risultano indecifrabili.
Questo provvedimento di rigetto è ancora oggetto di ricorso presso l’ufficio del magistrato, dunque evito di entrare troppo nei dettagli. Il problema evidentemente non è il giorno di licenza rifiutato ma il merito di una sanzione erogata in assenza, non solo di infrazione disciplinare, ma addirittura della procedura prevista per valutarne il fondamento, dunque per un fatto nullo e non avvenuto. “Il fatto non sussiste” è la formula di rito in uso in questo caso.

Rigetto licenza copia

Così vanno le cose. L’espediente, il ricorso ad una “comunicazione” inviata al magistrato aggirando addirittura le stesse procedure disciplinari, per altro già poco garantiste nei confronti dei detenuti, è l’artificio che può permettere di erogare sanzioni senza alcuna verifica sui fatti, sulla loro sussistenza reale, senza accertamento delle prove, sulla pura base del principio di autorità: in questo caso la parola di una Direttrice di reparto; come a dire che i fatti non esistono ma solo le parole di chi ha l’autorità di pronunciarle.

Quando la stessa Direttrice voleva sindacare il contenuto degli articoli scritti per Liberazione
Ad onor del vero non è la prima volta che mi trovo di fronte ad una cosa del genere. Già nel febbraio del 2011 la stessa dirigente, che da poco aveva assunto le nuove funzioni di responsabile della semilibertà, aveva fatto ricorso al medesimo espediente.
All’epoca il contenzioso riguardava la richiesta di copia degli articoli indicati nella denuncia-querela avanzata contro di me da Roberto Saviano (vedi qui).
Articoli ritenuti – a detta della nuova responsabile di reparto – fondamentali per una compiuta valutazione dell’osservazione trattamentale. E perché non valutare anche le lezioni che tenevo all’università di Paris 8?
Lasciamo correre il manifesto profilo di incostituzionalità di una pretesa del genere. Un fatto di una abnormità gigantesca passato sotto silenzio.
Qualcosa di analogo mi era già accaduto al Mammagialla di Viterbo alcuni anni prima, quando il  magistrato di sorveglianza del posto si oppose ai permessi di uscita per un mio libro, Esilio e castigo, (vedi qui). All’epoca la vicenda finì sui giornali (vedi qui).
Tuttavia nel febbraio 2011 l’oggetto del contendere non poteva nemmeno essere una discussione del genere. In quel momento, infatti, non ero nemmeno a conoscenza del contenuto della querela e quindi degli articoli denunciati (in procura nonostante le ripetute richieste hanno sempre opposto il segreto istruttorio), poiché mi era stato notificato un semplice verbale di elezione di domicilio – di cui avevo fornito copia alla Direzione – nel quale si indicava unicamente il numero di protocollo del procedimento senza altre informazioni.
Per giunta la richiesta della responsabile di reparto (se è vero che gli articoli dovevano essere analizzati per redigere l’osservazione scientifica della personalità) aveva una tale portata formale che non era possibile indicare dei testi prima di averne ricevuto comunicazione ufficiale da parte della procura.
A ben vedere, dunque, è alla procura che la Direttrice avrebbe dovuto rivolgere la sua richiesta, non certo a me.
Di fronte ad una tale oggettiva impossibilità, trattandosi in ogni caso di articoli diffusi nello spazio pubblico, consigliai la Direttrice – al fine di consentirle di soddisfare la sua curiosità – di recarsi sul sito web di Liberazione, dove allora lavoravo, e cliccare il mio nome per avere completa visione di tutti i miei testi.

Sapere quale fu il risultato?
Il suggerimento venne recepito come un rifiuto di «rapportarsi correttamente con l’Amministrazione».
L’episodio, oltre ad essere prontamente segnalato all’ufficio di sorveglianza con la solita comunicazione semiclandestina,

«Il 02.03.2011 il Persichetti, durante un colloquio col Direttore di Reparto riguardante proprio tale vicenda [querela da parte di Roberto Saviano Ndr], è stato invitato a produrre gli articoli relativi alla querelle, al fine di avere un quadro della situazione; ha percepito come atteggiamento “censorio” la richiesta formulatagli dal dirigente e per tutta risposta gli ha detto chiaramente che gli scritti sono liberamente accessibili su internet e che non vedeva la necessità di doverli produrre lui. Si è pertanto ritenuto di dover informare dell’accaduto e dell’atteggiamento tenuto dal semilibero il Sig. Magistrato di Sorveglianza».

venne poi abbondantemente sviluppato nella relazione di sintesi con la quale si dissuase il magistrato dal concedermi l’affidamento in prova ai servizi sociali, avendo io l’abitudine (cito questo passo da antologia):

«La forma mentis del Persichetti lo conduce ad avere talora, un atteggiamento “paritario” (anche se tale aggettivo rischia di acquisire una valenza negativa) nei confronti di un’Amministrazione verso la quale, comunque, egli deve rispondere del proprio comportamento e non trattare da pari: il tutto, ovviamente, nel rispetto del diritti della persona.Talora però nel soggetto pare vi sia una difficoltà a rendersi conto che, a differenza di quanto accade in un rapporto tra persone fisiche, rapportarsi con l’Amministrazione richiede una diversa “dialettica”, fatta – anche obtorto collo – di una puntuale esecuzione delle direttive o anche, delle sole indicazioni fornite dalla stessa e dai suoi operatori».

A questo punto credo di avervi detto più o meno tutto. No, dimenticavo. Il racconto di quanto accaduto il 3 novembre fatto su questo blog è poi finito sulla pagina online de Gli Altri, settimanale dove lavoro. Da qui è rimbalzato sulla rassegna giornaliera di Ristretti orizzonti e così non è sfuggito alla attenzione di Rita Bernardini, parlamentare radicale attentissima alle questioni carcerarie e che esercita con grande energia e cura il potere di sindacato ispettivo nelle carceri che la funzione di deputato gli consente. La Bernardini ne ha così fatto l’oggetto di una interrogazione scritta (qui), anche se nel testo depositato mancano i riferimenti agli ultimi fatti.

Adesso vi ho detto veramente tutto. Consentitemi di non ritornarci più sopra, accada quel che accada, di tanta meschinità ne ho la palle piene.
In tutti questi anni di carcere mi è capitato di redigere centinaia e centinaia di note difensive e ricorsi per i miei malcapitati compagni di detenzione che dovevano misurarsi con episodi simili. Di queste storie oggi ho la nausea.
La vita è altrove. La mia poi è semi, metà, mezza… Se ci saranno altre puntate, e per esperienza vi posso dire che ve ne saranno delle altre perché questa storia non finisce certo qui, spero che verrano altri a scriverne. Io passo volentieri il testimone.

Ciao a tutti.

Paolo Persichetti

La tortura in Grecia: pane quotidiano

4 dicembre 2012 2 commenti

Il testo che segue contiene estratti registrati di una conversazione con uno dei compagni arrestati alla manifestazione antifascista in moto che si è tenuta il 30 settembre 2012. Una pausa deliberata sulle torture subite dentro la stazione di polizia, che lo Stato ha tentato in tutti i modi di nascondere, fino agli estremi più assurdi. Sappiamo molto bene che ciò che è successo non costituisce una devianza. Questa rivelazione ha l’obiettivo di diffondere l’esperienza dei compagni rompendo il silenzio che ne permette la ripetizione. Tutto quello che è successo è diventato un motivo per rivelare l’ovvio, anche se sistematicamente passato sotto silenzio: che i pogrom fascisti non possono continuare senza l’aiuto della polizia, che incita a sua volta all’assalto verso chi nella società erige barriere contro le attività naziste. Che lo stato non è “neutrale” verso i “gruppi di estremisti”, come sono sovente chiamati dalla propaganda, comparando persone che combattono la brutalità del capitalismo a banditi fascisti che servono i loro capi, assaltando gli attivisti e i gruppi sociali e di classe più vulnerabili. D’altro canto, le armi del terrore e della repressione, utilizzate nello scontro da un sistema politico ormai marcio, non sono abbastanza appuntite per sopprimere la dignità, la resistenza e la solidarietà. Perché lo svelamento di questa brutalità non è una ragione a favore della subordinazione, ma un’occasione di risveglio e di ripresa di coscienza.
In questa pagina tutti gli articoli sulla Grecia
dei 5 anni di vita di questo blog:
LEGGI
Sulla Tortura invece, tantissimo materiale: QUI
D: Potresti iniziare descrivendo gli eventi della marcia in motocicletta?
R: La domenica del 30 settembre c’è stata la terza antifascista marcia in motocicletta. Ve ne erano state altre due in settembre. La prima a Metaxouryio, Ayio Pavlo e Omonia [quartieri di Atene], e la seconda a Monastiraki, Ermou e Thisìo. Quella notte siamo partiti da Exarchìa intorno alle 8 di sera, guidando verso Piazza Amerikis e le strade intorno. L’obiettivo del corteo era di portare sostegno ai migranti alcuni giorni dopo i pogrom razzisti. C’era un’emozione ed un’eccitazione incredibile tra la gente del quartiere. Alzavano i pugni, applaudendo, facendo il segno della vittoria, dicevano “grazie”. Questo fino a qualche minuto prima di essere attaccati. E’ l’ultima immagine che ho prima dell’attacco della polizia.
D: In quel momento c’erano circa 80 motociclette?tortura-2
R: Sì, due persone su quasi tutte le moto, intorno alle 150 persone in tutto.
D: E la polizia?
R: Non potevamo vedere molto bene, perché era notte e le luci delle loro moto erano puntate su di noi. Quando siamo arrivati nella zona dove il pogrom fascista aveva devastato i negozi dei migranti c’erano un sacco di poliziotti della Delta. Abbiamo fatto una tappa a Filis e urlato qualche slogan. Non so esattamente come tutto sia iniziato, perché il volume del corteo era molto alto e la strada piccola, le moto sparse lungo tutta la via. Dal fondo della manifestazione ho sentito dei “bang-bang” e dei lampi di armi che sparavano una dopo l’altra. La polizia seguiva la marcia, ed era posizionata in coda rispetto ad essa. Ed è lì che è iniziato l’attacco. Ha prevalso il caos. Il fumo che usciva dai loro proiettili era ovunque, non riuscivamo a vederci l’un l’altro. La polizia picchiava i manifestanti con i bastoni. Le macchine erano parcheggiate ai nostri lati, molte moto erano bloccate, altre non riuscivano a proseguire a causa della grandezza del corteo. Tutto ciò è durato diversi minuti. In qualche modo siamo riusciti a procedere evitando ulteriori feriti. Io sono stata fermata, insieme al guidatore della moto su cui stavamo viaggiando, da una volante poco più in giù sulla strada. Siamo stati tradotti alla caserma della polizia. Al nostro arrivo ho visto altre 13 persone, tutte vittime di pestaggio, in gravi condizioni fisiche. Alcuni sanguinavano dalla testa, altri dalle braccia o dalle gambe. C’era un sacco di sangue. Alcuni non riuscivano a camminare.
D: Dove sei stata portata, esattamente?
R: Eravamo al 6* piano, nel corridoio fuori dagli uffici. C’erano due panchine. Alcuni erano stati ammanettati e stavano sanguinando. Abbiamo chiesto dei fazzoletti, per interrompere le perdite di sangue, ma non ci hanno dato nulla. Per caso ne avevo un pacchetto con me e ho cercato di aiutare, cioè di pulire un poco il sangue. Ma il pacchetto non era abbastanza, non c’era solo un ferito ma molti. Quando gli abbiamo chiesto della carta, la polizia ha risposto: “voi non avrete niente, resterete come state!”. Altri poliziotti della Delta arrivavano man mano che il tempo passava. C’era un piccolo tavolo all’altro capo di una delle panchine dov’erano riuniti. Ci chiamarono per nome segnando su un foglio che vestiti portavamo e una descrizione sommaria di ognuno. E’ così che si sono svolte le cosiddette “identificazioni”, per dargli il tempo di preparare le loro dichiarazioni su luogo e circostanze degli arresti. Capimmo tutto ciò solo un poco dopo, una volta viste le accuse a nostro carico. Sono delle bugie colossali. A parte i luoghi degli arresti sbagliati, hanno persino toppato sulle descrizioni. Neanche quello sono stati capaci di fare!
D: Ok, è ovvio che le accuse sono ingiustificate. Hanno ricevuto l’ordine di abbattere la manifestazione e arrestare chiunque potessero mentre la gente scappava, anche a grande distanza. Il “crimine” è essenzialmente quello di aver partecipato ad una marcia anarchica antifascista.
R: Quello era il loro obiettivo: fermare il corteo, in particolare nel luogo dove prima si era svolto il pogrom. Le accuse che si sono inventati, assieme a tutta una serie di crimini, non possono rimanere in piedi. Al contrario, tutti quanti erano feriti piuttosto seriamente su diverse parti del corpo, come per esempio nel caso di un giovane che è stato aggredito con un taser. Glielo hanno messo nella schiena durante il suo arresto. Ci ha detto che in quel momento si è sentito completamente paralizzato ed è crollato a terra. L’abbiamo poi visto alla caserma di polizia, adesso ha un buco nella schiena, una profonda ferita da taser. In ogni caso, abbiamo passato un sacco di tempo ad aspettare su quelle panchine. Non avevamo acqua. Non avevamo niente, ci avevano preso tutti gli oggetti personali. Ci hanno negato persino l’acqua. Nella spazzatura avevamo trovato una bottiglietta, e un’altra sotto la panchina. Le riempivamo quando uno di noi riusciva ad ottenere di andare al bagno, ossia quando un poliziotto accettava di accompagnarci – perché, con un insieme di scuse, riuscivano a rifiutarci pure quello. Bevevamo così, un sorso a testa tra 15 ogni 2-3 ore. C’era una porta a fianco in cui entravano quelli della Delta, uno alla volta, per depositare la propria testimonianza. Erano circa una trentina, seduti attorno al tavolino di cui dicevo prima, dall’altro lato rispetto a noi. Ce ne dicevano di tutti i colori. E’ difficile da ricordare. Minacce come “vedrete contro chi vi siete messi” e “lo vedrete, se mai farete un’altra manifestazione antifascista”, “vi siete messi contro Alba d’Oro e vedrete. Noi pure siamo di Alba d’Oro”, “morirete come i vostri nonni a Grammo e Vitsi [eccidi di partigiani della guerra civile greca nel 1949]”. Facevano commenti sessisti verso di noi, le ragazze, con un linguaggio estremamente volgare, cose che non senti da nessuna parte, neanche per strada.
D: In quante ragazze eravate?
R: Eravamo in due. Hanno puntato la loro furia su di noi. Si sono occupati solo di noi per diverse ore, insultando e minacciando. In seguito avrebbero fatto riferimento a combattenti morti come Lambros Fountas, Alexandros  Grigoropoulos, Christoforos Marinos, dicendo che il resto di noi li avrebbe presto raggiunti. Nel mezzo di tutto ciò c’era uno della Delta, uno alto, che teneva il suo braccio sinistro ben alzato. Potevamo distinguere quelli della Delta dalle uniformi. Quello veniva in mezzo a noi, pestandoci i piedi con gli stivali, fumando e tirandoci addosso la cenere della sigaretta. Poi ha preso il telefono cominciando a filmarci. Ha scattato delle foto di noi dicendo che “noi abbiamo i vostri indirizzi, i vostri nomi, le vostre facce, ora Alba d’Oro avrà tutto”. Se una di noi cercava di resistere anche solo verbalmente, quello interveniva picchiando con calci e pugni.
D: Questo poliziotto in particolare?
https://i0.wp.com/blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/files/2012/09/484502_3711582380850_932014066_n-300x215.jpgR: Principalmente era lui a picchiare, e gli altri lo accompagnavano. Insultavano, vagando sulle nostre teste, prendendole a pugni o sbattendole contro il muro. La tortura non sono solo le botte, ci sono pure le minacce, i tentativi di umiliazione. Sono tutte forme di torture. Ma c’erano anche gli assalti fisici. Non riuscivo a guardare mentre coloro che già sanguinavano subivano altri pestaggi. Il più grave era uno a cui avevano sbattuto la testa e che perdeva sangue da diverse ore. Era continuamente dolorante, chiamava un dottore e appena ricominciava a parlare ricominciavano a picchiarlo. Quando chiedeva qualcosa lo aggredivano con schiaffi e pugni. Per di più, visto che erano passate diverse ore – eravamo riusciti a salvaguardare un orologio per tenere il tempo – cercavamo di chiudere gli occhi e riposare per qualche minuto. Eravamo esausti, specialmente quelli di noi feriti. Ad un certo punto, il giovane che sanguinava dalla testa ha chiuso gli occhi sdraiandosi. Non glielo hanno lasciato fare. Urlavano “alzati, non dormire, alzati”. Un altro che era stato picchiato in faccia sanguinava dal naso e dal braccio. Altri ancora erano stati menati nella schiena coi bastoni, di cui portavano gli sfregi. Durante l’arresto erano stati buttati per terra e immobilizzati, poi pestati. E mentre stavano per terra la polizia cercava di rimuovere furiosamente i caschetti da motociclista, col rischio di soffocarli, strappando la cinghia che lega l’elmetto al collo. C’erano ferite da manganello su tutte le parti del corpo: schiena, pancia, gambe, braccia. Per via dell’orientamento della panchina tenevo le gambe piegate e la testa piegata, in modo da evitare che mi fotografassero con i telefoni. Quel poliziotto della Delta è venuto a tirarmi i capelli per alzarmi la faccia e farmi una foto. La prima volta che è successo uno degli arrestati seduto al mio fianco ha protestato. E’ stato aggredito per questo. La seconda volta ho protestato io, e sono stata colpita. Siccome avevo messo le braccia davanti alla faccia e tenevo i gomiti alti, mi ha colpita sul collo. Mi picchiava tirandomi i capelli, prendendomi a schiaffi.
D: Quel poliziotto in particolare? Lo stesso che diceva di prendere fotografie da mandare ad Alba d’Oro?
R: Sì, me lo ricordo perché aveva il braccio legato. Poi hanno iniziato a registrare un video. La terza volta che è venuto verso di me, minacciandomi che ormai conosceva casa mia e il posto dove vivevo. Siccome ancora non alzavo la testa, ha ricominciato a picchiarmi. E’ stato a quel punto che sono esplosa. L’ho spinto via e ho cominciato ad urlare di lasciarci stare, che eravamo stati arrestati e non aveva alcun diritto di farci questo. Durante tutto questo caos non riesco a ricordare cosa ho detto esattamente, ma urlavo molto forte. A causa delle mie urla qualcuno in borghese è comparso nel corridoio, forse l’ufficiale di servizio, che teneva a distanza il poliziotto della Delta, impedendogli di aggredirmi ancora, e dicendo a quelli della Delta che avevano già depositato la loro testimonianza che dovevano andare via. La maggior parte di loro aveva testimoniato ore prima. Questo significa che erano rimasti solo per continuare a fare tutto questo. In quel momento anche quello che mi aveva picchiata se ne è andato. Ho dimenticato di menzionare che non era l’unico a fare foto e video. Aveva la presa migliore perché camminava in mezzo a noi, mentre i colleghi seduti al banco lo riprendevano. Le aggressioni si fermarono, ma tutto il resto continuò imperterrito. Avevano un laser a raggio rosso che ci puntavano negli occhi non appena li chiudevamo per riposarci un poco. Ogni tanto spegnevano la luce nel corridoio, accendevano una torcia elettrica e ce la puntavano dicendo: “questo è il modo in cui si porta avanti un interrogatorio”, oppure “adesso ti faccio vedere come si fa”. E nuovamente uno di loro veniva verso di noi con la pila mentre le luci erano spente. Giocavano anche con l’aria condizionata, facendoci gelare dal freddo o morire dal caldo. Smisi di chiedere di andare al bagno perché ogni volta che passavo in quel tratto di corridoio i poliziotti in borghese e quelli della Delta si profondevano in commenti orribili. Esternazioni sessiste, insulti, minacce, tutto. E c’era sempre qualcuno pronto a fotografarmi col telefono mentre passavo.http://t1.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcTEy64jhPelc4U-e63lyEY8YwMqO2eWR__Y2zaeJKNprzrB0-B1mA
D: Quando è finito tutto ciò?
R: Intorno alle 7 del mattino, quando quelli Delta se ne sono andati. Eravamo stati arrestati intorno alle 9 della sera prima. Per tutto questo tempo non abbiamo avuto alcun contatto con un avvocato. I primi di loro sono arrivati solamente dopo le 3 del pomeriggio di lunedì. Erano circa 19 ore che stavamo al sesto piano della caserma. Il compagno ferito è stato portato all’ospedale il lunedì mattina. Aveva dei punti sulla testa e una fasciatura, e un braccio rotto. Il resto dei feriti non è stato visitato da alcun dottore. Martedì sono stati portati direttamente dal medico legale. Dimenticavo: mentre eravamo al sesto piano, ci è stato chiesto di entrare in un ufficio uno per volta, per essere perquisiti. Cioè, di subire una perquisizione corporale, di spogliarci. Una perquisizione di tal fatta era già stata fatta la notte di domenica (la notte dell’arresto). Poi siamo stati portati negli uffici del Procuratore. Lui ci ha detto che saremmo stati trattenuti sino a martedì. Quando siamo ritornati in caserma, ci hanno portati al settimo piano, dove stanno le celle. Ci hanno chiamato di nuovo uno per volta, per le perquisizioni. Io protestai dicendo che non c’era alcuna motivazione per un’ulteriore perquisizione visto che venivamo accompagnati continuamente dalla polizia. La donna poliziotto disse che questi erano i regolamenti, portandomi in un ufficio adiacente alle celle, una stanza simile ad un piccolo magazzino. Entro, aspettando che la porta si chiuda. Lei si volta e mi dice che quella porta non si chiude, e che mi avrebbe perquisito così, con la porta aperta. Io dico: “ma di che stai parlando? Mi perquisisci con la porta aperta?” Esattamente dall’altro lato c’era un tavolino con un poliziotto che vi stava lavorando, ed altri andavano e venivano tra gli uffici e le celle. Esattamente dall’altro lato, non c’era alcuna divisione, ero davanti ad una porta aperta.
D:Racconti molto simili sono stati fatti da coloro che sono stati trattenuti e arrestati lunedì, durante l’attacco della polizia antisommossa ad un raduno di solidarietà dentro a Evelpidon.
R: Sì, 25 persone sono state trattenute e quattro arrestate. Una era una giovane donna che hanno portato nelle celle insieme a noi. Vorrei dire qualcosa che per noi è molto importante, cioè che sin dal primo giorno in cui ci hanno portati dal Procuratore, martedì e venerdì – dopo 20 ore di corte finalmente siamo stati liberati su cauzione e sotto misure cautelative -, in tutti questi giorni la solidarietà che abbiamo ricevuto dalle persone ci ha dato una forza incredibile. Guadagnavamo forze vedendo i nostri compagni intonare cori per noi. Senza solidarietà, davvero non saprei se avremmo potuto continuare ad essere così forti come siamo ora. Per ultimo, vorrei far notare che non è per renderci vittime che denunciamo le torture della polizia. Lo stato ha sempre cercato di terrorizzare, in tutti i modi e con ogni mezzo disponibile. La nostra prospettiva è di evidenziare gli eventi, è attraverso ciò che diventiamo più coscienti e accorti, più forti nella lotta contro la brutalità che ci stanno imponendo.

*Nota: il 27 ottobre, una quarta marcia antifascista in motocicletta ha attraversato le strade centrali di Atene con bandiere rosse e nere e intonando slogan.

Compra Scarceranda, ODIA il carcere!

27 novembre 2012 2 commenti

E’ già possibile acquistare Scarceranda, l’agenda di Radio Onda Rossa contro il carcere,

Disegno tratto da Scarceranda 2013

che viene inviata gratuitamente a chiunque sia privato della propria libertà.
Ancora una volta un agenda che vada a scandire giorno dopo giorno l’
ODIO per il carcere, e il desiderio,
semplice e così facile da capire,
di distruggerlo, abbatterlo, ridurre il carcere in macerie.
Il carcere, in ogni sua forma.

E domani avremo il piacere di presentarla a Roma, al Forte Prenestino,
in una bella serata contro il carcere, per gli amanti della libertà

ore 20,30 presentazione dell’AGENDA 2013 e cena contro il carcere
ore 22 proiezione di “CESARE DEVE MORIRE”
di Paolo e Vittorio Taviani (Ita 2012) 76′

Qui invece potete trovare l’elenco dei testi presenti sul quaderno allegato all’agenda:
testi di Salvatore, Paolo, Nicola Valentino, Vincenzo Ruggero, un mio brano, i testi della campagna 10×100 e molte lettere, poesie e ricette provenienti direttamente dal carcere, così come i tanti disegni.

Scarceranda 2013 + Quaderno 08

SENZA IL CARCERE
Dal carcere un grido: Amnistia! – S. Ricciardi
L’abolizionismo penale è possibile ora e qui – V. Ruggiero
Porta un fiore per l’abolizione dell’ergastolo – N. Valentino
L’ideologia vittimaria – P. Persichetti

IL CARCERE DENTRO
Pillole carcerarie – P. Persichetti

IL CARCERE FUORI
Perugia: La strategia della paura – Info404
G8 Genova 2001 non è finita – Campagna 10×100

POESIE
Marco Cinque, Fabio Costanzo, Valentina Perniciaro, Emidio Paolucci, Manuela Fedeli, K.H., Sergio Gaggiotti “Rossomalpelo”, Daniela Del Gaizo

LETTERE

INDIRIZZI DELLE CARCERI ITALIANE

COMPRA SCARCERANDA! Per ogni copia venduta un’altra verrà inviata ad un detenuto.
ODIA IL CARCERE!

Una tranquilla giornata di semilibertà

6 novembre 2012 5 commenti

Questa pagina la prendo dal blog di Paolo Persichetti,  detenuto in semilibertà nel carcere di Rebibbia.
Più volte ho raccontato l’accanimento giudiziario nei suoi confronti (ascolta la trasmissione su Radio BlackOut) ed ora non posso non dar spazio a questo suo racconto,
di un risveglio da semilibero: il buongiorno dello Stato.

per altro materiale:
– La domandina: quando il carcere ti educa a chiedere di poter chiedere
– Dovrò spiegare il carcere a mio figlio
– Il carcere e il suo pervadere i corpi
-Paolo Granzotto, il funzionario del carcere e la moralità

Sabato 3 novembre, oggi non si esce alle 7.00. C’è una lista di 15 persone convocate dalla direttrice di reparto. Poco dopo le  8.00 cominciano le udienze. Si sentono delle grida femminili uscire dall’ufficio. Uno alla volta escono i detenuti, i volti sono scuri, alcuni allucinati.

Ritratto di un detenuto

–  Ma chi è questa? Ma chi ce l’ha mannata?
Poco dopo le 10.00 tocca a me. Entro e vengo invitato a sedere. Esito prima di farlo. La direttrice è furibonda, si vede da lontano. Tuttavia all’inizio prova ad usare un tono tranquillo.
–  Risulta un ritardo nei pagamenti dei suoi stipendi, l’ultima mensilità è di agosto.
Me l’aspettavo una domanda del genere perché aveva fatto la stessa osservazione ad altri. Vuoi vedere che non sa nemmeno che i miei pagamenti sono trimestrali? Mi ero detto. Glielo spiego e tutto si risolverà facilmente. Povero illuso!
–  Dottoressa, il calendario delle mie retribuzioni è in perfetta regola. Come prevede il contratto, i compensi corrisposti dal mio datore di lavoro hanno cadenza trimestrale. A settembre è stato pagato il trimestre estivo. Il prossimo saldo è previsto a dicembre.

Che errore madornale! Senza saperlo ho pronunciato la parola indicibile: “contratto”. Cosa sarà mai un contratto? Questo oscuro oggetto dalla natura ormai sempre più evanescente.
La responsabile di reparto assume subito un’aria infastidita.
–  Ma non è regolare, non è indicato nel programma di trattamento.
–  Non so che dirle dottoressa, ma il contenuto del programma viene redatto dalla Direzione in coordinamento con il magistrato di sorveglianza. La cadenza dei pagamenti non è mai stata specificata in un nessuno dei miei programmi di trattamento, si tratta di un’informazione che è contenuta nel contratto a cui il programma rinvia.

A questo punto la direttrice obietta seccata di non aver trovato traccia del mio contratto da nessuna parte, lasciando intendere che è colpa mia perché non lo avrei mai depositato. Abbastanza sconcertato da questa replica, ma tuttavia sempre con un tono garbato, le faccio presente che nel mese di maggio ho presentato un nuovo contratto di lavoro, stipulato con una nuova testata dopo la definitiva chiusura della precedente, accompagnandolo con una richiesta di variazione del programma, il tutto in doppia copia come da prassi, con relativo modello 393 (la domandina) allegato e che tutto ciò ha dato luogo alle verifiche del caso, per giunta con un grosso ritardo e l’intervento risolutore dell’avvocato. La notifica del nuovo programma richiesto a fine maggio è pervenuta solo ad inizio luglio. Verifiche – aggiungo – che hanno coinvolto l’assistente sociale dell’Uepe, venuta sul nuovo posto di lavoro, e  la successiva valutazione della Direzione e del magistrato di sorveglianza.
Davanti alla mia replica, la direttrice si mostra sorpresa. La sua reazione mi fa capire che non è al corrente del cambiamento di datore di lavoro, dell’esistenza del nuovo programma e persino del contenuto dei miei precedenti contratti, nonostante diriga il reparto ormai da più di due anni, tant’è che mi chiede:
–  Perché ha un contratto a tempo determinato?
– Ho sempre e solo avuto contratti del genere, scritture private rinnovate annualmente e che ho sempre consegnato in copia a questa Direzione. I pagamenti previsti erano sempre trimestrali. Salvo ritardi.
–  Allora si sarebbero dovuti rinnovare anche i programmi di trattamento ad ogni scadenza di contratto!

un portachiavi con gli anfibi….

Posto che probabilmente ciò accade solo se vi è un cambiamento di datore di lavoro o di mansioni, o di altre variazioni qualsiasi; ma se il rinnovo consiste in un prolungamento del precedente rapporto lavorativo, senza cambiamenti, vi è da supporre che il programma resti invariato. In ogni caso una tale questione non riguarda il detenuto ma le scelte della Direzione, che se non lo ha fatto avrà avuto le sue buone ragioni. Infatti rispondo:
–  Sarà pure così dottoressa, ma cosa c’entriamo noi detenuti? A me competeva soltanto depositare i rinnovi contrattuali e l’ho fatto.
–  Mi dimostri che lo ha fatto allora!
–  Come sarebbe a dire, “mi dimostri che lo ha fatto”? Vuole forse insinuare che mi è stata concessa la semilibertà senza contratto di lavoro, che da oltre 4 anni sono in situazione irregolare, a questo punto con l’avallo di ben due magistrati di sorveglianza che si sono succeduti nel frattempo e della Direzione che l’ha preceduta?
–  No, è lei che insinua che l’Amministrazione ha perso i suoi contratti.

La direttrice prende in mano un vecchio programma di trattamento, forse il penultimo, e inizia a leggere il dispositivo iniziale:
–  «Per svolgere attività lavorativa… offerta le cui modalità sono riportate nel corpo dell’ordinanza di concessione della misura». Ah, ah, vede, qui si parla di una “offerta”. I detenuti ottengono la semilibertà sulla base di una offerta di lavoro che è altra cosa da un contratto vero e proprio, che poi non portano mai.
–  Continua ad insinuare che non ho un contratto, dottoressa? Ma lo sa che concessa la misura della semilibertà, nel maggio 2008, arrivato in questo carcere sono rimasto chiuso una settimana in attesa che fosse materialmente consegnato alla Direzione il contratto (che per quel che mi riguarda era già in corso dal gennaio 2007, quando ero ancora chiuso al Nuovo complesso)? Se i miei contratti non li trovate è un problema vostro, mica mio!

L’atmosfera è ormai irrimediabilmente compromessa. La direttrice urla, sovrappone nevroticamente le domande, non ascolta le risposte, sbraita frasi scomposte. Testimone della scena è un Ispettore che nel frattempo ha aperto un cassetto e da un fascicolo tira fuori il nuovo programma. Mostra di essere perfettamente al corrente di tutto, perché ricorda il passaggio dalla vecchia redazione, che ha chiuso, alla nuova. E’ imbarazzato per la situazione, con gli occhi mi suggerisce, quasi mi prega, di non reagire. Sussurra di non rispondere. Ma la direttrice insiste, usa un’aria di sfida. Non è la prima volta. Quando è in difficoltà provoca.
–  Che fa si scalda? Come mai è così nervoso? C’è qualcosa che non va? Non è in grado di dimostrare che ha i contratti? Ce li porti, se li ha!
–  A casa ho la collezione, dottoressa. Sono sommerso da carte burocratiche, copie di fax, mobilità, licenze. Posso dimostrare quello che voglio, ma siete voi che dovete ritrovare quelle carte, altrimenti devo cominciare a preoccuparmi se qui dentro spariscono documenti ufficiali.
–  Sta forse accusando l’Amministrazione?
–  Veramente, dottoressa, è lei che accusa me di essere un truffatore, e questa è una cosa irricevibile. Lei non può farlo.

E sì, ho commesso l’irreparabile senza nemmeno accorgermene. Quello che ai suoi occhi appare il crimine peggiore, la lesa maestà. Una volta l’ha pure scritto: «La sua forma mentis lo conduce ad avere talora, un atteggiamento “paritario” (anche se tale aggettivo rischia di acquisire una valenza negativa) nei confronti di un’Amministrazione verso la quale, comunque, egli deve rispondere del proprio comportamento e non trattare da pari: il tutto, ovviamente, nel rispetto del diritti della persona. Talora però nel soggetto pare vi sia una difficoltà a rendersi conto che, a differenza di quanto accade in un rapporto tra persone fisiche, rapportarsi con l’Amministrazione richiede una diversa “dialettica”, fatta – anche obtorto collo – di una puntuale esecuzione delle direttive o anche, delle sole indicazioni fornite dalla stessa e dai suoi operatori».

Insomma dovevo fare pippa, abbassare lo sguardo, mettere giù le orecchie, prenderla per il culo come fanno gli altri, riconoscere di essere in torto, ammettere di avere truffato l’Amministrazione, due magistrati di sorveglianza, l’assistente sociale dell’Uepe, la Direzione del carcere, l’area trattamentale, la custodia, la polizia. Tutti presi per i fondelli. Tutti a credere da più di quattro anni che avevo un contratto di lavoro. E pure l’ufficio delle imposte. Fregati tutti. E a quel punto con la coda fra le gambe invocare perdono, intrecciare le dita come Fantozzi davanti al direttore megagalattico seduto su una poltrona di pelle umana nel suo ufficio all’ultimo piano.
Ammetto la mia ingenuità. Ci sono cascato! Ho continuato a pensare che non si potesse negare l’evidenza. Ma l’evidenza non conta di fronte all’autorità che si ritiene infallibile. Così la direttrice è sbottata.
–  Come si permette, non può rivolgersi a me in questo modo. Vada fuori di qui!

Beh, se nei prossimi giorni questo blog diventerà muto, ora sapete perché.

Se questi non sono assassinii: la storia di Giuseppe Piccinini, 65 anni

5 novembre 2012 8 commenti

Da quando ho parlato di un morto in carcere su questo blog…
ne son morti tanti, di detenuti. Un numero sempre più impressionante, avvolto in un silenzio mostruoso, di cui si è tutti colpevoli.

Giuseppe Piccinini, 65 anni, sopravvissuto per meno di 48 ore al carcere.

Il carcere uccide, spesso lo fa con una lentezza micidiale,
altre volte con una velocità che è disarmante anche solo raccontarlo,
non si hanno strumenti per comprendere come può sprofondare la vita umana, in un lasso di tampo brevissimo, quando il proprio corpo entra nelle mani dello Stato.
Il buon vecchio caro Stato, che oltre a carcerarti, ti uccide.

La storia di Giuseppe Piccinini, di ben 65 anni, è sconcertante.
Giuseppe è morto per il vino, come nelle canzoni di De Andrè.
E’ morto per il vino perchè il giorno di Natale di 4 anni fa si rifiutò di fare l’alcoltest dopo un tamponamento subìto.
Immediata denuncia, quindi processo, quindi condanna.
Una condanna a 4 mesi, anch’essa notificata con un po’ di sapor di vino durante una partita a carte con la compagnia di sempre, al bar sotto casa: ordinanza di carcerazione.
La richiesta dei domiciliari presentata dall’avvocato era stata rigettata dal magistrato di sorveglianza per “mancanza di idoneità del domicilio nonchè di programma ambulatoriale presso il Sert per abuso di alcol”, malgrado fosse anche in attesa, a momenti, di intervento chirurgico delicato.
E così Giuseppe saluta gli amici, e si avvia in carcere, sottobraccio a quelli coi pennacchi in testa … la storia mentra la si racconta sembra di sentire le dita di Faber sulla chitarra.
Era venerdì pomeriggio.
Lunedì mattina è squillato il telefono, a casa sua: «Suo marito è mancato»
Sulla cartella per ora c’è un generico, e quanto mai monotono nelle carceri italiane, “arresto cardiaco”.

Odio i tribunali di sorveglianza quasi più della galera.
Ultimamente.

“Mi scesero le lacrime – erano le sue lacrime” Rosa Luxemburg

1 novembre 2012 4 commenti

Uno stralcio meraviglioso di una lettera che Rosa Luxemburg scrisse alla sua amica Sonja Liebknecht, dal carcere di Breslavia, poco prima di essere trucidata insieme al marito di Sonja, Karl Liebknecht.

“E’ il mio terzo natale in gattabuia, ma non fatene una tragedia. Sono calma e serena come sempre. […]

La copertina del libricino da cui è tratta la lettera, Adelphi editore

Ieri dunque pensavo: quanto è strano che, senza alcun motivo particolare, io viva sempre un’ebbrezza gioiosa. Me ne sto qui, ad esempio, in questa cella oscura, sopra un materasso duro come la pietra, intorno a me nell’edificio regna come di regola un silenzio di tomba, sembra di essere rinchiusi in un sepolcro: attraverso la finestra si disegna sul soffitto il riflesso della lanterna accesa l’intera notte davanti al carcere. Di tanto in tanto si sente, cupo, lo sferragliare di un treno che passa in lontananza: oppure, più vicina, proprio sotto la finestra, la guardia che si schiarisce la voce e per sgranchirsi le gambe fa lentamente qualche passo con i suoi stivaloni. La sabbia stride in modo così disperato, sotto quei passi, che nella notte scura e umida si sente risuonare tutta la desolazione e lo sconforto dell’esistenza.
Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola dell’oscurità, della noia, della prigione invernale – e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito. E nel buio sorrido alla vita, quasi fossi a conoscenza di un qualche segreto incanto in grado di sbugiardare ogni cosa triste e malvagia e volgerla in splendore e felicità. E cerco allora il motivo di tanta gioia, ma non ne trovo alcuno e non posso che sorridere di me. Credo che il segreto altro non sia che la vita stessa; la profonda oscurità della notte è bella e soffice come il velluto, a saperci guardare. E anche nello stridere della sabbia umida sotto i passi lenti e pesanti della guardia risuona un canto di vita piccolo e bello, se solo ci si presta orecchio.

(…) Ahimè, Sonicka, qui ho provato un dolore molto intenso. Nel cortile dove vado a passeggiare arrivano di frequente carri dell’esercito zeppi di sacchi o di vecchie giubbe e casacche militari, spesso con macchie di sangue. Vengono scaricate, distribuite nelle celle per i rattoppi e quindi di nuovo caricate e rispedite all’esercito. Qualche tempo fa è arrivato un carro tirato da bufali anziché da cavalli. Per la prima volta ho visto questi animali da vicino. Di struttura sono più robusti e più grandi rispetto ai nostri buoi, hanno teste piatte e corna ricurve verso il basso, il cranio è più simile a quello delle nostre pecore, completamente nero e con grandi occhi mansueti. Vengono dalla Romania, sono trofei di guerra… I soldati che conducono il carro raccontano quanto sia difficile catturare questi animali bradi, e ancor più difficile farne bestie da soma, abituati com’erano alla libertà. Furono presi a bastonate in modo spaventoso, finché valse anche per loro il detto «vae victis»… Soltanto a Breslavia, di questi animali, dovrebbe esservene un centinaio; avezzi ai grassi pascoli della Romania, ora ricevono cibo misero e scarso. Vengono sfruttati senza pietà, per trainare tutti i carichi possibili, e assai presto si sfiancano.
Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi, accatastati a una tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia. Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese allora a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo investì chiedendogli se non avesse un po’ di compassione per gli animali. «Neanche per noi uomini c’è compassione» rispose quello con un sorriso maligno e battè ancora più forte… Gli animali infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro sanguinava… Sonicka, la pelle del bufalo è famosa per essere assai dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta… gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime – erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella silenziosa sofferenza. Quanto erano lontani, quanto irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania! Quanto erano diversi, laggiù, lo splendore del sole, il soffio del vento, quanto era diverso il canto armonioso degli uccelli o il melodico richiamo dei pastori! E qui… questa città ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseabondo e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei e terribili e… le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta. Oh mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia. Intanto i carcerati correvano operosi qua e là intorno al carro, scaricavano i pesanti sacchi e li trascinavano dentro l’edificio; il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò tra sé una canzonaccia. E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi…

Vi abbraccio, Sonicka
La vostra R.

Rosa…

Per un po’ di letteratura: QUI

Terremoto di L’Aquila: dibattito sulla sentenza contro i membri della “Commissione grandi rischi”

30 ottobre 2012 1 commento

L’Aquila: RESISTERE!

Un’intervista molto interessante.
Sono anche un po’ di parte, visto l’intervistatore (mon amour) e l’intervistato, una delle persone a me più care,
fratellone di tante cose, di pezzi di vita e lotta,
di un’amicizia profonda,
un cervello raro, direi introvabile.
E allora, il Professor Lucarini, fisico,  (a Lucari’, me farà sempre strano chiamarti professore), docente di Meteorologia Teorica all’università di Amburgo,
ci racconta la sua reazione alla sentenza di pochi giorni fa, ai danni dei componenti della Commissione Grandi Rischi.
Una prima valutazione, pre pubblicazione delle motivazioni del Tribunale Penale de L’Aquila, da parte di un uomo di scienza,
esperto di prevenzione dei rischi geoambientali.
Dopo l’intervista a Valerio Lucarini, pubblico il comunicato del 3e32, centro sociale della città martoriata dal terremoto, che ha accolto con gioia la condanna.

Sperando che si possa aprire un bel dibattito.

L’intervista – Sentenza di L’Aquila contro i membri della Commissione grandi rischi. Parla Valerio Lucarini fisico, docente di meteorologia teorica presso l’università di Amburgo, esperto di prevenzione dei rischi geoambientali
di Paolo Persichetti

Ha creato molto scalpore la sentenza del giudice monocratico del tribunale di L’Aquila, Marco Brilli, che lo scorso 22 ottobre ha condannato a 6 anni di carcere (due di più di quelli richiesti dalla pubblica accusa) e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, il vice direttore della Protezione civile Bernardo De Bernardinis e i sei membri della Commissione grandi rischi, tra cui figurano nomi come Franco Barberi ed Enzo Boschi, massimi esperti mondiali nel campo della sismologia.
Molto dure le reazioni del mondo scientifico che hanno visto nella sentenza un ritorno dei processi alle streghe mentre il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, auspicando un ribaltamento del verdetto in appello ha chiamato in causa il precedente della condanna di Galileo.
In attesa delle motivazioni della sentenza, ad esser note per il momento sono solo le giustificazioni utilizzate dall’accusa per chiedere le condanne. Argomenti, a dire il vero, molto diversi dalle interpretazioni della sentenza apparse sui media. I pm Fabio Picuti e Roberta D’Avolio, dopo aver ricordato che la scienza attuale non dispone di conoscenze e strumenti per la previsione deterministica dei terremoti, hanno sostenuto che agli imputati non poteva essere addebitata «la mancata previsone della scossa distruttiva del 6 aprile 2009» o il fatto di «non aver lanciato allarmi di forti scosse imminenti», cosa che in realtà gli esperti avevano fatto, o «non aver ordinato l’evacuazione della città», ma per essersi prestati ad una operazione politica voluta dal capo della protezione civile. Bertolaso aveva chiesto di rassicurare la popolazione aquilana allarmata dal lungo sciame sismico e dalle denuncie di Giampaolo Giuliani, fondate sulla misurazione delle emissioni di gas radom dal terreno. Un metodo contestato dalla comunità scientifica.
Ha senso dunque parlare di una condanna contro la scienza? In realtà la sentenza sembra sollecitare un altro tipo di dibattito più complesso e meno manicheo, come il rapporto tra scienza e politica o ancora sul grado di indipendenza e autorevolezza dei pareri tecnici rispetto alle amministrazioni e più in generale alla società. Ne parliamo con Valerio Lucarini, fisico, docente di meteorologia teorica presso l’università di Amburgo, esperto di prevenzione dei rischi geoambinetali, uno dei nostri migliori cervelli “in fuga” dall’Italia.

Professore, suppongo che questa sentenza non susciti in lei nessuna nostalgia per l’Italia?
Decisamente no, per una lunga serie di ragioni. Certamente questa sentenza e tutta questa vicenda mettono in luce il difficilissimo rapporto che esiste in Italia fra scienza, politica, opinione pubblica, e rendono chiaro quanto sia difficile per un esperto operare con serenità ed esercitare la proprie competenze in situazioni in cui l’incertezza è intrinsecamente grande e seri sono i rischi per persone, beni pubblici e privati. Naturalmente non dobbiamo pensare solo al rischio sismico, ma, ad esempio, anche al rischio idro-meteo-climatico – il mio ambito di competenze – cui l’Italia è fortissimamente esposta.

L’inchiesta ha accertato che gli scienziati all’inizio hanno fatto correttamente il loro lavoro, avvertendo della possibilità di altre scosse, anche forti. Poi c’è stata quella conferenza stampa, «l’evento mediatico» di cui parla Bertolaso nella intercettazione. Come si spiega un fatto del genere? Gli esperti si sono lasciati strumentalizzare dalla politica?
Io direi che è emersa una situazione di fondamentale debolezza per la Commissione grandi rischi. Da un lato si sono trovati schiacciati dalle pressioni di Bertolaso, e dal suo peculiare modo d’interpretare il ruolo della Protezione civile come mano operativa della Presidenza del consiglio dei ministri, con tutte le implicazioni politiche e mediatiche del caso. Dall’altro, si sono trovati schiacciati da un’opinione pubblica presa dal panico prodotto dallo sciame sismico prolungato ma anche dall’allarme diffuso da personaggi privi di qualsiasi credibilità scientifica. Giuliani, che è un tecnico senza laurea dei laboratori del Gran Sasso, aveva preannunciato un terremoto anche a Sulmona che poi non c’è stato. Incredibilmente, la denuncia per procurato allarme che Bertolaso ha – giustamente – effettuato contro Giuliani è stata respinta dal giudice dopo il terremoto di L’Aquila. Perché il fatto non sussiste. Come se l’allarme di Giuliani fosse stato giustificato! Purtroppo la tendenza ad affidarsi a teorie del complotto, per cui la scienza ufficiale nasconde la “vera verità” per fini secondi o terzi è molto radicata. Quindi la Commissione era in realtà assai debole in termini di comunicazione.

Dunque non un errore di previsione ma di comunicazione provocato dal tentativo di diffondere un messaggio antipanico?
Italia c’è da sempre una cattiva comunicazione e un bassissimo livello di ricezione scientifica. Cosa che non avviene altrove. Negli Usa è diffusa in tutti gli strati sociali un’alta capacità di ricezione dell’informazione scientifica, per esempio in materia di rischio idrometeorologico. Tutti sono in grado di decodificare informazioni come “esiste l’X% di probabilita’ che in questa regione Y si possano avere delle precipitazioni piu’ intense di Z”. E nessuno si stupisce o si scandalizza se le precipitazioni in Y sono meno intense di Z o se alla fine in una regione K vicino a Y si osservano precipitazioni molto intense. Al contrario in Italia è successo in passato che i bagnini della Romagna e della Versilia abbiano chiesto di non pubblicare le previsioni del tempo nelle località balneari per non scoraggiare i turisti. Dimenticandosi di quelli che venendo al mare “sperando” nel bel tempo e trovandosi in mezzo a condizioni avverse, perderebbero soldi, tempo, o anche la vita.
Tuttavia la risposta nel caso di L’Aquila non è così facile: cosa vuol dire, infatti, “rassicurare”, soprattutto in quel contesto traversato da voci allarmistiche e su una materia come quella sismica? Bisognava dare un messaggio immediato e forte di fronte a situazioni di vero e proprio procurato allarme. Il panico non aiuta a diffondere informazioni importanti in situazione di grande incertezza. Esiste nell’opinione pubblica e nei media italiani la capacità di dare e recepire un’informazione del tipo: questo sciame sismico implica/non implica un aumento della possibilità di una scossa più forte entro questo segmento spaziale e temporale, con questa incertezza?

A quanto pare no, ma ciò giustifica la “narcotizzazione del rischio”?
Il rischio sismico è dato dalla combinazione tra quanto si scuote la terra e la capacità di resistenza di ciò che esiste sopra il suolo. Non basta che la terra tremi (pericolosità sismica), occorre conoscere la situazione socio-urbana dei territori. Faccio un esempio: il centro di Tokio è ad altissima pericolosità sismica ma a rischio assai basso grazie alle infrastrutture antisismiche, al livello di organizzazione sociale e alla preparazione dei singoli cittadini. Ma non limitiamoci al Giappone, come caso limite. Certi standard sono ormai comuni in moltissimi paesi, inclusi quelli molto più poveri dell’Italia. A Messina o in altre parti d’Italia, in presenza di una pericolosità sismica forte, il rischio è altissimo a causa del basso livello di prevenzione socio-urbana. La mappatura della pericolosità sismica italiana è stata accuratamente svolta anni fa dall’Ingv, ente allora guidato proprio da Boschi.

Professore, sta dicendo che la narcotizzazione del rischio è avvenuta molto prima?
Certo. Quanto è comodo prendersela con dei meravigliosi capri espiatori, come gli esperti, perché non hanno saputo impedire il terremoto, come se lo scienziato fosse uno stregone. E’ paradossale ma si guarda alla scienza in modo ancora superstizioso, come se possedesse proprietà divine. Così dal cono di luce della tragedia viene tolto chi ha costruito male, chi non ha controllato, tutti gli interessi locali e nazionali, gli imprenditori, gli amministratori e anche la società che si è adagiata su tutto questo. Una somma di responsabilità diluite nel tempo che hanno impedito la riduzione del rischio. Per le comunità locali chiudersi a riccio ed esportare verso l’esterno ogni colpa è la soluzione più comoda. In questo senso, il modo in cui i media esteri hanno riportato la sentenza, “L’Italia condanna sette esperti per non essere stati capaci di prevedere il terremoto”, è piu’ corretta di quanto le carte letteralmente dicano.

Le sue sono parole forti.
Non c’è altra soluzione. Mappare sempre più accuratamente la pericolosità sismica, minimizzare il rischio ottimizzando la gestione del territorio con rigorose misure antisismiche, preparando socialmente e culturalmente gli abitanti ad affrontare razionalmente il rischio facendo convivere sapere scientifico e vita quotidiana. Non esistono miracoli. Lo stesso discorso vale per il rischio idro-meteo-climatico, vogliamo ricordare Sarno e Messina?

Quindi lei assolve i tecnici?
Ma io non faccio il giudice. Dico che il rapporto tra esperti, politica e amministrazione dovrebbe essere diverso. Problemi molto seri non sono presenti solo in Italia. Penso a quanto è accaduto nel 2006 nel Regno Unito: una commissione di medici di altissimo livello propose una revisione della calssificazione delle droghe, normalmente suddivisa in tre categorie per ordine di pericolosità. Provocatoriamente, ma seguendo alla lettera i fatti medici, questa commissione mise nella prima fascia l’alcool, il tabacco, e l’eroina. Le droghe chimiche (oltre che ovviamente la cannabis), contro le quali si rivolge attualmente la repressione poliziesca e su cui si concentrano i media, finirono in ultima fascia. Questo perché, se non ricordo male, ogni anno ci sono molte decine di migliaia di morti per alcool, alcune decine di migliaia per tabacco, alcune migliaia per eroina, poche decine per il resto.

Come andò a finire?
Ovviamente il governo ignorò fragorosamente gli esperti asserendo che politica aveva la supramazia assoluta su tali questioni.
Si veda http://www.official-documents.gov.uk/document/cm69/6941/6941.pdf

Sentenza Grandi Rischi: un’interpretazione dolosamente distorta

Il commento del sito www.3e32.com

24 ottobre  2012
In questi giorni i media nazionali stanno mettendo in atto una vergognosa operazione mediatica, diffondendo una interpretazione completamente distorta della sentenza e del processo stesso alla Commissione Grandi Rischi.
Secondo gran parte dei mezzi di informazione – che seguono pedissequamente la tesi espressa anche dai vertici della Protezione Civile – gli imputati sarebbero stati condannati per non aver previsto il terremoto. Si tenta così di ribaltare il senso stesso del processo che non tratta affatto della capacità di previsione della scienza, ma che, lo ricordiamo per chi parla senza sapere, è basato sul fatto che i membri della Commissione hanno rassicurato la popolazione.
E’ vergognoso constatare come attraverso questa operazione mediatica si stia tentando di raccontare l’ennesima bugia, in Italia e all’estero (dopo, per esempio, la favola del “miracolo aquilano”), arrivando alla follia di sostenere che adesso la Protezione Civile non potrà più lavorare liberamente, come afferma senza pudore in comunicato del Dipartimento stesso.
Al presidente dimissionario della grandi rischi Maiani che ha affermato che “non c’è nessuna indagine su chi ha costruito in maniera non adeguata”, vorremmo ricordare che pochi giorni prima della sentenza di lunedì era arrivata la condanna per l’Ing. De Angelis, giudicato responsabile per il crollo della palazzina in via generale Rossi, dove lui viveva, e dove ha perso la vita anche sua figlia.
E’ triste inoltre che anche la politica debba esprimere giudizi di merito anche su questo, smascherando ancora una volta come dietro a degli incarichi tecnici, si cerchi di utilizzare arbitrariamente un potere tutto politico, come ha fatto e continua a fare il Capo della Protezione Civile (ed ex prefetto de L’Aquila) Gabrielli.
I membri della Commissione Grandi Rischi avrebbero dovuto dimettersi il 31 marzo 2009, quando piegarono il proprio operato ed il proprio giudizio scientifico al potere del Governo e del Capo della Protezione Civile Bertolaso, prestandosi all’intercettata “operazione mediatica” tesa a tranquillizzare i cittadini del cratere.
Abbiamo vissuto sulla nostra pelle quale sia l’enorme potere che passa trasversalmente attraverso il Dipartimento della Protezione Civile.
Un potere capace anche di modificare a proprio interesse l’oggettività dei fatti attraverso i media. Ma questa volta si è davvero passato il segno. La coraggiosa sentenza del giudice stabilisce evidentemente una verità non in sintonia con questo potere a cui da subito come 3e32 ci siamo opposti nel quotidiano del nostro territorio.
La sentenza apre finalmente una breccia di civiltà e riscatto nella cappa di ingiustizie e disagio in cui questa città sembra rimanere ancora come paralizzata.
Una breccia importante da cui può finalmente iniziare quel difficile processo di elaborazione collettiva di quanto realmente accaduto a partire dal terremoto. Un’elaborazione scomoda, finora impedita a tutti i costi e che però è l’unica cosa che può salvarci dal baratro.
La strada da percorrere ce la stanno mostrando prima di tutto la dignità vera, il coraggio e la tenacia dimostrate dai parenti delle vittime che in questi anni hanno continuato a battersi nel silenzio di gran parte della città e contro ogni manipolazione.

Genova 2001: contribuiamo alle spese

15 ottobre 2012 2 commenti

Alla fine di luglio scorso avevamo dichiarato di voler continuare la campagna 10×100.

FAGIOLINO LIBERO!
MARINA LIBERA!
LIBERTA’ PER TUTTE e TUTTI

Non solo perché i processi non sono finiti ma anche perché siamo convinte e convinti che solo così potremo mantenere viva la nostra memoria sulle giornate di Genova e imparare da oggi in poi a fare fronte alle vicende giudiziare con la solidarietà e la forza che attraverso il web ci avete dimostrato.

Se un compagno e una compagna sono oggi in carcere, presto riprenderà il processo per i cinque che dovranno tornare in appello, un altro capitolo della storia giudiziaria di Genova che sta per riaprirsi.

Le spese totali dei processi ad oggi ammontano a circa 80 mila euro, cifra destinata a crescere con l’imminente ripresa dell’appello. Una cifra insostenibile per chiunque di noi, che eravamo lì nel 2001.

Insostenibile perché mette una ipoteca sulla vita delle persone, che si aggiunge alle misure detentive.

Pensiamo che sia importante far sentire la forza dei 300 mila che erano a Genova sostenendo le spese legali delle e degli imputati, per questo invitiamo tutte e tutti a sottoscrivere attraverso il sito di supporto legale www.supportolegale.org, o direttamente qui http://www.buonacausa.org/genovag8,
per far sentire a tutte e tutti la nostra solidarietà.

Se riusciamo a versare tutti anche un simbolico euro, riusciremo a coprire le spese che gli imputati si trovano a sostenere da soli.
Altrimenti no.

Vorremmo poi, che la campagna diventasse uno strumento per ragionare su quanto accade nelle piazze e sul reato di “devastazione e saccheggio”, su cosa significhi per lo Stato e i suoi apparati il termine “ordine pubblico”, quello stesso ordine pubblico che i 10 imputati per Genova 2001 avrebbero turbato.

E’ tempo, pensiamo, di capire da che parte stare..
se dalla parte di chi ruba nei supermercati o rompe i bancomat delle banche o dalla parte di chi le costruisce.

La campagna 10×100

www.10×100.it
info@10×100.it

Per scrivere ad Alberto :Alberto Funaro, Casa Circondariale Capanne, Via Pievaiola 252, 06132 Perugia
Per scrivere a Marina : Marina Cugnaschi c/o Seconda Casa Di Reclusione Di Milano – Bollate, Via Cristina Belgioioso 120,  20157 Milano (MI)

Dal Messico, per i prigionieri
Gli ostaggi iniziano ad entrare in cella
Le ragioni di una campagna
A poche ore dalla sentenza Diaz e “devastazione e saccheggio”

Dal Messico, per Alberto e tutti i prigioneri

10 ottobre 2012 1 commento

Ho un amico che si chiama Alberto che sta in galera
Ho un amico che si chiama Alberto che sta in galera
Alberto l’hanno rinchiuso perchè s’è ribellato a un ordine ingiusto e cieco
Alberto sta pagando un caro prezzo per difendere la potenza dei nostri sogni
Alberto ha gli occhi scuri e profondi e una scintilla s’accende veloce quando parliamo di resistenza
Alberto ha sempre odiato il carcere, giorno dopo giorno
Alberto quando l’hanno arrestato l’hanno torturato, l’hanno umiliato…

…l’hanno braccato decine di agenti e l’hanno costretto a camminare solo verso la cella

Il potere, per accanirsi contro Alberto, ha montato un processo farsa e l’ha condannato a marcire in galera per troppi, troppi anni…
Una sentenza spropositata per un capro espiatorio, una infame vendetta di Stato
Fanno pagare ad Alberto le lotte di tutti e tutte…
…vogliono così intimorire la gente, farla rassegnare al presente perpetuo del capitalismo.
Alberto è uno, nessuno, è trecentomila.
Alberto è uno, nessuno, è trecentomila.
Alberto è un indigeno tzotzil del Chiapas
Alberto è un libertario romano

Nel Chiapas della guerra permanente e dei massacri contro gli indigeni, Alberto Patishtán Gomez, detto el profe, è stato condannato a 60 anni accusato di un’imboscata contro sei poliziotti… Nell’Italietta dell’ipocrisia e della precarietà Alberto Funaro, er fagiolino, viene condannato a dieci anni per resistere nella Genova della guerra di strada, combattuta metro per metro contro 20,000 agenti. Nel Chiapas della rivoluzione zapatista e dei villaggi autonomi in resistenza, Alberto Patishtán è un ostaggio del Potere che non tace, che denuncia, che tesse reti ribelli nelle galere…
Nell’Italia dei territori in resistenza Alberto è dentro per una passione, quella passione che fa anche della cella una trincea, una passione che quando si contagia fa tremare il potere. Quando i governi dispiegano i loro sbirri a difesa di se stessi, si somigliano ancora di più. Ma non c’è oceano, non c’è latitudine, non c’è frontiera… non ci sono argini e dighe che tengano quando le resistenze si conoscono, confluiscono e formano la grande mareggiata che, goccia dopo goccia, li sommergerà.
Abbiamo scelto di parlare di Alberto, dei nostri Alberto, ma avremmo potuto usare migliaia di altri nomi. Non solo per parlare della vendetta di Stato su Genova, che comunque c’ha scosso anche qui in Messico, o per parlare della guerra a bassa intensità che si combatte in Chiapas e miete vittime…

Gli ostaggi in mano del potere sono ovunque e tutti patiscono i rigori di un regime punitivo e insesato chiamato GALERA. Una condizione di costrizione dei corpi e incasellamento delle menti che trova il suo corrispettivo nel disciplinamento globale della società: eserciti che pattugliano per le strade, frontiere chiuse ai migranti di ogniddove, impunità garantita ai corpi di polizia, leggi speciali a difesa dell’accumulazione di capitale.

Per questo salutiamo Alberto Patishtán e Alberto Funaro, ma anche tutti gli altri e le altre compagne schiacciate fra le umide pareti della prigione: salutiamo, fra i tanti, i 5000 prigionieri politici in Palestina, le centinaia di baschi e basche condannate come terroristi per difendere in un lembo di terra a ridosso dei Pirenei, i guerrieri Mapuche che – irriducibili – pagano con sentenze secolari la difesa dei loro boschi, gli anarchici sequestrati da ogni Stato del pianeta, le centianaia di egiziani ed egiziane, fiori strappati alla primavera araba… gli attivisti e le attiviste perseguitati per occupare ed esigere case. Salutiamo inoltre i migranti di qualsiasi terra, cacciati da qualsiasi governo e incarcerati negli infernali CIE costruiti lungo quelle cicatrici che dividono il mondo in Stati…

E in questo spazio di riflessione, di libertà e di memoria ricordiamo chi in galera è morto. Perchè di carcere non si muoia più, ma neanche di carcere si viva.

E ricordiamo la dignità di una donna, di una compagna, una nostra compagna.
Occhi blu imprigionati per 18 di anni, occhi di una donna che non ha mai smesso di essere quello che era: semplicemente una donna, incredibilmente una donna. Guerriera, compagna, madre, sorella, amica. Franca Salerno è viva nello scontro quotidiano contro la barbarie della galera, pattumiera della società patriarcale, verticale, colonialista, capitalista. Una lotta che è la stessa che suo figlio, con noi, ha animato contro la precarietà, contro le guerre imperialiste, per il diritto all’abitare: Antonio e i suoi occhi blu. Che il mare vi culli, una madre e un figlio. Uniti nella rabbia e nell’amore.

L’ultimo abbraccio – amici, sorelle, compagni e passanti – lo diamo insieme a voi a chi ci ha portato qui: Renato. Ci sono buone ragioni per continuare a lottare, buone ragioni per rischiare anche la galera… sono le stesse che fanno la vita meravigliosa: la solidarietà, la giustizia, l’amore, il calore di un sorriso e di un abbraccio. Le stesse ragioni che hanno fatto di Renato – il nostro Renato – un ricordo vivo, collettivo e indimenticabile.

Con tutto il bene dell’anima, dal Messico

Fazio e Nina

Amnistia in Egitto

9 ottobre 2012 1 commento

Mohammed Morsi “festeggia” i suoi 100 giorni di carica come presidente egiziano, annunciando un’amnistia che tirerà fuori dal carcere tutti coloro che sono stati arrestati nei mesi della rivoluzione avvenuta per abbattere Hosni Mubarak, e il suo decennale potere.
Il decreto è disponibile anche sui Social Network, molto utilizzati prima dalla giunta militare ed ora dal governo presediuto dalla fratellanza musulmana, per comunicare con la cittadinanza: il testo completo è infatti apparso poco dopo il suo discorso sulla pagina ufficiale che gestiscono su Facebook.

E’ un’amnistia che coinvolgerà e libererà dalla prigionia tutti i detenuti arrestati a partire dal 25 gennaio del 2011, fino all’insediamento di Morsi (quindi anche tutti coloro che hanno partecipato alle manifestazioni successive alla caduta di Mubarak, contro il Consiglio Supremo delle Forze Armate.)
Saranno migliaia i prigionieri che torneranno in libertà.
L’amnistia sì, quella che dalle nostre parti resta un’eterna sconosciuta, rimossa e bistrattata

A mamma Clara… “chi ha deciso che non posso toccare le mani di mio figlio?”

12 settembre 2012 6 commenti

Provo a fare un saluto a Clara, quella che ho sempre sentito nominare e chiamare “mamma Clara”.
La mamma di tutti e tutte coloro che in quegli anni combattevano tra l’art.90, gli ergastoli che piovevano, la tortura, le traduzioni continue, le privazioni totali e costanti.
Mamma Clara è andata via da pochi giorni, portandosi dietro un bagaglio d’amore immenso,
portandosi dietro migliaia di km fatti su e giù per l’Italia, le tante botte ripetutamente prese,  con altre donne, figlie, mogli, mamme, amiche…
tutte, anche esse, vittime dimenticate di quell’epoca;
è andata via portando con sé i pacchi, i vetri su cui poggiavano le mani lei e Bruno,
il suo figlio carcerato,
suo figlio terrorista, suo figlio brigatista,
suo figlio, punto.
Sono stati in tanti ed in tante ad aver Clara come mamma, come spalla, come amica…
E allora usiamo le sue parole per salutarla, perché son belle e vere,
perché c’è tutta quella donna fatta di fornelli e borgate romane,
che è diventata combattente lucida, piena d’amore.

“Non avevo mai visto un carcere in vita mia, né ci avevo mai pensato. Non sapevo neppure come era.
Trenta anni fa sentivo dire che stavano costruendo Rebibbia, ma non sapevo neanche che era un carcere.
Dopo una settimana, quando lo trasferirono lo andai a trovare a Napoli. Siamo stati abbracciati tutto il tempo, non gli chiesi nulla, non potevo chiedergli niente.
Gli dissi solo queste parole: “sta cosa me la potevi risparmiare, figlio mio”. Lui non ha detto niente, io non ho più parlato.
Quando lo vidi là dentro non ho pensato a nulla, non potevo pensare, che cosa avrei dovuto pensare?
Piangevo e basta. Per me contava solo che era vivo.
Dopo un bel po’ di tempo, quando era iniziato il pentitismo, gli dissi questo: “Prima di fare la spia impiccati, sarebbe la cosa più giusta.

Il primo incontro con il carcere è stato traumatico. C’erano un’infinità di cancelli di ferro che mi si chiudevano alle spalle lungo un corridodio buio che portava al sotterraneo. Lì mi hanno spogliata completamente, mi hanno fatto togliere perfino il reggiseno e le mutande. Io piangevo, mentre mi spogliavo piangevo.
[…] Quel giorno cominciarono i viaggi.
Quel giorno erano cominciate pure le umiliazioni.
Dopo un paio di settimane Bruno fu trasferito a Palmi.

[…]Il periodo più duro è stato quello dell’art.90. Non potevo portargli cibo nè niente, solo poca biancheria intima.
I colloqui si facevano con un vetro che ci separava.
Parlavamo a distanza e non si riusciva a sentire bene la voce, così mi aiutavo coi gesti.
Per due anni non l’abbiamo toccati i nostri figli. E’ stato un tempo orribile, che non finiva mai.
Ovunque, anche per la strada ci sentivamo controllati, pressati. In carcere erano ore e ore di attesa. Ci buttavano come le bestie dentro una stanza, dalle nove del mattino fino all’una, alle due, in attesa di poter fare un colloquio. Tutte noi venivamo da parti diverse dell’Italia e avevamo viaggiato tutta la notte. Penso che lo facevano apposta, per cattiveria, per punire anche noi familiari. Perché non ce li facevano toccare con le mani, neanche una carezza e questo non poteva avere senso.

[…] Andammo a Genova perchè ci dissero che li avrebbero fatti toccare.
Ci dissero che potevano passare solo le donne che avevano dei bambini in braccio, così io mi feci prestare la pupa di Francesca. Ce li fecero abbracciare solo per un attimo. Erano anni che non toccavo mio figlio.
[…] A Laura mi sono affezionata moltissimo. Quando l’hanno arrestata io ero disperata, perché quella ragazzina non c’aveva nessuno, né madre né padre. Ho sempre cercato di esserle vicina, mi chiamava mamma Clara.
[…] Poi sono diventata mamma Clara per tanti altri ragazzi; mica solo a Laura ho fatto pacchi! Questi figli ho cercato di aiutarli, di essere uguale con tutti e non disponibile solo con mio figlio.
Tutta l’economia della famiglia da tredici anni è quindi rivolta non solo a Bruno, ma a tutti gli altri.
A Bruno ora che sta a Roma a Rebibbia faccio il pacco ogni settimana, ogni giovedì. Cucino la mattina stessa prima di andare al colloquio. Lo faccio con tanto amore, è l’unica cosa che mi è rimasta per dimostrargli il bene: stirargli le camicie, lavargli bene i panni, improfumarglieli.
Solo questo mi è rimasto.
I pacchi non sono importanti solo per chi sta in carcere, ma anche per chi li prepara.
Io penso a mio figlio…ieri gli ho portato i fagiolini con il pesce spada, le alici e la frutta.”

il profumo dei tuoi piatti è entrato nelle peggiori celle del nostro paese,  ed è riuscito a renderle dolci.
Grazie…che chiederlo a fare alla terra di esser lieve su di te?
Buon viaggio mamma Clara…

[il virgolettato è tratto da “Dall’altra parte. Odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici” di Prospero Gallinari e Linda Santilli. Feltrinelli Editore, settembre 1995]

Ergastulum di Santo Stefano: entrando con gli occhi di Luigi Settembrini

28 agosto 2012 6 commenti

Queste righe sono un quadro.
Un maledetto quadro dai colori nitidi, capace di urlare ai venti di quel braccio di mare, cosa è stato quel posto.
Torno ancora, stavolta solo con la testa, all’approdo sdrucciolevole dell’isola di Santo Stefano, quello scoglio splendido e maledetto da sempre, che si bagna nello stesso mare di Ventotene, sua sorella maggiore.
Torno al carcere di Santo Stefano, alle tante parole contro l’ergastolo che quel luogo muove in chiunque (spero),
torno a quella salita che graffia le gambe e l’anima,
a quello scoglio di dolore e meraviglia, dove troppi morti senza libertà si accalcano nella terra,
o nel ricordo del pasto delle acque spesso affamate di carni e catene.
Torno lì regalandovi questo quadro, scritto da Luigi Settembrini (1831-1876) che in quel bagno penale, in quel maledetto ergastulum ha passato un decennio, lui che ebbe anche il padre rinchiuso in quelle celle.
I suoi scritti su Santo Stefano sono una testimonianza grandiosa ed importante,
che vi consiglio di leggere se per qualche motivo della vostra vita siete inciampati su un sasso di Santo Stefano, o sul gradino d’accesso di qualche segreta di Stato.
Buona lettura…questa descrizione dell’ergastolo è solo una parte di quello che cercherò di mettervi prossimamente…

NO ALL’ERGASTOLO!
NO FINE PENA MAI!

Qui intanto qualche link: LEGGI

“Ma entriamo in questa tomba, dove son sepolti circa ottocento uomini vivi:

L’ergastolo

L’ergastolo di Santo Stefano

Chi si avvicina a Santo Stefano vede da mare sull’alto del monte grandeggiare l’ergastolo, che per la sua figura quasi circolare sembra da lungi una immensa forma di cacio posta su l’erba.
Il gran muro esterno, dipinto di bianco e senza finestre, è sparso ordinatamente di macchiette nere, che sono buchi a guisa di strettissime feritoie, che dànno luogo solo al trapasso dell’aria. Per iscendere sull’isola si deve saltare su di uno scoglio coperto d’alga e sdrucciolevole. Cominciando a salire per una stradetta erta e scabra, si trova in prima una vasta grotta, nella quale il provveditor dell’ergastolo suol serbare sue provvigioni; poi montando più su si vede il dosso del monte industriosamente coltivato. Sino a pochi anni addietro l’isola era tutta selvaggia ed aspra: ora è coltivata, tranne una ghirlanda intorno, dove tra gli sterpi e le erbacce pascono le capre pendenti dalle rocce, sotto di cui si rompe il mare e spumeggia. Su la parte più larga e piana del monte sorge l’ergastolo.
Non si può dire che tumulto d’affetti sente il condannato prima di entrarvi: con che ansia dolorosa si sofferma e guarda i campi, il verde, le erbe e tutto il mare, e tutto il cielo, e la natura che non dovrà più rivedere; con che frequenza respira e beve per l’ultima volta quell’aria pura; con che desiderio cerca di suggellarsi nella mente l’immagine degli oggetti che gli sono intorno. Fermato innanzi la terribile porta vede una strada lunga un cento cinquanta passi, in capo della quale un casolare fabbricato sulle rovine della villa di Giulia; e vicino a questo un recinto di mura con una croce che è il cimitero de’ condannati. Se gli è permesso di camminare un poco verso la sinistra dell’ergastolo vede una casetta del tavernaio divenuto coltivatore dell’isola, ed un’altra stradetta più malagevole della prima, per la quale con l’aiuto delle mani e dei piedi scendesi al mare. E null’altro vede, perché null’altro v’è fuori che il mare, ed il cielo, e le isole lontane, e il continente più lontano ancora, a cui vanamente il misero sospira.

Un edifizio di forma quadrangolare sta innanzi l’ergastolo, e ad esso è unito dal lato posteriore. Il lato anteriore o la facciata di questo edifizio ha due torrette agli angoli, ha cinque finestre, ed in mezzo una trista porta guardata da una sentinella: su la porta sta scritto questo distico:

Donec sancta Themis scelerum tot monstra catenis vincta tenet, stat res, stat tibi tuta domus.
“Finché la santa Legge tiene tanti scellerati in catene, sta sicuro lo stato, e la proprietà.”

Ventotene e lo scoglio di Santo Stefano

Parole non lette o non capite dai più che entrano, ma che stringono il cuore del condannato politico e lo avvertono che entra in un luogo di dolore eterno, fra gente perduta, alla quale egli viene assimilato. Bisogna avere gran fede in Dio e nella virtù per non disperarsi. Varcata la porta ed un androne si entra in un cortile quadrilatero intorno al quale sono le abitazioni di quelli che sopravvegliano l’ergastolo, magazzino per provvigioni, il forno, la taverna. Custodi dell’ergastolo, come di ogni altro bagno, sono il comandante, che è un uffiziale di fanteria di marina, un sergente suo aiutante che è detto comite, pochi caporali, e bastevol numero di agozzini; un altro uffiziale comanda un drappello di soldati, i quali guardano l’esterno. Vi sono ancora due preti; due medici, un chirurgo, e tre loro aiutanti: v’è il provveditore, ed il tavernaio.
Nel cortile sei circondato dagli agozzini coi loro fieri ceffi, i quali ti ricercano e scuotono le vesti, ti tolgono la catena se sei condannato all’ergastolo, e te la osservano e ribadiscono se sei condannato ai ferri. Uno scrivano ti dimanda del nome e delle tue qualità personali: ed il comandante, dopo averti biecamente squadrato da capo a piè, ti avverte di non giocare, non tener armi, starti tranquillo, se no vi sono le battiture e la segreta: e ti manda al luogo che egli destina facendoti accompagnare dal sergente e dagli agozzini.

Dopo il cortile entri in un secondo androne, nel quale un custode apre una porta, e ti fa entrare in uno spazzetto scoperto, chiuso intorno da un muro con palizzata e da un fosso, su cui è un ponte levatoio. Un secondo custode apre un cancello di legno, varchi il ponte, ed eccoti nell’ergastolo. Immagina di vedere un vastissimo teatro scoperto, dipinto di giallo, con tre ordini di palchi formati da archi, che sono i tre piani delle celle dei condannati: immagina che in luogo del palcoscenico vi sia un gran muro, come una tela immensa, innanzi al quale sta lo spazzetto chiuso dalla palizzata e dal fosso: che nel mezzo di esso muro in alto sta una loggia coverta, che comunica con l’edifizio esterno, e su la quale sta sempre una sentinella che guarda, e domina tutto in giro questo teatro: e più su in questa gran tela di muro sono molte feritoie volte ad ogni punto. Così avrai l’idea di questo vasto edifizio, che ha forma maggiore di mezzo cerchio, con in mezzo un vasto cortile, ed in mezzo al cortile una chiesetta di forma esagona, chiusa intorno da vetri. Il cortile è lastricato di ciottoli, ha due bocche di cisterne, e tre basi di pietra, con ferri che sostengono fanali. Il lastricato e le cisterne son fatte da pochi anni: prima nel cortile erano ortiche e fossatelle d’acqua, dove i condannati andavano a bere, e spesso coi coltelli contendevano per dissetarsi a quelle fetide pozzanghere.

All’interno di Santo Stefano…

Ciascun piano è diviso in trentatré celle: nel primo e nel secondo piano sono trentatré archi, ciascuno innanzi ciascuna cella: nel terzo piano è una loggia scoperta che gira innanzi tutte le celle, e non è più larga di quattro palmi. Ogni cella ha una porta ed una piccola finestra ferrata che guardano nel cortile; e sul muro opposto ha un buco o feritoia lunga un palmo, stretta tre dita, dalla quale trapassa l’aria esterna, e si può vedere una striscia di mare. Il primo piano è a livello del cortile, e tiene innanzi un muro con sopra una palizzata, onde chiamasi le barriere, anche perché è scompartito da mura in varie porzioni, ciascuna contenente diverso numero di celle. Nello spazio tra la palizzata e le celle passeggiano i condannati; ed è brutto di fango e di acqua che vi gittano o vi cade da sopra. Per montare ai piani superiori vi sono due scale a destra e sinistra della gran tela di muro; ma chiuse da cancelli di legno tenuti da custodi. Il secondo piano ha innanzi una loggia coverta formata da un secondo ordine di archi, e larga quanto quella del terzo piano; ed è diviso in due porzioni. Nel terzo piano le ultime undici celle sono divise dalle altre, ed addette ad uso di ospedale: e queste sole invece di buchi esterni hanno finestrelle ferrate, dalle quali si può vedere un po’ di verde e la vicina Ventotene, hanno invetriate, e pareti bianchite. Una metà delle celle del primo piano è destinata per un centinaio di condannati ai ferri: in tutte le altre celle sono gli ergastolani: nell’altra metà del primo piano i più discoli; nel secondo i meno tristi; nel terzo quelli che han dato pruova di essere rassegnati.

I soli condannati ai ferri hanno la catena che li accoppia, e possono passeggiare nel cortile. Tra essi i fortunati vanno soli, portando o tutte le sedici maglie della catena o pure otto maglie: i fortunatissimi ne portano quattro, e fanno uffizio di serventi o di cucinieri, votano i cessi, portano acqua, vanno a spendere alla taverna: sono beati quei pochi che escono fuori a lavorare la terra. Gli ergastolani non hanno catena; ma nessuno può uscir del suo piano e del suo scompartimento: un tempo nessuno poteva uscir dalla sua cella. Queste divisioni sono necessarie per impedire le continue risse che nascono per stolte e turpi cagioni, e pel sempre funesto amore di parti; dappoiché questi sciagurati, che una pena tremenda dovrebbe unire, sono divisi tra loro secondo le province: e siciliani, calabresi, pugliesi, abruzzesi, napolitani, si odiano fieramente fra loro, spesso senza cagione e senza offese; e se per caso si scontrano si lacerano come belve e si uccidono. Non si cerca di spegnere questi odi di parte, perché per essi si hanno le spie, si vendono favori, si fanno eseguir vendette, si fa paura a tutti: una è l’arte di opprimere, ed ogni malvagio la conosce.

Per questa condizione de’ luoghi e degli uomini, gli ergastolani non hanno altro spazio che le celle, e la stretta loggia, dalla quale invidiando guardano il cortile dove non possono passeggiare, ed il cielo che è terminato dalle alte mura dell’ergastolo, e che come un immenso coverchio di bronzo ricopre il tristo edifizio e ti pesa sull’anima. Se passa volando qualche uccello, oh come lo riguardi con invidia, e lo segui col pensiero e con la speranza stanca, e con esso voli alla tua patria, alla tua famiglia, ai tuoi cari, ai giorni di gioia e di amore, che sempre ti tornano a mente per sempre tormentarti. Ma neppure puoi star molto su questa loggia ingombra di masserizie e di uomini che ti urtano, gridano, cantano, bestemmiano, accendono fuoco, fendono legne: e poi nel cortile non vedi che condannati trascinare penosamente le sonanti catene, taluno d’essi con oscena voce andar gridando: “Vendiamo e mangiamo”: spesso vedi lo scanno sul quale si danno le battiture, spesso la barella con entro cadaveri di uccisi. Il vento ti molesta, il sole ti brucia, la pioggia ti contrista, tutto che vedi o che odi ti addolora, e devi ritirarti nella cella.

Ogni cella ha lo spazio di sedici palmi quadrati [11 mt quadrati], e ce ne ha di più strette: vi stanno nove o dieci uomini e più in ciascuna. Son nere ed affumicate come cucine di villani, di aspetto miserrimo e sozzo; con i letti squallidi, coperti di cenci, e che lasciano in mezzo piccolo spazio; con le pareti nere dalle quali pendono appese a piuoli di legno pignatte, tegami, piattelli, fiaschi, agli, peperoni, fusa, conocchie, naspi ed altre povere e sudicie masserizie: una seggiola è arnese raro, un tavolino rarissimo. È vietato ogni arnese di ferro, e persino i chiodi, le forchette, i cucchiai, le bilance sono di legno: ed invece di coltellaccio per minuzzare il lardo usano un osso di costola di bue. Con un’industria incredibile fendono grossi ceppi e tronchi di albero mediante piccolissimi cunei di ferro, non permessi ma tollerati, e però da essi nascosti. Chi non vuole il cibo cotto in comune, e che non è altro che fave o pasta, lo cuoce da sé in fornacette di tufo, che si mettono sul davanzale della finestra ed anche sulle tavole del letto. Pochi fanno comunanza, perché il delitto li rende cupi e solitari: spesso ciascuno accende il suo fuoco, onde esce un fumo densissimo che ingombra tutta la cella e le vicine, ti spreme le lagrime, e ti fa uscire disperatamente su la loggia, dove trovi altre fornacette accese che fumano, ed invano cerchi un luogo non contristato dal fumo, che esce dalle porte, dalle finestre, da ogni parte. Alle due pareti opposte della stanza è legato uno spago, dal quale pende una canna, che dall’altro capo fesso in su tiene sospesa una lucerna di latta, la quale con questo ingegno può portarsi qua e là, e pendere nel mezzo della stanza, per dar lume la sera a tutti che fanno cerchio intorno e filano canape.

Santo Stefano_ Aboliamo l'ergastolo 2012: ridando un nome agli ergastolani_

Santo Stefano_ Aboliamo l’ergastolo 2012: ridando un nome agli ergastolani_

Tetre sono queste celle il giorno, più tetre e terribili la notte; la quale in questo luogo comincia mezz’ora prima del tramonto del sole, quando i condannati sono chiusi nelle celle, dove nella state si arde come in fornace, e sempre vi è puzzo. O quanti dolori, quante rimembranze, quante piaghe si rinnovellano a quell’ora terribile! Nel giorno sempre aspetti e sempre speri: ma quando è chiusa la cella ed alzato il ponte levatoio, più non aspetti e non speri, e ti senti venir meno la vita. Allora non odi altro che strani canti di ubbriachi, o grida minacciose che fieramente echeggiano nel silenzio della notte, come ruggiti di belve chiuse; talvolta odi un rumor sordo ed indistinto di gemiti o di strida, e la mattina vedi cadaveri nella barella. Quando stanco d’ozio, d’inerzia, e di noia cerchi un po’ di riposo e di solitudine sul duro e strettissimo letto, mentre dimenticando per poco gli orrori del luogo corri dolcemente col pensiero alla tua donna, ai tuoi figliuoletti, al padre, alla madre, ai fratelli, alle persone care all’anima tua, senti il fetido respiro dell’assassino che ti dorme accanto, e sognando rutta vino e bestemmia.
O mio Dio, quante volte ti ho invocato in quelle ore di angosce inesplicabili; quante notti con gli occhi aperti nel buio io ho vegliato sino a giorno fra pensieri tanto crudeli, che io stesso ora mi spavento a ricordarli.

Ritorna il giorno, e ritornano i suoi dolori, e l’un giorno non è diverso dall’altro. Sempre ti stanno innanzi gli stessi oggetti, gli stessi uomini, gli stessi delitti, le stesse azioni. Ogni giorno primamente ti si porta un pane; poi una porzione di orride fave o di arenosa pasta, che molti prendono cruda e poi cuocciono essi stessi con miglior condimento, poi cinque grani ai soli condannati all’ergastolo. Due volte il mese ti si da un pezzo di carne di bue: son due giorni di festa, in cui si beve più vino, e si fanno più delitti. Quando il mare non è agitato vengono alcune donne da Ventotene: portano a vendere pesce e verdure, e comprano il nero pane de’ condannati col quale sostengono sé stesse ed i loro figliuoli. Tanta miseria è in quell’isola, che di là si viene a spendere nelle taverne dell’ergastolo. Sebbene il continente sia poco lontano, pure raramente vengono barche, e se vengono ed approdano a Ventotene, non sempre si può traversare il canale su i battelli e venire a Santo Stefano, dove spesso si manca anche del necessario alla vita. Anche più raramente hai lettera o novella della tua famiglia. Ogni lettera che ricevi o mandi deve essere letta, ogni oggetto rivolto e ricercato per ogni parte. La prima lettera che io ebbi, e che io tanto avevo aspettata, mi strappò molte lagrime, e mi rendette convulso per più giorni. Io serbo ancora quella prima lettera, unita ad un’altra della mia figliuola Giulietta, che mi fu conceduto di tener caramente stretta in mano durante quei due giorni che io stetti condannato a morte in cappella; perché mi pareva che tenendola in mano io sarei morto abbracciando e benedicendo i miei figlioli.
Qui si vive a discrezione de’ venti e del mare, divisi dall’universo, e soffrendo tutti i dolori che l’universo racchiude.

 

Punk, capitale,complotti e nausea…

16 agosto 2012 8 commenti

Faticoso ogni volta ribadire come gestisco questo blog,
faticoso tentare di tenere alla larga gli arroganti, violenti, pure sessisti, ignoranti, ridicoli complottisti…faticoso anche comprendere come non abbiano nulla da fare che invadere pensieri e testi altrui, senza mai metterci la faccia,
senza mai pubblicare qualcosa di proprio, ma magari traducendo deliri da siti complottisti statunitensi, come se quello sia la rivoluzione pura, l’anticapitalismo per eccellenza.
E invece mi pare che la bandiera che con tanta arroganza sventolate, rossobruni e sinistrorsi smarriti, è proprio quella del capitalismo,
quella del peggior capitalismo, siete parte integrante del potere, felici di esserlo, partigiani armati del capitalismo, del sopruso patriarcale e “geopolitico”.
Mamma mia che noia, mi son stufata di perder tempo dietro a tutto ciò, è un blog con la nausea, che vorrebbe meno stalker e più confronti,
ma pazienza.
[Leggi: Dalle PussyRiot alla Siria, passando per un coglione]

Vi allego qui sotto l’articolo di Paolo sulle PussyRiot,
un’altra voce da leggere, dopo le tante che hanno parlato.
Per il resto, domani ci sarà la sentenza…se verranno condannate probabilmente tutti questi rivoluzionari da tastiera gioiranno,
si stringeranno al nuovo zar e ai suoi pretazzi,
invocheranno l’ordine e la disciplina.
Fuori la fica dagli altari e dalle chiese: dentro carriarmati, manette e carcerieri…

(qui altro articolo a riguardo: LEGGI)
Ribadisco, ARIAAAAA SCIOOOOO’

PUSSYRIOT: IL FEMMINISMO PUNK E L’ETICA ULTRAORTODOSSA DEL CAPITALISMO RUSSO
di Paolo Persichetti

A poco meno di 48 ore dal verdetto previsto contro le tre artiste-militanti del gruppo punk Pussy Riot, arrestate nel marzo scorso dopo una performance musicale anti-Putin messa in scena con un fulmineo blitz sull’altare della più importante cattedrale di Mosca, cresce l’attenzione internazionale sulla vicenda.
Il processo condotto davanti al tribunale di Mosca è andato avanti per alcune settimane e si è concluso lo scorso 7 agosto con una richiesta di condanna a tre anni di carcere da scontare in un circuito di minima sicurezza. L’accusa: aver commesso, con l’aggravante del gruppo organizzato, atti di vandalismo che avrebbero profondamente offeso i sentimenti religiosi della chiesa cristiano ortodossa.
Le tre ragazze, due delle quali madri di bimbi piccoli, subito dopo l’azione politico-musicale (che filmata e piazzata sul web ha fato il giro del mondo) erano riuscite ad andar via nonostante l’intervento per nulla ecumenico dei responsabili della cattedrale. Nadejda Tolokonnikova, 22 anni, Ekaterina Samoutsevitch, 29, e Maria Alekhina, 24, non erano certo alla loro prima incursione al ritmo di chitarre elettriche e pugni levati. Il collettivo femminista-ecologista aveva moltiplicato negli ultimi tempi le sue azioni anti-Putin. Il gruppo, che conta circa una decina di componenti, rivendica in pieno il carattere politico delle proprie iniziative contro la società patriarcale simbolizzata dal blocco di potere su cui poggia il dominio ininterrotto di Vladimir Putin. Nell’ottobre del 2011 avevano realizzato una serie d’azioni all’interno della metropolitana e sui tetti dei mezzi pubblici di Mosca per denunciare il maschilismo della società russa. A dicembre avevano condotto un’altra performance sul tetto di un edificio situato nelle vicinanze del commissariato nel quale era trattenuto il blogger dissidente Alexeï Navalny. Infine, il 20 gennaio otto di loro avevano intonato sulla piazza Rossa una canzone intitolata «Putin se l’è fatta addosso». Si riferivano alle grosse mobilitazioni dell’opposizione scesa in piazza contro la ricandidatura presidenziale dell’autocrate russo.

La preghiera anti-Putin
I
l 21 febbraio scorso cinque componenti del collettivo sono penetrate nella cattedrale moscovita del Cristo salvatore, uno dei luoghi di culto più importanti della chiesa ortodossa, per inscenare sull’altare un Te deum, rivisitato e corretto al ritmo punk, nel quale hanno pregato la Vergine Maria di scacciare il presidente russo da poco rieletto.
Nonostante i cappucci colorati calati sul volto, i collant e i costumi sgargianti, i nomignoli impiegati per preservare l’anonimato, la polizia le ha tratte rapidamente in arresto insieme ad altre appartenenti al gruppo. Le tre donne sono state sottoposte a custodia cautelare in attesa del processo e le ripetute richieste di liberazione avanzate nel fratempo tutte respinte.
Nadejda, Ekaterina e Maria sono figure conosciute nel panorama dell’attivismo militante russo: Nadjeda è impegnata nel movimento Lgbt e fa parte insieme a Ekaterina del collettivo di artisti Voïna, mentre Maria è un’attivista ecologista. I tre anni richiesti dall’accusa sembrano aver scongiurato lo scenario peggiore, ovvero i sette anni di prigione previsti come pena massima per il reato contestato e già erogati in altri processi. Nonostante ciò tre anni di carcere per un’azione simbolica restano una pena molto pesante.

L’etica ultarortodossa del capitalismo iperliberale grande russo
La vicenda ha creato notevole scalpore in Russia suscitando per la prima volta un dibattito importante sui legami tra chiesta e potere politico postsovietico, denunciato proprio nel testo della preghiera punk cantata dentro la cattedrale («Il patriarca Goundiaïev crede in Putin/ sarebbe meglio se credesse in Dio»). Finita l’esperienza sovietica la chiesa ortodossa ha rialzato la testa ed oggi partecipa, insieme agli squali dell’accumulazione originaria che hanno preso il posto degli anziani aparachikni più scaltri sopravvissuti al cambio di sistema sociopolitico, alla grande razzia delle risorse della Russia oltre ad aver riconquistato grande influenza sul potere temporale come ai tempi del regime zarista.

Il caso ha scatenato aspre dispute sulla libertà di parola e sulla stretta relazione tra la Chiesa ortodossa russa e il Cremlino
Se è vero che la stragrande maggioranza della chiesa russa ha reagito indignata, gridando al sacrilegio e alla blasfemia, esigendo per questo una condanna esemplare contro le “tre streghe indemoniate”, è anche vero che dal suo interno altre voci hanno chiamato alla clemenza e al perdono, giudicando la pena richiesta eccessiva rispetto ai fatti commessi, privi di qualsiasi violenza o distruzione. Ciò non ha impedito che le tre ragazze fossero rappresentate in un reportage mandato in onda dalla televisione di Stato come delle streghe che hanno agito con voluta premeditazione contro i sentimenti religiosi al fine di destabilizzare la società. Alludendo, né più né meno, ad una sorta di attentato terrorista al culto.
Il problema è che le Pussy Riot con le loro provocazioni hanno messo a nudo il nervo scoperto della religione di Stato in Russia. In una lettera inviata dalla prigione numero 6, Nadejda Tolokonnikova ha scritto, ispirandosi al messianismo cristiano-pacifista della grande tradizione letteraria russa: «Non siamo delle nuove profete. Ma forse le Pussy-Riot rappresentano un segno dell’imminenza di tempi nuovi». Nel corso delle udienze le imputate hanno spiegato di aver agito con la speranza che la loro azione producesse mutamenti politici, contestando di aver voluto offendere o esprimere odio contro la religione, come invece ha sostenuto l’accusa. Sottolineando di aver voluto solo censurare l’aperto sostegno fornito dal capo della chiesa ortodossa, il Patriarca Kirill, a Putin che prima delle elezioni presidenziali del 4 marzo aveva definito i 12 anni al potere del “piccolo zar” come «un miracolo divino». Per questo motivo il legale della difesa ha chiesto la convocazione del patriarca in aula nella spreanza di spostare il processo sulla questione politica sollevata dalla denuncia delle Pussy Riot, ma il giudice che presiedeva la corte si è opposto. La magistratura non vuole mettere il naso in una questione cosi scottante.
Nelle ultime udienze, le tre imputate avevano denunciato le condizioni inaccettabili che hanno minano il loro diritto di difesa. Tenute per intere giornate senza mangiare e senza bere durante le udienze, una di loro è svenuta.
Di fronte all’ampio eco che la vicenda ha raccolto sulla stampa internazionale, molto spazio è stato dedicato al caso dal Guardian che ha pubblicato anche un’intervista esclusiva alle tre artiste-militanti, il primo ministro russo Medvedev aveva già esortato a non drammatizzare eccessivamente l’affare. Sulla stessa scia è intervenuto da Londra il presidente Putin, preoccupato per l’eccessivo clamore interno e internazionale (molti osservatori stranieri hanno seguito le udienze) di un processo che si voleva all’inizio esemplare. Pur stigmatizzando il comportamento delle ragazze, «anche se non c’è nulla di buono in quello che hanno fatto – ha detto Putin – non devono essere giudicate troppo severamente».

Madonna e Sting, lo showbiz all’inseguimento
Approfittando dei loro tour musicali in Russia sono intervenuti sulla vicenda prima Sting e poi Madonna esprimendo solidarietà e denunciando il trattamento riservato alle tre artiste detenute. Parole che hanno moltiplicato l’eco internazionale del processo e per questo indispettito Dmitri Rogozin, vice premier russo, ex inviato Onu nonchè capo della commissione militare-industriale e inviato presidenziale per la difesa antimissile e l’interazione con la Nato, che ha pensato di liquidare la signora Ciccone con un twit che le dava della «vecchia puttana in procinto di dare lezioni di morale al mondo», per poi rincarare la dose invitandola a sciogliere uno dei grandi dilemmi shakespeariani che da millenni interrogano un bel pezzo di umanità: «togliersi il crocefisso o rimettersi le mutande»? Come a dire che alla fine una delle più grandi questioni affrontate dalla filosofia e dalla teoria politica non si riduce ad altro che “una questione di peli”, come già cantava un blousmen italiano.
“L’ingerenza” – come è stata percepita dai settori più nazionalisti e ultraortodossi russi – ha scatenato momenti d’isteria collettiva con gruppi religiosi che hanno organizzato roghi delle foto della cantante originaria della Ciociaria mentre il consigliere comunale di San Pietroburgo, Vitaly Mironov, invocava una multa per violazione della legge che proibisce le dichiarazioni pubbliche pro gay – che nel frattempo Madonna aveva rilanciato dal palco di un suo concerto.

Ad alcuni non piacciono le Pussy… La sindrome del complotto
Non c’è solo la chiesa ortodossa a detestare le Pussy Riot. Anche in Europa molti hanno storto il naso gridando al complotto contro santa madre Russia, sottolineando come la rilevanza mediatica internazionale raggiunta dalla vicenda faccia parte di una guerra geopolitica giocata con armi “non convenzionali” (conflitto simbolico che, in realtà, raggiunse vette altissime nel decennio 80 del secolo scorso, quando il reaganismo cavalcò dispiegando il massimo di strumentalità il tema dei diritti umani). Insomma sotto non ci sarebbe una contraddizione che traversa l’attuale società russa ma soltanto il solito scontro Est-Ovest (come se la caduta del muro di Berlino non avesse drasticamente cambiato le carte in tavola).
Che a farlo siano i settori tradizionalemente più reazionari, legati a visioni legittimistiche e passatiste proprie della destra più tradizionaista, è un fatto ovvio ma che a riempire le fila dei malpancisti, allineati su posizioni che ricordano le tesi reazionarie di Aleksandr Solženicyn, ci siano anche pezzi di culture provenienti da ciò che resta della sinistra antimperialista è molto meno scontato, anche se la cosa non sorprende più da diverso tempo.

Dalle Pussy riot alla Siria… passando per un coglione

12 agosto 2012 18 commenti

La libreria di Bosra, stamattina

Io stamattina mi son svegliata con una notizia divenuta in pochi istanti un lamento sordo, un pianto singhiozzante, un tremore irrefrenabile a tutto il corpo.
Il conflitto in Siria, sporchissimo e ormai senza remora alcuna, è approdato nel cortile di casa, è approdato con due belle bombe nel salotto di casa, quello dove ci si entrava tutti, intorno ai grandi vassoi lavorati a mano.
Vi ho parlato tante volte di Bosra, mia eterna oasi di pace, ed oggi ne parlo con un dolore al cuore che sventra, quanto le bombe.
Questo conflitto, le parole che intorno gli girano nei nostri confini, ha spento in parte questo blog, perché ho un senso di rifiuto che non mi lascia libertà di scrittura, perché le mani arrancano, il cuore batte lento e poi velocissimo, lento e poi velocissimo, nulla permette concentrazione, nè tantomeno lucidità.

Quindi son settimane, ve ne sarete accorti, che da queste parti si parla poco.
Pochissimo.
Oggi apro il computer, dopo i pianti su Bosra e il cortile di casa, e compare un commento che ho deciso di condividere con voi, così da rimarcare quel solco che pretendo mi divida da certa ideologia, da ‘sto cancro che veramente non sopporto più e che, mi dispiace, ma non attacca sulla mia pellaccia, non lui.
Piero Deola nemmeno mi scrive sulla pagina giusta, usa quella dedicata al saluto a Dario -compagno strappato alla vita di un presto che non ci son parole- invece che quella dedicata all’argomento da lui scelto per scrivere queste 4 righe.
Quattro righe importantissime, perché completano il ritratto che io non ho mai trovato le parole giuste per disegnare:
il ritratto ben delineato di quella cultura mostruosa che corrode il cranio di molti che si definiscono compagni,
anche con un’arroganza disarmante, se non ridicola.
Perché questa aggressione a me, sulle Pussy Riot, la capacità immediata che si ha nello scrivere cose come “chi ti paga” (che se ti avessi davanti Piero …) nel difendere il potere.
Si, nel difendere il potere più schifoso possibile: povero stalinista da quattro soldi che ti permetti di rivolgerti così, non a me, ma a quelle tre compagne che sono rinchiuse dal tuo rivoluzionarissimo, antimperialistisssssimo Putin. ( MA VE RENDETE CONTO????).

Da Piero Deola:
Inviato il 12/08/2012 alle 10:54

Brava,aiutiamo gli americani a sovvertire l’ordine in Russia. E dimmi deliziosa partigiana:cosa sarebbe successo negli USA bacchettoni di frote a una tale dimostrazione blasfema in una chiesa?
Chi ti paga per essere così democratica?

Mica ne trovo di parole eh?!
Perché questo commento poteva averlo scritto in un articolo su Bosra, come su Putin: qui con la scusa ormai anche politicamente ridicola (se preferite, tanto ve nutrite solo di quello, “geopoliticamente” ridicola) che TUTTO ciò che si muove è mosso da mano yankee siamo arrivati anche a dire che il punk femminista russo antiautoritario ha quella provenienza.
Stiamo alla frutta, allo stalinismo analfabeta: tenetevi Assad, tenetevi Putin, tenetevi Ahmadinejad, tenetevi ‘sta comitiva di assassini,
ma almeno levatevi ste velleità rivoluzionarie, cambiate lessico,
tra le calamite del vostro frigorifero toglietela ‘sta bandiera rossa,
fate aria, andate affanculo.
E poi, solo per chiarire, caro maschio Piero Deola: “deliziosa partigiana” non lo scrivere più.
Evita di infilare quel tono, evita di infilare anche l’odio di genere in quello che penso di te e delle tue righe perché scateni in me una rabbia proprio viscerale a quel punto.
Ci basta il tuo cervello in cortocircuito, il pisello almeno lascialo a casa, fa ‘r favore eh!

Questo blog ripudia lo Stato, ripudia il potere, ripudia chi pensa che il mondo si possa spartire e dividere con il righello o con le vostre bandierine antimperialiste,
alla larga, sciòòòòòò
o come se dice a Damasco… ruhhhh!

FREE PUSSY RIOT!
FREE ALL POLITICAL PRISONERS
NO PUTIN ! NO ASSAD!
NO POWER!

Leggi anche: Punk, capitale, complotti e nausea

Interessante quest’articolo di Mazzetta sulla Russia delle PussyRiot: LEGGETELO

Questo invece il video solidale girato ad Ostia, GRANDISSIME!

Quando il carcere ti educa a “chiedere di poter chiedere”: la domandina

4 agosto 2012 11 commenti

Quando scrivi del carcere le tue mani scivolano in altro modo sulla tastiera,
come prima l’inchiostro, sui tanti troppi fogli che hai scritto a mano in tutta la tua carcerazione.
Quando scrivi di carcere cambia la posizione del tuo corpo, cambia il movimento perpetuo delle tue gambe,
cambia il modo in cui ti batti il fianco del dito indice sulle labbra, per cercare la concentrazione.

Odio il tuo modo di rapportarti con il carcere, ormai.
Odio il nostro tavolo pieno di domandine.
Amo il modo in cui ce lo racconti, a tutti noi, a tutti quelli che hanno voglia di capire,
e di abbatterlo.

LA DOMANDINA
di Paolo Persichetti
(dal suo blog: INSORGENZE)

Anche il carcere ha la sua interfaccia. A pensarci bene è davvero sorprendente che un’istituzione che ha meccanismi tanto farraginosi e vetusti poi funzioni come una cibermacchina. Stiamo parlando del “modulo 393” dell’amministrazione penitenziaria, senza il quale il carcere si bloccherebbe. Modulo 393? In realtà il suo vero nome è domandina.
Parliamo di uno stampato che viene consegnato ai detenuti per comunicare con l’amministrazione. Per intenderci, chi vuole chiedere o rappresentare qualcosa al direttore, al magistrato, oppure al dottore, o magari all’educatrice, all’assistente sociale, all’ispettore di reparto, o ancora vuole acquistare prodotti nella lista del sopravitto, o vuole telefonare, rivolgersi alla matricola, vedere un volontario, parlare con il prete, recuperare un oggetto al casellario, o ancora chiedere i moduli dei telegrammi per poi spedirli, fare la telefonata alla famiglia, non basta che scriva una lettera o compili i moduli appositi: spesa, telefonate, eccetera, eccetera (ne esiste un’infinta panoplia). Deve accompagnare tali richieste o comunicazioni con la domandina, il modulo chiave, il passe-partout con il quale, in sostanza, si chiede di poter chiedere.
La burocrazia si esprime con un linguaggio simbolico che dice cose molto chiare. In carcere poter chiedere non è un diritto ma una concessione, un premio, come la carota da rosicchiare. L’unica facoltà di autodeterminazione riconosciuta al recluso è quella di poter chiedere, “alla signoria vostra” come recitava la formula di rigore alcuni anni fa. Solo i prigionieri politici e pochi altri si rifiutavano. Questa è la costituzione materiale della prigione, il suo codice genetico, poi, solo poi e molto dopo, viene la costituzione, l’ordinamento e il regolamento penitenziario stampati in bella carta.
Basta che manchino le domandine e non si può chiedere più nulla. Capita l’antifona! E’ molto facile staccare la spina.
E sia chiaro, non basta chiedere una volta. L’atto deve essere ripetuto continuamente. Quale è il fine di tutto ciò?
Intanto suscitare una situazione d’indeterminatezza continua. Nulla è mai veramente acquisito, tutto resta sempre incerto. Ogni risposta dipende dal responsabile di turno, dal suo umore, dalle sue inclinazioni, dalla sua economia libidinale, dal livello di sadismo che lo soddisfa.
Il detenuto è così privato d’ogni autonomia e capacità di autodeterminazione. Scrive in proposito Salvatore Verde (Massima sicurezza, Odradek 2002): il processo di sorveglianza che la domandina innesca, trasforma l’originario desiderio in una istanza ridotta alla dicotomia sì/no, cioè al linguaggio binario che infantilisce la comunicazione piegandola all’esercizio del principio di autorità. E’ da ciò che deriva il diminutivo DOMANDINA, così simile a frittatina, passeggiatina, gelatino, parole che suscitano in tanti di noi ancora un fremito bambinesco. «In fondo, io sono come una madre per voi», mi disse una volta una direttrice. Senza offese dottoressa, ma in questo caso preferisco diventare orfano.

Avanza pesante il processo alle PussyRiot, oggi sospeso per un allarme bomba

2 agosto 2012 2 commenti

Il processo alle PussyRiot s’è aperto lunedì scorso,
pesante, politico, surreale.
Si parla di una richiesta di 7 anni di carcere, per teppismo aggravato da odio religioso: tre donne, due giovani madri,
una performance sul sagrato di una cattedrale e il carcere già da 5 mesi.

Ieri in aula sono arrivate in ambulanza,
ridotte non molto bene.  Hanno da subito denunciato le condizioni che vivono da quando è iniziato il processo.
Si esce alle 5 di mattina dalla cella della prigione, verso le celle del tribunale…il ritorno non è mai prima delle 23: ma non c’è accesso a cibo nè ad acqua. Hanno dichiarato di non riuscire a sostenere fisicamente il processo in questi termini, ma la risposta -immediata- è stata una puntura di zuccheri e la dichiarazione che ‘ va tutto bene, stanno bene, si può andare avanti’.

Oggi è stato sospeso per un allarme bomba, che poi non è mai stata trovata.

Sarà un lungo processo, al quale le imputate non potranno partecipare a piede libero: il carcere preventivo andrà avanti almeno altri 6 mesi.
Manteniamo alta l’attenzione su questo processo,
processo politico nei confronti di una mobilitazione anti-Putin.

FREE PUSSY RIOT!
FREE ALL POLITICAL PRISONERS!
FREE ALL!

Leggi: Free PussyRiot
Inizia il processo

Nuove restrizioni ai NoTav

31 luglio 2012 1 commento

ORE 13:
UN PO’ di NOTIZIE IN PIU’ DAL SITO INFOAUT: LEGGI

Ancora un risveglio fastidioso per alcuni militanti Nov,
un buongiorno dato da anfibi e divise,
da maledetti fogli creati per privare ancora della propria libertà chi si mobilita contro la devastazione del proprio territorio.
Ancora non abbiamo idea dei numeri, non si sa a quanti è suonato il campanello,
ma la notifica appare identica per tutti: Obbligo di pernottamento nella propria residenza.
Chiuso a casa, non si esce, è consentito solo a chi abbassa la testa.

Anche Giorgio Rosetto ha ricevuto la stessa misura restrittiva: liberato ieri dagli arresti domiciliari si ritrova già privo delle sue notti,
impossibilitato a raggiungere (così come gli altri) alcuni comuni nei dintorni di Chiomonte.

Insomma, dei domiciliari, punto.
La scarcerazione dei compagni prevedeva la carcerazione della Valle,
ma questo l’abbiamo capito anni e anni fa:
per questo non si molla, per questo non ci si arrende,
per questo sarà dura.
Perché questa privazione di libertà la pagherete,
perché quella terra non vuole la vostra occupazione militare,

e la spazzerà via.

Chi è Oscar Fioriolli? Biografia di un torturatore

31 luglio 2012 18 commenti

Dal blog di Paolo, INSORGENZE,  insieme al quale si combatte per far sì che tutto ciò diventi memoria collettiva,
parte integrante della nostra conoscenza sullo Stato, e i suoi metodi.
Buona lettura

Oscar Fioriolli, non dimenticate mai questo nome. Nella nota diffusa dopo la conferma definitiva delle condanne pronunciata dalla Cassazione contro i vertici investigativi del ministero dell’Interno, il capo della Polizia Antonio Manganelli dichiarava con parole che si volevano rassicuranti per i cittadini :

«Ora, di fronte al giudicato penale, è chiaramente il momento delle scuse. Ai cittadini che hanno subito danni ed anche a quelli che, avendo fiducia nell’Istituzione-Polizia, l’hanno vista in difficoltà per qualche comportamento errato ed esigono sempre maggiore professionalità ed efficienza. Per migliorare il proprio operato, a tutela della collettività, nell’ambito di un percorso di revisione critica e di aperto confronto con altre istituzioni, da tempo avviato, la Polizia di Stato ha tra l’altro istituito la Scuola di Formazione per la Tutela dell’Ordine Pubblico al fine di meglio preparare il personale alla gestione di questi difficili compiti. Il tutto per assicurare a questo Paese democrazia, serenità e trasparenza dell’operato delle forze dell’ordine, garantendo il principio del quieto vivere dei cittadini».

A dirigere questa scuola, nata con decreto del capo della Polizia il 24 ottobre 2008 e operativa dal 1° dicembre successivo «con l’obiettivo – come recita il comunicato del ministero degli Interni – di formare personale specializzato capace di intervenire con professionalità in caso di eventi che possono degenerare dal punto di vista dell’ordine pubblico, come manifestazioni, cortei ed eventi pubblici, per garantire ancor meglio la sicurezza di tutta la collettività», è stato chiamato il prefetto Oscar Fioriolli.

Chi è questo grande esperto a cui il capo della Polizia ha attribuito il compito di formare dirigenti, funzionari e agenti di Ps affinché ricorrano a condotte più “professionali” durante manifestazioni, cortei ed eventi pubblici per evitare quanto accaduto a Genova nel 2001?

Fioriolli è stato questore ad Agrigento, Modena, Palermo, Genova (subito dopo il G8) e poi a Napoli. Risulta anche indagato in una inchiesta sugli appalti Finmeccanica condotta dai pm della procura di Napoli e in una indagine portata avanti dalla procura genovese su una strana vicenda di consulenze per auto blindate richieste da un dittatore della Guinea Conakry e rapporti con un faccendiere siriano che gli avrebbe elargito una somma di 50 mila euro. Questi scarni cenni biografici tuttavia ci dicono ancora molto poco del ruolo avuto da un funzionario che è stato nel cuore del dispositivo antiterrorismo del ministero degli Interni in anni cruciali (dalla metà degli anni 70 in poi).

Per conoscere qualcosa di più del suo passato dobbiamo ricorrere alla testimonianza di un suo collega: l’ex commissario della Digos e poi questore Salvatore Genova, che lo descrive (cf. l’Espresso del 6 aprile 2012;vedi anche la testimonianza video) mentre all’ultimo piano della questura di Verona conduce l’interrogatorio di Elisabetta Arcangeli, una sospetta fiancheggiatrice delle Brigate rosse arrestata il 27 gennaio 1982.

«Separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna. I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figlie. È uno dei momenti più vergognosi di quei giorni, uno dei momenti in cui dovrei arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale».

Era in corso il sequestro del generale americano James Lee Dozier, vicecomandante della Fatse (Comando delle Forze armate terrestri alleate per il sud Europa) con sede a Verona, da parte delle Brigate rosse-partito comunista combattente. Sempre secondo la testimonianza fornita da Salvatore Genova, nel corso di una riunione convocata dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci presso la questura di Verona, presenti Improta, il poliziotto cui De Francisci aveva affidato il coordinamento del gruppo di super investigatori, Oscar Fiorolli, Luciano De Gregori e Salvatore Genova, si decise il ricorso alle torture. A svolgere il lavoro sporco venne chiamato insieme alla sua squadretta di esperti “acquaiuoli” (profesionisti del waterboarding, la tortura dell’acqua e sale) Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, funzionario proveniente dalla Digos di Napoli, già responsabile per la Campania dei nuclei antiterrorismo di Santillo, in forza all’Ucigos.
De Francisci fece capire che l’ordine veniva dall’alto, ben sopra il capo della polizia Coronas. Il semaforo verde giungeva dal vertice politico, dal ministro degli Interni Virginio Rognoni. Via libera alle «maniere forti» che in cambio forniva anche chiare garanzie di copertura. Fu lì che lo Stato decise di cercare Dozier nella vagina di una sospetta brigastista.

Roma – Il giardino dei torturatori tra via dell’Amba Aradam e via della Ferratella in Laterano

Roma – Il giardino dei torturatori tra via dell’Amba Aradam e via della Ferratella in Laterano

Giovanni Coronas, Gaspare De Francisci e Umberto Improta sono morti nel frattempo. Un giardino in ricordo di Improta, capo della squadra di investigatori che praticarono le torture sistematiche impiegate da varie squadre di poliziotti in un arco di tempo che riveste almeno 11 mesi, è sorto non lontano da piazza san Giovanni, a Roma, tra via dell’Amba Aradam e via della Ferratella in Laterano.
Salvatore Genova è in pensione ed è l’unico che ha deciso di raccontare la verità. Nicola Ciocia, il mago del waterboarding, vive nascosto in una casa del Vomero a Napoli. Non ha più il coraggio di uscire di casa, braccato dai fantasmi del suo passato di aguzzino. L’ex guardasigilli Virginio Rognoni mantiene profilo basso, mostra di ricordare con difficoltà sperando di non essere coinvolto nella riapertura del caso; Oscar Fioriolli è invece ancora al suo posto di dirigente della scuola di polizia. Una scelta davvero rasicurante: l’uomo giusto al posto giusto!

Sentito al telefono da Piervittorio Buffa, il giornalista che è riuscito a sfilare organigrammi e nomi degli autori delle torture dalla bocca di Salvatore Genova, che fino ad allora aveva solo denuciato i fatti senza mai indicare i corresponsabili (una prima volta nel 2007 davanti a Matteo Indice del Secolo XIX, poi nel libro di Nicola Rao, Colpo al cuore, Sperling & Kupfer 2011, infine in una puntata di Chi l’ha visto?), Oscar Fioriolli ha rifiutato qualsiasi incontro per chiarire il ruolo avuto in quelle vicende e negato le circostanze riferite da Genova.
Gratteri, Luperi, Calderozzi, Mortola, Ferri, ed altri funzionari sono stati dimessi dai loro incarichi per le loro responsabilità accertatenel tentativo di depistare e coprire il massacro perpetrato all’interno della scuola Diaz.
Oscar Fioriolli, chiamato in causa con una testimonianza dettagliata per il ruolo avuto nelle torture e in una violenza sessuale, praticate durante gli interrogatori contro persone accusate di appartenere alla Brigate rosse, è sempre al suo posto.


Link

DELLA TORTURA

* * *


Qui sotto potete leggere l’articolo di Piervittorio Buffa, recentemente pubblicato sul Venerdì di Repubblica del 20 luglio 2012, che rievoca i passaggi più importanti su questa vicenda.

Quando in Italia si seviziavano i brigatisti. Nel 1982, per liberare il generale Usa James Lee Dozier, la polizia decise di passare alle maniere forti con i primi arrestati. Ma chi diede l’ordine? «venne dall’alto»

di Pier Vittorio Buffa
Il Venerdì di Repubblica, 20 luglio 2012

Roma. «La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe». Salvatore Genova racconta così quello che accadde nella questura di Verona, nella notte tra il 27 e il 28 gennaio 1982. La ragazza è Elisabetta Arcangeli. Il suo compagno è Ruggero Volinia. Salvatore Genova è uno dei poliziotti che guidarono le indagini sul caso James Lee Dozier, il generale americano rapito dalle Brigate rosse il 17 dicembre 1981. Genova sarà arrestato insieme ad alcuni suoi uomini con l’accusa di aver usato violenza su dei terroristi catturati, ma quella notte, in questura, è solo un testimone: conduce l’interrogatorio il suo collega Oscar Fiorolli.
I poliziotti capiscono che Volinia sta per cedere. «Fu uno dei momenti più vergognosi di quei giorni» dice Genova, «avrei dovuto arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece, caricammo Volinia su una macchina e lo portammo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale e, dopo pochi minuti, parla, ci dice dov’è il generale Dozier».
A coordinare il tutto e a eseguire il trattamento De Tormentis con acqua e sale, una tortura già usata dai francesi e la squadretta nella guerra di Algeria, è una squadretta speciale guidata da un alto funzionario di polizia, Nicola Ciocia e composta da quattro poliziotti chiamati i Quattro dell’Ave Maria. La tecnica è all’apparenza semplice, ma bisogna essere molto esperti per praticarla in modo sicuro ed efficace. D prigioniero è legato a un tavolo, con un tubo gli vengono fatte ingurgitare grandi quantità di acqua e sale che provocano, oltre alla nausea, un forte senso di soffocamento.
Ciocia è in via Caetani a Roma quando, il 9 maggio 1978, viene trovato il corpo di Aldo Moro nella Renault rossa Lo si distingue di spalle, nelle foto, dietro Francesco Cossiga. La sua squadra entra in azione pochi giorni dopo, già con i primi arresti del dopo Moro. All’«acqua e sale» è infatti sottoposto, lo racconta lui stesso nei dettagli, Enrico Triaca, il tipografo delle Br. Ma Ciocia, che Umberto Improta, capo degli investigatori durante il sequestro Dozier, soprannominò dottor De Tormentis, non agì certo di sua iniziativa. Lo si capì già allora, nel 1982, che c’era un piano preciso, venuto dall’alto. Se ne è avuta la conferma ora, a distanza di trent’anni. Ciocia, pur non ammettendo le torture con l’acqua e il sale, ha detto di essere lui il dottor De Tormentis. Salvatore Genova, a sua volta, è stato molto preciso. Ha raccontato della riunione che si tenne in questura a Verona all’indomani del sequestro di Dozier: un via libera all’uso delle maniere forti con terroristi e fiancheggiatori, il timbro ai metodi di Ciocia-De Tormentis.
La riunione fu convocata dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci. Nella stanza c’erano anche Improta, il poliziotto cui De Francisci aveva affidato il coordinamento del lavoro, Oscar Fiorolli, Luciano De Gregori e Salvatore Genova. Ascoltarono De Francisci dire, così ricorda Genova, che l’indagine su quel sequestro era «delicata e importante» e che bisognava fare «bella figura». E dare il via libera all’uso delle maniere forti per risolvere il caso. «Ci guardò uno a uno e con la mano destra» rievoca Genova «indicò verso l’alto. Ordini che vengono dall’alto, spiegò: quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte, sarete coperti, faremo quadrato. Improta fece sì con la testa e disse che si poteva stare tranquilli, che per noi garantiva lui. Il messaggio era chiaro e, dopo la riunione, cercammo di metterlo ulteriormente a fuoco. Fino a dove arriverà la copertura? Fino a dove possiamo spingerci? Dobbiamo evitare ferite gravi e morti? Fu questo che ci dicemmo tra di noi funzionari. E di far male agli arrestati senza lasciare il segno».
Ciocia, con i quattro dell’Ave Maria, arrivò il giorno dopo quella riunione e poi tornò in Veneto negli ultimi giorni del sequestro, quando le indagini portarono ai primi arresti dei fiancheggiatori. E quindi alla necessità di farli parlare. Tutti gli uomini di Improta assistettero alla prima «acqua e sale» di Verona, quella praticata a Nazareno Mantovani, che svenne durante il trattamento.
L’adrenalina scatenata dal successo dell’operazione Dozier (il generale liberato, i brigatisti catturati senza sparare un colpo) e i risultati ottenuti con le tecniche di Ciocia scatenarono lo spirito di emulazione. Nella caserma della Celere di Padova, dove furono portati i terroristi, non si andò tanto per il sottile. Genova e i suoi, infatti, furono arrestati con l’accusa di aver organizzato, tra l’altro, la finta fucilazione del br Cesare Di Lenardo.
In quelle settimane, il ministro dell’Interno Virginio Rognoni disse: «Possiamo respingere, con assoluta fermezza e grande tranquillità di coscienza, l’accusa adombrata in alcune interrogazioni e sicuramente presente in certa campagna di stampa, di avere trasferito la lotta contro il terrorismo su un terreno diverso da quello dell’ordinamento giuridico mediante una pratica sistematica e violenta del rapporto fra Stato e cittadino al momento dell’arresto…».
I giornali ai quali faceva riferimento il ministro erano soprattutto L’Espresso e la Repubblica.

Inizia il processo alle Pussy Riot

30 luglio 2012 5 commenti

Maria Alyokhina, 24anni, Nadezhda Tolokonnikova, 22 e Yekaterina Samutsevich, 29 anni
si trovano private della libertà da marzo, in caracere, malgrado due siano anche mamme di due bimbe molto piccole.
Dopo mesi di carcere preventivo, da oggi si trovano alla sbarra con l’accusa di teppismo mosso da odio religioso, la cui pena prevista è di 7 anni di carcere.
Sette anni, per le componenti della band punk Pussy Riot, che a marzo di quest’anno hanno fatto un blitz performance sul sagrato della Cattedrale di Cristo Salvatore,
una specie di “preghiera punk” alla Vergine Maria che iniziava così “Vergine Maria, madre di dio, liberaci di Putin”.
Troppo blasfemo, troppo dissacrante: è lo stesso patriarca della chiesa ortodossa russa Kirill (il cui potere è esponenzialmente cresciuto nell’era Putin) a chiedere che l’accusa parli di “teppismo” e “odio religioso”, reati da far pagare a peso d’oro in Russia.
Sette anni di carcere, per una brevissima apparizione contro il presidente appena uscito dall’ennesimo successo elettorale ( siamo al terzo mandato): la rielezione sicuramente più contestata dalla popolazione del paese. Centinaia di migliaia di persone infatti si son mobilitate per settimane alla comunicazione dei risultati, con numeri che non si vedevano da decenni nel territorio russo.
Oltretutto il processo ha tutti i presupposti per far immaginare un iter lungo,
che potrebbe vederle ancora totalmente private della libertà e chiuse in cella, visto che è stato deciso da una corte che la loro detenzione preventiva deve durare altri sei mesi.
Sarà difficile spiegarlo alle loro figlie: tutta questa prigionia per un’azione simbolica, che non ha portato al ferimento di alcuno, all’occupazione di nulla, al danneggiamento di qualcosa.
Sette anni di carcere, un anno di carcere preventivo…
così, come se niente fosse…

Difficile ormai stupirsi delle richieste dei giudici.
Se venissero condannate a 7 anni, come richiesto anche a causa delle forti pressioni dello stesso patriarca Kirill, leader della potente chiesa ortodossa russa,
noi italiani forse dovremmo essere i soli,
sul territorio europeo, a non rimanere sconvolti.
Ci son ragazzi che hanno preso condanne simili, dai 3 anni ai 5 e passa, per aver partecipato alla manifestazione del 15 ottobre romana:
condanne date sulla base di fotografie che li vedevano ritratti con delle buste contenenti limoni,
che dimostrerebbero la partecipazione agli scontri.
Ragazzi incensurati oltretutto, che ora andranno a discutere in appello condanne pesanti, surreali, mai viste precedentemente.

I paradigmi penali mutano,
malgrado la nostra capacità di muoverci contro i sempre più pesanti attacchi del capitale sia bassa,
in perenne regressione.
Ce la vogliono far pagar cara, malgrado la nostra poca incisività in tante cose.

PAGHERANNO LORO UN GIORNO.
TUTTO.

FREE PUSSY RIOT
FREE ALL POLITICAL PRISONERS
FREE ALL PRISONERS
DESTROY ALL KIND OF PRISONS!

Leggi:
Liberiamo le Pussy Riot
Roma solidale con le Pussy Riot

Le carceri scoppiano: andiamo ad urlarlo al Ministero

28 luglio 2012 9 commenti

Sono oltre 67.000 le persone rinchiuse nelle carceri del nostro Paese in strutture che ne potrebbero contenere al massimo 42.000.
Il maggior sovraffollamento degli ultimi 60 anni. Un record.
Le condizioni di detenzione sono inaccettabili: mancanza di acqua e di igiene, di spazi per attività sportive o semplicemente per muoversi, docce insufficienti, vitto immangiabile, assistenza sanitaria nulla ecc.
Amnesty International le definisce “trattamenti inumani e degradanti” e “tortura”.

Per questi “trattamenti” lo Stato italiano è stato condannato più volte dalla Corte europea di Strasburgo.
Nel 2008 il Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu ha sottoposto il nostro Paese alla Universal Periodical Review, una procedura di revisione periodica riguardante i diritti umani.
Sull’Italia sono state emanate ben 92 raccomandazioni. Eppure si continua a torturare: alla Diaz, come a Bolzaneto e in piazza a Genova nel luglio 2001.
Non si tratta di episodi isolati e straordinari: ma di pratiche ordinarie dello Stato, delle classi dirigenti e delle istituzioni.

Qual è il motivo di questa “grande carcerazione” cosi come definita dagli esperti? In questi ultimi decenni i reati gravi contro le persone sono in diminuzione, e allora?
La risposta è che in un momento in cui l’Europa sta vivendo una delle più grosse crisi economiche, il sistema capitalistico risponde con la repressione e la carcerazione coatta per soffocare la nascita del conflitto sociale dove ogni violazione dell’ordine pubblico deve essere sanzionata. In sostanza il peso di questa crisi è scaricato sulle spalle, già massacrate, dei più poveri, di chi lavora in modo precario, di chi non trova lavoro, di chi con il magro salario non arriva alla terza settimana del mese.
Le carceri italiane non sono piene di potenti corrotti o inquisiti eccellenti, ma di autori di piccole trasgressioni: oltre 25.000 sono condannati a pene inferiori ai 3 anni (e per le leggi italiane dovrebbero trascorrere la sanzione in “misura alternativa” non in carcere).
Negli ultimi decenni sono state create leggi liberticide come la Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi, la ex Cirielli sulla recidiva,
che sostenute dalle campagne forcaiole della stampa nostrana hanno alimentato un clima che rende sempre più difficile l’accesso alle misure alternative.
E’ con questa stessa repressione che per una manifestazione si rischiano fino a 15 anni di carcere;
ogni mobilitazione, ogni lotta subisce l’aggressione delle forze dell’ordine e la condanna della magistratura giunge puntuale con pene altissime.
In questo paese la cosiddetta “legalità” considera più grave una manifestazione collettiva per un bisogno negato (lavoro,
casa, sanità, ecc.), piuttosto che l’azione criminale di chi devasta l’ambiente, saccheggia le nostre vite e riduce alla fame e/o uccide.

Le detenute e i detenuti si ribellano, a questo massacro non ci stanno!

Sono decine e decine le carceri in lotta.
Dal sud al nord Italia la protesta si espande: scioperi della fame o del vitto, battiture delle sbarre e sciopero delle lavorazioni.
I detenuti e le detenute chiedono Amnistia, Indulto, accesso rapido alle misure alternative, di uscire dal carcere, di mettere fine a quel sovraffollamento spaventoso che rende, la già dura condizione di chi è privato della libertà, del tutto inaccettabile e invivibile.

Siamo al fianco di chi lotta in carcere e vogliamo fare nostri gli obiettivi di lotta della popolazione detenuta
Sosteniamo e diffondiamo in tutta la città la loro lotta!

Per questo invitiamo tutte e tutti a partecipare a un presidio
Giovedì 2 agosto davanti al Ministero di Giustizia in via Arenula a partire dalle ore 17.00.

LIBERE TUTTE LIBERI TUTTI

compagne e compagni contro il carcere

Una serata a sostegno dei 10: GENOVA NON E’ FINITA!

27 luglio 2012 2 commenti

venerdì 27 luglio 2012
al Forte Prensetino

serata a sostegno dei 10
Genova non è finita

The Koffin Kats  psychoblly from USA
&
Cockroaches da Roma

a seguire dj set con  Murder Farts & Lubna Barracuda
Alberto e Marina liberi!!!

Per la libertà di tutti e tutte,
perché ogni tipo di prigionia sia abbattuta,
perché chi scappa possa vivere senza il terrore di essere acciuffato,
perchè la galera ci fa schifo,
sempre
per chiunque

Condanne g8: Alberto è stato tradotto a Perugia

24 luglio 2012 6 commenti

Arriva da poco la notizia che Alberto Funaro, in carcere da dieci giorni a scontare la condanna per devastazione e saccheggio, di Genova2001, è stato trasferito da Rebibbia a Perugia, nella Casa Circondariale di Capanne.
Ce lo allontanano, dalla sua città, dalla sua famiglia,
dal poter ascoltare Radio Onda Rossa, la sua radio.
Per scrivergli ora l’indirizzo è:

Alberto Funaro
Casa Circondariale Capanne
Via Pievaiola 252
06132 Perugia

TUTTI LIBERI!
http://10×100.it

10×100 anni di carcere: GENOVA NON E’ FINITA!

Gli ostaggi iniziano ad entrare in cella…ALBERTO LIBERO!

15 luglio 2012 12 commenti

Una sconfitta lunga undici anni, il tuo pugno chiuso che usciva da quella macchina,
mentre girava l’angolo della Questura centrale.
Poi invece il tuo sorriso,
che mentre ci salutava apriva la strada e il cuore a quello che da oggi dovremo affrontare:

CONTRO IL CARCERE, GIORNO DOPO GIORNO
FAGIOLINO LIBERO

il tuo sorriso, quel saluto strappato prima in questura poi davanti alla porta carraia che ti ha mangiato,
ha chiuso definitivamente questa amara sconfitta,
così lunga,
intrisa a litri del sangue di quelle strade, del sangue dal volto di Carlo,
del sangue sui termosifoni e quello trascinato sui muri e sui gradini delle scale,
ed ora anche in gabbia,
avvolta tutto tondo da cemento e ferro, da anfibi e ammasso di corpi prigionieri.

L’ha chiusa con un dolore che io non so descrivere, col tuo sorriso spaventato e forte e le nostre lacrime a litri, implacabili,
di quelle che ti scavano il viso per sempre.
L’ha chiusa per aprirne una tutta nuova, che parte da voi, dai vostri corpi prigionieri, da quanto riusciremo a non farvi sentire soli.
Perché quando abbiamo aperto la campagna 10×100 le parole che ci sono venute a tutt@, spontanee e sanguigne, sono state che Genova non è finita, non può finire in questo modo: non con l’assurdità di questo reato, non con il capro dei capri espiatori.
Questa sentenza ne è la conferma, la prova lampante che non avendo nulla nelle mani si sono accaniti con 25, poi 10, poi 5 …
ed ora già tra le sbarre siete 2.

Cinque. Cinque persone su quei 300.000 che eravamo.
Cinque persone in carcere, per aver mosso gesto contro la proprietà, contro una vetrina, contro un simbolo.
Fino a quindici anni, per quelle loro maledette vetrine, per dei cocci assicurati,
per aver osato affrontare simbolicamente (parliamo di 3 banche su 300) i luoghi del potere finanziario.
Siamo al surreale che diventa realtà, di cemento e ferro.
Siamo agli ostaggi delle cose, corpi prigionieri della proprietà privata, dell’aver osato infrangere i vetri.
Loro possono passare le camionette sui nostri corpi, possono spararci dritto in faccia, possono sequestrarci nelle caserme per torturarci, per strapparci i piercing, per minacciare i nostri corpi di donne di esser violati dai loro manganelli di Stato,
loro possono tutto.
E con il reato di “devastazione e saccheggio”, con questo nuovo paradigma penale che sempre più ci troveremo ad affrontare,
possono anche sequestrarci, strapparci alla vita, alla politica, alla libertà,
per anni infiniti,
nella difesa della “robba”, delle cose, dei vetri che non vanno rotti mai.

Non ti posso pensare lì Fagiolino, non posso pensare quel tuo corpo buono, lungo lungo, che cerca una posizione in branda,
con quella condanna sul groppone. Non posso pensare a quella porta carraia, che già odio di mio, che ora si è presa anche te,
è una sensazione di rabbia e impotenza che fa male ad ogni pezzetto di corpo.
E’ un’ingiustizia, fratello mio, che mai sarebbe dovuta passare sulla tua pelle, portandoti via da tutti noi.
Non ci sarà un secondo di pace, in questo stomaco, finchè sarai lì,
perché ci stai pe’ tutti, Albè, stai lì per tutti noi e non ti lasceremo un secondo.
A te, come agli altri.
ALBERTO LIBERO! TUTTI LIBERI!

Nessuna condanna potra mai fermare le nostre lotte
In ogni caso, nessun rimorso
Segui : 10×100.it

PER SCRIVERE A FAGIOLINO:

Alberto Funaro
Casa Circondariale Capanne
Via Pievaiola 252
06132 Perugia

 

Oggi, domenica 15 luglio, presidio di solidarietà davanti al carcere di Rebibbia
Radiondarossa invita le compagne e i compagni di Roma a partecipare ad un saluto ad Alberto,
domenica 15 luglio a partire dalle 18 sotto Rebibbia angolo via Majetti.
Per un appuntamento molto partecipato con un microfono aperto alla solidarietà e alla vicinanza ad Alberto e a chiunque si trovi chiuso dentro un carcere.

Erri De Luca e la prigionia politica, “fino all’ultima sillaba degli anni”

8 luglio 2012 6 commenti

“Anche in questo la storia della lotta armata ribadisce la sua diversità totale;
pene scontate, come dice Macbeth, fino all’ultima sillaba degli anni.
Si tratta di campioni della specialità penitenziaria, atleti del gran fondo detentivo,
a volte morti in carcere come Germano Maccari o appena fuori dal muro come Piero Vanzi.
E tutta questa pena già scontata è perfettamente vana.
Essa non ha pareggiato il debito per il quale era stata erogata,
non ha permesso ai prigionieri saldatori del conto
di ritornare cittadini interi come è diritto di chi paga.
Si è ancora al giorno uno di una storia bloccata.
ma bloccata non solo per loro:
di più per la pubblica salute di un paese che non si è più disintossicato dall’emergenza
E continua a inventarsene, a spacciarne, a iniettarsene in vena.
Siamo un paese di bambini invecchiati, bisognosi di mostri.”
Erri De Luca

Sulla Lotta Armata: LEGGI QUI
Sulle torture subite dai militanti: QUI
Sui compagni uccisi in conflitti armati: QUI

Di Erri De Luca:
Su Sonja e Christian, estradati in Germania
Sulla morte di Stefano Cucchi
In te milioni di volte mi sono ingrandito
Esser vendicati da una donna
San Paolo e l’attacco al cuore dello Stato
Ballata per una prigioniera
Mediterraneo, cimitero liquido
Emergenza e devozione
‘na dissenteria de bombe
cambierà nome pure l’universo