Archivio

Posts Tagged ‘pellicola’

“n’omo che come te c’ereno pochi”

20 Maggio 2009 1 commento

CI’AI LASCIATI COSI, SENZA DI GNENTE, SENZA NEMMENO DICCE N’A PAROLA;
STAVI BENE, ERI FORTE, SORRIDENTE N’OMO GAJARDO,
N’OMO DE PAROLA! N’OMO DE N’ANTRA RAZZA, N’OMO VERO!
N’OMO SPECIALE, N’OMO FUMANTINO, N’OMO LAVORATORE, N’OMO FIERO,
N’OMO CHE COME TE C’ERENO POCHI, UN ROMANO DE ROMA D’ARTRI TEMPI,
L’URTIMO DE N’A STIRPE CHE SCOMPARE, N’OMO SINCERO,N’OMO DE GRAN CORE!

DE ROMA CE SAPEVI DI DE TUTTO; LI RIONI, LE STRADE, ER VICOLETTO:
L’ARITORNELLI, LE CANZONI ANTICHE… LE TRATTORIE DE ROMA DE N’A VORTA…
DE QUANNO ER MONNO STAVA ANCORA IN PACE,
DE QUANNO LA FAMIJA S’ARADUNAVA INTORNO AR TAVOLINO PE’ LA CENA
E SI NUN C’ERI TU…NON SE MAGNAVA! UN’OMO COME TE NON SE RIMPIAZZA..
ERI UN TRASTEVERINO…N’ANTRA RAZZA!!
(Alessandro Picchi)

Foto di Valentina Perniciaro _Uno scorcio dedicato a te, che ancora borbotti camminando sui sampietrini, con il tuo passo zoppo e l'ironia del tuo sguardo. Uno scorcio della tua piazza, che è cambiata in tutto tranne che nel tuo vocione che cantava e in quella risata, de core, romana. Un pensiero a te, Rena'

Foto di Valentina Perniciaro _n’o scorcio dedicato a ‘tte, che ancora nun riesci a smette de borbotta’ a cammina’ su quei sampietrini, co’ quer  passo cionco e ‘na risata drentro all’occhi. ‘no scorcio de la piazza tua, che te farei vede’ che  j’anno fatto, tra ‘mericani e pizzardoni  nun sembra certo quella de li racconti tua.  Un pensiero a te, Rena’, che ancora te se sente strillà e ride come nte ne fossi mai annato. Che poi, maledetto quer giorno a no’, perchè troppo c’avevamo ancora da disse e da raccontasse, avevamo appena cominciato ma er core tuo nun c’ià fatta, troppo bbono pe’ sto monno avvelenato.E allora un bacio da drentro er core mio, forte come er piacere che c’avrei a famme ‘na risata co’ ‘tte ‘n mezzo a quei vicoletti aripuliti, a parlà e raccontacce er monno


“Hai portato un’altra isola in te”

5 Maggio 2009 6 commenti

CALIPSO Odisseo, non c’è nulla di molto diverso. Anche tu come me vuoi fermarti su un’isola. Hai veduto e patito ogni cosa. Io forse un giorno ti dirò quel che ho patito. Tutti e due siamo stanchi di un grosso destino. Perché continuare? Che t’importa che l’isola non sia quella che cercavi? Qui mai nulla succede. C’è un po’ di terra e un orizzonte. Qui puoi vivere sempre.
ODISSEO Una vita immortale
CALIPSO Immortale è chi accetta l’istante. Che non conosce più un domani. Ma se ti piace la parola, dilla. Tu sei davvero a questo punto?
ODISSEO Io credevo immortale chi non teme la morte.
CALIPSO Chi non spera di vivere. Certo, quasi lo sei. Hai patito molto anche tu. Ma perché questa smania di tornartene a casa? Sei ancora inquieto. Perché i discorsi che da solo vai facendo tra gli scogli?
ODISSEO Se domani io partissi tu saresti infelice?

Foto di Valentina Perniciaro

Foto di Valentina Perniciaro

CALIPSO Vuoi sapere troppo, caro. Diciamo che sono immortale. Ma se tu non rinunci ai tuoi ricordi e ai sogni, se non deponi la smania e non accetti l’orizzonte, non uscirai da quel destino che conosci,.
ODISSEO Si tratta sempre di accettare un orizzonte. E ottenere che cosa?
CALIPSO Ma posare la testa e tacere, Odisseo. TI sei mai chiesto perché anche noi cerchiamo il sonno? Ti sei mai chiesto dove vanno i vecchi dèi che il mondo ignora?perchè sprofondano nel tempo, come le pietre nella terra, loro che pure sono eterni? E chi son io, che è Calipso?
ODISSEO Ti ho chiesto se tu sei falice.
CALIPSO Non è questo, Odisseo. L’aria, anche l’aria di quest’isola deserta, che adesso vibra solamente dei rimbombi del mare e di stridi d’uccelli, è troppo vuota. In questo vuoto non c’è nulla da rimpiangere, bada. Ma non senti anche tu certi giorni un silenzio, un arresto, che è come la traccia di un’antica tensione e presenza scomparse?
ODISSEO Dunque anche tu parli con gli scogli?
CALIPSO E’ un silenzio, ti dico. Una cosa remota e quasi morta. Quello che è stato e non sarà mai più. Nel vecchio mondo degli dèi quando un mio gesto era destino. Ebbi nomi paurosi, Odisseo. La terra e il mare mi obbedivano. Poi mi stancai; passò del tempo, non mi volli più muovere. Qualcuna di noi resisté ai nuovi dèi ; lasciai che i nomi sprofondassero nel tempo; tutto mutò e rimase uguale; non vale la pena di contendere ai nuovi il destino. Ormai sapevo il mio orizzonte e perché i vecchi non avevano conteso con noialtri.
ODISSEO Ma non eri immortale?
CALIPSO E lo sono, Odisseo. Di morire non spero. E non spero di vivere. Accetto l’istante. Voi mortali vi attende qualcosa di simile, la vecchiezza e il rimpianto. Perché non vuoi posare il capo con me, su quest’isola?
ODISSEO Lo farei, se credessi che sei rassegnata. Ma anche tu che sei stata signora di tutte le cose, hai bisogno di me, di un mortale, per aiutarti a sopportare.
CALIPSO E’ un reciproco bene, Odisseo. Non c’è vero silenzio se non condiviso
ODISSEO Non ti basta che sono con te quest’oggi?
CALIPSO Non si con me, Odisseo. Tu non accetti l’orizzonte di quest’isola. E non sfuggi al rimpianto.
ODISSEO Quel che rimpiango è parte viva di me stesso come di te il tuo silenzio. Che cos’è mutato per te da quel giorno che terra e mare ti obbedivano? Hai sentito ch’eri sola e ch’eri stanca e scordato i tuoi nomi. Nulla ti è stato tolto. Quel che sei l’hai voluto.
CALIPSO Quello che sono è quasi nulla, caro. Quasi mortale, quasi un’ombra come te. E’ un lungo sonno cominciato chissà quando e tu sei giunto in questo sonno come un sogno. Temo l’alba, il risveglio; se tu vai via, è il risveglio
ODISSEO Sei tu, la signora, che parli?
CALIPSO Temo il risveglio come tu temi la morte. Ecco prima ero morta, ora lo so. Non restava di me su quest’isola che la voce del mare e del vento. Oh non era patire. Dormivo. Ma da quando sei giunto hai portato un’altra isola in te.
ODISSEO Da troppo tempo la cerco. Tu non sai quel che sia avvistare una terra e socchiudere gli occhi ogni volta per illudersi. Io non posso accettare e tacere.
CALIPSO Eppure, Odisseo, voi uomini dite che ritrovare quel che si è perduto è sempre un male. Il passato non torna. Nulla regge all’andare del tempo. Tu che hai visto l’Oceano, i mostri e l’Eliso, potrai ancora riconoscere le case, le tue case?
ODISSEO Tu stessa hai detto che porto l’isola in me
CALIPSO Oh mutata, perduta, un silenzio. L’eco di un mare tra gli scogli o un po’ di fumo. Con te nessuno potrà condividerla. Le case saranno come il viso di un vecchio. Le tue parole avranno un senso altro dal loro. Sarai più solo che nel mare.
ODISSEO Saprò almeno che devo fermarmi.
CALIPSO Non vale la pena, Odisseo. Chi non si ferma adesso, subito, non si ferma mai più. Quello che fai, lo farai sempre. Devi rompere una volta il destino, devi uscire di strada, e lasciarti affondare nel tempo.. 
ODISSEO Non sono immortale.
CALIPSO Lo sarai, se mi ascolti. Che cos’è vita eterna se non questo accettare l’istante che viene e l’istante che va? L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Cos’è stato finora il tuo errare inquieto?
ODISSEO Se lo sapessi avrei già smesso. Ma tu dimentichi qualcosa.
CALIPSO Dimmi
ODISSEO Quello che cerco l’ho nel cuore, come te.
       L’ISOLA  -Tratto da “Dialoghi con Leucò. Cesare Pavese-

 

Foto di Valentina Perniciaro, parlando con Odisseo

A te, che sei la vita mia.

Ronde e Bidet

1 Maggio 2009 Lascia un commento

MA VI RENDETE CONTO?
MOLTE DONNE SU 100  ODIANO LE RONDE, I PACCHETTI SICUREZZA, LO SPECULAZIONE CHE SI FA SUI NOSTRI CORPI E SULLA VIOLENZA CHE SUBIAMO, MOLTE DONNE SU 100  SI DIFENDONO ORGANIZZANDOSI, PRENDENDO COSCIENZA DI SE’, PARTECIPANDO AD UNA COLLETTIVITA’ ALTRA, LIBERANDOSI DA STUPRATORI, PRETI, GIUDICI E CARCERIERI.
MOLTE DONNE SU 100 SPERO SI LAVERANNO CON ALTRO. 

Foto di Valentina Perniciaro _Il 1° NO VAT_

Foto di Valentina Perniciaro _Il 1° NO VAT_

Damasco, raccontata 700 anni fa…

16 aprile 2009 Lascia un commento

Il giovedì 9 del venerabile mese di Ramadan dell’anno giunsi a Damasco di Siria e presi alloggio nella màdrasa malikita, nota come al-Sharabishiyya [dei fabbricanti di sharbush, copricapo tipico degli emiri]. Damasco supera le altre città in bellezza e le oltrepassa con il suo splendore.

Foto di Valentina Perniciaro _Spruzzi damasceni_

Foto di Valentina Perniciaro _Spruzzi damasceni_

Ogni descrizione, per quanto precisa, è sempre troppo limitata per dirne tutta l’avvenenza, ma non vi sono parole più squisite di quelle di Abu al-Husayn ibn Jubayr, che così si espresse: “Sì, Damasco è il paradiso d’oriente, il luogo dell’origine della sua splendida luce; l’ultimo paese dell’Islam in cui siamo giunti, sposa novella fra le città che svelammo. Agghindata di fiori di piante odorose, spunta dai giardini avvolta in drappi di broccato e per la sua bellezza occupa un posto d’alto rango, s’asside sul trono nuziale con splendidi ornamenti. S’onora d’aver dato rifugio al Messia e a sua madre su un’altura tranquilla e irrigata di fonti, dove l’ombra è fitta e l’acqua paradisiaca. Qui i ruscelli serpeggiano ovunque e la brezza leggera dei giardini infonde vita agli animi. Damasco mostra il proprio fascino a chi l’ammira in tutto il suo splendore e dice: “Orsù venite qui, ove beltà risiede sia la notte che il dì!” La sua terra è a tal punto sazia d’acqua che quasi desidera aver sete, e poco ci manca che anche i duri e aspri sassi dicano: “Percuoti col piede la terra: ne sgorgherà acqua fresca buona a lavarti e per bere!” [Corano]. I giardini la circondano come l’alone che cinge la luna, sembrano petali tutto intorno ad un fiore. Verso

Foto di Valentina Perniciaro _passeggiando sulla via retta_

Foto di Valentina Perniciaro _passeggiando sulla via retta_

oriente si estende a perdita d’occhio la sua Ghuta verdeggiante e ovunque si volga lo sguardo, si resta ammaliati dallo splendore dei frutti maturi. Oh sì, ben son nel vero quanti di lei dissero: “Se il paradiso è qui sulla terra, esso per certo si trova a Damasco, ma se non può stare altrove che in cielo, in bellezza Damasco lo sfida quaggiù.”
Ibn Juzary aggiunge che un poeta di Damasco ha composto a tale proposito questi versi:
Se l’Eden eterno è qui sulla terra,
esso è a Damasco, e in nessun altro luogo.
Se invece è nei cieli, su Damasco ha disperso
la sua lieve brezza e le sue qualità.
Ecco un paese stupendo e un Maestro indulgente!
Gioiscine dunque da mane a sera!

Ibn  Juzary afferma inoltre: “Quel che hanno detto i poeti descrivendo le bellezze di Damasco è così tanto che non lo si può contare. Mio padre era solita descriverla declamando i versi di Sharaf al-Din ibn Muhsin:

Damasco! Mi rodo di struggente desiderio
come oppresso da calunnia e dal biasimo assillato…
Ah paese dove i ciottoli son perle e la terra appare d’ambra!
Vi frizza l’aria quale dolce vinello,
l’acqua vi scorre in libertà,
e rinfresca i giardini di un lieve soffio di vento!

E infine Nur al-Din:
Damasco: 
Siccome l’Eden è per lo straniero,
che qui si scorda il paese natio.
Ah, qui suoi sabati tanto famosi
stupendo spettacol di grande beltà!
Qui non si vedon che amanti e amati,
colombe che tuban sui rami al vento
e, tra gioia ed effluvi, superbi fiori

Questo brano è tratto da “I VIAGGI” di Ibn Battuta,  steso a partire  dal 1325. Personaggio incredibile, di origine berbera, passò 28 anni della sua vita percorrendo l’equivalente di quarantaquattro stati moderni (Africa, Medioriente, India, Cina, Isole Maldive, territori del Volga…). Il celebre libro fu steso da uno scriba del sultano che annotava con ordini i racconti e le sue osservazioni.

Prima poi metterò sul blog un altro piccolo omaggio alla mia amata Damasco… con qualche stralcio di poesie di Nizar Qabbani, straordinario  poeta siriano scomparso poco più di dieci anni fa

Piccolo racconto dalla grande moschea di Damasco

14 aprile 2009 8 commenti

Passare sotto quel portone fa tornare indietro di millenni, in una terra sconosciuta che apparentemente sembra non notarti.

Foto di Valentina Perniciaro  _Il portone d'ingresso della Moschea Omayyade di Damasco_

Foto di Valentina Perniciaro _Il portone d’ingresso della Moschea Omayyade di Damasco_

Passo sotto al portone cercando di imitare e capire in pochi secondi gesti che vengono da molto lontano, che odorano di millenni e di spezie che hanno traversato l’oriente più sconfinato. Il portone della grande moschea di Damasco è solo uno dei tre, ma è una scelta obbligata per chi entra la prima volta e non sa come muoversi, se da turista o mischiandosi tra le persone che entrano per pregare o per viversi un po’ della propria comunità.
Se avessi un velo sulla testa non passerei per la biglietteria, che ti timbra un pezzo di carta con un inchiostro che ti tinge la mano come fosse invidioso del fatto che quella visita sarà indelebile nella tua memoria, e ti dona per un po’ un piccolo velo a coprire capelli e spalle, cingendoti la vita con un laccetto.
Imitare i gesti si, e il primo che inevitabilmente si impara è quello di togliersi le scarpe e capire dove metterle: potrei lasciare tra un milione di scarpe all’ingresso, ma sono

Foto di Valentina Perniciaro _dentro la sala di Preghiera. Lì c'è la testa di San Giovanni Battista, che rotolò da Gerusalemme a Damasco, un po' come ho fatto io

Foto di Valentina Perniciaro _dentro la sala di Preghiera. Lì c’è la testa di San Giovanni Battista, che rotolò da Gerusalemme a Damasco, un po’ come ho fatto io

praticamente certa che non avrei modo di ritrovarle, non perchè qualcuno le toccherebbe, ma perchè non riesco ad avere punti di riferimento: troppo bianco, troppi sandali, troppo cuoio mischiato e spaiato per la mia inesperienza.
Ok. Le lego in qualche modo alla borsa della macchinetta fotografica: lo faccio nervosamente e infastidita perchè fremo all’idea di perdermi in questo luogo millenario, perchè ora ci voleva anche l’ingombro delle scarpe e il modo per non perderle a distrarmi da questo colore che mi acceca e che ancora devo capire da dove viene. E’ il sole che si scontra con quel cortile immense, un sole mediorientale che cade lasciando poche ombre e scalda il candore di strati di marmo che provengono dal tempio innalzato a Zeus, molto prima che una qualunque formaq di   monoteismo fosse arrivata a devastare le menti.
Il marmo mi attira; richiudo la borsa con i miei sandali che penzolano fuori e mi precipito ad assaporare con la pianta del piede quel bianco cotto al sole.
Che sensazione! Il marmo caldo mi accarezza, mentre le briciole e il mangime per gli uccelli che i bambini (quante centinaia di bimbi ci sono) si divertono a lanciare continuamente mi pizzicano il passo, rendendolo frizzante e ancora più stupito.
Incredibile come certi luoghi sembrino anche in grado di

insegnarti nuovamente a camminare, a farlo in un altro modo, a farti pensare il tuo movimento.
Parlo di quel luogo come fosse sacro anche per me, per me atea e comunista, per me blasfema, rivoluzionaria, senza padroni nella testa. 
Ma non posso negarlo. Quel luogo ti lascia stupito solo nel suo cortile, ancor prima che l’immenso colonnato della sala centrale di preghiera ti accolga nei suoi rumori mistici e nella sua calca riposata, nel colore dei tappeti che cercano di sfiorare il rosso, nei disegni geometrici, nella madreperla, nel legno intarsiato con la loro calligrafia…
Il grande utero caldo della moschea omayyade di Damasco è il suo cortile, che immediatamente ti fa sentire a casa, senza alcuna sensazione di estraneità, senza imbarazzo. Mosaici bizantini  con il loro oro aiutano il sole ad entrarti dentro e rendere quel cortile una piccola luminosa succursale dell’Eden, con quegli alberi disegnati e uccelli veri e finti che intrecciano i loro voli al ritmo del muezzin che chiama alla preghiera di mezzogiorno.
Senza alcuna timidezza, che tante volte ho provato dentro le nostre tetre e silenziose cattedrali, mi incammino verso una delle entrare della sala di preghiera. Mi scelgo un pezzetto di tappeto dove rannicchiarmi a terra, insieme alla mia macchinetta e alla mia voglia di diventare invisibile, di cancellare dai miei tratti l’occidente che mi porto dietro per essere un tutt’uno con quella grande comunità riunita da un rito che se non distinguesse uomini dalle donne (con un baldacchino in legno) sarebbe totalmente orizzontale, privo di quella gerarchia ecclesiastica che intimoriva la nostra crescita da bambini di

Foto di Valentina Perniciaro _ Girotondi in moschea _

Foto di Valentina Perniciaro _ Girotondi in moschea _

un’Italia che di laico non ha mai avuto molto nel suo sistema scolastico/educativo.
La preghiera inizia ed è tutto un gioco di mani, di teste, di sederi grandi e piccoli che si muovono in simbiosi. Le parole mi giungono ormai familiari, almeno nella prima parte del loro canto ed hanno il potere di rilassarmi, di farmi stendere le gambe e sentire con i piedi nudi il pizzicorio dei kilim.
Una bimba si è accorta di me e si stacca dalla sua famiglia correndomi incontro. Non faccio un solo gesto, non volevo esser vista e invece ora lei attira l’attenzione su di noi: si mette in ginocchio accanto a me, come per insegnarmi il movimento, mi prende le mani e mi fa capire come poggiarle a terra per poi alzarmi con loro, in un movimento unico.
La ringrazio e lei mi sorride felice, dopo aver compiuto quel gesto straordinario: stupenda lei, aveva capito che ero l’unica, tra forse un migliaio di persone, ad essere emarginata dall’ignoranza dei gesti e mi ha mostrato la sua solidarietà così, aprendomi la porta dei suoi riti e della sua comunità e strappando un sorriso d’approvazione alla sua mamma e a suo padre, distante e avvolto nella sua veste bianca.

Foto di Valentina Perniciaro _La moschea Omayyad di Damasco_

Foto di Valentina Perniciaro _La moschea Omayyad di Damasco_

Da quel giorno i tre minareti della moschea omayyade hanno cadenzato le mie giornate, da quel giorno i miei piedi hanno iniziato ad avvertire -ogni piccola manciata di giorni- il desiderio di camminare scalzi sui secoli e sul grano per i piccioni, avvolta dall’oro bizantino e dai sorrisi di bimbe dai capelli liberi e dallo sguardo sincero e dolce.
Un luogo dove molte volte mi sono ritrovata a leggere o a fare un pisolino all’ombra di una colonna o di un arco, sul morbido dei tanti tappeti: un luogo sacro dove non esiste silenzio, un luogo sacro che non ha nulla a che vedere con quella che da noi si definisce “Casa del Signore”. Per l’Islam non è assolutamente così: è la casa di una popolazione, è il luogo dove si prega e poi si mangia e si gioca, dove ci si incontra, dove i ragazzi si scambiano i primi sguardi maliziosi, dove gli anziani dormono e i bambini si rincorrono rotolando su tappeti e nel cortile. Un luogo dove ci si sente a casa, abbracciati.
E per dirlo io!

Solana in visita a Damasco…

28 febbraio 2009 Lascia un commento

La Palestina al centro dei colloqui tra Siria e Unione Europea

di Valentina Perniciaro, pubblicato su Internationalia
28 febbraio 2009

Il presidente siriano Bashar al-Assad ha incontrato mercoledì Javier Solana, Alto rappresentante degli Affari esteri e della sicurezza dell’Unione Europea, per discutere un incremento delle relazioni ed un consolidamento bilaterale di progetti per contribuire alla pace e alla stabilità nella regione.
Sono stati discussi gli ultimi sviluppi internazionali e dell’area, con particolare attenzione alla recente aggressione di Israele ai danni della Striscia di Gaza che ha causato più di 1300 morti.

Foto di Valentina Perniciaro _bimbe damasceni_

Foto di Valentina Perniciaro _bimbe damasceni_

Il ministro degli Esteri siriano, Walid Al-Muallim, durante la conferenza stampa successiva all’incontro, ha chiesto che Israele sia posta sotto le leggi internazionali e sia incriminata e punita dai tribunali internazionali “per crimini di guerra contro l’umanità e per le sue operazioni di genocidio contro la popolazione”. La questione della Palestina e del suo popolo sono stati l’argomento centrale dei colloqui. I partecipanti hanno espresso l’auspicio, con l’arrivo della nuova amministrazione Obama alla guida degli Stati Uniti, di una svolta nel processo di pace in Medio Oriente e nella costruzione di uno stato palestinese unitario, che ristabilizzi la situazione interna e sia in grado di capire che Hamas è ormai interlocutore inscindibile dalla politica palestinese sia nella Striscia di Gaza che nei Territori Occupati. Un percorso di pacificazione che veda l’apertura dei valichi al movimento di merci, persone ed aiuti umanitari, che faccia finire l’assedio e permetta il ripristino di una vita normale e l’abbassamento dei tassi di disoccupazione, povertà e malnutrizione.

I colloqui hanno sottolineato l’importanza della ricostruzione con il contributo dei paesi arabi ma anche dell’Unione Europea.
Solana ha descritto il ruolo della Siria come centrale nella ricerca di una soluzione ai problemi della regione e con il ministro degli Esteri ha sottolineato l’ottima atmosfera creatasi con il presidente Assad. “Sono uscito dall’incontro estremamente fiducioso sulle possibilità di cooperazione che potranno nascere con Damasco, dove spero di tornare presto per iniziare a vederne i frutti”, ha dichiarato Solana.“Stiamo andando nella direzione corretta e faremo di tutto affinché il 2009 sia ricco di passaggi che portino alla stabilità della regione,alla ricostruzione e alla pacificazione. Non possiamo darci una scadenza per un vero e proprio accordo tra Siria e EU, ma siamo sulla buona strada”.

Ma quale sciopero virtuale!

27 febbraio 2009 1 commento

L’ATTACCO AL DIRITTO DI SCIOPERO E’ UN ATTACCO ALLA DEMOCRAZIA

Con le nuove norme previste dal Governo sul diritto di sciopero si sta andando rapidamente verso un nuovo e pericolosissimo capitolo del più 
vasto tema della limitazione delle libertà sindacali e costituzionali, della democrazia nel mondo del lavoro e nella società.
Dietro un linguaggio formalmente tecnicistico, presentato come un intervento per il solo settore trasporti, il governo predispone la legislazione per gestire la fase attuale e futura di grave crisi economica e le conseguenti risposte dei lavoratori al tentativo di farne pagare a loro il costo.
Ciò è confermato dal fatto che il governo ha annunciato norme che dovrebbero impedire di bloccare strade, aeroporti e ferrovie, forme di lotta utilizzate da tutti i lavoratori in casi particolarmente drammatici.

Foto di Valentina Perniciaro _Napoli, Marzo 2001 Lo spezzone dei COBAS_

Foto di Valentina Perniciaro _Napoli, Marzo 2001 Lo spezzone dei COBAS_

L’attacco al contratto nazionale, le nuove norme che si intendono introdurre sulla rappresentatività sindacale, la nuova concertazione tra governo,  confindustria e sindacati confederali che si è trasformata in una vera e propria alleanza neocorporativa, sono elementi finalizzati ad impedire le  rivendicazioni e la difesa dei diritti dei lavoratori.
Ciò avviene proprio quando più grave è la crisi economica, più pesanti le conseguenze per i  lavoratori e maggiore la necessità di risposte determinate.
Lo scopo del governo è quello di imporre per legge la pace sociale, vietando e criminalizzando il diritto di sciopero. Di ridurre al silenzio i lavoratori  mentre si celebrano i misfatti nel settore dei trasporti – Fs , Tirrenia,  Alitalia – con migliaia di esuberi, di messa in mobilità, di licenziamenti e il relativo aggravio sulla qualità del servizio e dei costi 
UN COLPO DI MANO CHE VA SVENTATO SUL NASCERE , INSIEME A TUTTI I TENTATIVI  PROTESI A METTERE AL BANDO LA COSTITUZIONE E I DIRITTI FONDAMENTALI. 
Illegittima e autoritaria l’ipotesi di consegnare lo sciopero, che è un diritto individuale sancito

Vincent Van-Gogh

Vincent Van-Gogh

dalla Costituzione, alla disponibilità gestionale  di sindacati che rappresentino il 50% dei lavoratori; assurdo perché in molte aziende la sindacalizzazione non arriva neanche al 50%. Nonché il referendum preventivo che tende a dilazionare e snaturare l’azione di sciopero, già oggi estremamente contrastata dalle limitazioni della Commissione di Garanzia e dai ripetuti divieti del governo. Altrettanto improponibile è l’adesione preventiva allo sciopero, un non senso giuridico che prevederebbe l’impossibilità del singolo di poter mutare il proprio atteggiamento rispetto ad un’azione sindacale indetta. Inaccettabile infine la forma di lotta virtuale che di fatto elimina il diritto di sciopero ed assegna alle parti la capacità/volontà di individuare la “penale” per l’azienda in caso di “sciopero lavorato”, mentre ai lavoratori si ritira l’intera giornata di lavoro: quindi la perdita secca della giornata per il lavoratore ed una impercettibile riduzione dei profitti per l’azienda.

A questo ennesimo tentativo di eliminare il diritto di sciopero rispondiamo con la mobilitazione immediata contro governo e padroni, cisl- uil – ugl ,e finalizzando a questo obbiettivo gli scioperi già programmati a partire da quello per il trasporto aereo del 4 marzo.

Il sindacalismo di base ha indetto una manifestazione nazionale a Roma il 28 marzo e uno sciopero generale per il 23 aprile anche per difendere il 
diritto di sciopero e la democrazia sindacale

CUB – CONFEDERAZIONE COBAS – SDL INTERCATEGORIALE
26 FEBBRAIO 2009

GENOVA: I SERVI CHE PRENDONO PAROLA

16 gennaio 2009 3 commenti

IL FORUM DELLA POLIZIA PARLA DEL G8 DI GENOVA: INFINITO LO SCHIFO CHE SI PROVA NEL LEGGERE QUESTE RIGHE

C. DA ROMA Non capisco perché non vogliate parlare degli errori commessi. Qui si tratta di dire chiaramente:
I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?

Foto di Valentina Perniciaro _PushBushOut, Roma_

Foto di Valentina Perniciaro _PushBushOut, Roma_

I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no?
I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no?
La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di “Uno a zero” dimostra di essere intelligente?
Su queste cose non ci può essere ambiguità!!! L’esistenza è battaglia e sosta in terra straniera.

Clic.

E. DA PADOVA Caro C., rispondo alle tue domande:
“I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?”
No. Non mi vergogno del fatto che in polizia ci siano dei coglioni. Non più del fatto che ci siano in Italia. Sono fiero di essere celerino e italiano, nonostante loro!
“I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no?”
No. Per questa domanda, oltre a valere la risposta sopra, concedimi anche il beneficio del dubbio. Chi prenderebbe seriamente un tentativo di violenza a una capra malata? Il popolo antagonista non brilla certo per l’attaccamento all’igiene! Non credo a quello che, sicuramente in malafede, sostengono questi personaggi!
“I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no?”

Foto di Valentina Perniciaro _la nostra polizia_

Foto di Valentina Perniciaro _la nostra polizia_

No. Pur essendo convinto assertore della totale inutilità di infierire su un manifestante inerme (questo è l’unico sbaglio, sprecare le forze su uno solo), sappi che è impossibile farsi rivelare dal manifestante durante la carica, se è un “povero illuso pacifista” o meno. È inoltre abbastanza difficile, dopo ore di sassaiole subite, magari con fratelli feriti anche gravemente, beccare uno dei personaggi che ti stanno avanti e picchiarli solo un pochettino. Quello che dico è che il povero illuso, visti gli stronzi che stavano con lui, poteva tornarsene a casa invece di manifestarci insieme! Se gli è andato bene fare da scudo per questi delinquenti, allora non si può lamentare di subirne le conseguenze! Che poi qualche collega si sia comportato come un qualsiasi essere umano sotto stress non mi sembra né incomprensibile né disdicevole. Sicuramente qualcuno avrà commesso sbagli. Sai quanti poliziotti c’erano a Genova? Di sicuro non mi vergogno per i loro errori!
“La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di “Uno a zero” dimostra di essere intelligente?”
 No. Ma come si dice a Roma, sti cazzi! Hanno messo a ferro e a fuoco una città, rischiando di farci fare una figura di merda a livello internazionale, provocando danni, feriti, spese enormi e si preoccupano della frase di una telefonista? Non mi vergogno per quello che ha detto.
Mi vergogno perché oggi la madre di un teppista imbecille, dimostrando una mancanza di scrupoli e un cinismo degni di una Kapò, è riuscita a
farsi eleggere senatrice della Repubblica; perché un partito italiano ha fatto intitolare un’aula all’imbecille!
Non voglio i soldi di questi politici. Non voglio i soldi da questo governo (e da un altro come questo). A difendermi ci penso da me, con
l’aiuto di Dio e dei fratelli celerini, che mi stanno accanto e non mi tradiscono nel momento del bisogno.

 

Once in the Celere, always in the Celere.

il resto qui: http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/cronaca/g8/parole-celerini/parole-celerini.html

L’operazione “piombo fuso” avanza. Notizie da Gaza e dintorni.

2 gennaio 2009 Lascia un commento

Il bilancio delle vittime dell’operazione militare israeliana a Gaza è salito a 430 palestinesi morti e 2.200 feriti.
Sono cinque i bambini palestinesi uccisi solamente oggi nei raid israeliani sulla Striscia di Gaza. Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa palestinese ‘Maan’, che cita fonti mediche locali, tre bambini sono morti in un raid avvenuto poco fa nel villaggio di al-Qarara, nella parte meridionale della Striscia di Gaza.

Foto di Valentina Perniciaro _Rebibbia_

Foto di Valentina Perniciaro _Rebibbia_

Secondo testimoni oculari, facevano tutti parte della stessa famiglia e stavano giocando davanti alla loro casa quando è caduto un missile che li ha centrati in pieno, uccidendoli sul colpo. Il quarto bimbo ucciso ha 15 anni, si chiama Himad Masbah ed è stato colpito da un missile nel quartiere al-Shujuiya di Gaza. La quinta vittima è invece una bambina di 6 anni, Kristin al-Turk, morta in ospedale in seguito alle ferite riportate. Un altro raid è stato eseguito stamattina nel campo profughi di al-Nasiriyat.
Nel frattempo ieri era stata richiesta da Hamas la Giornata della collera nei territori occupati e secondo quanto riferisce la tv araba ‘al-Jazeera’, la manifestazione più imponente si sta svolgendo a Ramallah dove, alla fine della preghiera islamica del venerdì, migliaia di persone si sono riunite nella zona denominata di al-Manara.Come riferito da fonti dell’esercito israeliano, la protesta è degenerata in violenze quando sostenitori di Hamas sono arrivati allo scontro fisico con sostenitori di Fatah, accusati dagli integralisti di collaborare con lo Stato ebraico. Per porre fine alla rissa e disperdere i manifestanti la polizia palestinese ha sparato diversi colpi in aria.
In altre località si sono invece registrati scontri tra i manifestanti e i militari israeliani di guardia ai punti di transito. In qualche caso i soldati avrebbero sparato ferendo alcuni palestinesi.

Anche in Israele oggi è scoppiata la rabbia di decine di attivisti israeliani, com’è riportato dal Ynet, sito del quotidiano Yediot Ahronot hackerato oggi per un po’ dal gruppo islamico detto “la Squadra del crimine, terrortisti cibernetici e Squadra del diavolo”. La manifestazione si è svolta ad Haifa per chiedere la cessazione dei raid contro la popolazione palestinese, una manifestazione pacifica che si riconvocherà domani per le strade di Tel Aviv.

Nel resto del mondo arabo invece:

Foto di Valentina Perniciaro _Campi profughi palestinesi_

Foto di Valentina Perniciaro _Campi profughi palestinesi_

 

Egitto:  Violente proteste sono state attuate oggi da egiziani a sostegno dei palestinesi di Gaza all’altezza del valico di confine tra Egitto e Israele di Karim abu Salem (Kerem Shalom in ebraico), poco lontano da quello di Rafah, dove da giorni è stato schierato un gran numero di forze di sicurezza. Dopo aver bruciato pneumatici sulla strada ed aver dato fuoco ad alcune case del villaggio egiziano di El Mahmd, decine di persone hanno assalito un veicolo della polizia che avrebbe investito «volutamente» un esponente del partito di opposizione Tagammu, Medhat el Kachef, che era tra i dimostranti. Leggermente ferito l’uomo è stato trasportato all’ ospedale di Al Arish. È cominciato un fitto lancio di pietre contro il blindato della polizia ed i poliziotti hanno risposto a colpi di manganello contro gli aggressori. Nello scontro sono rimasti feriti una decina di manifestanti e tre poliziotti.

Giordania: Lievi scontri tra forze dell’ordine e dimostranti anti-israeliani si sono verificati oggi ad Amman, nei pressi della sede della locale ambasciata d’Israele. Al grido di «Via l’ambasciata israeliana da Amman!» e «Via Hosni Mubarak» in riferimento al presidente egiziano accusato di esser complice della politica dello Stato ebraico, migliaia di manifestanti hanno scagliato pietre in direzione del compound fortificato della sede diplomatica, protetta da barriere di filo spinato e da un doppio cordone di forze dell’ordine giordane in tenuta anti-sommossa. Gli agenti hanno risposto sparando razzi fumogeni e si sono registrati alcuni lievi tra manifestanti e polizia. Al momento non si registrano feriti. Dall’inizio dell’offensiva israeliana sulla Striscia di Gaza, numerose manifestazioni di protesta si sono svolte ad Amman. Il 60 % della popolazione giordana è di origine palestinese. Il regno hascemita e l’Egitto sono gli unici due Paesi arabi ad aver firmato un trattato di pace con Israele.

Iraq:  La capitale irachena, Baghdad, è stata protagonista oggi di una serie di manifestazioni di solidarietà con la popolazione di Gaza. Secondo la tv iraniana ‘al-Alam’, quella più imponente si è tenuta fuori alla moschea Umm al-Qura, quando l’Imam Muhammad al-Jiburi, durante il sermone del venerdì islamico, ha chiamato i fedeli a marciare dopo la preghiera comunitaria e a raccogliere i fondi per la popolazione palestinese di Gaza. «Quello che sta avvenendo lì è un vero e proprio genocidio – ha tuonato dal pulpito -. Si vuole distruggere un popolo perché i bombardamenti non distinguono tra obiettivi civili e politici». Una seconda manifestazione si è tenuta davanti all’università cittadina alla quale hanno partecipato circa cinquemila studenti. Infine un’altra manifestazione si è svolta nel sobborgo sciita di Baghdad noto col nome di Sadr City. Qui è stato letto un comunicato diffuso dall’Imam Moqtada al-Sadr il quale chiede «alle organizzazioni umanitarie di intervenire come possono per aiutare la popolazione di Gaza con degli aiuti. Chiediamo all’Onu di far cessare gli attacchi e di sostenere gli abitanti della striscia». Altre piccole manifestazione spontanee si sono tenute nei pressi di diverse moschee di Baghdad dove sono state anche più volte incendiate bandiere israeliane e americane

Libano: Centinaia di manifestanti libanesi e palestinesi si sono radunati oggi nei pressi della sede dell’ambasciata egiziana a Beirut, in solidarietà della popolazione della Striscia di Gaza, da una settimana sottoposta ai raid aerei israeliani. Al grido di «Col nostro sangue, con la nostra anima, ci sacrifichiamo per te, Palestina!», i manifestanti hanno raggiunto le barriere di filo spinato, erette dalle forze di sicurezza libanesi, portando a spalla una decina di finte bare nere con su scritto: «Palestina» e «Siamo tutti gente di Gaza». I dimostranti chiedono al governo del Cairo di aprire il valico di Rafah, al confine meridionale con la Striscia, mentre altri manifestanti hanno innalzato striscioni neri su cui sono stati riportati i celebri versi del defunto poeta palestinese Mahmud Darwish: «Siamo qui, rimarremo sempre qui, perchè il nostro unico obiettivo è essere».

Marocco: Uno studente marocchino ferito nei giorni scorsi in scontri con la polizia durante una manifestazione di sostegno ai palestinesi di Gaza è morto ieri a Marrakech, nel Marocco meridionale. Lo rende noto oggi la stampa marocchina. Secondo i giornali, il giovane, Abderrazak El Gadiri, è stato ferito alla testa domenica scorsa nei pressi della città universitaria di Marrakech. Circa 300 studenti si sono radunati stamani davanti all’obitorio dell’ospedale Ibn Tofail di Marrakech per protestare contro la morte del loro compagno, che militava in un sindacato studentesco.

Seguiranno aggiornamenti e magari immagini.
DOMANI A ROMA MANIFESTAZIONE ORE 16,30 DA PIAZZA DELLA REPUBBLICA A PIAZZA BARBERINI

Da Deheishe: La nuova potenza mondiale di dio

1 gennaio 2009 1 commento

Possiamo ammetterlo, non abbiamo nulla con cui combattere, né armi, né capacità di resistenza, nessuna reciproca solidarietà; abbiamo solo un’ultima cosa in comune, siamo tutti pronti a morire sotto un razzo prodotto in America, lanciato da Israele con l’approvazione dei paesi Arabi.

Possiamo coltivare il sogno di uno Stato nelle nostre tombe, e non cambierebbe molto, siamo morti in ogni caso; in una tomba almeno possediamo il nostro suolo e il nostro Stato lo possiamo costruire sottoterra. Lì sapremmo che siamo morti e una volta lì, nessuno avrebbe la creatività inumana di pianificare la nostra uccisione.

Foto di Valentina Perniciaro _le scuole di Dehishe_

Foto di Valentina Perniciaro _le scuole di Dehishe, campo profughi a pochi passi da Betlemme__

Non è Hamas ad essere colpita oggi, non la causa palestinese e nemmeno la gente di Gaza, è l’umanità che viene rimossa a sangue freddo con grandi congratulazioni agli Israeliani per il loro successo.

Non c’è bisogno di una vendetta da parte di noi Palestinesi, forse questa volta dovremmo considerare questa lotta più grande di noi, la rete dei collaboratori è cresciuta ad un livello regionale. Chiudiamo allora le nostre case ed aspettiamo che la morte ci venga a prendere, lasciamo che
il piano da tempo coltivato da Israele abbia successo, uccidere tutti i Palestinesi è più semplice che trasferirli altrove.

Stanotte i coloni di Sderot possono festeggiare Gaza bagnata di sangue; ho ascoltato un ufficiale municipale israeliano, e continuava a ripetere che questo è il modo giusto per fermare il lancio di razzi da Gaza, che questa azione mostra la lealtà dello ‘Stato di Israele’ ai suoi cittadini, uccidere altri
cittadini e distruggere tutta l’infrastruttura della polizia, quella forza di polizia suggerita proprio da Israele durante i negoziati di Oslo.

Foto di Valentina Perniciaro _Campi profughi palestinesi in territorio siriano_

Foto di Valentina Perniciaro _Campi profughi palestinesi in territorio siriano_

Non abbiamo bisogno di richiami all’unità ora, il tempo è scaduto per tutti i partiti politici, il massacro continuerà e la vostra unità ora significa e vale
nulla, le persone continueranno ad essere uccise e a soffrire; Israele non si fermerà ora, tutto ciò non basta ancora per la loro campagna elettorale, hanno bisogno di mostrare ai loro fanatici che sono capaci di tutto, uccidere bambini, donne ed ufficiali della polizia municipale, persone che non hanno mai partecipato al lancio di alcun razzo.

Invece di spendere soldi nel convincere i leader corrotti e venduti dei paesi Arabi a partecipare ad un summit il cui comunicato di condanna potrebbe essere
scritto da un qualunque studente di quattordici anni, potremmo raccoglierli ed usarli per fare telefonate costose, per comprare biglietti aerei, per hotel di
lusso, per comprare medicine e cibo alle persone di Gaza. Qualunque cosa possiamo fare per loro, non potranno dimenticare questo giorno, e non potremo
chiedere loro di perdonare il nostro lungo silenzio.

Capisco pienamente come quanto sia pericoloso quello che sto dicendo, che ci sono molte divisioni nella nostra lotta, così come è successo in altre lotte, ma la cosa più pericolosa ora è che veniamo uccisi e nessuno mette in dubbio la legalità degli attacchi israeliani o agisce per portare Israele di fronte alle
corti internazionali per i suoi crimini di guerra. Se questo non vuol dire che non c’è potenza in grado di fermare Israele, tutto ciò può significare solo due
cose, che non c’è essere umano rimasto che provi dolore per i Palestinesi di Gaza, o che Israele è la nuova potenza mondiale di dio.

QUESTE PAROLE SONO SCRITTE DA UNA RAGAZZA DEL CAMPO PROFUGHI DI DEHEISHE, CAMPO CHE MI HA ACCOLTO, RIFOCILLATO, PROTETTO, COCCOLATO. CAMPO CHE VIVE DENTRO DI ME, GIORNO DOPO GIORNO. PALESTINA LIBERA, PALESTINA ROSSA

La più grande prigione del mondo

14 dicembre 2008 Lascia un commento

La mega-prigione della Palestina

di Ilan Pappe (1)

In diversi articoli pubblicati da The Electronic Intifada, ho affermato che Israele sta attuando una politica di genocidio contro i palestinesi nella Striscia di Gaza, mentre continua la pulizia etnica della Cisgiordania. Ho affermato che la politica di genocidio è il risultato di una mancanza di strategia. L’argomento è il seguente: poiché la classe dirigente politica e militare non sa come gestire la Striscia di Gaza, essa ha scelto una reazione

Foto di Valentina Perniciaro

Foto di Valentina Perniciaro

automatica consistente nell’uccisione massiccia di cittadini ogni volta che questi osano protestare per forzare [in qualche modo] il loro strangolamento e il loro imprigionamento. Il risultato è stato finora un’escalation di uccisioni indiscriminate dei palestinesi – più di cento nei primi giorni del Marzo 2008 – giustificando sfortunatamente l’aggettivo “genocida” che io ed altri abbiamo utilizzato per definire questa politica. Ma non era ancora una strategia.
Tuttavia, nelle settimane più recenti, è emersa una strategia più chiara da parte di Israele nei confronti della Striscia di Gaza e del suo futuro, e questa strategia è parte della nuova impostazione complessiva riguardante il destino dei territori occupati in generale. Si tratta, nell’essenziale, di un affinamento dell’unilateralità adottata da Israele sin dal fallimento dei “colloqui di pace” di Camp David nell’estate del 2000. L’ex Primo Ministro d’Israele Ariel Sharon, il suo partito Kadima, e il suo successore Primo Ministro Ehud Olmert, hanno delineato molto chiaramente quello che l’unilateralità comportava: Israele avrebbe annesso circa il 50% della Cisgiordania, non come estensione omogenea ma come lo spazio complessivo degli insediamenti, delle strade separate, delle basi militari, e dei parchi nazionali (che sono aree interdette ai palestinesi). Questo è stato più o meno attuato negli ultimi otto anni. Queste entità puramente ebraiche hanno frammentato la Cisgiordania in 11 piccoli cantoni e sotto-cantoni, separati gli uni dagli altri da questa pervasiva presenza coloniale ebraica. La parte più importante di quest’invasione è il cuneo più grande di Gerusalemme, che divide la Cisgiordania in due regioni separate senza collegamenti di terra per i palestinesi. Il muro viene così allungato e reincarnato in vario modo per tutta la Cisgiordania, accerchiando a volte singoli villaggi, quartieri e città. L’immagine cartografica di questo nuovo assetto dà un’indicazione della nuova strategia nei confronti sia della Cisgiordania che della Striscia di Gaza. Lo stato ebraico del 21° secolo sta per completare la costruzione di due mega-prigioni, le più grandi – nel loro genere – della storia umana.

Foto di Valentina Perniciaro _Alture del Golan dopo il passaggio dell'Esercito israeliano

Foto di Valentina Perniciaro _Alture del Golan dopo il passaggio dell’Esercito israeliano

Esse sono fatte in modo differente: la Cisgiordania è fatta di piccoli ghetti e quella di Gaza è da sola un gigantesco mega-ghetto. C’è un’altra differenza: la Striscia di Gaza è adesso, nell’immaginazione distorta degli israeliani, la prigione dove sono imprigionati i “detenuti più pericolosi”. La Cisgiordania, d’altro canto, è ancora gestita come un gigantesco complesso di prigioni all’aria aperta sotto forma di normali agglomerati umani, come villaggi o città, collegati e supervisionati da un’autorità carceraria dotata di una forza militare enorme e violenta.
Secondo gli israeliani, la mega-prigione della Cisgiordania può essere definita uno stato. Yasser Abed Rabbo, consigliere del Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmud Abbas, ha minacciato – negli ultimi giorni del Febbraio 2008 – gli israeliani [dell’eventualità] di una dichiarazione d’indipendenza unilaterale, ispirata dai recenti avvenimenti del Kosovo. Tuttavia, sembra che nessuno da parte israeliana abbia avuto molto da ridire su quest’idea. Questo è più o meno il messaggio che uno sbalordito Ahmed Qurei, il negoziatore palestinese per conto di Abbas, ha ricevuto da Tzipi Livni, il Ministro degli Esteri israeliano, quando le ha telefonato per rassicurarla che Abed Rabbo non stava parlando a nome dell’Autorità Palestinese. Egli ha avuto l’impressione che la di lei preoccupazione principale era in realtà quella opposta: che l’Autorità Palestinese non sia d’accordo nel chiamare “stato”, nel prossimo futuro, le mega-prigioni.

Questa riluttanza, insieme all’insistenza di Hamas di voler resistere al sistema della mega-prigione con una guerra di liberazione, ha costretto gli israeliani a ripensare la loro strategia verso la Striscia di Gaza. Quello che trapela è che neppure i membri più disponibili dell’Autorità Palestinese sono disposti ad accettare la realtà della mega-prigione offerta come se fosse la “pace” o persino come se si trattasse della “costituzione di due stati”. E Hamas e la Jihad islamica sono arrivati a tradurre questa riluttanza negli attacchi con i razzi Qassam contro Israele. Così il modello della più pericolosa delle prigioni è andato avanti: gli strateghi dell’esercito e del governo si sono imbarcati in una “gestione” a lungo termine del sistema da essi messo in piedi, nel momento stesso in cui dichiaravano di impegnarsi in un “processo di pace” sostanzialmente insignificante, con molto poco interesse da parte della comunità internazionale, e una continua lotta dall’interno [dello Stato d’israele] contro di esso.

In questo quadro la Striscia di Gaza viene ora vista come la prigione più pericolosa, e quella contro cui impiegare i mezzi punitivi più brutali. Uccidere i “detenuti” con bombardamenti aerei o di artiglieria, o per mezzo dello strangolamento economico, sono i risultati non solo inevitabili dell’azione punitiva che è stata scelta, ma anche quelli desiderati.

Quello che lascia Israele_

Foto di Valentina Perniciaro _GOLAN:Quello che lascia Israele_

Il bombardamento di Sderot è la conseguenza inevitabile ma anche, per certi versi, desiderabile, di questa strategia. Inevitabile, perché l’azione punitiva non può distruggere la resistenza e molto spesso genera una rappresaglia. La rappresaglia fornisce a sua volta la logica e il presupposto per l’azione punitiva successiva, nel caso qualcuno, nell’opinione pubblica interna [israeliana], dovesse dubitare della giustezza della nuova strategia.
Nel prossimo futuro, ogni resistenza analoga proveniente dalla mega-prigione della Cisgiordania verrà trattata in modo simile. E queste azioni molto probabilmente avranno luogo in un futuro molto vicino. In realtà, la terza intifada sta per iniziare. E la risposta israeliana sarebbe un’ulteriore elaborazione del sistema della mega-prigione. Ridimensionare il numero dei “detenuti” sarebbe ancora una priorità molto alta in questa strategia, per mezzo della pulizia etnica, delle uccisioni sistematiche e dello strangolamento economico.

Ma ci sono ostacoli che impediscono alla macchina distruttiva di mettersi in moto. Sembra che un numero crescente di ebrei in Israele (la maggioranza, secondo un recente sondaggio della CNN) desiderano che il loro governo inizi a negoziare con Hamas. Una mega-prigione va bene, ma se le aree residenziali dei coloni verranno prese probabilmente di mira in futuro, allora il sistema fallirà. Ahimè, dubito che il sondaggio della CNN rappresenti esattamente l’attuale orientamento israeliano; ma esso indica una tendenza incoraggiante che conferma la convinzione di Hamas secondo cui Israele capisce solo il linguaggio della forza. Ma tutto ciò potrebbe non essere sufficiente e la perfezione del sistema della mega-prigione continua nel frattempo senza tregua, e le misure punitive del suo potere si stanno prendendo le vite di un numero sempre maggiore di bambini, donne e uomini nella Striscia di Gaza.

Come sempre è importante ricordare che l’occidente può porre fine, anche domani, a questa disumanità e criminalità senza precedenti. Ma finora questo non è avvenuto. Sebbene gli sforzi per rendere Israele uno “stato paria” [uno stato messo al bando dalla comunità internazionale, come il vecchio Sudafrica dell’apartheid] continuino a tutta forza, essi provengono ancora solo dalla società civile. Speriamo che questa energia venga un giorno tradotta in politiche governative effettive. Possiamo solo pregare che, quando questo avverrà, non sia troppo tardi per le vittime di questa orrenda invenzione sionista: la mega-prigione della Palestina

[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo:
http://electronicintifada.net/v2/article9370.shtml 

Report israeliano contro Israele

9 dicembre 2008 1 commento

Sono giorni caldi per lo Stato Israeliano. Pochi giorni fa è stato proprio da un’assemblea del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che è stato richiesto un boicottaggio dello stato d’Israele per le sue politiche di Apartheid.
Domenica invece l’allarme è scattato proprio da dentro il confine dello Stato Ebraico d’Israele: allarme scontato per chi segue le vicende israelo-palestinesi, ma estremamente importante proprio per la sua provenienza. E’ l’A.C.R.I., l’associazione per i diritti civili in Israele, a dichiarare con un lungo report che, dopo gli Stati Uniti, è proprio lo Stato Israeliano il meno legalitario del mondo occidentale.

campo profughi di Deheishe_

Foto di Valentina Perniciaro _Palestina: campo profughi di Deheishe_

Il report è stato pubblicato per “macchiare” il 60esimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, e sottolinea l’incredibile incremento delle tassazioni nel paese e il parallelo e drastico abbassamento di qualunque investimento sul sociale.

Questo report dell’associazione è basato su un lavoro di inchiesta che ha focalizzato l’attenzione soprattutto sulle città che hanno una grande prevalenza di arabi israeliani come Ramle, Lod, Haifa e Jaffa. Città miste dove le minoranze arabe, ma non solo,  subiscono discriminazioni che vanno peggiorando di anno in anno, di governo in governo. Non viene tralasciato nulla da questa attenta associazione: I qurtieri arabi sono privi di  infrastrutture e quelle che ci sono sono in stato d’abbandono, non esistono edifici pubblici o parchi fruibili per giovani e non, il sistema scolastico e sanitario è completamente insufficiente, per una popolazione composta in gran parte di minorenni.
Da un quartiere all’altro della stessa città c’è il palesarsi di due società parallele; in centro ci sono scuole ed ospedali e soprattutto è garantito il diritto all’esser bambini, mentre poco più in là, nelle periferie arabe o in quelle delle nuove migrazioni degli ebrei etiopi, c’è un tasso di mortalità infantile e un’assenza di cure mediche difficile da trovare anche nei principali paesi del mondo non industrializzato. In 13 anni c’è stato un taglio alle spese sanitarie del 44% e nello stesso arco di tempo è aumentata del 50% la spesa pro capite per le cure private. Accessibili, ovviamente, solo ai cittadini di serie A, quelli con nazionalità israeliana.

Foto di Valentina Perniciaro _Insediamento israeliano in West Bank_

Foto di Valentina Perniciaro _Insediamento israeliano in West Bank_

L’allarme non sfiora solo la popolazione arabo-israeliana, ma anche tanti cittadini ebrei immigrati con il sogno della “terra per tutti gli ebrei del mondo”. Quel sogno si infrange immediatamente: uno stato in guerra non ha tempo nè soldi da dedicare alla spesa pubblica e sociale, l’industria bellica è un baraccone costoso che occupa interamente l’attenzione dei governi israeliani.
Migranti e disabili, cittadini israeliani, vivono in condizioni di emarginazione sociale ed economica spaventosa: e cifre sono spaventose. I portatori di handicap hanno una delle peggiori situazioni economiche dei paesi occidentali: i sussidi ammontano a circa 70% in meno rispetto ad un veterano dell’esercito. Per I migranti la situazione non è migliore: l’enorme quantità di immigrati ebrei etiopi trova solo lavori a bassissimo costo, con stipendi che sfiorano il 40% in meno dei loro colleghi di altra provenienza.

Oltre a questi dati troviamo pesanti limitazioni alla libertà personale e alla privacy, con livelli di controllo della popolazione impressionanti: continuano ad aumentare I controlli su migliaia di linee telefoniche e caselle di posta elettronica, un aumento vertiginoso di telecamere e sistemi di controllo sofisticati. Per quell che riguarda il sistema penitenziario si registrano continue violazioni dei diritti umani, perpetrate soprattutto contro I palestinesi residenti o I migranti di serie B, oltre a condizioni igienico-sanitarie allarmanti.
L’ACRI sottolinea anche l’incremento, soprattutto nell’ultimo anno, di violenze personali compiute contro i palestinesi nei territori, da parte dei coloni israeliani. Di questa miriade di attacchi, spesso con conseguenze gravissime, solo l’8% vede l’apertura di un inchiesta da parte delle autorità israeliane, anche se gli attacchi hanno causato la morte di civili: il resto passa sotto silenzio quando non viene appoggiato direttamente da operazioni militari dello stesso esercito.

L’O.N.U. e il boicottaggio ad Israele …e Napolitano??

8 dicembre 2008 3 commenti

IL PRESIDENTE DELL’ASSEMBLEA GENERALE DELL’ONU INVITA AL BOICOTTAGGIO DEL REGIME ISRAELIANO DELL’APARTHEID.
MA IN ITALIA TUTTO TACE…NON SI PUO’ DIRE, NON SI PUO’ SAPERE!

“Sono stupefatto che si continui ad insistere sulla pazienza mentre i nostri fratelli e le nostre sorelle palestinesi sono crocifissi. La pazienza è una virtù nella quale io credo. Ma non c’è alcuna virtù nell’essere pazienti con la sofferenza degli altri”.

L’Assemblea generale dell’ONU ha esaminato il 24 e 25 novembre 2008 il rapporto del Segretario generale sulla situazione in Palestina.

Il Presidente dell’Assemblea, Miguel d’Escoto Brockmann (Nicaragua), ha fatto di questo dibattito una questione di principio. Aprendo la seduta, ha dichiarato: « Io invito la comunità internazionale ad alzare la sua voce contro la punizione collettiva della popolazione di Gaza, una politica che non possiamo tollerare. Noi esigiamo la fine delle violazioni di massa dei Diritti dell’uomo e facciamo appello ad Israele, la Potenza occupante, affinché lasci entrare immediatamente gli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Questa mattina ho parlato dell’apartheid e di come il comportamento della polizia israeliana nei Territori palestinesi occupati sembri così simile a quello dell’apartheid, ad un’epoca passata, un continente più lontano. Io credo che sia importante che noi, all’ONU, impieghiamo questo termine. Non dobbiamo avere paura di chiamare le cose con il loro nome. Dopotutto, sono le Nazioni Unite che hanno elaborato la Convenzione internazionale contro il crimine dell’apartheid, esplicitando al mondo intero che tali pratiche di discriminazione istituzionale devono essere bandite ogni volta che siano praticate.

FRONTE POPOLARE DI LIBERAZIONE DELLA PALESTINA

FRONTE POPOLARE DI LIBERAZIONE DELLA PALESTINA

Abbiamo ascoltato oggi un rappresentante della società civile sudafricana. Sappiamo che in tutto il mondo organizzazioni della società civile lavorano per difendere i diritti dei Palestinesi e tentano di proteggere la popolazione palestinese che noi, Nazioni Unite, non siamo riusciti a proteggere. Più di 20 anni fa noi, le Nazioni Unite, abbiamo raccolto il testimone della società civile quando abbiamo convenuto che le sanzioni erano necessarie per esercitare una pressione non violenta sul Sud Africa. Oggi, forse, noi, le Nazioni Unite, dobbiamo considerare di seguire l’esempio di una nuova generazione della società civile chef a appello per una analoga campagna di boicottaggio, di disinvestimento e di sanzioni per fare pressione su Israele. Ho assistito a numerose riunioni sui Diritti del popolo palestinese. Sono stupefatto che si continui ad insistere sulla pazienza mentre i nostri fratelli e le nostre sorelle palestinesi sono crocifissi. La pazienza è una virtù nella quale io credo. Ma non c’è alcuna virtù nell’essere pazienti con la sofferenza degli altri. Noi dobbiamo agire con tutto il nostro cuore per mettere fine alle sofferenze del popolo palestinese (…) Tengo ugualmente a ricordare ai miei fratelli e sorelle israeliani che, anche se hanno lo scudo protettore degli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza, nessun atto di intimidazione cambierà la Risoluzione 181, adottata 61 anni fa, che invita alla creazione di due Stati. Vergognosamente, oggi non c’è uno Stato palestinese che noi possiamo celebrare e questa prospettiva appare più lontana che mai. Qualunque siano le spiegazioni, questo fatto centrale porta derisione all’ONU e nuoce gravemente alla sua immagine ed al suo prestigio. Come possiamo continuare così?».

L’ambasciatore Miguel d’Escoto Brockmann è un sacerdote cattolico, teologo della liberazione e membro del Comitato politico del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN). Personalità morale riconosciuta, è stato eletto per acclamazione, il 4 giugno 2008, Presidente dell’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

L’Anti-Defamation League (ADL) è stata la prima organizzazione sionista a reagire, chiedendo al Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki Moon, di mettere fine a questo « circo » così come alla « cosiddetta giornata di solidarietà con il popolo palestinese ». Infine, ha denunciato il carattere a suo dire « antisemita » delle proposte del Presidente Miguel d’Escoto Brockmann che essa ritiene ispirate da un secolare antigiudaismo cattolico.

Foto di Valentina Perniciaro _Betlemme in corteo_

Foto di Valentina Perniciaro _Betlemme in corteo_

SONO PASSATI QUASI DIECI GIORNI DA QUESTE DICHIARAZIONI, MA LA STAMPA ITALIANA, QUELLA “UFFICIALE” E LETTA DA QUESTO MISERO POPOLO CHE SIAMO NE HA CONTINUAMENTE TACIUTO. 

FORSE NAPOLITANO DOPO IL VIAGGIO IN ISRAELE, MOLTO RECENTE, NON HA AVUTO MODO DI REALIZZARE LA DITTATURA MILITARE CHE E’ L’OCCUPAZIONE ISRAELIANA DEI TERRITORI PALESTINESI.

NON SI PUO’ STARE DALLA VOSTRA PARTE..CHI APPOGGIA ISRAELE HA LE MANI SPORCHE DI SANGUE.
DI SANGUE INNOCENTE, SANGUE DI UN POPOLO STUPRATO DA OLTRE 60 ANNI, SANGUE DI UNA TERRA MASSACRATA.
PALESTINA LIBERA….STOP OCCUPATION
IL MURO CADRA’ SUI VOSTRI CARRIARMATI, SULLE RUSPE, SULLE SEGHE CHE TAGLIANO ULIVI MILLENARI. 

La legge e la forza. Proposta di dibattito…

29 novembre 2008 Lascia un commento

Con piacere pubblico l’articolo di Bifo uscito oggi sulla prima pagina di Liberazione. Come già mi è capitato di scrivere sul mio blog non ho una perfetta sintonia con lui, ma anche questa volta è stato in grado di lasciarci, dopo poche righe, con dei buonissimi punti di partenza. Ha la grande capacità di saper centrare il problema, di non girare intorno alle cose. Quindi l’attacco totale in questo articolo è contro questo bisogno irrefrenabile di legalismo che ha ormai impregnato qualunque movimento, opinione o idea anche solo vagante per l’aria. Un’opposizione ad un governo autoritario e pericoloso fatta solo di richiesta di legalità, foraggiata da personaggi poco interessanti come i Grillo, i Travaglio, i Nanni Moretti…sempre pronti a non far altro che chiedere giustizia e legalità. Come sola battaglia di “civile democrazia”.
Un buon punto di partenza per parlarne un po’ … 

Il danno del Berlusconismo? L’antiberlusconismo
di
Franco Berardi Bifo, Liberazione 29 novembre 2008

In un articolo uscito sull’ Herald Tribune il 3 Novembre 2008, Thomas Friedman scriveva: «Dovremo tutti pagare perché il collasso avviene nel contesto di quello che può essere considerato forse il più grande trasferimento di ricchezza dalla rivoluzione bolscevica del ’17. Non è un trasferimento di ricchezza dai ricchi ai poveri, ma un trasferimento di ricchezza dal futuro al presente. Mai nessuna generazione ha speso tanto della ricchezza dei suoi figli in un periodo di tempo così breve. L’America ha imposto alle generazioni future un immenso peso per finanziare i tagli delle tasse, le guerre e i salvataggi delle banche. Inoltre l’amministrazione Bush ci lascia in eredità un altro debito, quello con madre natura. Abbiamo aggiunto all’atmosfera sempre più CO2 senza nessuno sforzo di riduzione».
Il futuro non c’è più: è stato speso, ipotecato, devastato dal capitalismo neoliberista. E adesso?   

Foto di Valentina Perniciaro _sciopero nazionale Cobas_

Foto di Valentina Perniciaro _sciopero nazionale Cobas_

Nelle scuole e nelle università italiane è esploso un movimento che grida: “Questa crisi noi non la paghiamo”. Non pagheremo il debito che avete accumulato. Non rinunceremo all’istruzione, al piacere della vita, ai servizi sociali solo perché una classe di accaparratori irresponsabili ha distrutto tutto prima che noi arrivassimo al mondo.
Quello slogan è il segno della tempestività di questo movimento, della sua intelligenza. Ma più che uno slogan è un problema. Come si fa a non pagare questo debito? Il problema di adesso è proprio quello di una nuova dimensione dell’esistere collettivo, capace di rovesciare il dispositivo della crescita capitalista, di imporre una redistribuzione del reddito e di conquistare una riduzione del tempo di lavoro. Il vero nemico degli studenti non è il decreto Gelmini, puro e semplice atto di cieca devastazione. E’ la Carta di Bologna del 1999, che sancì l’impegno dei paesi europei a subordinare i sistemi scolastici alle esigenze dell’economia d’impresa, e che avviò il processo di frammentazione dei saperi, e di precarizzazione della figura studentesca.La mobilitazione contro la legge Gelmini ha avuto una funzione importantissima, perché ha interpretato un sentimento diffuso tra la maggioranza degli studenti e degli insegnanti. Ma ha anche creato una situazione complicata, perché questo governo non ha un’opposizione parlamentare, gode di una maggioranza schiacciante, e controlla mediaticamente l’opinione. Di conseguenza non si può batterlo sul piano legislativo.
Non è stato certo sbagliato andare allo scontro con la legge Gelmini, ma se vogliamo che l’esito della scontro non si risolva in una sconfitta dobbiamo ragionare sul lungo periodo, dobbiamo liberarci di alcuni limiti culturali che sono iscritti nelle forme stesse della soggettività contemporanea. Le grandi mobilitazioni producono effetti significativi quando filtrano nel tessuto della vita quotidiana, altrimenti svaniscono come la nebbia. E perché questa onda filtri nei circuiti della vita quotidiana occorre fare i conti con una fragilità che finora nessuno ha avuto il coraggio di mettere in questione: quella fragilità si chiama legalismo.

Foto di Valentina Perniciaro

Foto di Valentina Perniciaro

Uno dei peggiori effetti che il berlusconismo ha prodotto nella cultura politica italiana (e nella formazione della generazione che è cresciuta sotto Berlusconi) è proprio l’antiberlusconismo.
Non mi si fraintenda. Quello instaurato da Berlusconi è per me un regime di totalitarismo mediatico forse ancor più deleterio per la democrazia di quanto fu il fascismo mussoliniano. Non sono di quelli che consigliano di “non demonizzare Berlusconi”. Berlusconi è il demonio, se demonio significa ignoranza, truffa, immiserimento, paura, razzismo arroganza.
Ma l’antiberlusconismo corrente (rappresentato da persone come Grillo, Di Pietro, Travaglio o Moretti) è solo marginalmente una riflessione sull’effetto che i media hanno prodotto sull’immaginario e sulle forme di vita. Essenzialmente è una riflessione su legalità e illegalità.
Sembra che tutti i mali derivino dal fatto che al governo ci sta una classe politica che viola la legge.
Semplificazione del tutto fuorviante, ma come non capirla? Se al governo ci sta (come ci sta) un ceto politico di sistematici predatori e di violatori professionali delle leggi, è comprensibile che gran parte della società finisca per attribuire la miseria, la disoccupazione, la crisi della scuola pubblica e tutto il resto all’illegalità.
Basterebbe allora che tutti rispettassero la legge? Credo proprio di no. La legge non è altro che la sanzione formale di un rapporto di forze. E’ legale sfruttare la gente. E’ legale costringerla a fare straordinario. E’ legale uccidere sul lavoro. E’ legale costringere la gente a subire una vita precaria.
E’ legale fin quando i principi su cui si scrive la legge sono quelli della competizione e della crescita illimitata.
La legge non è che la sanzione di un rapporto di forza, e anche quando la legge è rispettosa dei bisogni della società (come in molti suoi punti è la Costituzione della Repubblica Italiana) se non esiste la forza per imporne il rispetto, la legge è scritta sull’acqua.
Solo la forza può restituire alla società autonomia dal dominio del profitto. Solo la forza può dare ai lavoratori e agli studenti la possibilità di difendere la loro dignità e i loro diritti.

Foto di Valentina Perniciaro _Genova, 20 luglio 2001_

Foto di Valentina Perniciaro _Genova, 20 luglio 2001_

Ma la forza cos’è? La forza sta nell’unità delle diverse componenti del lavoro sfruttato, sta nella ricomposizione del mosaico infinitamente complesso della vita di chi produce valore. La forza sta nella capacità di vivere in condizione di indipendenza, sta nella capacità di non subire le idee e le immagini e le paure di chi ha il potere.
La forza sembra oggi sfuggirci perché la precarietà ha sgretolato i rapporti fra le diverse sezioni del lavoro sociale. E questa frammentazione la ritroviamo anche nei movimenti. In questo movimento c’è una gelosia dell’identità, una paura della contaminazione, un riflesso di chiusura e di settorialità che, prevalendo, preparerebbero la sconfitta. Dobbiamo allora curarli, dobbiamo allora superarli questo legalitarismo e questo identitarismo, che sono fattori di fragilità del movimento. Occorre curarli, occorre superarli, se vogliamo che il movimento conquisti il lungo periodo fino a divenire senso comune e forma della vita quotidiana.

Canti delle donne di Algeri

21 novembre 2008 1 commento

La boqala è un rito di poesia, un rito femminile delle donne algerine, che si riuniscono attorno al boccale (boqala) della padrona di casa, riempito con l’acqua di sette diverse sorgenti dove ogni donna lascia cadere un gioiello. A quel punto il boccale inizia a girare sette volte sotto un braciere d’incenso. 
Ed ecco che nasce l’incantesimo…a turno, una dopo l’altra, recitano una breve poesia di non più di 5 versi che può venire dalla più antica tradizione o essere improvvisata davanti alle compagne e al bicchierino di vetro pieno di thè alla menta. La boqala, poesia strettamente femminile e urbana, è anonima e raramente viene riportata se non oralmente.

Con le mani ho tagliato la carne
con le mani l’ho cosparsa di spezie
e con le orecchie ho ascoltato
le calunnie di chi ho conosciuto.
oh tu, malalingua, cosa vuoi guadagnare?
Il leone nella foresta lascia i cani abbaiare. 

Foto di Valentina Perniciaro _Nel suq di Aleppo_

Foto di Valentina Perniciaro _Nel suq di Aleppo_

Tra me e te una piccola finestra, 
grande quanto un bicchiere,
restano tra noi le nostre parole, che c’entra la gente?
La fama è come piombo:
quand’è fuso, si perde.

Foto di Valentina Perniciaro _Damasco, con gli occhi in su_

Foto di Valentina Perniciaro _Damasco, con gli occhi in su_

 

Da Smirne veniamo; dal mare, siamo infine approdati.
Portiamo il firmano del sultano,
l’han letto l’ufficiale e il capitano.
Gioisci, cuore in attesa, torniamo
e piova l’invidia dagli occhi di chi non ci ama.

Foto di Valentina Perniciaro _verso l'infinito_

Foto di Valentina Perniciaro _verso l'infinito_

Passava un giovane, un ramo scuro tra le mani.
La shashia cadeva bene sulla fronte, la veste era splendente.
I figli miei e lo sposo lascerei per lui
la mia città abbandonerei
fino a esser estranea alla mia gente.

Foto di Valentina Perniciaro _damascene_

Foto di Valentina Perniciaro _damascene_

Oh moro, dolce moro, che grazia il tuo vestito,
tu sei tra i gelsomini e rivaleggi coi narcisi.
Per te m’hanno schernito e in seguito invidiato. 
Tu sei l’anello d’oro, io la gemma che l’adorna
per contendere il tuo cuore a lottare sono pronta.

L’amore è in casa nostra, l’amore ci alleva.
L’acqua del pozzo dolce, l’amore solleva.
Apre come il basilico, l’amore i suoi rami.
Non asservito al sultano e neppure al qadi. 

bosra_ag06_donne

Foto di Valentina Perniciaro _Bosra, chiacchiere tra donne_

Dibattiti yemeniti…

1 ottobre 2008 3 commenti

Metto a disposizione il mio blog per proseguire questo dibattito che mi ha molto interessato e anche divertito. Ieri ho letto questo articolo su Carmilla, a firma di un caro amico nonchè “collega” arabista e vecchio amico di scuola. Ne avrei di cose da dire (qualcuna anche da “ridire) sul suo reportage estremamente divertente e personale, sul suo lungo soggiorno yemenita…
Ma la risposta dell’ambasciatore italiano in Yemen, del tutto inaspettata, mi far venir voglia di lasciar stare, di non dire la mia per ora…
Di aspettare gli sviluppi, le risposte, l’eventuale dibattito..che è benvenuto anche su queste pagine.
Il nemico che avanza

di Giuseppe Pensabene Perez

Giuseppe Pensabene Perez è un giovane universitario romano che ha studiato arabo nello Yemen. Seguirà un più ampio reportage.]

8 aprile 2008 – Arriva questo messaggio sul mio telefonino:
“Alla luce dei recenti eventi occorsi nel Paese si invitano i destinatari della presente comunicazione a prestare massima cautela nella frequentazione di luoghi pubblici nella città di Sana’a e nei trasferimenti nel predetto centro urbano e nel resto del territorio. Con riguardo a questi ultimi si prega di comunicare preventivamente all’Ambasciata gli itinerari previsti. L’Ambasciata rimane a disposizione per ulteriori informazioni.”
“Ma perché ambasciata si scrive maiuscola?” Questo fu il primo pensiero che mi passò per la testa leggendo questo messaggio. (perché si intende l’ambasciata italiana e quindi diventa nome proprio, deficiente)

Foto di Valentina Perniciaro _cipolle in moto_

Foto di Valentina Perniciaro _cipolle in moto_

Gli eventi occorsi nel predetto centro urbano erano stati un colpo di mortaio diretto contro l’ambasciata americana che aveva centrato la scuola accanto uccidendo una guardia giurata e alcuni studenti e una bomba contro un “compound” in via Hadda, dove abitavano alcuni americani impiegati presso ditte petrolifere senza fare vittime.

Il messaggio, mandato a tutti gli italiani presenti in Yemen registrati presso l’ambasciata, risultava comico per lo stile da rapporto dei carabinieri con cui era stato redatto, ma anche lievemente preoccupante per il contenuto. Lievemente. Sembrava che questi fantomatici terroristi yemeniti ce l’avessero proprio con gli americani o al massimo con i britannici. L’unica cosa che mi poteva dare un poco di ansia era la mia faccia, facilmente passabile per anglosassone. Biondo con gli occhi chiari ero poco assimilabile alla popolazione araba. Per fortuna spesso venivo valutato come russo e pare che con i russi non avessero nessun problema. Fui tentato di appendere fuori casa un enorme cartello con scritto “Italia” con un disegno di un bel piatto di spaghetti al pomodoro, per evitare che gli amici terroristi si confondessero. Ad ogni modo a casa avevamo già appeso la brava bandiera della Palestina nonché quella di Hamas, comprate a una fiera degli studenti islamici. Se proprio mi dovevano ammazzare, allo scoprire, vedendo le bandiere, che ero un fratello, si sarebbero pentiti e magari mi avrebbero reso martire. Non mi dispiaceva affatto l’idea di diventare Shahìd e, circondato da verginelle nude, vedere dall’alto della gennah (il paradiso islamico) la mia faccia su quei poster caratteristici, magari accanto alle due famosissime bambine che pregano con la moschea della Mecca come sfondo.
Quando poi in Italia la gloriosa casa delle libertà vinse le elezioni e si paventava la possibilità che il buon Calderoli tornasse ministro, cominciai a preoccuparmi un pochino anche io. L’università di Sana’a era tappezzata di manifesti che invitavano a boicottare i prodotti danesi. La vicenda delle vignette che ritraevano il profeta era ancora attuale e profondamente sentita. Sapere che in Italia si apprestava a ricoprire una delle principale cariche istituzionali una persona (?) che era stata capace di causare undici morti in Libia, proprio per essersi messa una maglietta con quelle vignette, con il puro scopo di creare disordini, non mi rassicurava affatto.
Una decina di giorni dopo, mentre nel nostro paese il presidente era in procinto di annunciare il nuovo governo, esplose un altro colpo di mortaio diretto, pare, contro l’ambasciata italiana. L’attentato era avvenuto alle sei di mattina e aveva centrato il parcheggio dell’ufficio delle dogane situato a circa 300 metri dalla nostra sede diplomatica. l’opinione preponderante presso gli yemeniti sosteneva che il colpo fosse diretto proprio contro tale parcheggio, per questioni personali e che niente avesse a che vedere con l’ambasciata. Gli yemeniti amano risolvere le loro discrepanze di opinioni in modo spettacolare ed esplosivo. Qualche mese prima fuori dall’università un signore aveva lanciato una granata contro il negozio del marito di sua figlia per affari familiari che evidentemente le parole non erano bastate a risolvere. Erano morte tre persone. Mi spiegarono che il mortaio è molto sensibile e basta sbagliare a puntarlo di pochi centimetri che il colpo esplode a centinaia di metri lontano dall’obiettivo. Personalmente avevo deciso di credere alla versione yemenita anche se in effetti il precedente dell’errore di mira contro l’ambasciata americana faceva pensare a un gruppo di combattenti magari inesperto che ancora doveva prendere confidenza con l’uso del mortaio. Facevano, quasi, tenerezza.
Il binomio attentato, forse, contro gli italiani e la probabile designazione del ministro della lega nord mi inquietava leggermente.
Per fortuna a Sana’a Calderoli e la vicenda della maglietta erano sconosciuti. Provai a raccontarla ad alcuni amici i quali ne rimasero alquanto sbigottiti. Alla fine gli diedero il ministero della facilitazione o qualcosa del genere senza che vi fosse troppo scalpore, il buon Saif al Islam Gheddafi non protestò.
La questione era che, fondamentalmente, se mi uccidevano per vendicare l’offesa del nostro ministro e i morti in Libia, a mio avviso, non avevano neanche tutti i torti. Certo, se proprio dovevano ammazzare un italiano avrei preferito se la prendessero con uno di quelli che lavoravano in ambasciata (quasi tutti di destra), o con qualche affarista petroliere invece che con lo studente di arabo da sempre schierato dalla loro parte. Comunque era il caso di staccare la foto degli spaghetti sulla porta di casa e sostituirle, magari, con una bandiera spagnola, di quelle con il toro da corrida disegnato. Spagnolo andava bene. Avevano già pagato il conto del servilismo di Aznar verso gli americani con l’attentato di Madrid e Zapatero sembrava non innervosire più di tanto i combattenti islamici.

Foto di Valentina Perniciaro -bimbi, capitelli e archi nabatei_

Foto di Valentina Perniciaro -bimbi, capitelli e archi nabatei-

Noi studenti italiani in Yemen fummo convocati dal nostro previdente ambasciatore che ci mise in guardia dai pericolosi terroristi, gentilmente invitandoci a non frequentare certi ristoranti particolarmente occidentalizzati, a non uscire da Sana’a e a far ritorno in Italia non appena conclusi i nostri studi invece di prolungare la permanenza nel paese a scopi turistici. Che palleSti cazzi dei ristoranti che tanto non c’andavo comunque ma che du cojoni non poter uscire da Sana’a. Lo Yemen è un paese splendido pieno di posti da visitare di tutti i tipi: montagne, deserto, mare, antichità, monumenti islamici, limitarmi alla capitale era frustrante e contrastava con i miei progetti avventurieri. Decisi di prendere con le molle le parole del diplomatico, anche se poi, purtroppo, ci pensò la malaria, costringendomi al letto dieci giorni senza poter frequentare le lezioni, a far svaporare le mie velleità esploratrici.
Il risultato di queste raccomandazioni fu che cominciai a guardare con un minimo di sospetto i barbuti (gli uomini che portano la barba lunga sono solitamente integerrimi musulmani) che incontravo o che gli sconosciuti che, casualmente, mi guardavano senza rispondere al mio sorriso o al mio salamalècum, mi innervosivano.
Attentato all’ambasciata, Calderoli ministro e convocazione dell’ambasciatore coincisero con l’assenza del mio coinquilino Aldo che era tornato una settimana in Italia. Mi costa ammetterlo ma, a volte, quando stavo a casa la sera avevo un po’ paura, soprattutto dopo aver fumato mezzo spinello. A casa mia di sera si sentivano continuamente rumori di tutti i tipi: gatti che si azzuffavano, miagolii di gatti in amore, bambini che piangevano, padri che urlavano, drogati di qat che ridevano, oggetti che cadevano. Io, solo sul mio divano, rincoglionito dall’hashish, mi spaventavo e mi autoconvincevo che i terroristi stavano sotto casa intenti a scassinare la porta, decisi di venire a punire il porco infedele italiano colonizzatore. Tenevo la giambiyya (il pugnale tipico yemenita) sempre a portata di mano.
Durante questa settimana di solitudine, una sera, mi passarono a trovare il sindaco e Muad il farmacista, nettamente ubriachi. Confidai loro le mie paure e spiegai la vicenda di Calderoli nuovamente ministro. Il sindaco, spergiurandomi che Sana’a era sicurissima, che non sarebbe successo niente, perorando l’opinione che il colpo di mortaio era diretto certamente contro l’ufficio delle dogane e non contro l’ambasciata, decise, per tranquillizzarmi, di prestarmi la sua pistola finché non sarebbe tornato Aldo. La pistola era una Norinco, belga, argentata, bellissima. Per me avere a che fare con le armi era una cosa nuova ed eccitante. Per loro era assolutamente normale. Yemen: venti milioni di abitanti, sessanta milioni di armi da fuoco.
Per darmela la passò a Muad che stava seduto accanto a me. Costui la carica e se la punta sulla parte laterale del polpaccio, dicendo al sindaco che, per dimostrargli quanto l’amava, si sarebbe sparato in quella parte della gamba dove c’è solo pelle. Il sindaco scoppia a ridere rispondendogli “prego, dai, sparati”. Li guardo allibiti convinto che avrebbe davvero premuto il grilletto. Loro avevano bevuto, io avevo fumato: esisteva un sostanziale problema di comunicazione reciproca e di comprensione dell’altrui umorismo.
Dopo poco se ne andarono lasciandomi la pistola. Mi sentii molto più sereno e tranquillo. Durante quella settimana dormii tutte le notti con l’arma accanto al letto, solo guardarla mi dava sollievo. Mi ritrovavo quasi a sperare che qualche terrorista mi facesse visita per potergli sparare. Sognavo a occhi aperti e mi vedevo stringere la mano al presidente yemenita mentre mi veniva assegnata una medaglia al valore per aver sgominato una cellula di Al-Qaeda da solo, io e la mia fedele Norinco.
Ogni volta che bussavano alla porta andavo a vedere chi era con la pistola in mano. Passavo le serata caricandola e scaricandola, desiderando di poter sparare a qualcuno che se lo meritasse davvero, magari proprio a Calderoli. Mi venivano in mente strani pensieri: “Non puoi sprecare questo dono celeste, il Signore Onnipotente ti ha voluto fornire la possibilità di essere braccio armato della sua poderosa vendetta, esci per strada e giustizia il malvagio e il turpe”. C’erano un paio di negozianti ladri e blasfemi nonché qualche italiano dell’ambasciata particolarmente stronzo che in effetti una certa vendettuccia divina se la meritavano ampiamente.
Tornò Aldo e, con mio sommo dispiacere, il sindaco si riprese la pistola.

Foto di Valentina Perniciaro _bimbi siriani_

Foto di Valentina Perniciaro _bimbi siriani_

Passarono un’altra decina di giorni relativamente calmi, cioè senza bombe o minacce. Noi continuavamo sereni vivendo da studenti di arabo e masticatori di qat del finesettimana. La sera spesso bevevamo whisky gibutino in giro per la città vecchia sulla macchina del sindaco. Anche sforzandoci non avevamo mai incontrato ostilità nei nostri confronti solo perché occidentali, anzi. Addirittura, una volta che, verso le quattro del mattino, tornando completamente ubriaco dal club russo, ruppi a calci un povero alberello di una delle pochissime aiuole di Sana’a e fui portato in commissariato, ricevetti dai poliziotti un trattamento gentile ed educato solo a causa della mia nazionalità. Se fosse stato uno yemenita a fare quel che avevo fatto io, avrebbe dovuto passare la notte in carcere e pagare una multa altissima per danneggiamento di patrimonio pubblico.
È anche vero che in quell’occasione sfoderai un arabo perfetto, dovuto sicuramente all’alcol, e seppi trattare con i poliziotti in modo esemplare. Li apostrofai con “ya Ikhwani” (o fratelli miei) chiedendo perdono e indulgenza verso un peccatore che, stravolto dal vino versatogli da Iblìs (il diavolo) in persona, aveva sbagliato ed era pronto a pagare. Mi offrii spontaneamente di dormire in prigione o di pagare la multa dichiarandomi pentito e desolato. Me ne andai dal commissariato mentre il muezzin richiamava alla preghiera dell’alba, salutandomi con i poliziotti con calorose strette di mano e la consueta frase di commiato yemenita “ay khadamàt” (qualsiasi cosa, qualsiasi servizio). (porco occidentale, ubriacone schifoso, sei fiero di te adesso eh?? Ebbro di munkar ti lasci andare alla devastazione di questa città magica, solo il tuo essere straniero occidentale ti ha evitato si pagare le conseguenze delle tue azioni criminali, colonizzatrici, poi pensi pure che è grazie a come hai “saputo trattare con i poliziotti”… presuntuoso.)

Fummo riconvocati dall’ambasciata, questa volta non solo gli studenti, ma tutta la comunità italiana presente a San’a. La nostra (un brivido, nell’usare la prima persona plurale riferendomi agli italiani) sede diplomatica si trovava nel popolare quartiere di Safiya, non lontano da Tahrir dove abitavamo. Eravamo circa una quarantina di persone: studenti, gente che lavorava presso le organizzazioni umanitarie, affaristi e operatori turistici. Dopo un lunga attesa durante la quale non ci fu neanche offerto un caffè ci fecero entrare nella stanza dell’ufficio dell’ambasciatore, dove campeggiava trionfalmente una foto incorniciata del nostro presidente della repubblica. Giorgio Napolitano. Già la prima volta l’avevo notata e un po’ interdetto avevo pensato a una assunzione da parte italiani degli stili di ossequio al potere tipicamente mediorientale. Quella volta, però, la faccia seria di quel vecchietto rugoso, accanto alla bandiere italiana ed europea, davanti a tutte quelle persone mi sembrò grottesca.
In mezzo alla stanza c’erano tre personaggi benvestiti e sconosciuti e il buon ambasciatore, noi fummo ammassati sulla parete di fondo, prospicienti al presidente della repubblica, in piedi. Prese la parola uno di quei personaggi presentandosi come capo dell’unità di crisi italiana. Un sermone micidiale. In piedi, soffrendo, cambiando continuamente posizione, ascoltai questo cretino impettito che ci spiegava come agiva l’unità di crisi italiana in generale senza mai accennare alla situazione dello Yemen. Parlò circa un’ora. Poi prese la parola l’ambasciatore affermando che la situazione era di attenzione ma assolutamente non di allarme, e nemmeno preallarme. (e allora che cazzo ce fai venì qua a senti’ sto cojone, a famme venì’r’mardeschiena). A ognuno di noiitaliani fu poi consegnato un invito per partecipare alla festa della Repubblica del 2 giugno nell’hotel Sheraton.

Il finesettimana dopo andammo a cena dall’unico ragazzo simpatico che lavorava presso l’ambasciata italiana. Abitava con la moglie gentile e simpatica in una bella villa vicina a via Zubeiri. Erano una coppia piacevole e ospitale, con la naturalezza di cui solo le persone del sud sono capaci.
Le cene da loro erano sempre una gioia per la compagnia, per il buon cibo e per la possibilità di bere vino e superalcolici veri invece di quelle schifezze straziafegato di Gibuti che bevevamo con gli yemeniti.

Foto di Valentina Perniciaro _bici e jalabiyya_

Foto di Valentina Perniciaro _bici e jalabiyya_

Quella sera, mentre bevevamo allegramente un digestivo, dopo aver mangiato un ottima pasta col sugo alla salsiccia, il nostro ospite ci raccontò che, su internet, era apparso un nuovo comunicato della cellula di Al Qaeda yemenita in cui dichiaravano di voler espellere tutti gli infedeli dalla santa penisola arabica. Ci avvertì inoltre che presto sarebbe giunto un nuovo sms allerta dell’ambasciata.
A me ‘sti comunicati parevano tutti delle gran cazzate. Vedevo la questione in percentuale: Yemen- pochissimi stranieri occidentali -> qualche esaltato ignorante che pretendeva la loro morte o la loro espulsione; Italia- moltissimi stranieri, fra cui musulmani ->tantissimi stronzi ignoranti che si auguravano la loro morte o pretendevano la loro espulsione. Saggissimo detto dice che la madre dei cretini è sempre incinta, in Italia come in Yemen o in Nepal. Forse, giusto negli Stati Uniti, per qualche condizione atmosferica particolare, rimane incinta più spesso.
La mattina dopo, diciotto Maggio, sul mio telefonino appare puntuale il preannunciato messaggio:
La reiterata minaccia terroristica genericamente rivolta agli occidentali presenti nello Yemen impone l’adozione di ulteriori misure cautelari. Si raccomanda di evitare la frequentazione di alberghi internazionali ed altri luoghi conosciuti per la presenza di occidentali (ripetizione); limitare allo stretto necessario i movimenti sul territorio variando orari e percorsi; segnalare tempestivamente all’Ambasciata elementi che possano indurre a rivelare specifici pericoli.
Evitare la frequentazione di alberghi internazionali? E il festeggiamento del 2 giugno allo Sheraton? Che tipi questi diplomatici. Massima cautela? raggruppare tutti gli occidentali ricconi e i diplomatici presenti a Sana’a nell’albergo simbolo della globalizzazione del lusso è massima cautela? Per quanto riguardava i movimenti sul territorio, andando a lezione tutti i giorni alla stessa ora, variare i miei orari e percorsi risultava alquanto difficile.
Le uniche ulteriori misure cautelari che adottai furono comprarmi un coltellino a serramanico che portai sempre appresso appeso alla cintura e guardare in strada prima di aprire completamente la porta di casa. Nonostante quasi sperassi di trovare qualcuno pronto a mitragliarmi col kalashnikov, tutte le volte che sbirciai dall’uscio, prima di spalancare la porta non vidi mai altro che i soliti bambini o le vicine di casa super velatissime. Un po’ di timore, sti stronzi , (non i terroristi, quelli dell’ambasciata) erano riuscito a farmelo sentire, tanto che quando giravo per Sana’a mi guardavo sempre le spalle per assicurarmi di non essere seguito da qualche balordo o quando passavo in mezzo a tanti yemeniti la mia manina andava involontariamente a lambire il fodero del coltellino. (che poi cazzo ce fai co sto temperino cinese contro un kalashnikov o contro la lama di una jambiyya??).
Avrei voluto poter segnalare tempestivamente all’Ambasciata qualche elemento rivelatore di specifici pericoli, soprattutto perché l’avverbio tempestivamente mi piaceva e desideravo praticarlo. Purtroppo, anche impuntandomi, non riuscii a raccattare niente, neanche un pestone sul piede dato per sbaglio. Nell’isolato dove abitavamo ci conoscevano tutti ed erano tutti gentilissimi sia i vicini sia i negozietti sotto casa: la bagàla (il bazar tipico sananita che vende tutto), la màghsala( la lavanderia), il khayyat ( il sarto), il ragazzetto che gestiva l’internet point. Vero anche che con ognuno di questi intrattenevamo rapporti commerciali stabili e quindi era ovvio che fossero cortesi e simpatici, comunque sentivamo nei nostri confronti un benvolere diffuso e sincero. Arabi e italiani del centro sud si assomigliano per la facilità di instaurare rapporti superficiali basati sulla frequentazione quotidiana (e in questo caso non mi vergogno affatto della mia nazionalità).
Per me era del tutto naturale, un piacere, quando uscivo di casa, fermarmi a scambiare due battute con il sarto o sedermi un pochino con i fratelli della lavanderia a commentare le qualità di qat o i video sconci delle ragazze irachene. Avevamo persino una specie di portiere sempre presente che, oltre a un perenne odore di urina sotto la porta, ci garantiva anche un certo controllo costante: Abdelbàsit. Questi era un ragazzo un po’ fuori di testa, sulla trentina, che dormiva sotto casa nostra, per strada. Ci avevano raccontato che era nato nel quartiere e lavorava presso il sarto ma circa cinque anni prima era semi impazzito e aveva deciso di vivere senza un tetto.
Pare che a farlo impazzire fosse stato l’abuso di qat, non dormiva mai, lavorava fino a notte inoltrata, masticava o e beveva tè. Improvvisamente aveva dato di matto. Noi lo aiutavamo comprandogli sigarette e regalandogli qat o portandogli un piatto di pasta quando cucinavamo. Non ultimo, la nostra amicizia col sindaco di Sana’a vecchia, comprovata dalla frequente presenza della sua macchina nella via, ci conferiva una speciale aura di protezione: “gli stranieri sono amici del sindaco…”
Dopo una settimana da quel messaggio, come se non bastasse Al Qaeda, fu annunciato il nuovo terribile pericolo yemenita della stagione: “gli Huthiyyn alle porte di Sana’a”.
Era noto già da tempo che nella parte settentrionale dello Yemen nella regione di Saada c’era la guerra: Il governo contro le tribù ribelli sciite ithnatashari (duodecimale) capeggiate dai fratelli Huthiyyin, finanziati dall’Iran. Della guerra non arrivano molte notizie ma a volte spuntava sui giornali l’annuncio di sanguinari attentati fuori le moschee di quella zona.
Avevamo invitato a cena la coppia simpatica dell’ambasciata, quando scesi ad aprire la porta trovai lei che indossava il velo. Strano. Dopo che furono saliti ci spiegarono che quella del velo era una misura precauzionale dettata dalle circostanze particolarmente preoccupanti.

Foto di Valentina Perniciaro _Sham, la più bella_

Foto di Valentina Perniciaro _Sham, la più bella_

Luti (al Huthi nella pronuncia italianizzata del nostro amico diplomatico) era arrivato vicino a Sana’a e si combatteva a venti kilometri dall’aeroporto, la notte si sentivano le bombe. Ci dissero anche che era pronto un piano di evacuazione se fosse stato colpito l’aeroporto. Queste notizie non ci tolsero assolutamente la fame e mangiammo felici gli spaghetti con i gamberi preparati da Andrea, bevendo il vino bianco portato dagli ospiti.
Il giorno dopo mi informai meglio presso il sindaco e altri amici yemeniti. I Banu Khsceish, una ricca tribù che possedeva piantagioni di qat e di vite (producevano il vino!), stanziata sulle montagne vicino all’aeroporto di Sana’a, era insorta assieme agli Huthiyyin. Il presidente aveva mandato l’aviazione per distruggerli e pareva che stesse vincendo. Il mio professore di arabo usando il maf’ùl mùtlaq (accusativo ritornante) mi aveva detto che finalmente al raiss darabahum darban shadidan (li aveva colpiti con colpo violento), dopo anni di misure troppo leggere nei loro confronti. Indignato del fatto che avessero osato spingersi fino a Sana’a aveva incaricato il figlio, generale della quwwa khassa (forza speciale) di annientarli. Il monte Aswad (nero) dove si erano nascosti i ribelli era diventato il monte Abyad (bianco) per la potenza con cui erano stati affrontati. Quella sera feci una delle mie consuete passeggiate notturne per il centro di Sana’a al qadima (antica) incantato come sempre dalla magia di quella splendida città.
Camminarci di notte era bellissimo. C’era un silenzio irreale interrotto a sprazzi da urla di neonati o musiche a tutto volume provenienti dalle finestre. Durante quelle passeggiate cercavo di perdermi per i vicoli scoprendo nuovi angoli meravigliosi. Un labirinto di stradine incastrate una dentro l’altra che si infilavano in mezzo a le bellissime case, storte e armoniosamente disordinate. Incontrare gruppetti di masticatori notturni o passeggiatori come noi dispensando sorrisi e masalkheir (buona sera).
Quella notte nel silenzio della città vecchia sentii finalmente anch’io le bombe di cui tutti parlavano.
Ero tranquillissimo. Confidavo pienamente nella piena vittoria del Raiss. L’idea che l’aeroporto poteva essere bombardato non mi spaventava… mica era l’unico aeroporto dello Yemen. Al massimo ci avrebbero riportato in Italia con un aereo militare o alle brutte saremmo rimasti bloccati a Sana’a, cosa che non mi dispiaceva affatto (già pregustavi fama e gloria: stoico italiano sotto le bombe scrive portentoso libro sullo Yemen, egocentrico!). La città era piena di polizia e militari, taftishat (perquisizioni) continue di macchine e passanti. Il sindaco durante i nostri consueti alcolici giri notturni in macchina (l’alcol in Yemen è proibito) definì me e Aldo il miglior taslih (lasciapassare) possibile per evitare i controlli che avrebbero potuto far scoprire le bottiglie di whisky rovinandogli la reputazione. Con noi stranieri a bordo nessun soldato si sarebbe mai permesso di perquisire l’auto.
Ovviamente, dopo poco, arrivò la terza convocazione del nostro paterno ambasciatore, proprio pochi giorni prima della festa della nostra gloriosa repubblica.
Eravamo solamente i pochi studenti di arabo presenti in Yemen, in tutto sette. Questa volta l’ambasciatore fu categorico e, studi finiti o meno, ci invitò a tornarcene immediatamente in Italia. L’aereo più prossimo sarebbe partito martedì, il giorno dopo dell’imminente festeggiamento del 2 giugno. La motivazione che addusse fu la concomitanza della persistente minaccia terroristica genericamente rivolta contro gli occidentali con il momento di instabilità del potere del presidente dovuto all’insurrezione sciiti.
Timidamente provai ad argomentare che, non avendo mai ricevuto alcuna dimostrazione di inimicizia nei nostri confronti dall’inizio della nostra permanenza, il suo invito a lasciare di corsa il paese ci lasciava un po’ interdetti. Premettendo che lui, oltre che diplomatico, era anche scrittore e che perciò amava esprimersi attraverso metafore, mi rispose descrivendo la situazione con queste parole: “Immaginatevi un castello medievale nel mezzo di una vallata circondata da monti. Nella valle lavorano sereni nei campi i contadini, ignari dell’esercito del nemico che avanza dietro le montagne. I vassalli del castello, dall’alto delle torrette di avvistamento, scorgono il nemico e dunque avvertono i contadini dell’incombente pericolo”.
Rimasi piuttosto allibito. Sicuramente involontario e dovuto più alle velleità artistiche del nostro ambasciatore, che a un effettivo parere personale, il paragone che aveva adoperato era emblematico: rappresentava perfettamente il sentire comune di buona parte dell’occidente nei confronti dei popoli musulmani: il nemico che avanza.
Era chiaro che il nemico inteso erano al Qaeda e i terroristi ma, stante che, in Italia e nel resto del mondo “civilizzato”, l’identificazione religione islamica – terrorismo era consolidata presso buona parte della gente e diffusa e patrocinata dalla stessa classe dirigente (i vassalli del castello che mettono in guardia i contadini?), la metafora usata dall’ambasciatore mi agghiacciò. Coloro i quali avevano fatto esplodere le

Foto di Valentina Perniciaro _U.N. nel Golan_

Foto di Valentina Perniciaro _U.N. nel Golan_

stazioni di Londra e Madrid sono, per me, nemici quanto i governi che con fantasiose giustificazioni diffondono morte e devastazione attraverso avide guerre sanguinarie. E l’ambasciatore italiano in Yemen, in quel momento, non rappresentava altro che uno di quei governi, qualunque fossero state le sue convinzioni politiche. (Non fare il politically correct che lo sai benissimo che a te Bin Laden, se esiste davvero, ti piace, che quando sono esplose le torri gemelle hai esultato nel cuore, felice che finalmente qualcuno era riuscito a portare il terrore nel cuore della nazione che da anni impunita lo disseminava per il mondo).
Concluso il discorso, l’ambasciatore ci congedò informandoci su quando avessimo intenzione di partire. (Ma perché noi studenti dobbiamo andarcene di corsa per non rischiare, mentregli affaristi e i petrolieri possono rimanere e correre il rischio? Siamo meno importanti? Meno necessari? Sicuramente). Andandomene lo informai dell’intenzione dei miei genitori di venirmi a trovare a Sana’a. Mi rispose che assolutamente non dovevano partire ma anzi avrebbero fatto meglio a organizzare le vacanze a Rimini. A Rimini, mio padre a Rimini…
Nonostante fosse ovvio che né io né Aldo né Andrea – che era arrivato da poco, partito dall’Italia malgrado fosse ben conscio della situazione – avremmo assolutamente anticipato la data del rientro, per quanto riguardava i miei un pochino di paura me l’avevano messa. Ero ben libero io di non voler valutare il rischio per me stesso, di non dar peso a quelle parole, ma far venire mia madre e mio padre in un luogo dove, a quanto pareva, c’era gente che li voleva ammazzare solo perché italiani era un altro discorso. Per quanto volessi vedere la situazione in modo critico e razionale un po’ di timore ce l’avevo, ce l’avevamo tutti, era inevitabile.
D’altra parte mi straziava l’idea che non mi sarebbero più venuti a trovare. Da quando ero arrivato sognavo di portare mia madre, amante delle interiora, a mangiare il kebda (fegato) nei ristorantini popolari. Volevo condividere l’esperienza del mondo arabo con lei che non c’era mai stata e sapevo se ne sarebbe innamorata. Già pregustavo accese discussioni sulla condizione della donna in Yemen e negli altri paesi musulmani, che mia madre, da vecchia femminista, avrebbe ferocemente criticato.
Desideravo portare mio padre in quegli hammam luridi ma bellissimi, accompagnarlo per la città vecchia, fargli conoscere i miei amici yemeniti dimostrandogli, finalmente, che davvero ero in grado di parlare arabo. Da una parte ero tentato di fregarmene e dirgli di comprare il biglietto d’aereo, come rischiavo io potevano rischiare loro, dall’altra però non mi sentivo di prendermi la responsabilità di un’eventuale disgrazia. Per se stesso i rischi si prendono a cuor leggero, quando però si tratta di persone amate ci si pensa sempre due volte.
Non sapevo bene come dirglielo, se spiegavo la situazione riferendole le parole dell’ambasciatore mia madre sarebbe impazzita di ansia se non fossi tornato subito. Se dicevo di non venire e basta mi avrebbero bombardato di domande o forse si sarebbero offesi pensando che non li volevo in mezzo alle mie cose, alla mia vita yemenita. A Rimini…
In effetti la situazione a Sana’a non era assolutamente tranquilla, ma a intimorire non erano i “qaedisti” bensì gli efferati sciiti Huthiyyin che, girava voce, si erano infiltrati in città, decisi a indebolire il potere del presidente, di cui la capitale era la roccaforte, eseguendo azioni disparate incluso colpire i turisti o gli occidentali in generale. E infatti ogni incrocio o strada importante erano controllati da posti di blocco militari che perquisivano macchine e passanti, e la polizia in borghese, i servizi segreti, pattugliavano in incognito tutti i quartieri. Il sindaco, una sera, dopo che avevamo bevuto il velenoso Teacher, si accomiatò da noi più presto del solito motivando che doveva lavorare. Il lavoro consisteva nel girare per la città vecchia per verificare, controllando i registri, se negli alberghi e nelle locandaat (locande) vi fossero Huthiyyin.
Gli yemeniti, nonostante quando venisse introdotto il discorso affermavano immancabilmente la loro piena fiducia nel presidente, erano indubbiamente un po’ innervositi dalla situazione. I ribelli Huthiyyin sono sciiti duodecimani e pare siano finanziati dall’Iran. La maggior parte degli abitanti dello Yemen è invece sunnita o zaidita che è la corrente “mu’tàdila” (moderata) dello sciismo molto e molto poco differisce dal sunnismo.
Il mio professore di arabo (della famiglia degli hashemiti, discendenti del profeta), quando affrontammo la questione mi spiegò che, al pari di Israele che voleva ingrandire il suo stato dal Nilo all’Eufrate, gli sciiti, in questo momento storico forti più che mai, programmavano di dominare tutto il medioriente, dall’Iran al costa mediterranea libanese. Presenti in Iran, Iraq, Bahrein, Arabia Saudita e Libano, una loro eventuale vittoria nello Yemen avrebbe spianato la strada al temibile progetto.
Sinceramente mi sembrava un po’ esagerato, ma era indubbia una situazione nel mondo arabo in cui la contrapposizione fra shia’ e sunna si era inasprita. Gran parte della colpa l’avevano sempre gli americani con la loro astuta politica irachena del divide et impera, aizzando gli sciiti, perseguitati da Saddam, contro i sunniti.
Una conferma di un reale sentimento di timore diffuso ce la diede il nostro buon amico Mohammed, tassista e occasionale spacciatore. Una di quelle sere venne a casa nostra completamente ubriaco e fumato per portarci l’hashish. Era tanto che non lo vedevamo e gli chiedemmo sue notizie, anche perché avevamo sentito dire che si era arruolato. Ci raccontò che era rientrato nell’esercito come autista e che proprio in quei giorni aveva avuto l’incarico di portare le armi ai soldati che combatteva gli Huthiyyin a Bani Khseisc, vicino all’aeroporto. Nonostante fossero di numero largamente inferiore, i ribelli avevano ucciso quarantacinque soldati governativi, centrandoli perfettamente in testa dall’alto delle montagne. Ce lo disse unendo indice e pollice della mano destra, formando un cerchietto a mo’ di mirino sulla fronte e strabuzzando gli occhi per enfatizzare la loro pericolosità.
Spiegò che fra i ribelli c’erano qanaas iraniani, infallibili cecchini addestratissimi in grado di colpire il bersaglio da qualsiasi distanza. (Conoscevo la parola qanaas – cecchino- grazie al famoso filmato di internet “Qanaas Baghdad”, che mostrava una serie di soldati americani colpiti in testa da proiettili con un sottofondo di musiche entusiaste e inni alla resistenza). Aggiunse poi che a Sana’a erano morti 25 soldati uccisi da una bomba lanciata precisamente dentro il finestrino aperto dell’automezzo in cui viaggiavano. Di questo non si era saputo niente.
Secondo la sua versione la battaglia era praticamente finita e i pochi insorti rimasti vivi si erano nascosti nelle montagne senza viveri né munizioni. Dopo questo racconto prese a lamentarsi della vita grama che si faceva nell’esercito, dove non poteva né bere né masticare (qualche canna di nascosto se la riusciva a fare, ci confidò fiero) e neanche scegliere cosa mangiare ai pasti Per questo motivo stava passando i giorni della sua licenza a Sana’a, dove beveva e fumava tutto il giorno, approfittando della momentanea libertà. Quella sera aveva gli occhi rossissimi e barcollava.
I giornali avevano annunciato trionfalmente la morte in quella battaglia di uno dei quattro fratelli Huthiyyin, capi della fazione sciita, dei quali rimaneva vivo soltanto uno, arroccato nel territorio di Sadaa

Altre notizie dirette sugli Huthiyyin ci giunsero dal poeta amico del sindaco e nostro compare di masticata, Taha Yemeni. Oltre a comporre qaside (componimento poetico arabo) durante l’assunzione del qat era anche militare e acceso patriota. Ricordo che, già durante accese discussioni a bocca piena, Taha aveva più volte inveito contro l’Iran, per lui nemico degli arabi al pari di Israele e l’America. Una volta parlando di Saddam avevo affermato che la guerra di otto anni contro Komeini era stata un inutile tragedia facendolo infervorare. lui mi aveva con passione spiegato la questione del territorio dell’Ahwaz, da sempre arabo ma colonizzato dai persiani. Il giorno appresso mi aveva portato un articolo di giornale sull’argomento in cui erano descritte le condizione degli arabi iraniani che lì risiedevano: l’ottanta per cento degli uomini erano rinchiusi nelle carceri della rivoluzione islamica. Durante i giorni della guerra contro gli sciiti, Taha era improvvisamente scomparso dalle masticate pomeridiane nel mafrash del sindaco. Quando domandammo dove fosse andato ci informarono che era tornato nell’esercito ed era stato mandato a Sadaa, sede degli sciiti insorti, per cercare di far rinsavire al Huthi, declamandogli poesie. Non credemmo a questa versione ritenendo che ci stessero prendendo in giro. Magari era fuori Sana’a per altri motivi che non ci volevano spiegare. Pochi giorni prima del mio ritorno in Italia, un pomeriggio, il poeta ricomparve. Era venuto pieno di foto che lo ritraevano vestito da militare in piedi, con le mani alzate, come se stesse gesticolando, davanti a un esercito schierato . Che fosse andato da al Huthi per convincerlo ad arrendersi era effettivamente uno scherzo ma il suo viaggio a Sadaa era reale. Militare, poeta e senza soldi aveva deciso di arruolarsi nuovamente per aiutare la patria e il suo portafoglio. L’avevano mandato a Sadaa dove la sua mansione principale era incoraggiare i soldati prima della battaglia con la sua arte poetica. Poesia per la guerra. Sembravano i tempi della jahiliyya. Non me lo sarei mai immaginato. Un poeta combattente con il compito di infiammare i cuori dei soldati evocava un esercito di beduini sui cammelli, armati di sciabole ricurve mentre poco si accordava con una schiera di ascari con tute mimetiche, baschi rossi in testa e kalashnikov a tracolla. Amai ancora di più lo Yemen e gli yemeniti. Cinture ricamate con la fodera per il pugnale e il porta telefonino, poesia e armi da fuoco.
Oltre a spronare gli animi dei giovani soldati il nostro poeta aveva anche combattuto. Ci raccontò che gli Huthiyyin prendevano hubub (pasticche) di droga per combattere per vere più coraggio. Diceva che erano pazzi, che solo un pazzo esaltato dalla droga poteva avere il coraggio di affrontare da solo un carro armato tirando bombe a mano. Chissà se è vero. E soprattutto chissà dove si trovano un poco di queste pasticche da guerra sciite che non mi dispiacerebbe affatto provare. Dopo che finì il racconto ammiccò verso di me: “te l’avevo detto che l’Iran era mush tamàm (non buono).”.
Noialtri continuammo a passeggiare per la città vecchia anche di notte, la leggera ansia, che comunque erano riusciti a infonderci , non ci poteva fermare dal godere di quel posto meraviglioso.
Arrivò il giorno della festa del 2 giugno allo Sheraton. Avevamo conseguito di far avere un invito al Sindaco che, avido di alcolici di buona qualità, aveva insistito per venire. Sebbene avesse appena sostenuto un operazione di ernia ed era ricoverato, decise di presenziare alla festa comunque, uscendo dall’ospedale per poi farvi ritorno a fine serata.
Avevo tentennato a lungo sulla mia presenza alla festa. Per me non c’era niente da festeggiare il due giugno. Che significava spendere un enormità di denaro affittando un super albergo per esaltare quel paese del cazzo che è l’italia, l’Italia fascista e razzista di Berlusconi, l’Italia codarda e ipocrita del partito democratico. Le persone poi che avrebbero partecipato mi davano abbastanza fastidio, anzi mi facevano schifo: ricconi imbellettati, casta di diplomatici privilegiati, viscidi yemeniti leccaculo del potere, affaristi e militari di alto grado. I giorni prima dicevo per scherzo che se ci fossi andato sarebbe stato solo per farmi esplodere o per mettere il veleno nei piatti degli invitati. L’ unica ragione che facilmente mise a tacere i miei tormenti politici e mi spingeva ad andarci era la gola. Il cibo e Il vino. La possibilità di mangiare cose lussuose (era lo Sheraton!) e di bere a volontà e magari pure di vedere qualche bella femmina senza velo vinse su tutti i miei tentennamenti.

Foto di Valentina Perniciaro _carni appese_

Foto di Valentina Perniciaro _carni appese_

I controlli all’entrata mi sembrarono piuttosto vaghi, non fummo assolutamente perquisiti, se avessi voluto davvero mi sarei potuto facilmente imbottire di esplosivo per punire i malvagi e colpevoli festeggiatori della repubblica italiana (e sarebbe stato meglio visto quello che hai combinato).
Una volta dentro, la mia coscienza politica decise di ubriacarmi scientificamente per punirmi di averla azzittita e messa in un angolo. Dopo aver finito di mangiare, (e il cibo non era assolutamente lussuoso come me l’ero immaginato) mi bevvi tutto quello che c’era: dopo il vino e lo champagne passai al whisky (Johnny Walker, altro che Teacher gibutino a cui ero abituato), una volta che fu finito mi volsi alla wodka e quando anche essa terminò, con estremo disgusto del barista kazako, ormai mio amico, mi feci versare un gin con campari che sancì la mia definitiva dipartita dal mondo cosciente. Quel che successe dopo è molto imbarazzante da raccontare. Ne conservo un ricordo molto vago ricostruito in parte dai racconti dei presenti.
Quella battuta pronunciata dall’ambasciatore, durante il precedente incontro, sui miei genitori e le vacanze a Rimini mi aveva alquanto infastidito. Il fastidio, evidentemente, fu riportato a galla dall’alcol e, quando ormai nella festa rimaneva poca gente, decisi di andare a spiegare al diplomatico consigliere turistico che la sua uscita su Rimini non era stata gradita, assolutamente fuori luogo e anzi offensiva nei confronti della mia famiglia intellettuale. Quel cretino non sa assolutamente chiccazzo è mio padre e che certo non passa le sue vacanze sulla riviera romagnola in mezzo a pallidi svedesi ciccioni.
Avevo passato la vita a vergognarmi del fatto che mio padre fosse professore universitario, non lo volevo mai dire e sviavo sempre il discorso temendo di venir pregiudicato in base alla sua professione. All’università poi, avendo scelto una facoltà vicina a quella dove insegnava, vivevo la sua posizione come un estremo peso, sempre temendo di passare per privilegiato o raccomandato. Forse è anche per questo che mi impegnai in tutti i modi a ritardare la mia laurea triennale, per dimostrare che non ero un secchione ma anzi un vero giovane matto e sballone..
Quella volta invece, la somma dei fattori: vino, un poco di nostalgia, un lungo soggiorno in un paese arabo dove vantarsi del proprio padre e della propria famiglia è considerato un obbligo e quell’odiosa battuta dell’ambasciatore mi aveva reso piuttosto orgoglioso e determinato a dimostrare a sti cretini incravattati chiccazzo era mio padre: celebre professore e archeologo di fama internazionale. E che se lui voleva venire in Yemen non sarebbero certo state quattro minacce di quattro stronzi e le loro stupide paranoie a fermarlo, lui, che aveva visitato tutti paesi arabi, che era stato in Algeria, quando era pericoloso, in giro nel deserto per rovine e cave di marmo.
Mi avvicinai all’ambasciatore e presi posto su una sedia vicina aspettando il momento propizio per parlargli. Questi conversava con altri signori su Carlo Quinto e Francesco Primo raccontando un aneddoto che conoscevo anch’io. Borbottai qualcosa nei loro riguardi, intenzionato a partecipare anch’io a quel dibattito storico che, da figlio di archeologo professore, potevo sostenere brillantemente. Ricevetti un rapido sguardo interdetto per poi non essere più calcolato.
Dovevo ben essere una figura poco consona all’occasione, con la mia faccia piuttosto alterata dall’ebbrezza e camicia e pantaloni assolutamente non stirati. Il mio amico Andrea capendo la situazione provò ad allontanarmi per evitare brutte figure. Da qui comincia il delirio e la mia follia violenta, io non ricordo ma me ne vergogno. A quanto pare, ho sfogato la mia ira per il contesto in cui mi trovavo contrario ai miei principi politici, per la frase dell’ambasciatore su Rimini e per il dispiacere del viaggio mancato dei miei genitori contro il povero Andrea che aveva soltanto tentato di aiutarmi. (Ira? chiamalo pure dissidio interno perché, per quanto contrario ai tuoi principi, bere calici di champagne offerti su vassoi e spegnere sigarette in portaceneri che ti seguivano portati da servili camerieri, ti piaceva, tanto e te ne saresti dovuto sentire in colpa).
Mi sono alzato e platealmente ho sputato per terra sul tappeto dello Sheraton per poi andarmene offeso. Al mio amico che mi inseguiva ho sferrato un pugno traditore e sono salito sul primo taxi per tornare a casa. Quando poi Andrea è arrivato anche lui l’ho minacciato costringendolo ad andare a dormire fuori blaterando che quella era una casa per uomini veri e non per servi dei signori ambasciatori. Ero completamento fuori di testa, non mi rendevo conto delle mie azioni. (Non ti basta? Persisti nell’errore? Quand’è che finalmente ti convincerai a ossequiare la Vera Religione che tanto ti glori di difendere? Il diavolo ti bisbiglia sconcezze nell’orecchio. Abbandona queste azioni devianti e maligne che ti sviliscono e umiliano!) Per fortuna il giorno dopo rinsavii e chiesi perdono.
Il mio soggiorno infedele e colonizzatore nella penisola arabica proseguì per circa un altro mese, durante il quale non successe più nulla. Nessun messaggio terroristico al telefonino, nessuna detonazione di bombe, niente.
Ho passato quattro mesi in Yemen, nessun occidentale cristiano è morto, neanche per un incidente stradale. Nello stesso periodo di tempo in Italia sono morte almeno venti persone sul lavoro, una quarantina sono affogate tentando di raggiungere il nostro paese, è stato rieletto un presidente del consiglio corrotto e ladro e a Roma un sindaco fascista.

fabbricante di libertà…

30 settembre 2008 1 commento

“Nella nostra casa di Damasco nel quartiere di Mi’dhanat al-Shahm si convocavano riunioni politiche a porte chiuse e si progettavano scioperi, manifestazioni e atti di resistenza. Dentro le porte comunicavamo con

Foto di Valentina Perniciaro _Suq di Damasco_

Foto di Valentina Perniciaro _Suq di Damasco_

sussurri che facevamo fatica a capire. La mia immaginazione da piccolo non era in grado di cogliere le cose con chiarezza ma quando vidi i militari senegalesi entrare in casa nostra alle prime ore dell’alba con fucili e baionette per portare via mio padre in un’auto blindata verso un campo di concentramento nel deserto, seppi che mio padre esercitava un altro lavoro oltre
alla fabbricazione di dolci. Era fabbricante di libertà.”

“Non so scrivere su Damasco senza che si intrecci il gelsomino sulle mie dita
Non so pronunciare il suo nome senza che sulla mia bocca si addensi il nettare dell’albicocca, del melograno, della mora e del cotogno
Non so ricordarla senza che si posino su un muretto della memoria mille colombe… e mille colombe volano.”

_NIZAR QABBANI_

Dell’albicocca…

24 settembre 2008 1 commento

Che i miei amici armeni mi perdonino: malgrado il nome, la Prunus armeniaca, ovverosia l’albicocca, non è originaria dell’Armenia, ma della Cina, proprio come la pesca, un’altra delizia che i botanici si ostinano ad attribuire alla Persia. E le albicocche migliori, non dispiaccia ai francesi, non sono quelle del Rossiglione, senza dubbio pregevoli, ma i frutti di miele e d’oro che si trovano soltanto nel Levante. E’ qui, sicuramente, in Turchia e in Siria, che un albero ritenuto difficile come l’albicocco sembra aver eletto il proprio domicilio, se mi si passa l’espressione, e se ne sta a suo agio come soltanto in patria si può stare. 
Sospetto perciò che proprio i siriani, e in particolare i damasceni, per altro poco inclini alla speculazione metafisica, abbiano diffuso, se non inventato, la leggenda secondo la quale l’albero di Adamo ed Eva, creato per insegnarci a distinguere il bene dal male, sarebbe l’albicocco e non il melo o il fico. Un modo come un altro per insinuare che non si può resistere alla tentazione dell’albicocca. Forse anche, con un abile sotterfugio, per collocare in Siria il giardino dell’Eden.
Bisogna dire che a Damasco, prima dei guasti dell’urbanizzazione, l’arte di vivere era scandita in qualche modo, almeno durante certi mesi, dal ciclo dell’albicocca. Molto presto, già da marzo, la fioritura dell’albicocco annuncia la primavera, attirando verso i giardini della Ghuta una folla eterogenea di gitanti.
Ma la meraviglia di fronte alla delicata bellezza dei fiori, corolle bianche ombreggiate di rosa tenero, non è priva di apprensioni, e i damasceni temono, come per ogni cosa precoce, i colpi imprevedibili del destino: una pioggia troppo abbondante, un vento un po’ violento, una gelata tardiva. Soltanto le grida dei venditori ambulanti, a partire da giugno, vengono infine a rassicurarli, quando si levano per celebrare le mishmish baladi, “pasticcini all’acqua di rose”, o il tipo detto hamawi, “regina di cuori” che andrebbe portata “in fazzoletti di seta”. Comincia così la stagione dell’albicocca, tanto breve, purtroppo, dopo la lunga attesa, che nella lingua parlata si designa con tale espressione tutto ciò che è fugace o improbabile.
Ci si mette dunque a mangiare albicocche, coscienziosamente, fino a sazietà, per paura di restare senza l’anno successivo. E sulle terrazze della città si vedono ben presto marmellate e confetture riposare al sole, all’aria aperta, in recipienti di tutte le misure, coperte appena di una mussolina che protegge dalla polvere e dagli insetti. Colta al momento giusto e ricolma di luce, l’albicocca non si è mai meglio conformata a una delle sue denominazioni latine, apricum, il frutto che ama la luce del sole. 


Foto di Valentina Perniciaro Suq di Damasco e abbondanza di melograni

Ma l’infatuazione dei damasceni di oggi per l’albicocca non è nulla in confronto a quella dei loro avi. Nel periodo mamelucco, se bisogna credere al viaggiatore egiziano Badri, egli stesso ghiottone impenitente, la Ghuta produceva ventuno varietà di albicocche, nove soltanto delle quali sono giunte fino a noi.
Per apprezzarle tutte nel loro giusto valore, in poco tempo, era indispensabile consacrarvisi anima e corpo. Di conseguenza, gli ulama non esitavano a mettersi in ferie, durante la stagione dell’albicocca, abbandonando senza ritegno cattedre e libri. Essi si piegavano in tal modo a un piacevole costume. Stagione benedetta da Dio, a più d’un titolo, in cui anche le muse partecipavano alla festa, ispirando ai letterati alcune delle loro metafore più frivole. A quanto pare mancava soltanto, per soddisfare tutti i gusti, il “vino” d’albicocca per il quale, stando al Libro dei Canti di Isfahani, il musicista Ishaq al-Mawsili andava matto.
Ai nostri giorni, non si estraggono dall’albicocca nè vino nè alcol, e sono stati dimenticati anche altri usi meno problematici come la mishmishiyya, spezzatino di albicocca e carne d’agnello, scomparsa da tempo dalle tavole di Damasco, al pari di altre pietanze agrodolci.
Curiosamente, il piatto che porta oggi questo nome non è preparato con delle albicocche, ma con le fave. Resta nondimeno il fatto che a Damasco, e solo a Damasco, l’arte di conservare le albicocche tocca il sublime. Solo le albicocche secche di Turchia possono competere coi nuqu’ siriani, che consistono in succulente albicocche baladi schiacciate con il nocciolo e seccate al sole.
Vengono consumate soprattutto nel mese di Ramadan, sotto forma di khoshaf, per calmare la sete.
Quanto al qamar al-din, alla lettera la “luna della religione”, nome che rimanda ad un’antica varietà turca molto apprezzata da Ibn Battuta, è patrimonio esclusivo di Damasco, e tale resterà fino alla fine dei tempi. Lo si ottiene impastando le albicocche e stendendo la pasta, privata dei noccioli, su tavole di legno lunghe due metri ed esposte al sole. Quando è secca, la pasta di albicocche è spennellata di olio di sesamo, perchè si mantenga brillante e vellutata, ed è infine arrotolata come un tappeto. Può essere degustata così, o ancora meglio macerata in acqua fresca.

 

SPEZZATINO ALLE ALBICOCCHE
Ingredienti per 4 persone

600 gr di spalla d’agnello disossata
600 gr di albicocche secche snocciolate
100 gr di olio d’oliva
1 cucchiaino da caffè di cannella
2 boccioli di rosa
2 cucchiai di zucchero
sale

@Tagliate la carne in 8 pezzi, condite con sale, cannella e boccioli di rosa sbriciolati, fate rosolare nell’olio e poi coprite d’acqua e portate ad ebollizione. Abbassate il fuoco e lasciate cuocere per un’ora con il coperchio.

@ A metà cottura, aggiungete le albicocche e lo zucchero e controllate il documento

@Prima di servire, fate restringere la salsa fino a renderla cremosa

tratto da “LA CUCINA DI ZIRYAB” di Farouk Mardam-Bey

Come corrono!!!

21 settembre 2008 1 commento

Sarei proprio voluta esserci…perchè l’idea che se la sono data a gambe in questo modo rocambolesco mi mette proprio di buon umore. Poi proprio a Koln, una città che ho visto con i miei occhi come convive con le tante etnie rifugiate. Una città che mi ha accolto per un mese, avvolta da migranti kurdi, e che ha dimostrato ogni momento la piena tolleranza, l’amichevole convivenza, l’ospitalità che ha stupito anche me.
Una città dove sono più i migranti dei tedeschi, dove si vive bene, dove si respira un’aria piacevole, assolutamente non razzista, xenofoba, conflittuale.
E sono proprio scappati, usando i battelli, salpando con la coda tra le gambe: da buoni fascisti.
Scappano si, perchè non hanno altro da fare su questa terra, loro, feccia immonda di quest’Europa medievale e reazionaria.
La sola trentina che si è presentata in piazza ieri erano italiani, capitanati da Borghezio che si aggirava con la sua “bibbia”, -La Rabbia e L’Orgoglio- di Oriana Fallaci.
Solo loro, nascosti da una parte, circondati da migliaia di antifascisti.
Pubblico sul blog quest’articolo preso da PeaceReporter perchè m’ha fatto sorridere..
i miei complimenti all’autore
e buon divertimento a chi li può veder correre, tornare nelle fogne.
Solidarietà ai topi di Colonia, che forse non accettano nemmeno loro questi nuovi amici tra la merda. 

COLONIA, I FASCISTI INVISIBILI

 

Hanno giocato al gatto col topo per tutta la mattinata. Inseguiti da polizia, giornalisti e movimenti antifascisti. La conferenza stampa di presentazione della grande manifestazione anti-islamizzazione prevista per domani a Colonia, nel Nord Reno-Westfalia, era fissata per le 11 di mattina nella circoscrizione di Nippes, vicino alla grande cattedrale gotica, unica vestigia della città medievale rimasta in piedi dopo i bombardamenti della Seconda Guerra mondiale. Pro-Koeln, questo il nome dell’organizzazione ‘civica’ populista formatasi cinque anni fa per protestare contro la costruzione della più grande moschea tedesca nel quartiere di Ehrenfeld, ha preso tutti di sorpresa. Per evitare le contestazioni degli anti-fascisti (ne sono attesi 50 mila domani nella piazza del mercato), ha deciso all’insaputa di tutti di tenere la ‘conferenza stampa internazionale’ cinque chilometri più a sud. La nuova sede avrebbe dovuto essere la circoscrizione di Roedenkirchen, sulle sponde del Reno. Qui si sono radunati tutti, soprattutto una manciata di militanti antifascisti che, precedendo persino i giornalisti della Ard, il canale nazionale tedesco, della Zeit e vari altri, li hanno accolti con slogan e fischietti, minacciando di aggredirli fisicamente. La fuga, a quanto racconta l’unico giornalista che ha assistito alla scena, il corrispondente locale della Tageszeitung, Pascale Beucker, è stata precipitosa. La decina di politici e attivisti di Pro-Koeln ha in fretta e furia lasciato Rodenkirchen per salire su un battello sul Reno e dirigersi verso il porto fluviale di Nihl, sei chilometri più a nord. Beucker è l’unico ad aver assistito agli insulti e alla sassaiola degli antifascisti, che ha costretto quelli di Pro-Koeln a mollare gli ormeggi più in fretta che potevano.
A Colonia, la maggioranza della popolazione è favorevole alla moschea, e non nutre alcuna ostilità nei confronti degli immigrati. I musulmani sono il 12 percento, su un  milione di abitanti, ma la loro presenza è stata da sempre caratterizzata dal dialogo e dall’integrazione con i residenti. Fino a quando la lista civica di Pro-Koeln non ha messo i bastoni tra le ruote al progetto dell’architetto tedesco Paul Bohem di una grande moschea che, secondo gli oppositori di destra, avrebbe ‘oscurato’ la grande cattedrale gotica e ‘stravolto lo skyline’ di Colonia.
 
Tre settimane fa il via libera del sindaco della Cdu, Fritz Schramma. La moschea si farà. A Ehrenfeld, storico quartiere musulmano a maggioranza turca. A finanziarla saranno proprio i turchi. La Commissione per gli affari religiosi del governo turco, con una sua ‘branca’ nell’organizzazione Ditib, che opera a Colonia, verserà la gran parte dei 20 milioni di euro destinati a edificarla. Tra gli altri finanziatori, oltre 800 donazioni da varie altre organizzazioni musulmane. In risposta alla delibera comunale, Pro-Koeln ha chiamato a raccolta una messe di politici di estrema destra da ogni parte d’Europa: da Jean Marie Le Pen (che ha poi declinato l’invito), a Heinz-Christian Strache, austriaco dell’Fpo (Partito per la libertà), a Filip Devinter del belga Vlaams Belang (Interesse fiammingo), all’italiano Mario Borghezio della Lega. Sono tutti attesi nella piazza del mercato, a pochi metri dalla cattedrale, domani alle 11, dove, assieme a un migliaio di neo-nazi, naziskin e varie altre sigle fasciste, dovrebbero tenere l’annunciata adunata di piazza.
 
Il problema è che la mobilitazione antifascista è stata talmente rumorosa e imponente (50 mila persone, nella contro-manifestazione dei sindacati, per non parlare dei movimentisti-antagonisti-belligeranti antifascisti che, in un tam-tam generale, cercheranno in ogni modo di impedirne lo svolgimento), che neanche la polizia sa più che pesci prendere. 

25 aprile 2005, Roma

Foto di Valentina Perniciaro: 25 aprile 2005, Roma

Stamani, decine di camionette attendevano il battello, che ironicamente si chiamava ‘Moby Dick’, per l’attracco. Ma il capitano Achab-Marcus Wiener, leader di Pro-Koeln, eludeva giornalisti e agenti rimanendo al largo. Per tre ore, invano, tutti attendevano lo sbarco, in un gioco dell’oca che aveva come percorso la mappa della città di Colonia. I politici locali di Pro-Koeln hanno dovuto aspettare a lungo in mezzo al fiume. Finchè non hanno attraccato a Bastion, un molo vicino allo zoo comunale. Blindati e cinturati dai poliziotti, sono rimasti invisibili ai più, noi compresi. Forse solo i pochi giornalisti rimasti, pazienti e irriducibili, senza poterli avvicinare più di tanto hanno potuto vederli da lontano. Come si guarda un animale esotico dentro una gabbia dello zoo.

Il peggiore dei massacri, Sabra e Chatila

16 settembre 2008 17 commenti

Liberazione di oggi, pagina 20

Liberazione di oggi, pagina 20

 DIARIO DI UN MASSACRO, di Valentina Perniciaro
LIBERAZIONE, 16 SETTEMBRE 2008, retrocopertina (rm1609-att01-202)

«Il problema che ci poniamo: come iniziare, stuprando o uccidendo? Se i palestinesi hanno un po’ di buonsenso, devono cercare di lasciare Beirut. Voi non avete idea della carneficina che toccherà ai palestinesi, civili o terroristi, che resteranno in città. Il loro tentativo di confondersi con la popolazione sarà inutile. La spada e il fucile dei combattenti cristiani li seguirà dappertutto e li sterminerà, una volta per tutte». Il settimanale Bamaneh , organo ufficiale dell’esercito israeliano, due settimane prima del massacro di Sabra e Chatila, riporta le parole di un ufficiale delle Falangi cristiano-maronite.
Ma proseguiamo con ordine.

Martedì 14 settembre ’82
Un’esplosione devasta la sede di Kataeb (partito delle Falangi cristiane) durante una riunione di quadri. Tra i 24 corpi anche quello di Bashir Gemayel, presidente della Repubblica libanese da appena tre settimane. E’ un colpo pesante per Israele: muore il nemico numero uno dei palestinesi in Libano, l’uomo che li aveva definiti «il popolo di troppo», ricordato come «il presidente sostenuto dalle baionette israeliane». La sua elezione era la prima grande vittoria di Sharon: le sue milizie erano state aiutate militarmente, addestrate in campi speciali, garantite di servizi di intelligence e organizzazione. Il generale Eytan, capo di stato maggiore israeliano, poco dopo l’attentato dichiarerà: «Era uno dei nostri».
Il giorno prima, il 13 settembre, gli ultimi 850 paracadutisti e fanti della forza di pace internazionale (per lo più francesi, italiani e americani) lasciano il paese. Non sono nemmeno le 18 quando parte l’operazione “Cervello di Ferro”: inizia un fitto ponte aereo israeliano, uomini e carri armati arrivano all’aereoporto internazionale di Beirut e il generale Eytan dichiara: «Stiamo per ripulire Beirut-Ovest, raccogliere tutte le armi, arrestare i terroristi, esattamente come abbiamo fatto a Sidone e a Tiro e dappertutto in Libano. Ritroveremo tutti i terroristi e i loro capi. Ciò che c’è da distruggere lo distruggeremo».

Mercoledì 15 settembre
Prima dell’alba si tiene una riunione decisiva al quartier generale delle milizie unificate della destra cristiana: per Israele sono presenti i generali Eytan e Druri, per le milizie falangiste il comandante in capo Efram e il responsabile dei servizi di informazione Hobeika. Si discute un piano d’entrata delle falangi nei campi profughi palestinesi di Beirut; un capo militare alla fine della riunione dichiarerà: «Da anni aspettiamo questo momento». Durante tutto il giorno le strade che vanno verso i campi vengono riempite con la vernice di enormi frecce che indicano la direttrice di penetrazione, Sabra e Chatila devono essere facilmente raggiungibili da chi non conosce la città. Dalle 5 in poi lo Tsahal (l’esercito israeliano ndr ) avanza su cinque direttrici, circondando completamente Beirut-Ovest: Sharon arriva sul posto a dirigere le operazioni alle 9 del mattino, sul tetto di un enorme edificio, al settimo piano, da dove può osservare benissimo i campi. Il primo ministro Menahim Begin dirà poche ore dopo che il loro «ingresso in città è solamente per mantenere l’ordine ed evitare dei possibili pogrom, dopo la situazione creatasi con l’assassinio di Gemayel».
Dalle 12 i campi di Sabra e Chatila sono circondati dai tank israeliani: la popolazione si chiude in casa. Tutti i combattenti sono partiti pochi giorni prima, nelle viuzze strette sono rimasti solamente bambini, donne e anziani.

Giovedì 16 settembre 
Bastano 30 ore per completare la missione: è la prima volta che Israele conquista una capitale araba. Per tutta la mattinata è un formicaio di bande armate, munite anche di asce e coltelli, che percorrono le strade a bordo di jeep dello Tsahal; alle 15 il generale Druri chiama Sharon: « I nostri amici avanzano nei campi. Abbiamo coordinato la loro entrata». La risposta è secca: «Felicitazioni».
Il tempo a Sabra e Chatila si fermerà alle 17 per ricominciare a scorrere 40 ore più tardi, alle 10 del sabato successivo. Gli israeliani seguono le operazioni dal tetto del loro quartier generale, forniscono in aiuto razzi illuminanti sparati con una frequenza di due al minuto: non calerà mai la notte sopra i campi. Le falangi cristiano-maronite non si limitano a sterminare la popolazione; il loro accanimento, soprattutto verso i bambini, ha pochi precedenti nella storia, la loro crudeltà supera ogni aspettativa. Sfondano le porte delle case e liquidano intere famiglie ancora nei letti o a tavola, tagliano le membra delle loro vittime prima di ucciderle, stuprano ripetutamente donne e bambine, evirano, assassinano a colpi d’ascia. Solitamente lasciano viva una bimba per famiglia che, dopo ripetuti stupri, ha il solo compito di raccontare e far scappare chi resiste. Una donna al nono mese di gravidanza verrà ritrovata con il ventre aperto, uccisa con il feto messogli tra le braccia. Le teste dei neonati vengono schiacciate sulle pareti. I miliziani saccheggiano tutto: si troveranno molte mani di donne tagliate ai polsi per impadronirsi dei gioielli.

Venerdì 17 settembre
Il venerdì nero. Il tenente Avi Grabowski dirà davanti alla commissione d’inchiesta «Ho visto falangisti uccidere civili…Uno di loro mi ha detto: dalle donne incinte nasceranno dei terroristi». Ma i soldati israeliani ricevono ancora l’ordine di non intervenire su ciò che sta accadendo, di non entrare nei campi; il loro compito rimane quello di sorvegliare gli accessi per rispedire dentro chi prova a fuggire e illuminare l’area, al calar della notte. Sono le milizie di Haddad quelle che incutono più terrore, quelle che legano i feriti alle jeep e li trascinano fino alla morte, quelle intente a torturare e a non lasciare nessuno in vita; i metodi si fanno più rapidi rispetto all’inizio del massacro, ora si spara a bruciapelo e spesso si incide una croce sul petto dei cadaveri. Più di 1500 persone spariranno salendo sui loro camion: non si è più saputo niente di loro. Entrano anche nell’ospedale di Akka e di Gaza, medici e infermieri palestinesi sono giustiziati, così come i feriti. Al confine del campo gli uomini delle milizie cristiane sono euforiche, non si vergognano di urlare in faccia ai giornalisti che iniziano ad arrivare: «Andiamo ad ammazzarli, ci inculeremo le loro madri e le loro sorelle». Sharon è l’unico invece che continua a dichiarare, mentre sovrasta il massacro, «l’entrata di Tsahal a Beirut porta pace e sicurezza ed impedisce un massacro della popolazioni palestinesi. Stiamo impedendo una catastrofe».

Sabato 18 settembre 
Il massacro continua; la puzza di cadaveri, sotto il caldo sole di Beirut, inizia a superare i confini dei campi palestinesi. E’ il momento dell’ultima trappola: le milizie dalle 6 del mattino girano sulle jeep urlando alla popolazione di arrendersi, di uscire di casa. Più di un migliaio saranno uccisi sulla strada Abu Hassan Salmeh, principale arteria di Chatila. Chi viene arrestato e portato nello stadio sarà ritrovato morto ancora ammanettato, spesso buttato in piscina. Gli ultimi abitanti vengono portati via sui camion.
Alle 10 cala il silenzio su Sabra e Chatila. Le milizie sono uscite; non si scorge anima viva nel fetore di quelle strade. Solo qualche ora dopo i sopravvissuti inizieranno ad uscire dai rifugi, e il dolore si trasformerà in grida, mentre osservano più di 2000 cadaveri mutilati, dilaniati, stuprati, lasciati marcire al sole. I riconoscimenti avverranno solo in parte, visto che molti erano stati già gettati in fosse comuni. C’è una donna che urla… ha intorno a se i cadaveri dei suoi 7 bambini, tiene tra le braccia il corpo dilaniato della più piccola, di soli 4 mesi. Si tira la terra in testa, urla, «E ora? Dove andrò? E ora?».
Sulle mura delle poche case rimaste in piedi si leggono gli slogan della Falange “Kataeb”: «Dio, Patria, Famiglia».
«Quali assassinii di donne? Si fa una storia per niente. Da anni uccido palestinesi e non ho ancora finito. Li odio. Non mi considero affatto un assassino. Ne verranno ancora assassinati migliaia, ed altri creperanno di fame», le parole di Hobeika saranno difficili da dimenticare. Neanche per il popolo israeliano è facile accettare l’idea di essere corresponsabili di una simile azione, l’indignazione popolare è profonda. Un corteo di 400mila persone invaderà Tel Aviv con slogan diretti contro il governo e Sharon.
Il 20 settembre, Amos Kennan sulla più importante testata israeliana, Yedioth Ahronot , scriverà: «In un sol colpo, signor Begin, lei ha perduto il milione di bambini ebrei che costituivano tutto il suo bene sulla terra. Il milione di bambini di Auschwitz non è più suo. Li ha venduti senza utile».
Oggi ci sarà ancora una commemorazione, sulla piazza della fossa comune, all’ingresso di Chatila. La popolazione dei campi andrà a salutare, a portare avanti il ricordo di quei giorni neri in cui si è cercato casa per casa il più innocente per trucidarlo, in cui si è perpetrato uno sterminio scientifico e atteso da molto tempo. Il giorno più bello per le falangi cristiano-maronite, l’ennesima nakba (tragedia) per i palestinesi che malgrado tutto continuano a lottare, a sperare in un ritorno, ad esistere.
Come diceva Mahmud Darwish, grande poeta palestinese da poco scomparso, «Il mio popolo ha sette vite. Ogni volta che muore rinasce più giovane e bello». Basta passeggiare per le vie dei campi profughi del medioriente per capire che grande verità è questa.
Nel 2002, il tribunale dell’Aja prova ad accusare Sharon di crimini contro l’umanità per le evidenti responsabilità durante il massacro. Il processo nasceva dalle accuse del comandante Hobeika, che aveva deciso di far luce sui fatti. Avrebbe dovuto farlo i primi di febbraio,testimoniando in aula. Ma non ha fatto in tempo: è saltato in aria il 24 gennaio 2002.
La verità su Sabra e Chatila, comunque, non ha bisogno di tribunali per essere sancita. E’ chiara, scritta, visibile ancora oggi ad occhio nudo.

Tutte le citazioni sono tratte dal libro “Sabra e Chatila Inchiesta su un massacro” di Amnon Kapeliouk (Editions du Seuil, 1982)

Foto di Valentina Perniciaro -Il mercato di Sabra-

Foto di Valentina Perniciaro -Il mercato di Sabra-

Ciao Abdul!

15 settembre 2008 2 commenti

Abdul William Guibre, 19 anni, italiano, originario del Burkina Faso e residente a Cernusco sul Naviglio.

Abdul, 19 anni. Ucciso a sprangate

Ammazzato a sprangate. 
L’ennesimo morto che sento mio, che mi rende cieca di rabbia e odio.
L’ennesimo morto che palesa l’atmosfera del nostro paese, del razzismo dilagante e trasversale che bagna di sangue le nostre strade sempre più spesso. Viviamo intrisi di una mentalità squadrista che nemmeno può definirsi fascista…perchè questi due assassini balordi non sono dei militanti, non sono di quelli che escono col coltello in tasca per “puncicare” un immigrato, un comunista, o qualcuno di un’altra squadra.
Peggio ancora, questa gentucola difende il proprio fortino a mano armata, difende la proprietà privata uccidendo senza nemmeno pensarci, questa gente si fa giustizia da sola ammazzando sempre e comunque il più debole. Questa gente pensa che il nemico sia il nero, il migrante, il precario, il libero pensatore che parla e lotta….e non i padroni, gli sfruttatori, il liberismo sfrenato che ci porta ad odiare tutto quello che potrebbe mettere a rischio la propria miseria. Miseria, perchè non è altro che miseria.
Una miseria di stampo fascista ma non solo. Una miseria da bottegai.
Un popolo di bottegai, pronto a sparare su chiunque è diverso, su chiunque non accetta questo fottuto ordine delle cose. Ancora un morto, da piangere TUTTI.
L’ennesima prova di quanto bisogna rimboccarsi le maniche…di quanto urge cambiare le cose, stare in mezzo alla gente, parlare, creare reti di lotta, crescita, dibattito e anche autodifesa.
Dobbiamo difenderci, dobbiamo mettere in conto che lo scontro arriverà e nessuno potrà rimanerne fuori.

Dovrebbero pagarla cara…i bottegai giustizieri, i cittadini che pensano e commentano che tutto ciò è normale… che “se era il tuo di bar cosa avresti fatto?”.
Dovrebbero assaggiarla una sprangata in testa, almeno imparerebbero a star zitti, a non sentirsi superiori a nessuno, fascisti assassini bottegai merdosi.

Ciao Abdul. Il tuo sorriso vivrà in chiunque lotta per un mondo diverso. Non un mondo migliore, ma un mondo completamente “altro”.

Foto di Valentina Perniciaro -corteo per il diritto all'abitare

Foto di Valentina Perniciaro -corteo per il diritto all'abitare

“la mia non fu un’infanzia da fanciullo”

27 agosto 2008 Lascia un commento

La mia non fu un’infanzia da fanciullo; pensai, sentii sempre da uomo. Solo crescendo sono rientrato nella normalità; nascendo, ne ero uscito.”

“Tale fu il piano col quale mi misi in cammino, abbandonando senza rimpianto il mio protettore, il mio precettore, i miei studi, le speranze e l’attesa di una fortuna quasi certa, per iniziare un’autentica esistenza di vagabondo. Addio capitale, addio corte, ambizione, vanità, amore, belle donne e tutte le grandi avventure la cui speranza mi aveva condotto lì, l’anno prima. Parto con la mia fontanella e il mio amico Bacle, la cui borsa quasi asciutta, ma il cuore traboccante di gioia, non sognando altro che godere di quella felicità vagabonda cui avevo di colpo ridotto i miei splendidi progetti.   […]

Foto di Valentina Perniciaro.  'Ammara, suq di Damasco

Foto di Valentina Perniciaro. 'Ammara, suq di DamascoChissà quando tra le tante volte

 

Nel corso di tutta un’esistenza irregolare e memorabile per le sue vicissitudini, sovente senza tetto e senza pane, sempre ho guardato con occhio eguale opulenza e miseria. All’occorrenza, avrei potuto mendicare o rubare come chiunque altro, ma non spaventarmi d’essere ridotto a tali estremi. Pochi uomini hanno sofferto quanto me, pochi hanno versato tante lacrime in vita loro; ma la povertà o il timore di cadervi non m’hanno mai strappato né un sospiro né una lacrima. La mia anima alla prova della fortuna, non ha conosciuto veri beni o veri mali fuorché quelli che da essa dipendono, e proprio quando  nulla di necessario mi è mancato mi son sentito il più infelice dei mortali.”

“Invece di volgere indietro lo sguardo e guardare alla punizione, lo volgevo innanzi e guardavo alla vendetta.”

Un piccolo omaggio a Jean-Jacques Rousseau, che con le sue Confessioni mi sta regalando grandissimi momenti. Un piccolo omaggio a colui che era infinitamente fiero di “aver messo un germoglio in concorrenza con un grande albero, mi pareva il grado supremo della gloria

Ciliegie e nostalgia

23 agosto 2008 6 commenti

Mi manchi.
Mi mancano le ciliegie, mi manca quell’odore al risveglio che ogni mattina sembrava provenire da un diverso pianeta, mi manca quel canto antico e immutato, le urla degli ambulanti, la solitudine di quei vicoli e di me, che all’improvviso non avevo più nessuno al mondo.
E a coccolarmi non c’erano altro che i miei sensi, a coccolarmi c’era la curiosità, la diversità, il nuovo che prendeva a cazzotti tutto quello che avevo visto fino a quel momento.
Mi manca Baramke con il suo caos insopportabile e quelle spremute d’arancia che ti rimettevano al mondo, con quel ghiaccio ambiguo e sempre sicuro. Mi mancano le ore a camminare a temperature proibitive, chiacchierando con sconosciuti, costruendo il proprio presente sul nulla, sul caso, sulla scoperta.

Bosra, Siria. Una bimba e la sua colonna

Bosra, Siria. Una bimba e la sua colonna

 Mi manca quella sensazione di casa, di antico, di smarrito e ritrovato.Quella sensazione di aver fottuto il tempo, il progresso e il futuro…semplicemente fermandosi, assaporando, respirando a pieni polmoni un’aria priva di frenesia, di desiderio di potere.Mi manca quel cielo stellato, quel silenzio improvviso che fermava la città, mi manca il non capirci nulla, il vagare senza meta se non quella decisa dai rullini, dalla fame, dagli sguardi vogliosi di un mondo che ero solo io. Che non aveva amore, non aveva sesso, non aveva impegni…un mondo che non aveva nulla se non di guardare oltre, di catturare tutto per non lasciarlo andare mai più via.

 

Ed è quello l’unico bagaglio che mi son portata, l’unico che non mi hanno potuto strappare via.
Il ricordo di quel mondo che era tutto mio, che era giusto, che era nuovo.
Il ricordo che mi trasmette energia…la sensazione di pace che mi da il pensare che infondo è tutto lì,
che basta ricominciare il viaggio da dove lo si era interrotto.
Che basta ripartire da quel goccio d’olio, da quel confine violato, da quel dolore rabbioso.

Sei il mio pensiero felice, sei la mia forza, sei la mia energia. 
Se non torno a te è solo perchè mi hai insegnato a sognare, mi hai insegnato a mettere delle priorità, mi hai insegnato a guardare in un altro modo…quindi ci devo provare.

” ‘na dissenteria di bombe”

19 agosto 2008 2 commenti

L’estate del ’43 gli eserciti spediti sulla neve di Russia, 
nella sabbia di Egitto, sbandavano all’indietro.
La guerra dei fascismi andava alla malora,
ma una pace: lontana. “Finché non bombardano Roma”,
“Finché non bombardano Roma”, la frase girava a bassa voce,
pericoloso dirla per intero, la milizia aveva cento orecchie,
qualcuna di meno ultimamente, che la guerra falliva.

Finché non bombardano Roma, non finisce.
Strano vaccino per l’epidemia, che razza di siero antiguerra.
Si era ficcato in testa per le città d’Italia
bombardate a martello, prima solo di notte,
poi pure a mezzogiorno, e a Roma niente. 
“Ce sta ‘o papa, nun ponno mena’ bbombe ‘ncopp’ o papa”.
A Napoli spiegavano così la malasorte,
la più bersagliata dall’alto dei cieli, e Roma niente.
“‘O papa, ce sta ‘o papa, nun le ponno fa’ niente, sta San Pietro.”

Nel luglio del ’43 il cielo sopra Napoli era un campo di croci con le ali,
altissime passavano e sganciavano,
sopra obiettivo libero, a terra senza allarme,
senza sirena in mezzo alla città.
Sono più avvelenate di terrore le bombe a mezzogiorno.
Di notte è già normale correre al rifugio,m dentro il buio
a ripararsi, ma di giorno è peggio. “Quanno fernesce? Mai?
E il caldo, ‘o calore, d’o mese ‘e luglio d’o ’43”.

 Mia madre teneva diciottanni, legati stretti
per non farseli scippare, passava per la piazza
della posta centrale dopo una delle scariche,
e s’accorse che non c’erano le mosche,
erano morte pure quelle per lo spostamento dell’aria.
“Sui corpi scamazzati, scarognati, nun ce steva ‘na mosca.
Nun era manco nu bumbardamento,
ma ‘na dissenteria di bombe, ci cacavano ‘n capa.
E a Roma c’era il cinema, la guerra la sentivano per radio,
la gente la sera usciva, ieva a teatro,
nun le mancava niente. Tenevo diciottanni,
due fratelli nascosti,
i tedeschi fucilavano i guagliuni che non si presentavano”.

“No, ma’, questo è successo dopo, nel settembre,
quando gli americani ancora non entravano
e i tedeschi mettevano le mine in mezzo al golfo.
Stavamo ricordando ‘o mese ‘e luglio”.
“Senza pute’ durmi’ manco ‘na notte,
a sirena sonava doie, tre vote,
andavamo a durmi’ coi panni ‘ncuollo,
manco le scarpe mi toglievo, pronta pe’ n’ ata corsa,
giù per le scale, ‘a sirena int’e rrecchie
che m’afferrava i nervi, spìcciati, presto, curre,
le posate d’argento nella borsa, la ricchezza nostra,
mammà che mi sttrillava dietro: “Piglia i posti buoni”.
C’erano i posti buoni e quelli malamente, comm’a teatro”.

“Finché nun bumbardano Roma, ‘sta guerra fetente nun fernesce.
La milizia mo’ sente e fa finta ‘e nun senti’,
o’ ssape che è fernuta ‘a zezzenella
(lo sa che è finita la pacchia).
‘O fascismo per me è stato ‘a guerra. Tenevo quindicianni,
‘a meglio età, quanno ‘o fascismo s’affacciaie ‘o balcone:
vincere e vinceremo. Se credeva di fa’ ‘na guapparia,
quattro mosse dietro ai tedeschi e subito vinceva.
In capo a qualche giorno a Napoli sentéttemo  ‘a sirena,
‘a primma sirena d’allarme. Ancora me la sogno la sirena.
Dentro ai sogni nun m’arricordo ‘e bbombe, ma ‘a sirena.
Tenevo quindicianni all’inizio d’a guerra, ‘a meglio età.
‘O fascismo me l’ha inguaiata fino a diciottanni.

Niente sapevo, niente m’importava, d’a politica,
io vulevo fa’ ammore, uscire colle amiche mie,
ballare, andare al mare. Si m’o ffaceva fa’,
si ‘ o fascismo me faceva campa’, bene per lui e bene pure a me.
Invece niente, s’è arrubbat’a giuventù,
ha mandato a muri’ ‘i meglio guagliuni pe’ na guerra fetente,
se ne futteva ‘e me, ‘e Napule, ‘e l’Italia. Stava a Roma
arriparato sotto ‘a tonaca d’o papa,
a Roma non gli succedeva niente.”

“E com’è stato lo strillo, la voce che hai sentito
all’uscita del ricovero, quel giorno?”
“Sarà stato mezzogiorno, o primo pomeriggio,
nun saccio di’, ce stava ‘o sole, da due ore
schiattavamo ‘e calore int’o ricovero.
Sunaie ‘a sirena di cessato allarme, ascèttemo all’aperto,
tossivo per la polvere alzata dalle bombe,
m’abbruciavano gli occhi per la luce potente dopo il buio,
mezzo stordita m’arrivaie ‘nu strillo: “Roma!
Hanno colpito Roma! Hanno menato ‘e bbombe
             ‘ncopp’ o papa”.
E doppo ‘ o strillo ne venette n’ato: “E’ ‘m mumento,
fernesce ‘a guerra, mo’ fernesce ‘a guerra”.
La gente usciva dai ricoveri scunfusa, stupetiata,
e tutt’insieme dietro a quello strillo
s’abbracciava, chiagneva, alzava ‘e manne ‘o cielo.
“Fernesce ‘a guerra” e : “Roma bombardata” erano ‘o stesso strillo.
E a me, che manco me pareva overo che puteva fini’,
si gelò il sangue a vedere quella festa
perché Roma era stata bombardata.
Noi che sapevamo che malora era,
ce mettevamo a fa’ chell’ammuìna?
Che t’aggia di’, ‘a guerra è ‘na carogna
e ‘o fascismo ci aveva incarogniti.
Poi uscì la milizia e tutti quanti ce ne tornammo a casa
a senti’ ‘a radio: Roma era stata bombardata
la mattina, da ‘e pparti d’a stazione, no a san Pietro.

E così fu che cadett’ o fascismo.
o’ rre fece arrestare Mussolini
e ‘a ggente se credeva che ferneva tutte cose,
‘a guerra, ‘a carestia, tornava il pane bianco, veneva ‘a libbertà.
Fuie ‘na fantasia, nun era tiempo.
A Napoli finì due mesi dopo, a fine settembre,
‘o popolo s’arrevutaie isso sulo contro i tedeschi,
quattro giorni e tre nottate sane,
al buio in mezzo agli spari, pieni di volontà,
quattro giornate per levarsi gli schiaffi dalla faccia.
Finché non se ne uscirono i tedeschi,
entrarono i guagliuni americani, figli ‘e napoletani d’oltremare.
Cominciò quel po’ di gioventù che mi avanzava.
Mi so’ sposata nel ’46, perciò la gioventù durò tre anni.

E di tutto il fascismo mi rimane il peggio di quell’ora
di festa per Roma bombardata.
Anche se in quella polvere di luglio, ‘ calore, ‘o sudore,
non mi sono abbracciata con nessuno,
è per la gente mia che mi dispiace.
Allora fu normale, perciò chist’è ‘o fascismo pe’ mme,
la fetenzia che ci ha portato a quello, di applaudire.
Ti parlo de ‘sti ccose addolorate pecché tu saie senti’,
ma nun pozzo permettere a nisciuno di voi venuti dopo
di giudicare Napoli in quell’ora, 
pecché ‘o fascismo vuie nun ‘o ssapite”.

                             L’Estate del ’43.   ERRI DE LUCA, “L’ospite incallito”  -Einaudi Editore-

Haret Hreik_Beirut_settembre 2006

Beirut, Libano. Quartiere sciita di Haret Hreik, dopo i bombardamenti israeliani Settembre 2006. Foto di Valentina Perniciaro

Napoli, primavera 2006 Foto di Valentina Perniciaro

Napoli, passeggiando nei vicoli del centro. Foto di Valentina Perniciaro

E’ morto Mahmud Darwish.

9 agosto 2008 Lascia un commento

LEGGI: L’altra metà dell’arancia
Scrivo per mostrare la mia esistenza

Potete legarmi mani e piedi

Togliermi il quaderno e le sigarette

Riempirmi la bocca di terra:

La poesia e’ sangue del mio cuore vivo

sale del mio pane, luce nei miei occhi.

Sara’ scritta con le unghie, lo sguardo e il ferro,

la cantero’ nella cella della mia prigione,

al bagno,

nella stalla,

sotto la sferza,

tra I ceppi

nello spasimo delle catene.

Ho dentro di me un milione d’usignoli

Per cantare la mia canzone di lotta.

E’ morto il poeta Mahmud Darwish. E’ morto poco fa, a Ramallah, un uomo che aveva il potere di far profumare i versi di gelsomino e resistenza. Un resistente, un dolce poeta, un uomo innamorato della sua terra, grande cantore, ultimo romantico di quella striscia di terra fertile e dilaniata. Nato ad Akka nel 1941, pochi anni prima la Nakba, pochi anni prima che la grande tragedia si abbattesse sulla Terra delle arance e degli ulivi.

Allah ma’ek usthad … addio grande maestro, che il suolo di Palestina ti sia dolce letto.
Che almeno ora tu possa rimangiare quelle arance…
PALESTINA LIBERA! PALESTINA ROSSA!

Palestina, Betlemme,Campo profughi di Dheishe -Marzo 2002- Funerale di un ragazzo morto a causa delle ustioni causate da un missile che ha colpito la macchina dove viaggiava.Foto di Valentina Perniciaro 

Ho scritto sulla mia agenda:

amo l’arancio e odio il porto,

 ho aggiunto sulla mia agenda:

al porto mi fermai 

la vita aveva occhi d’inverno,

avevamo le bucce dell’arancio 

e dietro di me la sabbia era infinita!

 

Giuro, tesserò per te

un fazzoletto di ciglia

scolpirò poesie per i tuoi occhi

con parole più dolce del miele

scriverò “sei palestinese e lo rimarrai”

 

Palestinesi sono i tuoi occhi,

il tuo tatuaggio

Palestinesi sono il tuo nome,

i tuoi sogni

i tuoi pensieri e il tuo fazzoletto.

 Palestinesi sono i tuoi piedi,

la tua forma

le tue parole e la tua voce.

                                                  Palestinese   vivi,   palestinese   morirai.

LO STATO SI ASSOLVE.

15 luglio 2008 Lascia un commento

A CHI PARLA DI CERTEZZA DELLA PENA.
A TUTTI QUESTI GIUSTIZIERI VAGANTI CHE CHIEDONO CARCERE PER TUTTI.
HANNO DATO 1 ANNO E 2 MESI A CHI STRAPPAVA PIERCING!
QUESTO E’ IL NOSTRO PAESE: QUESTA E’ LA PROVA CHE PAGA SEMPRE UNA PARTE SOLA.
PAGA CARO, PAGA ETERNAMENTE.

 

MA ANCHE LA NOSTRA MEMORIA E’ ETERNA.
LA MEMORIA DI TUTTO IL PROLETARIATO E’ ETERNA, AL CONTRARIO DELLA PAZIENZA! 

http://www.repubblica.it/speciale/2008/bolzaneto/index.html
QUI SOTTO VI COPIO IL TUTTO; MA NON CREDO VERRA’ LEGGIBILE 

IMPUTATOINCARICOREATORICHIESTA PMSENTENZA
Antonio Biagio Gugliotta
ispettore della polizia penitenziaria abuso d' ufficio, abuso di autorita' contro i detenuti o arrestati, lesioni personali, percosse, ingiurie 5 anni, 8 mesi e 5 giorni di reclusione e interdizione perpetua dai pubblici uffici 5 anni di reclusione
Massimo Luigi Pigozzi
assistente capo della Polizia di Stato lesioni personali gravi 3 anni e 11 mesi3 anni e 2 mesi di reclusione
Alessandro Perugini
vicedirigente Digos questura di Genova abuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti3 anni e 6 mesi e interdizione temporanea 2 anni e 4 mesi di reclusione
Anna Poggi
commissario capo della polizia di Statoabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti3 anni e 6 mesi e interdizione temporanea2 anni e 4 mesi di reclusione Oronzo Doriacolonnello polizia penitenziariaabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti3 anni e 6 mesi di reclusione assolto Ernesto Ciminocapitano del disciolto corpo degli agenti di custodiaabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti3 anni e 6 mesi di reclusione assolto Cap. Bruno Pellicciacomandante del personale del Servizio Centrale Traduzioni della Poliziaabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti3 anni e 6 mesi di reclusione assolto Franco Valerioispettore superiore della polizia di Statoabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti1 anno e 3 mesi di reclusione assolto Daniela Maidaispettore superiore della polizia di Statoabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti2 anni e 6 mesi di reclusione1 anno e 6 mesi di reclusione Gianmarco Brainicomandante del contingente dei carabinieri del 9° Battaglione Sardegna, addetto al servizio di vigilanza della camere di sicurezzaabuso di autorita' su detenuti o arrestati, percosse, lesioni personali2 anni e 9 mesi di reclusioneassoltoPiermatteo Baruccosottotenente dei carabinieriabuso di autorita' su detenuti o arrestati, percosse, lesioni personali2 anni e 6 mesi di reclusioneassoltoAldo Tarascioispettori o sovrintendenti della Polizia di Statoabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutida un anno a nove mesi di reclusione assolto Antonello Taluispettori o sovrintendenti della Polizia di Stato abuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutida un anno a nove mesi di reclusione assolto Matilde Areccoispettori o sovrintendenti della Polizia di Stato abuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutida un anno a nove mesi di reclusione1 anno di reclusione Natale Parisiispettori o sovrintendenti della Polizia di Stato abuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutida un anno a nove mesi di reclusione1 anno di reclusione Mario Turcoispettori o sovrintendenti della Polizia di Statoabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutida un anno a nove mesi di reclusione1 anno di reclusione Paolo Ubaldiispettori o sovrintendenti della Polizia di Statoabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutida un anno a nove mesi di reclusione1 anno di reclusione Maurizio Piscitellicarabiniereabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutida 1 anno a 1 anno e 3 mesi di reclusione assolto Antonio Gavino Multinedducarabiniereabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutida 1 anno a 1 anno e 3 mesi di reclusione assolto Giovanni Russocarabiniereabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutida 1 anno a 1 anno e 3 mesi di reclusione assolto Corrado Furcascarabiniereabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutida 1 anno a 1 anno e 3 mesi di reclusione assolto Giuseppe Serronicarabiniereabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutida 1 anno a 1 anno e 3 mesi di reclusione assolto Mario Foniciellocarabiniereabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutida 1 anno a 1 anno e 3 mesi di reclusione assolto Reinhard Avoledocarabiniereabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutida 1 anno a 1 anno e 3 mesi di reclusione assolto Giovanni Pintuscarabiniereabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutida 1 anno a 1 anno e 3 mesi di reclusione assolto Pietro Romeocarabiniereabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutida 1 anno a 1 anno e 3 mesi di reclusione assolto Ignazio Muracarabiniereabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutida 1 anno a 1 anno e 3 mesi di reclusione assolto Diana Mancinipoliziotto o agente di polizia penitenziariaabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti6 mesi di reclusioneassolto Massimo Salomonepoliziotto o agente di polizia penitenziariaabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti7 mesi di reclusioneassolto Gaetano Antonello poliziotto o agente di polizia penitenziariaabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti1 anno e 4 mesi di reclusione1 anno e 3 mesi di reclusione Barbara Amadei poliziotto o agente di polizia penitenziariaabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti10 mesi e 20 giorni di reclusione9 mesi di reclusione Daniela Cerasuolo poliziotto o agente di polizia penitenziariaabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti8 mesi di reclusioneassolto Alfredo Incoronato poliziotto o agente di polizia penitenziariaabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti1 anno di reclusione1 anno di reclusione Giuliano Patrizi poliziotto o agente di polizia penitenziariaabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti7 mesi di reclusione5 mesi di reclusione Francesco Paolo Baldassarre Tolomeopoliziotto o agente di polizia penitenziariaabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti9 mesi di reclusione assolto Egidio Nurchispoliziotto o agente di polizia penitenziariaabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti9 mesi di reclusione assolto Marcello Mulas poliziotto o agente di polizia penitenziariaabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti9 mesi di reclusione assolto Giovanni Amoroso poliziotto o agente di polizia penitenziariaabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti9 mesi di reclusione assolto Michele Sabia Colucci poliziotto o agente di polizia penitenziariaabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti9 mesi di reclusione assolto Giuseppe Fornasiereufficiale di polizia penitenziaria abuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti assolto Giacomo Toccafondi medico abuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti2 anni e 3 mesi di reclusione1 anno e 2 mesi di reclusione Aldo Amentamedicoabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutirichieste di pene variabili da 3 anni, 6 mesi e 25 giorni a 2 anni e 3 mesi di reclusione10 mesi di reclusione Adrana Mazzolenimedicoabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutirichieste di pene variabili da 3 anni, 6 mesi e 25 giorni a 2 anni e 3 mesi di reclusioneassolto Sonia Sciandramedicoabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenutirichieste di pene variabili da 3 anni, 6 mesi e 25 giorni a 2 anni e 3 mesi di reclusioneassolto Marilena Zaccardimedicoabuso d'ufficio e abuso di autorita' contro arrestati o detenuti richieste di pene variabili da 3 anni, 6 mesi e 25 giorni a 2 anni e 3 mesi di reclusione assolto    Foto di Valentina Perniciaro Genova, G-8 2001, Piazzale kennedy, 20 luglio  

Libano: riattraversare un confine

12 luglio 2008 2 commenti

Libano – 10.7.2008
Riattraversare un confine
Due anni dopo l’attacco israeliano, Beirut racconta le sue ferite
 

foto e testo di
Valentina Perniciaro
Non è facile riattraversare un confine di un paese che ti è entrato nell’anima, sapendolo polverizzato. Già dalla frontiera tra Siria e Libano, malgrado la guerra fosse finita da una ventina di giorni, si capiva che aveva mutato ogni profilo: colonne di camion carichi di scorte alimentari, fermi da settimane sotto il caldo sole di un’estate mediorientale; famiglie incolonnate che rientravano nel paese dei cedri dopo essere state rifugiate a Damasco per settimane.
Varcare il confine è stato scoprire la polvere. Scoprire come è facile trasformare infrastrutture, palazzi, strade e piste di atterraggio in polvere e come è impossibile far la stessa cosa con un popolo intenzionato a resistere. Strade sconosciute mi hanno portato a Beirut, parallele alle già percorse autostrade ora bombardate, ai ponti che giacevano al suolo, quasi intatti, come se ci fossero stati poggiati da enormi mani.
Beirut, come sempre, appare all’improvviso, quando abbandoni le montagne per scendere verso il mare… appare elegante, avvolta nella sua umidità e nella sua nuova nuvola di polvere. Una polvere irrespirabile, sottile, capace di insinuarsi e lacerare ogni respiro, di affaticare il passo, di infastidire lo sguardo. Beirut è una città di contraddizioni lancinanti e poco velate. Beirut è una città dalle tante facce, occidentale, ricca, laica…la città delle belle donne, delle macchine di lusso, dei locali sul lungomare, delle enormi piscine, dell’ostentazione del lusso: Beirut in alcuni punti ha il sapore della Florida con gli odori d’Oriente. Ma Beirut è anche case distrutte da vent’anni di guerra civile, è una città estremamente religiosa, divisa, sofferente; una città dove le periferie si incastrano ai campi profughi palestinesi, dove l’odio può esplodere letale in ogni momento.
Dopo la sua sesta guerra Beirut appare ancora più avvolta dalle sue contraddizioni, che scompaiono rapide quando il panorama si fa avvolgere da quella polvere dal sapore di morte. Appena si scende verso Chatila, sulla martoriata strada per l’aeroporto internazionale e si arriva ai quartieri sciiti, ci si dimentica subito della lussuosa downtown. Haret Hreik, quartiere sciita e roccaforta Hizballah dona un benvenuto struggente. Un quartiere di periferia dagli enormi palazzi, ridotti in polvere. Tutto è in movimento, la ricostruzione gestita dal “Partito di Dio”è inarrestabile. Cumuli di macerie vengono spostati verso il mare, mura vengono definitivamente abbattute e velocemente ricostruite, la popolazione è tutta a lavoro o a far andare avanti le attività lavorative come se nulla fosse passato sui loro cieli. Tra le strade di questa periferia dalle donne nere, si inizia a respirare la forza della resistenza, più potente di quella polvere letale che invano ha provato a coprire, a piegare, a sciogliere.
La sposa di Beirut mi ha insegnato a sopportare quell’odore, quell’orrore.
Sospeso tra l’esser donna immago e resistente, quel manichino mi è apparso il simbolo di quello che avevo davanti e che non sapevo descrivere nè spiegarmi. Lei sembrava conoscere la strada per riprendere un respiro normale, lei sembrava sorridere a quella polvere puzzolente: era lì a dirci che non solo si doveva andare avanti, ma bisognava farlo con la sua eleganza, con quella bellezza che malgrado tutto riusciva a trasmettere solo serenità. La sposa di Beirut, sembrava coronare il suo amore su quel cemento sbriciolato, la sposa di Beirut appariva capace di coprire quei rumori con un canto di lotta e d’amore, di insegnare a quelle donne velate la bellezza del suo viso scoperto, di reagire allo stupro di quella terra. Sapeva di speranza, di ribellione, di poetica ed immortale bellezza. Mentre la ricca Beirut beveva cocktail in riva al mare, mentre faceva jogging per tenersi in forma, i quartieri sciiti urlavano di dolore e d’odio. Muovono macerie, allattano bambini, sorridono e faticano sapendo che non sarà l’ultima volta, che dovranno insegnare la stessa cosa ai loro bei bimbi.
A ricostruire continuamente, a non arrendersi, ad amare la propria terra e i rifugiati che in essa sono ospitati da decenni, ad odiare quello che cade dal cielo, quelle bombe cieche sporche sempre dello stesso sangue.

 

http://www.peacereporter.org/dettaglio_articolo.php?idc=0&idart=11602
PER LA GALLERIA FOTOGRAFICA INVECE:
http://www.peacereporter.org/default.php basta cliccare in basso sul link blu!

Memoria vs. dimenticanza

11 luglio 2008 Lascia un commento

chiedono pure i danni!

30 giugno 2008 1 commento

SPOLETO – Quattro operai morti sul lavoro ed un’azienda che, a distanza di oltre due anni dal drammatico incidente, chiede ai parenti delle vittime, e all’unico superstite, trentacinque milioni di euro, come risarcimento danni. Tanto pretende la Umbria Olii dai familiari di Tullio Mocchini, Giuseppe Coletti, Wladimir Toder e Maurizio Manili. Trentacinque milioni richiesti a fratelli, figli e genitori.
L’atto legale porta la firma dell’amministratore delegato della società, Giorgio Del Papa, indagato dal giorno seguente la tragedia. Le accuse per il manager sono di disastro colposo con l’aggravante “della colpa con previsione dell’evento”, violazione delle norme sulla sicurezza (tra cui l’omissione dolosa dei mezzi di prevenzione) e omicidio colposo plurimo. Secondo la procura di Spoleto, Del Papa sapeva che c’era gas esplosivo (del tipo esano, molto pericoloso) nei silos saltati in aria. E proprio quel gas, per la procura, è la causa di tutto. Per Del Papa, invece, la colpa dell’incidente è da attribuire agli operai.

I quattro, lavoravano per conto di una piccola ditta, che aveva l’appalto per lavori di manutenzione di questo colosso europeo della raffinazione dei prodotti vegetali. Secondo l’azienda, gli operai che quel giorno stavano lavorando all’installazione di una passerella per collegare due silos, avrebbero dovuto sapere che le fiamme ossidriche non potevano essere utilizzate in quell’intervento. E proprio l’uso di un saldatore sarebbe stata la causa, per la difesa, dello scoppio del silos. I quattro saltarono in aria. Dilaniati e carbonizzati. Una tragedia che nel novembre del 2006 scosse l’opinione pubblica, è poi divenuta un vicenda giudiziaria a colpi di perizie.
Da un lato le 250 pagine dei periti della procura (alcuni dei quali gli stessi intervenuti per la vicenda della Thyssen), dove si sostiene la responsabilità della Umbria Olii e la causa scatenante del gas esano. Dall’altra una perizia richiesta dall’azienda al tribunale civile, e affidata ad un consulente locale che riscontra come causa dell’incidente l’uso del saldatore. In quest’ultima perizia si sostiene che pur in presenza del gas esplosivo, se non ci fosse stato l’innesco della fiamma, lo scoppio non si sarebbe mai prodotto. Un errore, scrive il perito, commesso dagli operai “per fretta e stanchezza”.


“Se la giustizia consente questo, cos’altro può succedere?” commenta sconsolato, Klaudio Demiri, unico superstite, che al momento dello scoppio era fortunatamente a bordo di una gru. Lui, ancora oggi, vive nell’incubo di quelle tremende sequenze di inferno e fuoco.
Intanto, l’11 luglio il giudice penale deciderà se disporre o meno il processo per Del Papa. A gennaio è fissata l’udienza civile per discutere del risarcimento. Il professor Giovanni Cerquetti, docente di diritto penale generale alla facoltà di giurisprudenza di Perugia, e legale di uno dei familiari delle vittime, parla di “azione irrituale e comunque infondata. Un caso singolarissimo, con azioni civili che espongono chi le ha promosse a quella che il codice di procedura civile definisce come “responsabilità aggravata per lite temeraria”.

MERDE SCHIFOSE!
OLTRE AD UCCIDERCI I PADRONI CHIEDONO I DANNI!

Genova, piazzale kennedy

Fionde contro il potere. Genova, Piazzale Kennedy 20 Luglio 2001, Foto di Valentina Perniciaro

I cani del Sinai

18 giugno 2008 3 commenti

Fare il cane del Sinai pare sia stata una locuzione dialettale dei nomadi che un tempo percorsero il deserto altopiano di El Tih, a nord del monte Sinai. Variamente interpretata dagli studiosi, il suo significato oscilla tra correre in aiuto del vincitore,stare dalla parte dei padroni, esibire nobili sentimenti.
Sul Sinai non ci sono cani.

Dalla fine della guerra portavo, di mio padre ebreo e del mio segno di circonciso, una interpretazione che oggi comincio a intendere peggio che parziale, pigra come lo schema fascismo-antifascismo in cui si era disposta. I casi personali erano stati bruciati dall’enormità  della vicenda d’allora. 
In pratica -nella pratica della pigrizia- avevo accettato l’assurda idea che ebraismo, antifascismo, resistenza, socialismo fossero realtà contigue. Come ci si può ingannare! 

Era accaduto che l’ebraismo fosse inseparabile da una persecuzione immensa e non ancora del tutto esplorata: testa di Medusa per chiunque. Era parsa riassumere qualsiasi altra persecuzione, qualsiasi altro strazio e quindi di perdere la sua specificità.
I difensori del pensiero democratico-razionalista avevano visto negli ebrei un universale, incarnazione di quanto l’uomo potesse avere di più caro, la tolleranza, la non violenza, l’amore della tradizione, la razionalità. Questo errore non era innocente.

[…]
Quanto più la piccola borghesia tradizionale s’è venuta identificando con gli addetti al Terziario e ha incluso larga parte della classe operaia, l’Uomo Ad Una Dimensione ha dovuto crearsi di necessità passioni, nazioni, devozioni, lealtà fittizie. L’antisemitismo sparisce moltiplicandosi. La frase “si è sempre l’ebreo di qualcuno” diventa vera alla lettera. Più che naturale che gli Israeliani – o meglio: coloro che ne controllano l’opinione- abbiano fatto ricorso all’onore della persecuzione storica come elemento potente di passioni ed orgogli patriottici: non solo nel nostro inno nazionale si dice popoli, per secoli, calpesti e derisi. 

Altrettanto naturale ma molto più grave che – a quanto capita di udire e leggere- l’unione sacra tra i partiti si compia di necessità oscurando la rilevanza dei legami internazionali di Israele, insomma il compito politico che Stati Uniti ed Inghilterra sembrano aver assegnato a quel paese. 
Quella oscurità , quella mancanza di chiarezza, peggio, quella chiarezza respinta e rimossa da un sacro egoismo (quante volte torna il sacro nella lingua morta del nazionalismo) in una non necessaria penombra, radicherà forse nella cultura israeliana un male peggiore (perchè difensivo, giustificatorio) di quello delle euforie militaresche e guerriere.

Molti ebrei-europei e molti italiani-europei amici degli ebrei si sono lasciati sorprendere nel sonno del loro vecchio antifascismo. Dovranno ripensare alla propria giovinezza e giudicarla. Il limite e lo scandalo sono sorti dall’incontro con le masse immense che non possono nè vogliono assimilarsi nè arruolarsi fra i tirailleurs sénégalais, i gurka, i rangers dei petrolieri o della Cia.

___FRANCO FORTINI: I Cani del Sinai___

Questi alcuni tratti di un capolavoro contro quanti amano correre in soccorso dei vincitori.
Il più grande intellettuale italiano contemporaneo, ebreo, analizza lo Stato ebraico di Israele pochi giorni dopo la fine della Guerra dei 6 Giorni,
iniziata il 6 giugno 1967 

Dheishe, prima notte di coprifuoco 

 

Dheishe_ il risveglio

Foto di Valentina Perniciaro:
Campo Profughi di Dheishe, Betlemme, West Bank, Palestina.
Marzo 2002. Un piccolo spaccato di guerra permanente, di guerra
d'occupazione, di apartheid.
Foto 1: Prima notte di coprifuoco
Foto 2: Il risveglio e la devastazione  

ya Beirut!

16 giugno 2008 Lascia un commento

Scrivere di te mi viene naturale e lacerante allo stesso tempo.
Di te, che ti parlo come fossi una persona, come avessi uno sguardo.
Scrivere dello stupro della terra libanese assomiglia al parlare con un amore astratto.

 

Ma quella polvere mi è entrata nei polmoni e non riesce più ad uscirne,
quell’odore disperato m’è entrato nell’anima e accresce l’odio innato.
Mi piacerebbe passeggiare tra i tuoi sguardi, mi piacerebbe assaggiare ancora
i tuoi sapori…stringendo a me quelle mani sublimi, che mi fanno sognare.

Si, mi piacerebbe passeggiare con te per le terre che m’han rapito gli occhi.
Mi piacerebbe insegnarti quei suoni come stai facendo tu con me.
Mi piacerebbe poter volare via, poter avere il nulla sotto i piedi
e non questo cemento, queste strade, queste mura.
Mi piacerebbe tornare nei posti che ho amato, mi piacerebbe scoprirne milioni.

 

“ti amo come se sorvolassi il mare per la prima volta”  -N.Hikmet-

Foto di Valentina Perniciaro.
Settembre 2006. Beirut, Libano.
Quartiere sciita di haret Hreik, roccaforte Hizballah
raso al suolo dai bombardamenti israeliani 

 

Si muore nel fango

12 giugno 2008 1 commento

 

Si muore nel fango, si muore schiacciati, si muore avvelenati.
Nessuno è mai responsabile, nessuno ha mai pagato per queste morti.
Tutti spendono molte parole di esecrazione e di condanna, si cercano le cause della tragedia; imprenditori, governo e sindacati si dichiarano costernati.
Ma intanto, nei fatti e non colle parole, l’Unione Europea deregolamenta l’orario di lavoro e così, grazie alla nuova normativa si potrà cancellare ogni forma di contrattazione collettiva, sostituita da rapporti di lavoro individuali, come sogna la CONFINDUSTRIA 
Sarà ancora più facile morire nelle fabbriche, nei cantieri, nei campi o in fondo ad un un pozzo, avvelenati come topi.
Liberalizzare l’orario di lavoro è un crimine, una istigazione a delinquere; cosi come si moriva nell’ottocento così si muore nel duemila: almeno risparmiateci l’ipocrisia delle lacrime per gli ultimi omicidi, come quello degli operai siciliani uccisi dalle esalazioni tossiche dentro una vasca di depurazione.
La domanda è solo una: esistono forze sindacali, sociali, civili e culturali in grado di dare un segno di vita, di battere un colpo, per difendere una conquista di civiltà ? 
I movimenti di base si mobilitano puntualmente e giustamente contro il razzismo e contro il fascismo, per il diritto al lavoro e per il diritto all’abitare, contro le guerre, in difesa della diversità.
Sarebbe ora di mobilitarsi e incazzarsi con la stessa intensità e puntualità anche per la strage giornaliera di lavoratori, per far diventare la tutela della salute e della vita dei lavoratori il problema centrale del conflitto.  

COMITATONOMORTILAVORO
ROMA 12/06/08

Foto di Valentina Perniciaro -Produci Consuma Crepa-

Mon Cher Belzébuth

12 giugno 2008 1 commento

Le soleil s’est couvert d’un crêpe. Comme lui,
Ô Lune de ma vie ! emmitoufle-toi d’ombre ;
Dors ou fume à ton gré ; sois muette, sois sombre,
Et plonge tout entière au gouffre de l’Ennui ;

Je t’aime ainsi ! Pourtant, si tu veux aujourd’hui,
Comme un astre éclipsé qui sort de la pénombre,
Te pavaner aux lieux que la Folie encombre,
C’est bien ! Charmant poignard, jaillis de ton étui !

Allume ta prunelle à la flamme des lustres !
Allume le désir dans les regards des rustres !
Tout de toi m’est plaisir, morbide ou pétulant ;

Sois ce que tu voudras, nuit noire, rouge aurore ;
Il n’est pas une fibre en tout mon corps tremblant
Qui ne crie : Ô mon cher Belzébuth, je t’adore !

Charles Baudelaire

Foto di Valentina Perniciaro: Roma, primavera 2006

stanno umiliando il mare

11 giugno 2008 1 commento

 

Siamo noi, siamo in tanti
ci nascondiamo di notte
per paura degli automobilisti
degli attipisti,
siamo i gatti neri, siamo pessimisti, siamo i cattivi pensieri.
E non abbiamo da mangiare
com'è profondo il mare!
com'è profondo il mare!
Babbo che eri un gran cacciatore di quaglie e di faggiani
caccia via queste mosche che non mi fanno dormire e mi fanno arrabbiare
Com'è profondo il mare!
Com'è profondo il mare!
E' inutile non c'è più lavoro, non c'è più decoro
Dio, chi per lui sta cercando di dividerci, di farci del male, di farci annegare
Com'è profondo il mare!
Con la forza di un ricatto un uomo diventò qualcuno, resuscitò anche i morti
spalancò prigioni, passò treni, correnti di vagoni
Rialzò per un attimo il ruolo difficile da mantenere
poi lo lasciò cadere e piangere ed urlare, sommerso in mare
Com'è profondo il mare!
Da solo un urlo diventò un tamburo,
il povero come un lampo nel cielo sicuro cominciò una guerra per conquistare uno spazio di terra,
nel suo cuore voleva coltivare.
Com'è profondo il mare!
Ma la terra gli fu portata via
compresa quella che aveva addosso,
lo scaraventarono in un palazzo in un fosso, non ricordo bene
poi una storia di catene bastonate e chirurgia sperimentale.
Com'è profondo il mare!
Com'è profondo il mare!
Intanto un mistico forse un'aviatore,
inventò la commozione che mise d'accordo tutti,
i belli con i brutti, qualche danni per i brutti che si videro consegnare
un pezzo di specchio così da potersi guardare.
Com'è profondo il mare!
Com'è profondo il mare!
Frattanto i pesci che poi li scegliamo tutti, assistettero curiosi al dramma collettivo di questo mondo
che a loro indubbiamente può sembrare cattivo e cominciavano a pensare...
Com'è profondo il mare!
Com'è profondo il mare!
E' chiaro che il pensiero da fastidio
anche se chi pensa è muto come un pesce
anzi invece un pesce, come i pesci difficili da bloccare
Come protegge il mare!
Com'è profondo il mare!
Il commando non è disposto a fare distinzioni poetiche
il pensiero come l'oceano non lo puoi bloccare, devi accettare... si sta accorciando il mare!
Si stanno uccidendo! Così stanno umiliando il mare! Così stanno piegando il mare!
LUCIO DALLA -Com'è Profondo il Mare-

Catturavi l’attenzione, inevitabilmente.
Con quella città semi-ferma nel tempo, che osservavi distante, distaccata, infinitamente parte di essa.
Catturava l’attenzione quel rosso brillante, quegli occhi profondi,
davanti a quei kilometri infiniti di terra profumata, di terra calda.
Terra di gelsomino, terra che urla la bellezza di un’inesistente libertà,
terra di basalto, di spezie, di  sguardi sequestratori, di bimbi furbetti e resistenti, 
terra che insegna ad innamorarsi.
Terra che insegna a guardare il tempo in altro modo.
Terra che avvolge, che si infila sotto pelle come il più meraviglioso degli amori.
Terra che, da quando amo in questo modo, sento più vicina.

INDECOROSI

7 giugno 2008 1 commento

Indecorosi. Orsi in movimento per il godimento

Da quello che ho sentito è uno dei migliori striscioni, tra i tanti divertentissimi del Gay Pride di oggi, 
che posso seguire solo “radiofonicamente” da una redazione tutta al femminile e pesantemente techno ;-(

PER LA LIBERTA’ SESSUALE,
PER L’AUTODETERMINAZIONE
PER LA LAICITA’

FUORI I PRETI DALLE NOSTRE MUTANDE 

Foto di Valentina Perniciaro  - GAY PRIDE 2007-
Nude man/woman walking

Per ascoltare le corrispondenze http://www.ondarossa.info