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Corteo di quartiere per Scialabba: oggi al Tuscolano, Roma
In corteo oggi, per salutare Roberto Scialabba, come ogni anno, da 35 anni.
CIAO ROBERTO, SANGUE NOSTRO
[Il ricordo di due anni fa: QUI ]
Luca Abbà, un anno dopo quel traliccio
Ad un anno di distanza dallo sgombero della Baita Clarea e dall’incidente che mi ha visto coinvolto con la caduta dal traliccio, mi rivolgo a tutti coloro che mi hanno seguito e sostenuto in questo anno, dicendo che il mio stato di salute è in lento ma continuo miglioramento, anche se, di fatto, questo episodio ha segnato per sempre il corso della mia vita. 
Di ciò posso “ringraziare” le forze dell’ordine presenti quella mattina in Val Clarea, i veri responsabili della mia attuale invalidità che spero sia solo una condizione temporanea.
Ripercorrendo quei momenti grazie ai ricordi e alle diverse testimonianze che mi sono giunte in seguito, ho potuto ricostruire i fatti ed accertare alcune verità che è importante consegnare alla storia perché restino nella memoria collettiva.
Il video girato dalla questura è stato palesemente tagliato e non mostra il momento della folgorazione, con il poliziotto ormai arrivato a pochi metri da me.
Questo agente di Polizia, che grazie agli attivisti di Anonymous ha un nome (Zampieri Andrea, II reparto mobile di Padova), ha avuto la brillante idea di inseguirmi su quel traliccio dove stazionavo tranquillamente a pochi metri d’altezza, costringendomi a salire sempre più in alto per evitare un contatto corpo a corpo.
Dai documenti resi pubblici dagli hacker si scopre che il verbale compilato dal comandante delle truppe quel giorno, Vincenzo Di Gaetano, è pieno di bugie e falsità.
I lavori NON sono stati interrotti neppure di fronte a un momento tragico come quello, in cui nessuno sapeva se io sarei sopravvissuto.
Nonostante un esposto presentato dal mio avvocato, la procura torinese nella persona del PM Ferrando non ha mai indagato per chiarire l’operato della Polizia di Stato in quell’occasione.
Di tutto ciò non mi stupisco, perché è sempre più evidente, a chi lo vuole capire, qual’è la vera natura del potere politico ed economico, che qui a Chiomonte vuole imporre quest’opera e che dovunque devasta i territori e sfrutta le popolazioni.
Sta a noi continuare a resistere, lottando per il nostro presente e per il futuro delle prossime generazioni, auspicando una vita in armonia con la terra nel segno della libertà.
Un esempio di come si possa fare si è visto nei giorni seguiti a quel terribile 27 febbraio, dove tanta passione e ardore hanno unito migliaia di persone sulle barricate in un’unica forza.
Con quella forza e determinazione sono certo vinceremo anche questa battaglia.
Val Clarea, Chiomonte 27 febbraio 2013
Luca Abbà
Applausi del Sap, camper solidali del Cosip: ecco come la polizia si rivendica Aldrovandi
E non venitemi a parlare di mele marce eh! Che nemmeno si riesce a commentarla questa notizia,
tanto è lo schifo che provo per voi,
maledetti assassini di Stato.
(ANSA) – BOLOGNA, 26 FEB – E’ uscito dall’aula del tribunale
di Sorveglianza di Bologna, che deve decidere se disporre il
carcere, tra gli applausi dei colleghi: c’erano una trentina di
appartenenti al Sap (sindacato autonomo di polizia) ad
accompagnare e manifestare vicinanza a Enzo Pontani, ultimo dei
quattro agenti condannati per l’omicidio di Federico Aldrovandi
a dover ancora discutere la propria posizione. Gli altri tre,
Monica Segatto, Luca Pollastri e Paolo Forlani sono in carcere
dopo l’ordinanza del tribunale del 29 gennaio.
Anzi, il Cosip, sindacato indipendente di polizia ha fatto proprio il Camper della solidarietà in difesa dei 4 boia di Aldro. DIcono che dal 2 marzo gireranno per Ferrara (provincia compresa) con il loro bel camper per dimostrare la vicinanza alle “vittime di una campagna d’odio attuata da alcuni contro le forze dell’ordine”.
Il resto delle dichiarazioni nemmeno riesco a riportarle, che è già abbastanza così
Palestina: mobilitazioni per i prigionieri. Nuova intifada?
L’aria che da laggiù arriva ha un odore intensissimo.
Che non è solo quello dei lacrimogeni israeliani, che piovon come riso a fine nozze, ma quello della rivolta.
Dell’Intifada.
Quella capace di scoppiare in ogni vicolo sbilenco di campi profughi, villaggi, città palestinesi,

Foto di Valentina Perniciaro _Il funerale di Ayyat, Dheishe, Palestina 2002_
sotto occupazione israeliana da tanti di quei decenni che in qualunque altro posto al mondo i ricordi della Nakba sarebbero sbiaditi.
Non in Palestina: lì non c’è storia che non è carne, lì non c’è profugo che non chiede ritorno,
lì non c’è ingiustizia alla quale non si resiste, con ogni mezzo a disposizione.
A partire dai propri corpi.
A partire anche dai corpi che più degli altri son prigionieri: rinchiusi nelle carceri israeliane.
La lotta dei prigionieri, il loro sciopero della fame senza possibilità di collaborazione,
la morte di Arafat Jaradat, oggi seppellito a Sair, vicino Hebron, ma morto in una cella del carcere israeliano di Megiddo:
tutto ciò ha riportato una solidarietà e una rabbia nelle strade, ad affrontare la polizia militare e l’esercito,
che non si vedeva da molto tempo, con queste dinamiche e prospettive.
Sembra di respirare veramente aria di una nuova Intifada.
Dal campo profughi di Aida poi, a pochi passi da Betlemme e incastonato nei miei ricordi, la notizia del gravissimo ferimento di un ragazzo di soli 13 anni, Muhammad Khalid al–Kirdi, colpito al torace da una pallottola che l’esercito nega di aver usato. (leggi qui il racconto della giornata ad Aida)
La solita storia, sui soliti giovanissimi corpi resistenti di Palestina.
[sempre sperando che chi prova empatia verso tutto ciò, senta muoversi dentro qualcosa anche per i 1076 morti che ci son stati solo in quest’ultima settimana di mattanza siriana, o per i 100.000 e passa profughi che stanno solo a Zaatari, uno tra i tanti campi ormai esistenti tra Giordania, Libano e Turchia]
Elezioni 2013… di spalle
L’ho trovato il solo commento possibile a questa giornata, dedicato a chi usa il Quarto Stato.
(Oltre a qualche cattiveria su Ingroia già in volo verso il Guatemala) 🙂
Il cantore della prigionia. “Guardò la cella e disse: Ti distruggo”
Inizierò a pubblicare una serie di testi, di provenienze varie, sul carcere.
Per mantenere viva quest’idea di adozione del logo contro l’ergastolo,
per allargarlo ad una critica totale al sistema carcere, alle istituzioni totali tutte.
Adottate il logo contro l’ergastolo che vedete qui accanto: in ogni luogo fisico o virtuale!
Per info o per raccontarci come e perché avete adottato il logo scrivete a portaunfiore@gmail.com .
Passarono alcuni mesi. Niente.
Non succedeva altro che segregazione cellulare. Isolamento assoluto. Detenuti non ne poteva incontrare.
Per nessun motivo. Allo spioncino solo qualche faccia di guardia: per i controlli. O per il cibo.
O per soffiare tra i denti : “Ariaaaa”. Chiese un giorno la posta. Gli dissero che non era arrivata.
Ma lui non ci credette. Disse “Non è vero”. Il sospetto non trovò risposta, rimase seppellito nel silenzio.
“Non è verooo!” gridò. Ma in quel braccio non c’era più nessuno ad ascoltarlo.
Fu quel giorno che senza preavviso qualcosa in lui cominciò a vacillare.
Come se una gigantesca mandria di bisonti stesse per investirlo.
Come se lui stesso fosse sul punto di trasformarsi in bisonte.
Guardò la cella e disse : “Ti distruggo”.
Lo disse cinque volte ma poi non fece niente. Era tutto murato: il letto, il tavolo, lo sgabello, il lavandino, la turca.
La mandria di bisonti scalpitava. Lui si vide, per un attimo, bisonte.
Respirò forte, proprio come gli aveva insegnato un amico. Inspirò come prima di un tuffo.
Quindi si lasciò andare -s’avventò sul bisonte e lo respinse. Era davvero quella la via delle sue mutazioni? Dubitò- quale fosse però non lo sapeva. Non sapeva che fare e che non fare.
Intuirsi cantore non gli richiese soforzo: si sentì cantare.
Onda canora tra gli abissi ostili del silenzio.
Orgia di gorgheggi proteiforme.
Cantava nel silenzio ammutolito, perso in un orgasmo primordiale, ebbro e straripante.
Hapax ritorti trillavano vibranti oltre le frontiere del senso fluidificando note e notazioni.
Spettacolo maestoso d’eruzione di linguaggi mescolati e senza forma. Semplice energia semiotica offerta come dono a timpani inariditi come un deserto da mesi senza pioggia.
Accorsero guardie. Moltissime guardie. Fuori della sua cella s’ammucchiarono.
Lui non sentì nè vide. Cantava.
A perdifiato. A squarciagola. Oppure sottotono, a fil di voce. Cantava.
Tra le guardie qualcuno mormorava: “Sragiona, sragiona…” Ma nessuno si azzardava ad entrare.
Quel canto misterioso e inaudito incuteva timore. Con qule inferno era mai in comunicazione il prigioniero per sputar fuori quella sonora lava?
E quel canto che aveva trasformato anche la sua voce, da quale satanica gola in realtà prorompeva?
Cantò per due ore filate. Poi si lasciò cadere, improvvisamente, come aveva iniziato, sulla branda.
Esausto. Roco. Felice. Liberato. E, senza neppure spogliarsi, s’addormì.
Tratto da “Il bosco di Bistorco” di Curcio, Petrelli, Valentino.
Edizioni Sensibili alle foglie
Testi sull’ergastolo:
– La pena più inutile
– Adotta il logo contro l’ergastolo!!
– L’ergastolo e le farfalle
– Un fiore ai 47 corpi
– Aboliamo l’ergastolo
– Gli stati modificati della/nella reclusione
– Il cantore della prigionia
– Piccoli passi nel carcere di Santo Stefano, contro l’ergastolo
– La lettera scarlatta e la libertà condizionale
– Perpetuitè
Iniziativa a Milano il 27 Maggio: Qui le info
Sfrattato, dalla finestra del bagno: oggi a Centocelle, Roma
Per ora solo dei brevi lanci di agenzia, e vista l’aria che tira in questo paese non è detto che con il passare delle ore avremo molti dettagli.
Perché interessa poco, soprattutto nel giorno ultimo di queste elezioni, cosa avviene in un appartamento subaffittato, a Centocelle, ad un gruppo di ragazzi provenienti dal Bangladesh.
Uno sfratto “autorganizzato” a quanto pare…perché all’arrivo dei carabinieri si era già concluso:
semplicemente con l’irruzione dei titolari del contratto d’affitto, poi subaffittato irregolarmente ai migranti, che, aprendo la finestra hanno lanciato di sotto uno degli abitanti dell’immobile,
che è ancora vivo, anche se ricoverato in gravi condizioni con molte fratture agli arti e al bacino.
Sono stati arrestati tre italianissimi* personaggi: la donna titolare del contratto d’affitto e due uomini, tra cui suo figlio.
Leggere la dinamica dei fatti lascia senza parole:
lo sfratto doveva avvenire con bastoni alla mano, ma quando uno dei sei che abitavano nell’appartamento si è rifugiato nel bagno sono entrati e lo hanno scaraventato giù, dal secondo piano.
*ORE 12.30: mo pare che gli arrestati non sono italiane ma connazionali della vittima.
Tutto il contrario di quello letto fino ad ora. Anche il Messaggero ha cambiato la notizia solo pochi minuti fa.
Certo che sti giornalisti lavorano bene: i fatti sono di questa notte, per tutta la mattina una versione e poi alla mezza cambia tutto.
Bho, seguono aggiornamenti.
Belgio: pestato a morte,dallo Stato
Nel post precedente sui detenuti italiani torturati in carcere dopo 30 anni dall’arresto e dalle torture subite ed accertate parlavo della specificità e dell’accanimento tutto italiano mosso per tre decenni su quei corpi.
L’oblio sulle torture compiute e quindi l’impossibilità di accedere a percorsi di cura in grado di permettere ai torturati di superare i traumi che certi tipi di sevizie tatuano nella psiche e nel corpo:
è una storia tutta italiana.
Vomitevole.
Non lo sono però i pestaggi,
quell’altra forma di tortura (non scientifica, non calcolata in ogni suo gesto, non compiuta per estorcere informazioni, non mossa da apparati speciali e appositamente costruiti) che quotidianamente avviene nelle nostre caserme, o celle di sicurezza dei tribunali, delle carceri, degli Opg, dei CIE.
Questa tortura costante, compiuta sui corpi dei più deboli e degli “ultimi” della società non è una nostra specificità, perché basta guardare questo video per capirlo.
E’ il civilissimo Belgio,
e quell’uomo completamente nudo, che vedete in un ultimo tentativo di difesa, è morto poco dopo, per un’emorragia interna dovuta allo spappolamento del fegato sotto i colpi di quei cosi in divisa.
Uno “psichiatrico” da punire per il suo comportamento : la sua reclusione nell’ospedale psichiatrico era appena mutata.
Trasferito da poco per atteggiamento troppo violento in un normale carcere, era in attesa di una visita medica e quindi di calmanti: questa la cura che l’amministrazione penitenziaria belga ha pensato di passare all’uomo.
Il medico l’ha trovato morto.
Aveva 26 anni, si chiamava Jonathan Jacob.
Non mi venite a parlare di mele marce, mai.
La violenza è di Stato, qualunque esso sia.
A.C.A.B.
Fuori i torturati dalle galere: ORA!
Se c’è un motivo per cui da anni scrivo, leggo, ricerco materiale sulla tortura,
è perchè sento la necessità viscerale di buttarli fuori.
In Italia la tortura s’è mossa con mano pesante sui corpi dei militanti della lotta armata, dalla fine degli anni ’70 al 1982, maledetto anno cileno:
elettrodi attaccati al pene, manganelli nelle vagine, capezzoli tirati con pinze, la scientifica e ripetuta tortura dell’acqua e sale,
denominata dagli statunitensi waterboarding, finte esecuzioni e tanto altro…
questo è stato il nosto paese, che ha costruito un apparato specializzato, che correva qua e là per lo stivale ad improntare sale di tortura, tavolacci da boia, preordinati e decisi dai più alti apparati di Stato.
Nomi ormai noti, nomi che hanno fatto la loro splendida e medagliata carriera, fino a giungere, come Oscar Fioriolli a dirigere la Scuola di Formazione per la Tutela dell’Ordine Pubblico: quasi una barzelletta della storia (proprio colui che si occupò di “quel manganello”)
Dicevo,
se c’è un motivo che in tutti questi anni ha alimentato il mio bisogno di inchiestare i loro elettrodi e la catena di quei nomi,
è che ci son dei compagni, dei corpi di uomini e donne,
che vivono ancora reclusi (alcuni senza aver nemmeno mai fruito di un permesso).
Parliamo di una carcerazione iniziata così, con i trattamenti più atroci che l’essere umano possa immaginare, e MAI TERMINATA.
Da più, molto più di trent’anni ormai.
Ho letto molti testi, incontrato medici,
imparato quanto lavoro si deve fare sulle menti e i corpi di chi ha subito la tortura per riuscirsi a riappropriare di sè stessi,
di un minimo di tranquillità nel toccare il proprio corpo,
o nell’abbandonarsi al sonno.
Tonnellate di studi, di pagine, di centri internazionali di riabilitazione per torturati, per uomini e donne che hanno il diritto di riprender la propria esistenza nelle mani, dai più minimi gesti.
NOI IN ITALIA SIAMO ALTRO A QUANTO PARE.
Noi i nostri torturati li teniamo in cella.
Noi i nostri torturati non li curiamo.
Noi non li facciamo accedere a nessun percorso riabilitativo, liberatorio, collettivo.
No.
Li teniamo chiusi, a scontare l’eternità del carcere e di corpi abusati.
Per quello penso sia NECESSARIO parlare di tortura,
conoscere i racconti di chi ha subito il waterboarding dalla voce stessa, rotta, da chi l’ha subito,
per quello dobbiamo seguire puntando tutti i fari a disposizione il tentativo che alcuni avvocati stanno facendo per “riaprire il processo Triaca” che altro non significa che eliminare la condanna (da lui totalmente scontata) per calunnia, datagli quando accusò lo Stato delle torture.
Annullare una condanna, e fare in modo che quei nomi siano scritti nero su bianco.
Nero su bianco, torturatore per torturatore.
Dal blog CONTROMAELSTROM
A Copenhagen, a pochi minuti dal centro città, è in funzione il Rehabilitation Centre far Torture Victims, dove si cerca di ricomporre l’unità corpo-mente in chi ha avuto l’esperienza della tortura. Un centinaio di fisio e psicoterapeuti cerca di restituire innanzitutto un corpo ai propri pazienti:
«Quasi sempre le vittime, per sopportare il dolore, hanno dovuto negare l’esistenza del proprio corpo».
Alcuni pazienti, alla richiesta di rilassare i muscoli, reagiscono sopprimendo completamente ogni capacità di avvertire sensazioni fisiche. Si tratta dello stesso espediente che avevano già adottato in carcere per resistere agli aguzzini, espediente che nel Centro di riabilitazione finisce per ostacolare ogni terapia:
«È stato molto difficile restituire a quegli uomini il senso di possedere un corpo. Di volerlo toccare. Di volerne sentire le reazioni».
Non deve suonare strambo se un capitolo sugli effetti del carcere viene concluso con alcuni cenni sulla tortura. Quest’ultima non ha come semplice oggetto il corpo, ma usa il corpo come tramite materiale che conduce alla distruzione della psiche. Non ha come obiettivo quello di costringere il detenuto alla confessione, ma quello di annichilirlo, negarne sensibilità e qualità umane.
La tortura rappresenta una forma di antiterapia: mira a spezzare l’unità della persona. Ma come mai non suscita poi tanta indignazione? Forse perché viene avvertita come una pratica ortodossa in un mondo dove manipolazione, correzionalità di massa e terapia per normali costituiscono prassi quotidiana. Non viviamo nell’era che ha sostituito il maquillage con la protesi, nell’era della chirurgia estetica, della manipolazione dell’aspetto, dell’intelligenza, dei geni? Distruzione e manipolazione stanno a tortura e carcere come in una equazione a variabili incrociate.
Il carcere, nella migliore delle ipotesi è chirurgia morale che, nelle parole di Nietzsche, non può migliorare l’uomo, può ammansirlo; ci sarebbe da temere se rendesse vendicativi, malvagi, «ma fortunatamente il più delle volte rende stupidi».
Lévi-Strauss, nel classificare i diversi principi ispiratori della sanzione, considera da un lato le società che ingeriscono il corpo del deviante, dall’altro quelle che lo espellono, lo vomitano. Nel nostro contesto non vi è né antropofagia né il suo contrario, antropoemia, ma ortopedia, correzione del corpo e della mente attraverso la loro separazione. Gli operatori dell’istituto di Copenhagen ne sono consapevoli: compiono un lavoro di restauro, cercando di riunire con la dolcezza le due entità separate dall’afflizione.
Da Il carcere immateriale di Ermanno Gallo e Vincenzo Ruggiero, Edizioni Sonda, 1989, pagg. 103-137.
LINK:
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis
Un saluto, caldo, a Wilma Monaco
Wilma fa parte di quei morti che in pochi ricordiamo,
Wilma è morta in un’azione armata e quindi è seppellita dall’oblio che avvolge quegli anni.
Anni immensi, dove centinaia di migliaia di persone in tutto il territorio europeo credevano di poter sovvertire il presente e costruire un nuovo futuro.
Il tessuto sociale in cui son cresciuti coloro che poi hanno deciso di armarsi era un patrimonio immenso di fermenti rivoluzionari poi sventrato dalla storia dei vincitori,
dalla memoria a compartimenti stagni che in questi anni è stata alimentata da troppi.
Wilma, nome di battaglia Roberta, era sangue nostro.
In ogni sua scelta…
Ciao Wilma!
“Un ferale alfabeto si snoda la mattina del 21 febbraio 1986 a Roma, sull’asfalto di via della Farnesina. Come in un’agghiacciante partita di Scarabeo i cartellini della Polizia scientifica mettono in fila, uno dopo l’altro, i tasselli dell’orrore.
La lettera A è il corpo di una giovane. Con il volto verso il suolo. I quotidiani indugiano sui particolari dell’abbigliamento. Quasi che il mosaico di colori possa rendere meno glaciale la scena. Giaccone e sciarpa viola, borsa di cuoio a tracolla, zuccotto di lana scuro con borchie di metallo, guanti bianchi e neri da sci, stivaletti con la suola di gomma. B, C, D… bossoli, macchie, schegge… H, una pistola calibro 38. L’arma con cui ha sparato Wilma Monaco, militante dell’Unione dei comunisti combattenti (Udcc), formazione armata nata da una scissione delle Brigate rosse. L’organizzazione è alle prese con una situazione di grave crisi. Quasi tutti i membri sono in carcere, dilagano i cosiddetti pentiti, i dissociati. Le azioni sono ormai sporadiche. Il clima è pesante. Sono gli anni del craxismo trionfante. La sconfitta, profonda, ha travolto la sinistra, nelle sue rappresentanze storiche. I movimenti operai, studenteschi, femministi, sono rifluiti, i gruppi extraparlamentari dissolti nel nulla. Ma alcuni militanti vogliono proseguire la lotta. Cercano una via d’uscita, una strada di cambiamento e rivoluzione sociale.
Wilma è con loro. Dai tempi della scuola non ha mai abbandonato l’impegno politico. Infanzia a Testaccio, diploma al liceo linguistico, lavoro come impiegata. Nel 1977-78 milita in uno dei vari gruppi riuniti a Roma sotto la sigla di Movimento proletario di resistenza offensivo (Mpro), in contatto con le Brigate rosse. Effettuano azioni, anche illegali, prevalentemente sui temi della casa e del lavoro. Allo scioglimento del Mpro, insieme ad altri militanti Wilma costruisce i Nuclei clandestini di resistenza.
Dal 1982, quando le Brigate rosse vacillano sotto il terremoto di arresti provocati in primo luogo dal pentitismo, il dibattito sul futuro della lotta armata investe anche l’area semilegale e la rete di appoggio diffusa che ruota intorno all’organizzazione. Wilma partecipa. Disorientata come molti suoi compagni. In bilico fra le lotte di massa e l’ipotesi armata, è in prima fila nelle battaglie del movimento pacifista contro l’installazione dei missili a Comiso, nelle iniziative dei disoccupati delle Liste di Lotta.
Riparata a Parigi in seguito a una denuncia, insieme agli scissionisti delle Brigate rosse fonda l’Udcc. È la fine del 1985. Lo stesso anno è stato arrestato l’ex marito, da cui si è separata affettivamente e politicamente. Lui è un brigatista “ortodosso”. La nuova struttura, l’Udcc, intende invece mantenere acceso lo scontro, anche militare, ma considera la lotta armata uno strumento di lotta, sia pure decisivo, non una strategia.
Quella del 21 febbraio 1986 è la prima azione del gruppo. Obiettivo del commando – due uomini e due donne – Antonio Da Empoli, neodirettore del Dipartimento degli Affari economici e sociali della presidenza del Consiglio, collaboratore diretto di Bettino Craxi. Un incarico importante ma nell’ombra. Deve essere gambizzato, si dice in gergo. I quattro si appostano vicino all’edicola dove l’uomo si ferma ogni giorno andando a Palazzo Chigi. Sono le nove. La zona è tranquilla ed elegante. Da Empoli esce di casa, compra i giornali, torna verso la macchina, qualcuno grida il suo nome. Lui si volta, l’uomo spara. Viene ferito in modo non grave a una mano e a una coscia. La reazione è immediata. L’autista è un poliziotto, che si catapulta in strada facendo fuoco. Il commando è disorientato. Wilma tenta di coprire la fuga dei compagni. Avanza, spara tre colpi. Poi cerca di raggiungere la Vespa. Non ce la fa. Barcolla, crolla a terra, ferita a morte nonostante il giubbotto antiproiettile che indossa sotto la giacca. Gli altri riescono a far perdere le loro tracce.
Termina la vita così, a ventotto anni, Wilma Monaco. Roberta il suo nome di battaglia. Un’esistenza simile a quella di tanti coetanei cresciuti sull’onda lunga del Sessantotto, nel clima delle grandi passioni politiche, del fermento sociale che ha attraversato il paese, della strategia della tensione attuata per frenare il cambiamento. Del tentativo di definire un’ipotesi rivoluzionaria per i paesi a capitalismo avanzato.
Nel marzo del 1987 l’Udcc uccide il generale dell’Aeronautica Licio Giorgieri, prima di essere smantellata dagli arresti.”
Testo tratto dal libro 101 donne che hanno fatto grande Roma, di Paola Staccioli (Newton Compton 2011)
I ricordi di Wilma pubblicati negli anni precedenti su queste pagine:
– 21 febbraio, a Wilma
– Ciao Wilma
–
Solo una fotografia …
Il cielo è plumbeo anche quando il sole splende, anzi più splende più volano, più volano più la pioggia esplode insieme a tutto il resto.
Questa foto parla di braccia e mani sbucciate a scavar cemento fuso,
Questa foto parla di occhi che affogano nel terrore guardando al cielo come al nemico più grande.
Questa foto racconta la Siria di questi mesi più di tante parole,
Spalanca le porte ad un dolore sordo, che scava implacabile le giornate di chi su quel suolo ha avuto solo che da imparare.
Imparare tanto.
Io son lì con voi, non c’è bomba che non squarci il mio petto.
Leggi:
Al telefono con Anna Frank
Comprendere l’esilio
Bosra , beduini e innamoramenti
Ciliegie e nostalgia
ma buon anno ddddechè
Ode al dolore
Le bombe in casa nostra
Sul “non” ergastolo agli assassini di Vittorio Arrigoni
La notizia circola da un’ora in rete, attraverso il sito Nena News (qui l’articolo).
Una notizia che a me non fa male per niente, perché una riduzione pena, un annullamento di un ergastolo non può crearmi amarezza…
non avrei questo logo a marcare il blog e non lo avrei tatuato nel cuore.
Quando parlo di abolizionismo del carcere,

Adotta il logo contro l’ergastolo!
ma sopratutto quando parlo di abolizionismo dell’ergastolo,
quello che sulle carte del DAP è catalogato con il fine pena datato 99/99/9999,
quello che in francia è detto la ghigliottina secca,
non faccio distinzioni, non posso farle.
Non chiedo l’abolizione dell’ergastolo ad intermittenza, lasciando crepare in cella gli assassini dei miei compagni.
Avreste gioito se gli assassini di Vik fossero stati impiccati in pubblica piazza,
con metodologie iraniche? Io sarei stata sommersa dal mio stesso vomito.
E allora non vedo perché dobbiamo commentare con parole come “scandalo” o “buttate le chiavi cazzo” il fatto che questi ergastoli siano stati commutati in 15 anni di pena.
Certo fa pensare, certo brucia l’idea di non saper perché, di non aver chiaro motivazioni e metodologie usate per uccidere un compagno caro, che mandava avanti una battaglia in un modo straordinario, con una forza e un sorriso che ci hanno insegnato tanto.
Il suo slogan era “restiamo umani”…
bhè provateci allora quando parlate di ergastolo, a capire cosa intendeva per “restare umani”.
Non credo che chi sostenga il “FINE PENA MAI” abbia tutto ‘sto diritto di ritenersi essere umano, lo reputo più simile a chi c’ha strangolato Vik,
lontano anni luce dal messaggio che ha urlato fino al secondo della sua morte.
Non esiste più grande aberrazione del carcere a vita.
Nessuno mi farà mai cambiare idea a riguardo.
– A Vik, tornato a casa dalla sua amata Palestina
– Hanno giustiziato Ippocrate
– I gattini di Gaza
– Che nessuno pianga, una dedica a Vittorio
lo so che mi odierete….pazienza.
Un’intervista con Manal ci racconta l’Arabia Saudita per le donne
Giorni di silenzio su queste pagine,
giornate intense, passate in una nordica città verso la quale ero molto prevenuta e che mi ha donato emozioni e incontri di una forza incredibile…
giornate che prima o poi vi racconterò, una volta metabolizzate.
Intanto “rubo” dal Corriere Immigrazione quest‘intervista a Manal, donna saudita di cui avevamo già parlato in queste pagine e la cui campagna abbiamo seguito sulla pagina Fb creata qui in Italia… in queste righe ci racconta un po’ di cose…
Manal al Sharif ha 33 anni. È la ragazza saudita che nel 2011 ha lanciato la campagna per il diritto delle donne alla guida. Nel 2012 ha vinto il premio Václav Havel dell’Oslo Freedom Forum. Vive tra Dubai e l’Arabia Saudita.
Lei si considera un’attivista?
«No, sono solo una mamma single che dopo aver combattuto tante battaglie ha iniziato a domandarsi: perché? Ho un alto livello di istruzione, la mia professionalità è riconosciuta, ma sono sempre stata trattata come una minorenne. Ho divorziato, ho un figlio, ho 33 anni, e sono ancora una minorenne. Mio figlio ha 7 anni: tra un decennio, se mio padre dovesse morire, lui diventerebbe il mio guardiano: dovrei chiedergli il permesso per accettare un lavoro o viaggiare. Mi sembra totalmente illogico oltre che ingiusto. Mio padre – mio attuale guardiano – ha fiducia in me, mi permette tutto, ma io devo comunque passare da lui per molte cose: rifare il passaporto, andare in tribunale… ci sono uffici governativi ai quali le donne non hanno accesso, quindi occorre che lui vada per me… e la mia famiglia vive a due ore di volo da dove vivo io! Così, dopo aver passato tutta la vita a lamentarmi per questo stato di cose, ho deciso di agire».
Com’è nata la campagna per il diritto alla guida?
«La storia è questa: io vivo e lavoro in un complesso residenziale all’interno del quale posso guidare l’auto e muovermi a capo scoperto. Se esco di lì però scattano i divieti. Un giorno dovevo andare da un medico in città e ho preso un taxi. All’uscita non ne ho trovato uno che mi riportasse a casa. Mi sono messa a camminare ed è stato un grave errore: erano le nove di sera e non avevo il volto coperto. Sono stata molestata continuamente, un tizio in auto stava quasi per rapirmi, ho dovuto tirargli una pietra per farlo allontanare. Ho iniziato a piangere per la rabbia: perché doveva succedermi una cosa così? Ho la patente e possiedo un’auto! L’indomani ne ho parlato con un collega, il quale mi ha detto che non esiste una legge che vieti alle donne di guidare. È una consuetudine. La maggior parte delle regole che disciplinano la vita delle donne nel mio Paese non sono scritte. Non guidiamo perché la gente non è abituata a vedere una donna che guida. Allora ho pensato: facciamola abituare! Così ho aperto una pagina su Facebook e un account su Twitter e ho scritto: il 17 giugno (del 2011, ndr) ci metteremo a guidare. Le donne avevano tantissima paura, e io volevo dimostrare loro che non avevano niente da temere. Così ho guidato per un’ora in città, filmandomi con una telecamera: nessuno mi ha fermato, né molestato. Poi ho postato il video su Youtube e per questo sono stata messa in prigione. Non per aver guidato, ma per aver usato i social media per “incitare le donne alla guida”. Ho chiesto: quale legge lo vieta? Ho fatto pure causa al governo, ma nessuno mi ha mai risposto…».
Cosa pensano le donne saudite della propria situazione?
«Sono divise. Molte chiedono che venga creata una rete di trasporto pubblico. La prima domanda che una donna si fa, appena trova un lavoro, è: come ci vado? Non esistono autobus, non possiamo guidare, non possiamo andare in bicicletta, non possiamo camminare. Dobbiamo avere un autista o prendere un taxi. E siccome costa molto, chi non se lo può permettere rimane a casa. Un altro aspetto del problema è che le madri spingono i figli maschi a guidare anche se sono minorenni, perché hanno bisogno di uscire e sbrigare le loro faccende. È certificato che la maggior parte degli incidenti automobilistici sono dovuti o ad autisti troppo stanchi (perché dovendo essere sempre a disposizione, lavorano per molte ore, con salari bassi), oppure alla guida da parte di minori. Il mondo cambia, le donne oggi hanno più bisogno di muoversi, ma il governo resta fermo. Allora noi diciamo: ok, va bene, non guidiamo, ma almeno includete nel nostro stipendio un’indennità per il trasporto, oppure forniteci dei mezzi pubblici. Oggi la nostra vita lavorativa è resa impossibile: una mia amica spende due terzi del suo salario per pagare l’autista che la porti avanti e indietro dall’ufficio!».
Non mi pare molto ottimista riguardo al futuro…
«Non lo sono. Abbiamo portato la nostra battaglia avanti per quasi due anni senza ottenere nient’altro che riforme di facciata, varate per accontentare l’opinione pubblica. Il governo non vuole concedere alle donne il diritto alla guida perché non vuole aprire la porta alle vere riforme».
Però nel 2015 le saudite potranno votare: non è una svolta storica?
«E che accade se nel frattempo re Abdallah muore? La sua età ufficiale è di 89 anni, quella ufficiosa di 93. E se chi gli succede cambia idea? Nel mio Paese non esiste ancora un’età minima per il matrimonio: una bambina può essere data in sposa. Se una donna divorzia, il marito si prende i figli. E se lei intenta una causa, che comunque può durare anni, le potrà succedere quello che è accaduto a una ragazza che conosco: l’ha persa perché il giudice ha giudicato negativamente il fatto che lei non avesse il capo coperto. Lo status quo va cambiato. Ma non succederà finché non saranno le donne a farsi motore del cambiamento».
Gabriella Grasso
Tornano a casa Emanuele e Cristian: GUAI A CHI CI TOCCA
Da quelle valli e quei picchi spesso innevati c’è sempre molto da imparare.
Si impara per i vicoletti dei villaggi arroccati con i tetti in lavagna,
si impara dal loro dialetto chiuso ma stranamente accogliente:
si impara cos’è la lotta, quella senza orari nè imposizioni metodologiche,
ma si impara soprattutto cos’è la collettività, la solidarietà,
il calore dell’abbraccio di chi ti aspetta fuori,
fuori dalla cella.
Ieri notte son finalmente tornati a casa Emanuele e Cristian: LIBERI, senza alcun tipo di restrizione (cosa che palesa senza necessità di giri di parole l’ennesima pantomima costruita dalla Questura e dalla Procura, l’ennesimo ridicolo “a lupo a lupo” frutto solo di una repressione ormai dai tratti bellici.
Alle 23.15 sono arrivati a casa, nella stazione di Bussoleno,
dove in tanti, tantissimi, erano ad aspettarli, sventolando bandiere e voglia di libertà!
BENTORNATI A CASA!
A SARA’ DURA!
LEGGI : Santa Barbara made in Clarea
Un’intervista a Besma, compagna di Belaid

Poco dopo la morte di suo marito, ecco Besma Khalfaoui che si unisce al corteo, con il suo dolore, la sua incredibile dignità e forza.
PRENDO QUESTA PAGINA DA INFOAUT.
Grazie
Pubblichiamo l’intervista a Besma Khalfaoui, moglie di Chokri Belaid, diffusa da RTL soir, dopo poche ore dall’omicidio del compagno tunisino. Besma è scesa subito in piazza con il segno della vittoria! Insieme ai compagni e alle compagne ha lanciato uno dei più grandi scioperi generali della storia della Tunisia. Il saluto a Belaid si è tramutato in una gigantesca manifestazione politica che ha portato più di un milione e mezzo di manifestanti a gridare “il popolo vuole la caduta del regime!”. “Ennahdha degage!” nelle strade della capitale. La presenza delle donne della rivoluzione durante la manifestazione è stata altissima quanto determinata. Anche questa è la straordinaria Tunisia di lotta e di dignità! Differente e contrapposta a quelle poche migliaia (3000) di manifestanti pro-governo e legati ad Ennahdha e altre fazioni islamiste, che ieri hanno avuto anche il coraggio di scendere in piazza al fianco del Ministero degli Interni, nel mal riuscito e meschino tentativo di deturnare il dibattito pubblico scandendo slogan contro la Francia.
Il segno della vittoria di Besma, già in strada dopo poche ore dall’assassinio di Belaid, che sia da monito alla transizione democratica degli islamisti a stelle e strisce, e dei fascisti verdi delle petrol-monarchie.
DOMANDA: vostro marito Chokri Belaid, segretario generale del Partito dei Patrioti Democratici Uniti, è stato assassinato questa mattina mentre usciva dalla vostra abitazione. Si sentiva minacciato in questo periodo?
RISPOSTA: certo, era sempre minacciato, riceveva minacce da ben quattro mesi:su facebook, al telefono. Alcuni responsabili politici lo avevano avvisato avvertendolo della gravità della situazione.
D: secondo lei perché è stato preso di mira?
R: perché divulgava informazioni per far sapere le verità del suo paese; non voleva che tali informazioni venissero nascoste al popolo tunisino. In questo paese ci sono alcune persone messe in sicurezza e altre, come mio marito, uccise alle 8 di mattina in mezzo alla strada, davanti a tutti con quattro colpi sparati alla testa e al cuore in modo che non si potesse più muovere.
D: quando parla di “alcune persone”, si riferisce al partito islamista al potere?
R: si esattamente, parlo proprio del partito islamista Ennahdha che è al potere. Ci sono due correnti all’interno del partito, quella fuori dal potere che continuava a dichiarare pubblicamente, dentro le moschee, la morte di mio marito e l’altra, costituita dal ministero degli interni che avrebbe dovuto garantire la sicurezza ad un leader politico. Accuso Ennahdha di essere responsabile dell’omicidio.
D:come vi spiegate che malgrado le minacce esplicite il governo non abbia protetto vostro marito?
R: non sono io che devo rispondere a queste domande!
D:quindi lei sta affermando che al governo andava bene che suo marito non fosse protetto?
R: certo. Andava bene al partito Ennahdha. Loro vogliono uccidere chi dice la verità, vogliono uccidere la democrazia, vogliono affondare la popolazione nella violenza.
D: domani è stato chiesto uno sciopero nazionale da quattro partiti dell’opposizione, questa sera lei chiederà la fine del governo?
R: io lo spero, io spero nella fine del governo.
D: oggi, a due anni dall’inizio della primavera araba, lei può dire di rimpiangere Ben Ali?
R: ah no, io non rimpiango assolutamente Ben Ali perché è a causa sua che ora ci troviamo in questa situazione, io ora aspetto, chiedo solo la democrazia. Ora siamo qui(siamo contro questo governo) perché questo potere è lontano dalla democrazia, è un potere che non conosce il dialogo.
D: potete affermare che vostro marito è morto per la democrazia?
R:certo, mio marito è morto per il paese. E’ morto per la democrazia, lui stava instaurando la democrazia.
D: stiamo assistendo ad un ritorno della violenza nelle strade in Tunisia, volete mandare un messaggio agli oppositori che stasera scenderanno a manifestare per la morte di suo marito?
R: voglio dire a tutti di essere uniti per evitare che il potere vinca. Uniti contro questa espressione di violenza.
D:domani andrete a manifestare signora Khalfaoui?
R: oggi sono scesa a manifestare, perche mio marito avrebbe fatto la stessa cosa. Domani farò lo stesso, scenderò di nuovo nelle strade. Io e i suoi compagni continueremo in nostro percorso. Non smetteremo mai di parlare. Ci saranno 1000 Chokri Belaid.
Grecia: “Chi sono dopotutto i teppisti?”
Rimetto queste righe, con il cuore pesante ed emozionato.
Perchè sono l’addio di un compagno, che già avevo pubblicato lo scorso anno,
ma che forse vanno rilette.
Spesso.
Le farei rileggere poi, tipo mantra, a chi ha parlato di sfasciacarrozze (eh no, non me va giù)
[leggi: Grecia, se vi pare normale tutto ciò]
Chi sono dopotutto i teppisti?
Violenza è lavorare per 40 anni per delle briciole e chiedersi se si riuscirà a smettere
Violenza sono i titoli finanziari, i fondi assicurativi saccheggiati, la truffa in borsa.
Violenza è essere costretti a stipulare un mutuo per una casa che si finisce per pagare come se fosse fatta d’oro.
Violenza è il diritto del tuo capo di licenziare in qualsiasi momento voglia farlo.
Violenza è la disoccupazione, la precarietà, sono i 700 euro al mese con o senza contributi previdenziali.
Violenza sono gli “incidenti” sul lavoro, perché il padrone riduce i costi di gestione a scapito della sicurezza dei lavoratori.
Violenza è prendere psicofarmaci e vitamine per far fronte agli orari di lavoro
Violenza è essere una donna migrante , è vivere con la paura di essere cacciato dal paese in qualsiasi momento e vivere in una costante insicurezza.
Violenza è l’essere casalinga, lavoratrice e madre allo stesso tempo.
Violenza è quando ti prendono per il culo al lavoro dicendo: ‘dannazione, sorridi, è chiedere troppo?’Quello che abbiamo vissuto io lo chiamo rivolta.
E proprio come ogni rivolta appare come una prova generale della Guerra Civile, ma puzza di fumo, gas lacrimogeni e sangue.
Non può essere facilmente sfruttata o controllato. Accende le coscienze, si rivela e polarizza le contraddizioni, e promette, almeno, momenti di condivisione e di solidarietà. E traccia i percorsi verso l’emancipazione sociale.
Signore e signori, benvenuti alle metropoli del caos! Installate porte sicure e sistemi di allarme alle vostre case, accendete il televisore e godetevi lo spettacolo. La prossima rivolta sarà ancora più agguerrita, mentre il marciume di questa società si approfondisce … Oppure, potete prendere le strade al fianco dei vostri figli, potete scioperare, potete osare di rivendicare la vita che vi stanno derubando, potete ricordarvi che una volta eravate giovani e volevate cambiare il mondo.Savas Metoikidis*
*Savas si è suicidato il 21 aprile dello scorso anno.
Qui il posto che ne parlava: LEGGI

Ciao Savas
Grecia: se secondo voi è normale tutto ciò
A guardare queste immagini ci si immagina l’arresto del secolo,
il Provenzano dell’Ellade, un’enorme operazione contro la criminalità organizzata o che ne so,
contro una “cellula” pronta a colpire qualche luogo sensibile della capitale greca.

Le immagini dell’arresto di uno dei 4 ragazzi torturati
Le immagini di questi arresti sono incapaci di raccontare la verità dei fatti,
la falsano, permetteno a chi le guarda di dar spago all’immaginazione costruita in anni di polizieschi o film sull’ “antiterrosismo”.
Invece sono dei ragazzi.
Dei ragazzi la cui colpa è quella di aver partecipato a delle manifestazioni,
dei ragazzi anarchici colpevoli di muoversi contro uno Stato che ha affamato e sventrato la società greca in pochi cinici maledetti passaggi.
un esempio calzante si può prendere da quel che è accaduto ieri ad Atene, dove un gruppo di agricoltori ha iniziato a distribuire frutta e verdura gratuitamente davanti al ministero dell’Agricoltura: 50 tonnellate di alimenti distribuiti in meno di tre ore.
Le interviste rilasciate da chi era in fila per un broccolo o mezzo kg di pomodori lasciano attoniti.
Per non parlare delle notizie, che putroppo poco ci stupiscono, sui quattro ragazzi torturati: già, proprio torturati, perché accusati di una rapina in una banca di Kozani.
Per tornare al video che vi linko qui sotto;
leggo che uno di loro era molto amico di Alexis, ucciso a 16 anni da un proiettile di Stato senza alcuna ragione:
era accanto a lui quand’è caduto a terra morto. Aveva 16 anni, Alexis e da quella serata, da quella piazzetta di Exarchia sporca del suo sangue niente è tornato più come prima.
In tutta la Grecia.
La pagherete prima o poi!
Solidarietà agli arrestati, solidarietà a tutti quelli colpiti dalla repressione, solidarietà per chi ha la carne lacerata dalla loro tortura.
Fuoco alle carceri!
[Leggi: Chi sono i teppisti?]
Chokri Belaid: un omaggio dal FPLP ad un compagno ammazzato

Il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina saluta il compagno Chokri Belaid, assassinato oggi in Tunisia
Prosegue l’incredibile giornata di rabbia in Tunisia,
dalla costa alle principali via della capitale, alle zone delle miniere di fosfati:
è esploso tutto, contro Ennahda, subito dopo che il corpo di Chokri è caduto a terra, pare colpito da 4 colpi, almeno ad ascoltare le testimonianze.
Questo un omaggio giunto ora dalla Palestina, come a migliaia ne arrivano da ogni parte del mondo arabo e non.
Non un “esponente laico” come le nostre televisioni lo stanno descrivendo,
ma un compagno, un avvocato militante delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria tunisina.
Almeno tacessero cristo santo, loro e la loro terminologia che cerca di trattarci da idioti.
CIAO CHOKRI, A PUGNO CHIUSO E CON LA RABBIA NEL CUORE.
La Tunisia brucia, dopo l’assassinio di Chokri Belaid
Tunisi, Gafsa, Béja, Sidi Bouziz, Sousa

Pagherete caro!
non c’è sede del partito Ennahda in Tunisia che non è presa d’assalto proprio in questi minuti.
Le tonnellate di immagini che arrivano fanno capire a che livello di collera si è arrivati per le strade tunisine e quanto sia forte la determinazione di chi sta scendendo sui marciapiedi ora,
cercando di lasciarsi alle spalle solo un po’ di macerie delle sedi dove son riusciti ad entrare fino ad ora,
dopo l’assassinio di Chokri Belaid, compagno tra i leader del Fronte popolare tunisino ( su questa pagina di Infoaut trovate molte informazioni su di lui e sulle modalità del suo assassinio, avvenuto questa mattina.
Dopo gli assalti e la distruzione di molte sedi di Ennahda, sono iniziate le cariche e il fitto lancio di lacrimogeni contro i manifestanti, davanti al ministero dell’Interno, dove in una manciata di minuti si son radunati già in più di 5000 persone.
L’urlo è unico ed immenso: Dégage!
Proviamo a rimanere aggiornati.
AGGIORNAMENTI ORE 15.45:
anche l’ambulanza con il suo corpo ha faticato a passare tra i cordoni di polizia schierata e i lacrimogeni… il solo modo che lo Stato tunisino aveva di salutare Choukri.
Ma la pagheranno cara.
Le immagini che arrivano fanno vedere una grande folla che cerca di salutare Choukri, e la polizia che mira all’ambulanza con i lacrimogeni, difficile aggiungere parole.
Nel frattempo il Fronte come molte altre organizzazioni chiamano allo sciopero generale.
ECCO IL VIDEO CON I LACRIMOGENI SUL CORTEO FUNEBRE E L’AMBULANZA
16:30 Hamma Hammami, esponente storico della sinistra comunista tunisina lancia appunto lo sciopero generale per la giornata di domani: “NON ABBIAM PAURA DELLA MORTE”
ORE 17.20: La capitale si sta riempiendo di barricate, proseguono gli scontri davanti al ministero dell’interno e nelle vie limitrofe.
ORE 19: (da INFOAUT) La collera non si placa in Tunisia. Le manifestazioni continuano in tutto il paese puntando dapprima sulle sedi del partito Ennadha per darle alle fiamme, e poi verso le questure. Sembra che a Gafsa il ministero degli interni abbia dato l’ordine alle autorità cittadine di liberare tutti i dormitori pubblici per dare spazio ai nuovi plotoni di poliziotti. A Tunisi gli scontri scoppiati nel centro, dopo la grave provocazione poliziesca contro il corteo di saluto e l’ambulanza che portava la salma di Chokri Belaid, si sono diffusi nel resto della città. Barricate in fiamme, lacrimogeni, lanci di pietre e manganelli continuano a contendersi il territorio, mentre secondo la pagina facebook ufficiale dell’UGTT la polizia ha tentato di sfondare le porte della centrale sindacale. Stessa sorte per Tanit Press, agenzia stampa, i cui locali sono stati oggetto di lanci di lacrimogeni e i giornalisti aggrediti dai celerini. Il Fronte Popolare Tunisino si è dimesso ufficialmente dall’Assemblea Nazionale Costituente, e sembra che anche tutti gli altri partiti d’opposizione abbiano annunciato le dimissioni dei propri rappresentanti. E la crisi istituzionale più profonda che la Tunisia post-elezioni(farsa) abbia conosciuto. Intanto in rete sta circolando in video dove vengono ripresi alcuni esponenti di fazioni islamiste radicali declamare la condanna a morte contro Chokri Belaid, considerato un comunista e nemico dei loro progetti
Ecco il video:
Un omaggio del FPLP: QUI
L’importanza delle parole e il loro utilizzo: “IRRIDUCIBILI”
Pubblico, con un po’ di ritardo e con molto piacere, questo testo di Paolo.
Molto del materiale su Prospero che è stato pubblicato sul suo blog in queste settimane non ho fatto in tempo nemmeno a linkarlo, quindi vi consiglio poi,
di leggere anche un po’ dei testi maniacalmente riordinati in quella carrellata che poi troverete dopo l’articolo
Il testo è di quelli che vanno letti con calma,
di quelli che prendono il capello ( in questo caso l’uso, per altro sistematico, della parola “irriducibili” nei confronti di alcuni dei componenti delle formazioni armate che hanno alimentato in Italia quella rivolta manu armata che circolava nel mondo intero e in Europa tra gli anni ’70 e ’80 ) e lo spaccano in diverse parti, lo sezionano, lo smontano nel dettaglio.
Perchè torna sempre più necessario farlo:
usare le parole nel modo giusto, aver conoscenza dei lemmi che si scelgono, destreggiarsi tra le sfumature semantiche e linguistiche dei termini che ci vengono mossi contro, e che possiamo tranquillamente, lentamente ribaltare.
E sarebbe da farne un nuovo dizionario,
un dizionario ritrovato delle parole usate.
Iniziamo qui con irriducibili, potremmo poi passare a “sfasciacarrozze” 🙂
Buona lettura.
Una risposta a Benedetta Tobagi… 1/continua
In nome di quale presente abbiamo il diritto di giudicare il nostro passato?
Roland Barthes
C’è una parola che mette molta paura: quella di «irriducibile». Si è scritto tanto attorno a questo termine nei giorni scorsi, dopo la morte e la cerimonia di saluto a Prospero Gallinari, momento in cui i cosiddetti irriducibili, cioè quelli che sono stati descritti come gli indefessi, gli ostinati e gli irremovibili, altrimenti detto «coloro che non hanno mai fatto i conti col passato», e dunque per questo ritenuti ottusi e tetragoni testimoni della stagione rivoluzionaria degli anni 70, sarebbero sorprendentemente riemersi – cosa ancor più preoccupante – in folta compagnia.
Ne ha scritto su Repubblica in due occasioni, il 15 (qui) e il 24 gennaio (qui), Benedetta Tobagi, di fresca nomina al cda della Rai e proiettata, forse un po’ troppo in fretta, nel ruolo di amministratrice della memoria di quel decennio.
Irriducibile: un termine estraneo al lessico della lotta armata
Eppure contrariamente a quanto si è scritto in passato e si continua a scrivere, la parola «irriducibile» non appartiene al lessico brigatista. La diffusione di questa etichettatura ha contribuito non poco a fornire una immagine distorta della cultura politica dei militanti che hanno preso parte alla lotta armata. Proviamo a vedere perché.
Il lemma, in realtà, ha svolto una funzione centrale nel vocabolario dell’emergenza giudiziaria e penitenziaria. E’ un conio dello stato di eccezione italiano, impiegato dalla magistratura, utilizzato dai corpi di polizia e dall’apparato carcerario e, in seguito, divenuto di uso comune nel mondo dei media per classificare i prigionieri politici che hanno rifiutato di sottomettersi alla legislazione premiale e differenziale: la delazione remunerata dei collaboratori di giustizia (i cosidetti “pentiti”) e l’abiura, anch’essa remunerata, la cosidetta dissociazione.
Irriducibile, era e resta, chi ha rifiutato di accedere a queste due categorie. Un’area, quella della «irriducibilità», che include figure e generazioni molto diverse tra loro per opinioni politiche e atteggiamenti (sul perdurare o meno dello scontro armato e sull’analisi della società).
Per intenderci: sono considerati irriducibili i cosidetti “continuisti”, cioè coloro che hanno mantenuto ferma la convinzione nel proseguimento della lotta armata anche di fronte ai radicali mutamenti sociali e geopolitici intervenuti nel corso degli anni 80, al pari di quelli che si sono pronunciati in favore di una discontinuità, di un oltrepassamento dell’esperienza armata, o di quelli che in forme varie, anche meno visibili pubblicamente, hanno ritenuto conclusa l’esperienza della lotta armata avviando altri percorsi non più, o non sempre, politici, ricollocando il loro impegno – quando hanno pututo – su terreni civili, sociali e culturali.
Ciò che accumuna quest’area pluriversa, etichettata comunque come “irriducibile”, è dunque il rifiuto delle logiche inquisitoriali dell’emergenza giudiziaria. Nulla a che vedere con lo stereotipo riportato da Benedetta Tobagi nei suoi articoli (ma anche da altri), ovvero: «significato storico assunto dall’aggettivo, sostantivato per designare il terrorista o detenuto politico “che non recede dalle proprie convinzioni”». Lì dove per «recedere» – è bene sottolineralo – non si deve intendere una libera azione riflessiva, una disposizione dell’animo, un afflato della coscienza, un soprassalto dello spirito, che potrebbe ispirare e accompagnare nobili percorsi di distacco interiore, momenti d’autocritica assolutamente disinteressati, autonomi e genuini, ma l’adesione ai dispositivi di assoggettamento previsti in sede penale e penitenziaria, attraverso una lunga serie di decreti e dispositivi legislativi di tipo premiale, varati tra il 1979 e il 1987, che introducendo trattamenti differenziali hanno incrinato il principio di eguaglianza di fronte alla legge e trasformato l’inchiesta, il processo e il carcere, da sedi di verifica e ricerca della prova o di svolgimento della pena, in mercati delle indulgenze, fiere dello scambio politico, luoghi dove si riceve un po’ di futuro in cambio del proprio passato. Qualcosa di assolutamente opposto ad ogni storicizzazione o esercizio libero ed autonomo della critica.
Diceva a tale proposito Jeremy Bentham che «la sfera della ricompensa è l’ultimo asilo dove si trincera il potere arbitrario».
Se ancora le parole hanno un senso, in questa epoca dove ormai il senso sembra aver perso ogni parola, la nozione di irriducibilità dovrebbe designare l’emergenza giudiziaria, il protrarsi ad oltre tre decenni di distanza degli irrisolti penali, degli ergastoli, degli esiliati, gli ukaze contro la parola degli ex militanti di allora. Irriducibile è la memoria giudiziaria che dopo tanti decenni ha sovrapposto all’oblio penale l’oblio dei fatti sociali e alla memoria storica la memoria giudiziaria.
«Negli ultimi dieci anni l’Italia aveva subito la più radicale trasformazione socio-economica dal dopoguerra ed erano cambiati sia i soggetti sociali e politici delle lotte da cui erano nate le Br, sia i presupposti della nostra strategia rivoluzionaria. Prendere atto di queste trasformazioni era una necessità storica che valeva per me, quanto per chi desiderava seriamente interrogarsi sul significato di ciò che era successo. A quel punto la parola “irriducibile” non connotava nessuna realtà sociale. Era un trucco del linguaggio. A cosa si sarebbe dovuti essere “riducibili”? Secondo il potere, alla dissociazione: nel senso che non si era più irriducibili se si diventava dissociati!».
Renato Curcio (intervistato da Mario Scialoja), A viso aperto, Mondadori 1993, p. 209
«L’abiura è come un’eco lunga, un discorso che ricomincia sempre dallo stesso punto, un rimbombo senza fine. Essa nasconde, non svela. Dirò una cosa che vorrei provocasse quelli della mia generazione. Quel che è avvenuto negli anni Settanta è roba nostra, non puoi glissare. I dissociati glissano. Mentre sarebbe stato possibile – difficile ma possibile – fare tutti assieme una riflessione vera, completa, senza rimozioni, dichiarando che era finita. Perché il progetto era realmente fallito, questo era chiaro, anche a quelli che continuarono non potendo far altro.[…] Fare questo dibattito sul serio e fino in fondo significava assumersi la responsabilità politica di tutto mentre si chiudeva tutto. E quanti erano disposti a farlo? Fra di noi e fuori di noi? Apperna si fosse arrivati a una discussione seria anche sul modo con il quale si reagì al fenomeno Br e lo si combatté, coloro che non vogliono fare i conti con quegli anni, avrebbero inchiodato la discussione con i soliti falsi misteri che servono a impedire che se ne parli. Avrebbero fatto e detto di tutto contro di noi – nella sconfitta, ci ricorda la scuola dei cinici, chi ha perso non solo ha perso, ma deve essere cancellato, deformato, annichilito».
Mario Moretti (intervisatto da Rossana Rossanda e Carla Mosca), Brigate rosse, una storia italiana, Abanasi 1° edizione 1994, pp, 252 e 254
«Siamo al culto della delazione, alla canonizzazione dei collaboratori di giustizia. E in parte è colpa mia. Le confesso una cosa: ogni sera io recito un atto di dolore per aver contribuito, negli anni Settanta, alla diffusione di questo modo di fare giustizia […] Sa, sto pensando di presentare un disegno di legge per cambiare le cose: prendo le regole dell’Inquisizione di Torquemada e le traduco in italiano moderno. Ci sono più garanzie in quelle che nel nostro codice di procedura penale».
Francesco Cossiga, La Stampa, 19 aprile 1995
Che cosa vuol dire irriducibile?
Il primo significato suggerito dal vocabolario online della Treccani (qui) e ripreso anche dalla Tobagi nel suo articolo è, «Che non si può ridurre, cioè rimpiccolire, restringere, ricondurre a una forma più semplice». Altrimenti detto schiacciare. D’altronde l’etimologia è chiara: la particella prefisso “ir”, davanti a parole che inizano con “r” – spiega il dizionario etimologico – assume valore di negazione del significato positivo del termine corrispondente all’interno del quale è comunque ricompreso, a meno che il lemma non abbia assunto una sua rilevanza ed autonomia significative. Esempio: raggiungibile/irraggiungibile; razionale/irrazionale; resistibile/irresistibile, riguardoso/irriguardoso; rilevante/irrilevante.
Per esser chiari: irriducibile vuol dire «non riducibile», dunque che non può essere o non si lascia ridimensionare, che non può essere semplificato, banalizzato, appiattito, livellato. Per estensione: omologato, adattato, limitato, forzato, formattato, obbligato, impoverito.
E siccome le parole hanno senso solo se calate nel contesto in cui sono state coniate per fornire una definizione, in carcere irriducibile è colui che non si lascia piegare dalla disciplina punitiva dell’emergenza, è colui che resiste e oppone al tentativo di riduzione, di adattamento e formattazione ai valori dominanti, all’omologazione della norma, la ricchezza della propria esperienza, della storia dai cui proviene. In questo contesto irriducibile è sinonimo di complessità, estensione, espansione, molteplicità, stratificazione, sfumatura.
Irriducibile è quando ti si vuole imporre una forma e tu ti opponi perché ne contieni mille altre. Non a caso Benedetta Tobagi per contestare una cosa del genere è costretta a definire l’irriducibile, colui che «non depone l’armamentario ideologico per riconoscersi nei principi dello Stato costituzionale», come se lo Stato costituzionale – stando a quelli che sono i suoi postulati teorici – possa conciliarsi con il suo contrario, un assoluto etico a cui tutti devono uniformarsi, dove non c’è spazio sociale o pubblico autonomo e separato dallo spazio statale e quindi tutto ciò che è autonomia, figuriamoci critica, diventa immediatamente una forma di sovversione dell’etica istituzionale costituita.
Di irriducibili è piena la storia, pensate a Galileo.
«La storia, si è già detto, è stata sempre quella narrata dai vincitori. Bisognerebbe aggiungere e precisare che i suoi scrittori sono spesso reclutati fra gli sconfitti o i trasfughi, i quali in tal modo si trasformano in uomini vinti. A quanto pare, la lezione fornita dall’uomo vinto è alla base della nostra memoria. E oggi, per tanti aspetti, è come se ci trovassimo in una situazione fondativa, analoga a quella dei primi secoli della nostra era.
La storia degli eretici, per esempio, ci è stata raccontata soprattutto dai loro grandi nemici, gli eresiologi, e sulla visione di costoro si è fondata l’ortodossia; ma bisogna ricordare che la maggior parte di questi eresiologi furono degli eretici o dei pagani pentiti come l’ex manicheo sant’Agostino, così diventato potente vescovo di Cartagine, o l’ex pagano sant’Ireneo vescovo di Lione, autore di un testo – Contro le eresie – d’importanza fondamentale per la storia dell’ortodossia cristiana. Si potrà ricordare lo storico degli ebrei Flavio Giuseppe. Egli e i suoi compagni rimasero accerchiati dai romani e decisero di suicidarsi per non consegnarsi al nemico. Per ultimo rimase proprio Giuseppe; cambiò idea, passò dalla parte dei romani e si mise a scrivere la storia degli ebrei… per i romani, benignamente trattato dall’imperatore Vespasiano e aggiungendosi il nome Flavio».Vincenzo Guagliardo, Dei dolori e delle pene, Sensibili alle foglie 1997, p. 89
Fare i conti?
Una delle caratteristiche dell’irriducibile, scrive Benedetta Tobagi, è la sua incapacità di saper fare i conti col passato.
Ma cosa vuol dire “fare i conti” ? Un giurista tedesco, Helmut Quaritsch (Giustizia politica, Giuffré 1995) lo spiegava all’incirca in questo modo:
«Fare i conti» va inteso come espressione che contiene un concetto comprensivo che include in sé la nozione di elaborazione e di superamento del passato. Processo non conclusivo, lì dove esso è legato al problema della ricerca storica, della coscienza della memoria, ma anche chiusura lì dove la riflessione giuridica configura la presenza di una componente formale di decisione e procedura del superamento del passato che si esprime nelle sentenze ma anche nelle amnistie».
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La cerimonia di saluto
Il discorso: “A Prospero Gallinari. Fine di una storia la storia continua
Tutti a Coviolo per salutare Prospero Gallinari la cerimonia si terrà domani 19 gennaio alle-14-30
Ciao Prospero
In diretta da Coviolo immagini e parole della cerimonia di saluto a Prospero Gallinari/1
In diretta da Coviolo in migliaia per salutare Prospero Gallinari/2
La diretta twitter dai funerali
Ciao Prospero
Gli assenti
Scalzone: Gallinari come Prospero di Shakespeare, “la vita è fatta della stessa sostanza dei sogni”
Fine di UNA storia, LA storia continua
Mai alcuna confessione di innocenza, Prospero
Testimonianze
“Volevo dirgli grazie per avermi fatto capire la storia di quegli anni”. Una testimonianza sui funerali di Prospero Gallinari
Perché sono andato ai funerali di Prospero Gallianari by Stecca
In memoria di Prospero Gallinari di Oreste Scalzone
Al funerale di Gallinari la generazione più felice e più cara
Su Prospero Gallinari
Da contromaelstrom.com – Ciao Prospero, amico e fratello
Gallinari e il funerale che andava fatto anche per gli altri
Un contadino comunista nelle lotte di classe degli anni 70
Riflessioni
Irriducibili a cosa?
Ancora una volta Prospero Gallinari ha spiazzato tutti
Laboratorio Aq16, Gli anni 70 che non finiscono mai. Riflessioni sulla cerimonia di saluto a Prospero Gallinari
La storia
Quadruppani – Mort d’un combattant
Bianconi – I parenti delle vittime convocati via posta per perdonare Gallinari
Prospero Gallinari chiede la liberazione condizionale e lo Stato si nasconde dietro le parti civili
“Eravamo le Brigate rosse”, l’ultima intervista di Prospero Gallinari
Prospero Gallinari quando la brigata ospedalieri lo accudì al san Giovanni
Gli avvoltoi s’avventano sulla memoria di Prospero Gallinari
Gallinari è morto in esecuzione pena dopo 33 anni non aveva ancora ottenuto la libertà condizionale
Prospero Gallinari un uomo del 900
Chi era Prospero Gallinari?
Gallinari e Caselli, il confronto tra cattivi maestri e bravi bidelli
Gallinari, Gotor e le lettere di Moro
Caselli Prospero Gallinari e i cattivi maestri
In risposta a Caselli su Gallinari
Teramo 9 febbraio: complici e solidali
9/02/2013 DA ROMA: TUTTI E TUTTE A TERAMO!
15 OTTOBRE: COMPLICI E SOLIDALI
CHE NESSUN@ RESTI SOL@
Partenza pullman ore 11.30 da piazzale del Verano
Costo del pullman: 11 euro a persona, andata e ritorno
Per informazioni e prenotazioni: 3333666713
CORTEO NAZIONALE A TERAMO SABATO 9 FEBBRAIO ALLE ORE 15.30
In seguito alle pesantissime condanne a 6 anni di reclusione e 60000 € di risarcimento inflitte, lo scorso 7 gennaio, ai 6 ragazzi accusati di essere coinvolti negli scontri avvenuti nella capitale il 15-10-11, Azione Antifascista Teramo chiama all’appello tutti i gruppi, i movimenti e i singoli individui che si riconoscono nelle lotte e che vogliono dimostrare la loro solidarietà e vicinanza con i fatti, oltre che con le parole. Sabato 9 febbraio 2013 si terrà a Teramo un corteo nazionale le cui finalità saranno:
– Esprimere la massima solidarietà a tutti i condannati, gli arrestati e gli inquisiti per i fatti del 15 ottobre 2011;
– Rispondere in maniera forte ed unitaria alla repressione che ogni giorno colpisce chi ha la forza e il coraggio di non abbassare la testa e si ribella allo Stato di cose attuale;
– Lanciare la battaglia contro il codice Rocco ed in particolare contro il reato di devastazione e saccheggio e tutte quelli leggi in forza delle quali ai singoli questori viene garantito il potere di limitare, in maniera del tutto discrezionale e priva di controllo, la libertà individuale attraverso l’emissione di fogli di via, avvisi orali e misure di prevenzione in generale.
Chiediamo a tutte le realtà e a tutti i singoli che intendano rispondere alla nostra chiamata di organizzarsi sin da oggi per raggiungere e far raggiungere Teramo nella giornata di Sabato 9 febbraio 2013, e di farsi carico di diffondere, ognuno nei rispettivi territori, questo nostro appello attraverso qualsivoglia mezzo.
Chiunque voglia dare la propria adesione formale alla manifestazione, sottoscrivere l’appello, fornire contributi ed essere aggiornato su tutto ciò che riguarderà il corteo può inviare una mail all’indirizzo:
teramo9febbraio2013 @gmail.com
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Foto di Valentina Perniciaro San Giovanni, il 15 ottobre
Adotta il logo contro l’ergastolo!
Questa straordinaria immagine che vedete in questa pagina in vari formati non è solo un disegno, capace più di migliaia di parole di raccontare il FINE PENA MAI,
ma è un logo che aspira a diventare un virus.
Un virus sì, perché l’intenzione di tutte le straordinarie persone che stanno per dar vita a questa campagna è quella di vederlo ovunque, di fare in modo che ogni pagina, sito, profilo di social network metta in gioco il suo volto, la sua bacheca, i suoi scritti,
contro l’ergastolo,
contro quell’aberrazione mostruosa che è il carcere a vita,
quello che nei faldoni e nei file dei tribunali e delle carceri è caratterizzato da questa data:
99/99/9999
Abbiamo a lungo pensato ad un logo,
da quando ci siamo decisi a mandare avanti questo progetto,
mentre piantavamo dei fiori tra le tombe del cimitero degli ergastolani nel carcere di Santo Stefano.
Vi ho parlato tanto di quella bella esperienza, ve ne ho parlato per due estati, che hanno raccontato quel posto in modi molto diversi da un anno all’altro.
Da una piccola barchetta di 4 persone, lo scorso anno ci siamo ritrovati in più di 40 a celebrare, con un po’ di colore e i nomi che eravamo riusciti a recuperare,
un “rito” laico capace di riportare quelle persone nel consorzio umano,
da dove erano state espulse.
Qui molti link vi racconteranno questa esperienza.
[Un fiore a quei 47 corpi
Una gioia senza tempo darvi un nome
Un viaggio senza fine pena mai
Settembrini e Santo Stefano ]
Per mesi ci siamo persi a cercare un’immagine che rendesse possibile l’idea di un logo adatto ad una campagna, un logo in grado di “de-ergastolizzare” il proprio spazio, intanto quello virtuale.
Tra i tanti disegni fatti, tra le tante proposte,
questi piedi, disegnati da Ludovica Valori (che ha accolto con gioia la nostra iniziativa)
ci hanno colpito come nessun’altra immagine.
Questo continuo perpetuo camminare sempre nello stesso posto ha una grande capacità di far capire il fine pena mai,
proprio come quel cimitero, dimenticato sopra un piccolo scoglio del mediterraneo.
Quello che questa pagina vi chiede è di adottare questo logo,
Di seguire questa campagna che a breve verrà lanciata,
di “de-ergastolizzare” la propria esistenza, di liberare la propria visione del mondo dall’idea di una condanna che ti rosicchia la carne anche nella bara.
Contro l’ergastolo,
per la libertà di tutte e tutti.
Il sito di Liberiamocidallergastolo
[un ringraziamento speciale a tutti quelli che hanno lavorato a questo progetto, da ogni parte d’Italia, in particolar modo i compagni del Folletto, che hanno fatto un video straordinario, a breve visibile a tutt@]
Gli scontri del 14 dicembre? Condannata UNA PERSONA!
Paga solo uno.
Paga per tutti.
Una piazza in rivolta per ore, una massa incredibile di persone che si difendono e attaccano i cordoni e i blindati della polizia con l’intenzione di arrivare comunque, malgrado i divieti, davanti al parlamente.
Ve li ricordate gli scontri a piazza del Popolo?
Vi ricordate le foto di quella piazza enorme ed immensa stracolma di persone che non solo non scappavano, ma avanzavano forti e spontanemante unite? Giornata fotograficamente non da poco, finita sui giornali del mondo intero, che ha reso proeccupate le nostre istituzioni per lungo tempo.
Bene, tutto ciò ha portato ad UNA CONDANNA.
UNA.
Di tutta la loro intelligence, di tutti i loro soldatini con caschi e in borghese, di tutto quel milionario apparato repressivo che muovono nelle strade e nei tribunali, UNA CONDANNA.
Ed è proprio Mario.
Il capro espiatorio di una giornata di rivolta di piazza è uno, Mario Miliucci, condannato due anni e sei mesi,
al quale va un abbraccio fortissimo e tutta la solidarietà possibile
altri link di questo blog su questa storia: QUI
I quotidiani che rimuovono lo stupro e la condanna a Tuccia
Sembro una pazza, sfoglio sfoglio questi due quotidiani che ho davanti e rimango basita.
Io trovo infinite difficoltà a scrivere dopo una sentenza di tribunale, avendo un rifiuto totale per l’impianto giudiziario e ancor di più per quello carcerario: non sono capace a commentare la galera altrui,
soprattutto quando ad andarci sono stupratori, a maggior ragione se vestiti di qualche divisa di stato.
Per noi “contro il carcere” sempre e comunque non è mica facile da gestire una pagina di commento su otto anni di carcere ad un militare che ha lasciato una ragazza in fin di vita, sulla neve abruzzese, in piena notte, a morire là (cosa non avvenuta per un soffio)
La cosa che mi lascia sconvolta, e sfoglio sfoglio questi maledetti due giornali, è che a quanto pare anche il Corriere della Sera e Il Messaggero son così libertari e intrisi di pensieri abolizionisti che non reputano doveroso scriverne o non sanno come farlo.
Ieri si è concluso il processo dello stupro di Pizzoli, contro il soldato Francesco Tuccia
processo discusso e da sempre presidiato da donne di tutta italia,
ieri la colpevolezza del bravo soldatino dal faccino pulito è stata sancita dai loro tribunali
eppure tutto tace.
Tutta questa carta e nessuno si è degnato di mettere nemmeno una breve.
Una breve che raccontasse cosa è accaduto, con quale forza e dignità quella ragazza ha deposto e vissuto tutto il processo,
nessuno nella stampa nazionale (parlo di quel che ho davanti ovviamente) si è degnato di raccontarcelo,
di mettere una foto dell’infinita solidarietà attiva fuori da quel tribunale aquilano. Nulla.
“il colloquio con i prof. si fa da casa via Skype” una pagina di questo c’è sul Corriere della Sera..
di spazio da buttare o riempire un po’ a caso ce ne stava tanto quindi..
uno così inizia a pensare che sia proprio una scelta politica, o no?
Abbiamo dei quotidiani illeggibili perchè intrisi di una cronaca becera e poi certe cose si omettono.
Otto anni per uno stupro selvaggio e mostruoso, effettuato da un soldato dell’esercito italiano,
vengono rimossi, almeno dal quotidiano più venduto d’Italia.
Vergognatevi
Pagine di questo blog che ne hanno parlato
Uomini in divisa, stupratori in divisa
Lo stupro di Pizzoli e le donne del PD di L’aquila
Ci riguarda tutte
Si apre il processo
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